Quando il ragazzo mi fa cenno di seguirlo verso il fondo del negozio, ripongo il bracciale nel suo vano originale e mi avvio a passo lento dietro di lui. Non ho nessuna fretta e il passo agile da gazzella di Lex non mi stimolerà a doverne fare due più del normale, solo per non perderlo all'interno del grande emporio. Io non rincorro, e non sono in caccia. Quando arrivo al bancone lui è già balzato oltre, rovistando tutto concentrato sotto alla cassa. I riccioli biondissimi si agitano sulla sua testa e nell'attesa io finisco per focalizzare la mia attenzione sulle linee di inchiostro che compaiono appena oltre il bordo della sua maglia. Un tatuaggio si avvinghia come una serpe intorno al suo collo, e accende in me quella solita curiosità dell'investigare, e dello scoprire. Come quando sono davanti ad un antico muro e granello dopo granello, ne riscopro le effigi consumate dal tempo. Ma quella curiosità vado a sedarla sul nascere, prima che diventi una distrazione inopportuna. Alcuni misteri profumano di fascino proprio perché restano tali. L'ignaro essere si risolleva, infrangendo quell'attimo di osservazione, e mi porge il bracciale che già riconosco più mio. Il colore chiaro, ma con una punta di giallo, è uguale a quello della mia bacchetta, e al tocco anche il peso è lo stesso. Lo faccio scivolare sulla mano destra e lo indosso correttamente, confermando essere della mia misura. « Perfetto » Lex nel frattempo ha allungato verso di me quello che sembra un bambolino di legno, di quelli utilizzati come riferimento anatomico da disegnatori e artisti. Ha le braccia aperte, e stringe nel pugno una bacchetta, e questo mi incuriosisce. Non ho sinceramente idea di cosa farmene, ma rifiutare un regalo sembra un modo pessimo per presentarsi (e delle ripicche di Breendbergh ho un sincero e indescrivibile timore). Sollevo il braccio destro e punto la mano in direzione del bambolo di legno, facendo attenzione a regolare almeno sul principio la mia magia. *Alarte...* il polso ruota portando il palmo della mano verso l'alto, come se volessi lanciare in aria qualcosa di invisibile * ...ascenderai*. Il minichino trema appena, prima di sollevarsi ad un metro dal bancone, per poi ridiscendere lentamente fino a poggiarsi con delicatezza nella posizione iniziale. Il viola nei miei occhi balugina appena prima di farsi intenso e profondo, e io non me ne accorgo nemmeno mentre un'espressione elettrizzata mi si disegna in viso. «Il bilanciamento è perfetto direi, grazie » concludo sfilandomi il bracciale e lasciando che il garzone prepari una busta per il trasporto. Porto la mano destra alla tracolla e ne estraggo le 24 monete per completare la transazione, mentre un Lex distratto appunta frettolosamente qualcosa a inchiostro sulla carta della busta. Incuriosita butto un occhiata più attenta e leggo una serie di numeri, che deduco compongano il contatto telefonico del ragazzo. Il gesto li per lì mi perplime, perché quel faccino pulito al limite dell'ingenuità va completamente in contrasto con l'idea di un navigato dongiovanni. Così la risposta che sono costretta a darmi, per cercare di non essere sempre diffidente, è una. Quel ragazzo è un magonò, come mio fratello, e per comunicare non ha altro modo. Raccolgo la busta dal banco senza distogliere lo sguardo indagatore che ancora scivola fra i lineamenti delicati del ragazzo. «Puoi riferire loro che la Straniera è tornata in città » mi limito a comunicare, prima di far scivolare via le buste dal banco e avviarmi verso l'uscita con un gesto militaresco della mano come saluto. Appena prima di uscire dalla porta sollevo la busta ad altezza occhi, dopotutto non sembra essere stata una visita del tutto infruttuosa.
