I
n un mondo di
participi più o meno felicemente
congiunti, Haru era sempre stata convinta di essere così irrimediabilmente
danneggiata che avrebbe finito per confonderlo col
dativo di possesso. Pertanto, aveva riflettuto, la perfetta autoconclusività dell’
ablativo assoluto era l’unica soluzione percorribile per lei. Lei e Jun avevano trascorso ore ed ore a parlarne assieme, intenti a sviscerare le rispettive idee sulle relazioni sentimentali.
“Meglio limitarsi a sfiorare le vite degli altri con tocchi leggeri”, aveva rivelato la ragazzina all’amico con uno svolazzo della mano ed un sorriso che voleva essere leggero, ma che –malgrado gli sforzi– non aveva raggiunto gli angoli degli occhi.
Sfiorare, sì. Giusto con la punta delle dita, una carezza gentile coi polpastrelli, appena percettibile, sempre attenta a non piantare le unghie. Garbata, distaccata.
Meglio sfrecciare veloce al loro fianco come una meteora, regalando abbastanza della sua luce e del suo tepore da farli stare bene, e poi volatilizzarsi prima che la sua incandescenza distruttiva diventasse evidente e dolorosa per i loro occhi. Prima che diventasse chiaro come i mille frammenti colorati che componevano il mosaico-Haru e che tanto catturavano l’attenzione altrui fossero cocci ingannevoli. Sgargianti, così luminosi da accecare chi si fosse azzardato a scrutarli troppo a lungo, nascondendo spigoli taglienti che non perdonavano.Haru
bruciava. Lo sapeva fin troppo bene. Non era cieca all’illusorietà del proprio aspetto.
Sin dalla più tenera età, aveva avvertito in sé un’insolita forma di
fame. La tipica fame di qualcuno a cui
tecnicamente non era mai stato fatto mancare nulla in termini di agi, ma che
praticamente sapeva senza alcun’ombra di dubbio che nulla di ciò che le veniva dato le appartenesse per davvero. Non si trattava di niente più che d’una concessione magnanima e transazionale da un’entità superiore, che, in quanto tale, poteva essere revocata in qualsiasi momento.
Haru riusciva ad immaginare vividamente la voracità infantile con cui si sarebbe avventata su qualcosa di
suo per davvero, le dita mosse da un’ingordigia torbida che non conosceva confini e che non era nemmeno interessata a conoscerli. Le mani, artigli pronti ad ancorare e stringere a sé con prepotenza maldestra. La atterriva.
Estranea com’era all’idea di tenere in mano qualcosa che
le appartenesse sul serio, Haru non era certa che la sua goffaggine non potesse tramutarsi in crudeltà. Nessuno le aveva mai insegnato la delicatezza. Legarsi
all’altro senza affondarvici le unghie per radicarvisi, senza stringere così forte da soffocare e uccidere, le sembrava impossibile.
Ma
questa parte se l’era tenuta per sé. Non mostrava volentieri ciò che realmente sentiva. Dopotutto, il timore di venire fraintesa era ben più forte del bisogno di vicinanza. Non cercava rassicurazioni, e l’idea di ricevere occhiate cariche di commiserazione le dava il voltastomaco. Aveva quindi sapientemente spostato la conversazione verso lidi più ameni, e Jun l’aveva seguita fiducioso.
------------------------------------------------------------------------------
Ora, Haru è tesa e vigile. È consapevole della posa innaturalmente rigida che ha assunto, ma non sa bene come romperla, né se sia consigliabile farlo. Abbassa lo sguardo senza muovere un muscolo in più del necessario. Il bigliettino bianco spiegazzato di fronte a sé la fissa insistente, esigendo risposta.
Non vede la faccia di Jun, ma sente la nuca pizzicare del formicolio del suo sguardo dal retro dell’aula.
Fissa ancora una volta il bigliettino.
“Haru e Jun?”, le chiede. Di nuovo.
Come la prima volta che Haru ci ha gettato lo sguardo quando se l’è ritrovato davanti.
Come tutte le dannate volte che Haru ci ha gettato lo sguardo da quando se l’è ritrovato davanti.Un timido cuoricino a sostituire l’accento sulla ‘ì’ di ‘Sì’. Il ‘No’, lì accanto, è vergato in una grafia sottile e tremante. Sotto, un disegno di lei e di quello che lei ha ritenuto per anni essere il suo migliore amico che si fissano ai bordi opposti di un ponte. La mano di Jun tesa verso di lei.
Se socchiudesse le palpebre, Haru riuscirebbe a visualizzare nei minimi dettagli l’espressione adorabilmente concentrata dell’amico mentre realizzava quel bigliettino, il labbro inferiore catturato fra i denti, la piccola pieghetta fra i sopraccigli, la testa inclinata di lato a studiare le ombreggiature del suo schizzo. Sente la bile risalirle verso la gola. Persino l’autocontrollo estremo che le è stato inculcato da una vita intera non riesce a mascherare completamente il tremore che la percorre da capo a piedi.
Jun
sa cosa pensa Haru delle relazioni sentimentali. Ne hanno parlato a cuore aperto più e più volte.
Lo sa, e pensa comunque di poter valicare quel confine impunemente. Poche cose bruciano quanto la chiara percezione di essere stata inascoltata e
non-vista in maniera così fondamentale da una delle persone a cui tiene di più. Guarda nuovamente il disegno.
Vorrebbe farlo a pezzi.
Uno strappo. Netto, reciso.
La rimozione di qualunque concordanza con l'esterno.
Un tradimento assoluto per un tradimento di possesso.
La precisione catartica di una lacerazione inferta intenzionalmente.Totalmente immersa in un turbinio labirintico di emozioni incontrollate, lo tortura con le mani.
Di lì a poco, il suono della campanella annuncia il termine della lezione. La ragazzina si alza lentamente. Teme che, se dovesse muoversi troppo rapidamente, la nausea che le attanaglia le viscere da quando ha ricevuto quel foglio la costringerebbe a vomitare. E comunque, non c’è alcuna fretta.
Conosce Jun. Sa che il ragazzo non la avvicinerà prima di aver ricevuto una risposta da lei. Già,
conosce Jun; e il fatto che lui
non conosca lei
scotta molto più del previsto.
Min Haru non si volta neppure per un istante. Zaino in spalla, raccoglie le sue cose ed esce senza proferire una parola. Non riuscirebbe a parlare neanche se lo volesse. Il groppo in gola è insopportabile. Non ha più niente da dire. O forse ha troppo da dire, e il volume di ciò che dovrebbe dire è
troppo per essere verbalizzato. Muta, prosegue verso l’uscio.
Dietro di sé, solo due cose.
Caduto a terra, il frammento di foglio con le due caselle traditrici accartocciato malamente.
Sul banco, il resto del disegno ridotto a niente più che un fuoco di origami.
Haru si impone di non immaginare l’espressione ferita del suo
ex-amico. Quasi ci riesce.
Si costringe a rilassare forzatamente le spalle. Se ne va.
Assoluta, come solo un
ablativo sa esserlo.