La musica, che all'inizio sembrava quasi in sottofondo, inizia a farsi più invadente, quasi eccessiva, nonostante il mio piede ne tenga visibilmente il tempo sul pavimento. Non ho mai mostrato eccessivo apprezzamento per il genere Pop, magico o babbano che fosse, ma questa canzone devo dire ha un suo fascino, nascosto tra le rime scontate e l'evidente abuso del vocabolo Baby. Così, tra una nota alta ed un falsetto, la musica camuffa l'arrivo in scivolata di qualcuno che non mi aspetto. Evito di sussultare alla sua apparizione ma inevitabilmente vado sulla difensiva, facendo un passo indietro per distanziarmi dalla figura che è appena arrivata. E due passi perché è talmente alto da uscire dal mio cono ottico. Ovviamente non è chi mi aspettavo di trovare, ma il ragazzo si presenta togliendomi il dubbio di aver magari sbagliato negozio. Alistine, probabilmente è a lezione in questo momento, e io sono stata talmente distratta ultimamente da aver dimenticato quel piccolo particolare. Quella giornata continua a mostrare i sintomi tipici di una giornata di merda storta, ma cerco di riportare il treno sui binari prima di vederlo deragliare. Osservo il collega della mia amica e mi chiedo quanto impegno le richieda gestire tanta esuberanza per interi turni. È anche vero che Breendbergh ci ha nutrito a stranezze e no sense per anni. Eppure quello strano essere umano è strano in maniera strana, diversa rispetto all'altalenante personalità di Camillo. Non è il suo aspetto, per quanto inusuale, ad accendere questa sensazione in me. È la sua presenza, o essenza, che riporta in superficie un ricordo, una memoria di qualcuno che ho conosciuto tanti anni fa. Un essere davvero particolare, un corvonero invadente, chiassoso, fuori controllo, trascinante e bizzarro, con delle rotelle tutte sue nel cervello, che mi aveva trascinato (letteralmente) nell'anno più assurdo della mia vita. Un amico, dal cui lutto ho faticato a riprendermi, se non chiudendo tutte le porte affinché quel posto speciale restasse suo e suo soltanto. Era così petulante che persino il suo ricordo aveva finito per sgridarmi, costringendomi a ricordare di lui solo i salti, le giravolte, le uscite pazze. Anche in questo momento in effetti non sento tristezza o malinconia, al punto che un sorriso sincero mi scappa sulle labbra, mentre guardo il garzone Lex esibirsi in un inchino. Ruoto leggermente il busto quando lo percepisco girarmi attorno, la sensazione di lasciare le spalle scoperte a qualcuno non è nella mia natura. Mi sposto di tre quarti così da poterlo percepire e lo lascio fare il suo lavoro, dato che ha notato il bracciale che tengo ancora fra le dita della mano sinistra. «Storia, certo» rispondo con tono sottilmente divertito, sforzandomi oltremodo di non suonare sgarbata, ma l'idea che tutti quegli oggetti possano avere una "Storia" mi induce ilarità. Non puoi fare un lavoro come il mio e non ridere, anche solo toccandoli. Comunque resto interessata all'acquisto, se non ha una storia antica non vuol dire che non possa dargliene io una interessante. So già che quest'oggetto potrà tornarmi davvero utile durante gli scavi. « Sì, lo prendo. Ma ho una domanda per te» sollevo il bracciale rigirandolo con abilità tra le dita affusolate, saggiandone consistenza e leggerezza. Ha un colore scuro, ma che si fa più rossiccio quando la luce lo sfiora lungo i bordi ondulati. Nella teca ne vedo esposti diversi, ma non ho un'esperienza tale da capire cosa io stia effettivamente toccando. « Immagino che, in quanto convogliatori di magia, siano realizzati con legni diversi proprio come le bacchette. Vorrei evitare il frassino, in quanto la mia magia ne è proprio allergica, è disponibile in legno di salice?» Chiedo sollevando lo sguardo verso il ragazzo, e il collo quasi mi fa male, da così vicino il divario è ancora maggiore. Sembro quasi una Mini Minor parcheggiata di lato ad un Range Rover.
Promemoria per il futuro: non accettare più passaggi da passaporte altrui. Soprattutto se a prepararle è qualcuno di visceralmente incapace come Ben Hamad jr, cadetto della mia stessa Accademia e figlio del vice rettore. "Suvvia Alistair non fare capricci, accetta il passaggio. Non vorrai far tardi al colloquio, no?" E tu vorresti aver propeso per l'eleganza di un ritardo ben giustificato, alla sconcertante realizzazione di aver fatto un viaggio attraverso una brutta brocca di peltro a 1400 giri in dieci secondi, solo per fallire con tanta plateale ostinazione.
Mi appoggio al muro di mattoni vicino al quale mi ritrovo d'improvviso, prima di vomitare in un cassonetto vicino. Fortunatamente ero digiuna, ma confido comunque che nessuno abbia notato il mio arrivo, e il mio ancor meno elegante gesto, al limite mi accontento di passare per una donna che ha alzato il gomito più del solito, alle undici del mattino. Le gambe mi tremano ancora, ma ringrazio gli alti stivali stringati perché mi concedono la sensazione di essere ancora composta tutta d'un unico pezzo. Sistemo i risvolti delle tasche della giacca, che nel trambusto si sono sollevate, e mi accingo a lasciare il vicolo con quel briciolo di ingenua speranza che mi è rimasta. Un cartello di direzione mi indica [Brixton Hill ➔]. La voglia di spezzarmi in una rischiosa smaterializzazione intercontinentale quasi mi esalta, al pensiero delle mie mani che si stringono sulla trachea di quell'imbecille raccomandato. Stringo i pugni e tengo a freno il sinistro perchè non sferri un colpo sul muro di mattoni. Respira mi dico, hai tempo per una smaterializzazione precisa, conosci questa città, resta concentrata, il Ministero non è poi lontanissi(missim)mo. Il colloquio è alle ore 11:30. Alzo lo sguardo per controllare l'orologio posto sopra una fermata dei bus. Segna le 8:03.
Venti minuti più tardi mi ritrovo davanti l'entrata a doppio battente di un grande stabile. Abbasso gli occhi per controllare se il nome dell'insegna corrisponda con quello riportato nella lettera che ho ricevuto da Niah qualche mese prima. Atelier delle Modernerie, un nome...atipico, come il suo padrone. Ma che alternative ho per impegnare quelle tre ore di fuso orario dimenticato? Omicidio, socialmente non gradito. Cordiali visite, socialmente gradito. Mi ripeto, cercando di placare i nervi irritati. Non sono lì per del sano shopping terapeutico, ma per incontrare una vecchia amica che non vedo da tanto. Troppo. Mi tremano un po' le ciglia mentre osservo l'entrata con la lettera stretta ancora tra le dita. Sono cambiate tante cose in tre anni, di sicuro lo siamo noi, ed anche il rapporto che tanto ostinatamente ci siamo impegnate a tener vivo per corrispondenza. Solo che non ho ancora capito quanto. Sistemo il foulard scivolato leggermente sotto il bavero, spolvero il giubbotto da residui desertici e ravvivo i capelli sfuggiti allo chignon. Ripongo la lettera nella tracolla e con tre passi decisi mi avvicino alla porta, che con delicatezza apro, infilandomi dentro di essa con il riguardo di un ospite inatteso.
« È permesso? » chiedo più per abitudine, come se ci fosse un solo venditore che trovasse sgarbato l'accesso di un potenziale cliente. Ma quel luogo inaspettato che mi ritrovo davanti non ha per nulla l'aspetto di un negozio tradizionale, giostre di luci balenano in ogni dove e per un attimo fatico a collocarmi nella realtà. È lo strano incontro tra un lunapark, un negozio di balocchi e una fabbrica di zucchero filato. Il che sul principio mi spinge quasi fuori dall'uscio, come forza repulsiva. Una volta poi che i bagliori diventano più tenui sulle mie retine, inizio a definire i contorni dell'ambiente, nel quale continuo comunque a sentirmi smarrita. «Alistine? Breendbergh?» Mi sovviene il dubbio che il negozio sia ancora chiuso, considerata l'ora e il fatto che non ci siano nei paraggi bambini esagitati che corrono con un bastoncino di zucchero su per il naso. Tornando verso la porta sollevo il cartello Open/Close che penzola sul vetro, per controllare. Sembrerebbe legale la mia intrusione, per cui decido di addentrarmi verso il centro del negozio, camminando col mio solito passo silenzioso. Non voglio battere le suole degli stivali solo per annunciarmi, per cui proseguo di teca in teca cercando di capire cosa venda esattamente il mio vecchio concasato. Oltre ovviamente ai sogni olografici. Arriccio il naso osservando diversi articoli, dei quali fatico a definirne una reale e pratica utilità. Alcuni sembrano perlopiù giocattoli, incantati certo, ma carini per una cesta in vimini. Ma non dubito che molte persone avranno fatto la fila, e spesso anche azzuffa, pur di accaparrarsene l'ultimo disponibile. Poi qualcosa rapisce il mio sguardo, e mentre attendo che qualcuno di conosciuto spunti per togliermi da quell'impasse, decido che forse un po' di shopping terapeutico non sarà male.
ps. Se non avete un cartello sulla porta ve lo regalo. pps. Mya è davanti al bracciale Asso nella Manica, interessata all'acquisto ppps. Vorrei disturbare Lex
« Londra - 27 Warrington Cres - primi di settembre »
Ore 23.48
Plumcake e Oolong Tea. Iniziava in questo bizzarro modo la prima memorabile sera nell'appartamento di Warrington Cres, con un piede nell'indipendenza adulta, che aveva tanto il sapore di pigrizia e foglie di the. Il frigo nell'angolo era vuoto, e dopo un pomeriggio passato a trasportare scatoloni su e giù per le scale, la voglia di attivarmi per offrire al mio corpo una lauta ricompensa pareva essere scomparsa. Mi sentivo prosciugata dalla giornata da poco conclusa, la mia intera batteria sociale (di suo assai molto scarsa) era stata interamente consumata dalla vivace presenza del signor Raphael, portiere del palazzo nel quale ora vivevo. Lo zelo e l'insopprimibile cordialità dell'uomo mi avevano reso praticamente impossibile tenerlo lontano dalla mole di scatoloni che dovevano raggiungere il mio attico. E così in un lavoro in cui avrei potuto benissimo far carico del trasporto alla magia, mi ero ritrovata con un babbano prodigo, al quale, per pace del vicinato, non avevo saputo dire "oblivio".
Scavalcai due scatoloni rettangolari, spostandomi dalla cucina verso la mia camera. Il piattino contenente il dolce e la tazza tonda mi seguirono a mezz'aria, mentre le dita occupate appuntavano cose sul taccuino blu che tenevo in mano. Camminavo quasi senza guardare, alzando lo sguardo di tanto in tanto, giusto per orientarmi nel confuso labirinto creato dalle scatole aperte qui e là. Parole confuse, perlopiù scollegate fra loro, si rincorrevano sulla scia d'inchiostro. Una necessità che era nata all'inizio del mio viaggio, ogni qualvolta un subbuglio di emozioni complicate e confuse si affollavano nel mio petto. Non sentivo il bisogno di comprenderle, né di offrire loro ospitalità nella mia casa, spesso era più la necessità di farle uscire fuori così da poterle osservare nella loro singolarità e non esserne fastidiosamente sopraffatta.
Ero sola, ma di una solitudine per nulla disturbante, una compagnia che aveva preso posto da tempo nelle mie stanze. Si metteva comoda in un angolo, non disturbava e non osservava. Dopo le notti vagabonde in giro per Londra, ai miei giorni nel maniero di famiglia, agli anni trascorsi in accademia e poi nei siti di scavo, quella che stavo provando ora era... una solitudine fiera. Ne ero la padrona, ne avevo il totale controllo e questo aveva per me il sapore di un volo. Superando due pile di libri dall'aspetto davvero poco stabile mi addentrai nella camera, il letto sgombro pronto ad accogliermi e il resto della stanza in un tafferuglio di oggetti, scatole, borse e rotoli di pergamena infilati in ogni vaso e scaffale. Era un caos momentaneo, ma mi faceva star bene, erano le mie cose, non c'era nulla che ricordasse il passato, nulla che avevo sentito il bisogno di trasportare nella nuova esistenza. Nulla tranne Amina. Lei era venuta via con me da Hogwarts, il suo santuario si era semplicemente spostato da Hogsmeade alla mensola sopra il mio letto.
Mi lasciai cadere di schiena sul grande materasso con il taccuino ancora stretto nella mano sinistra e un'espressione interrogativa parcheggiata tra le sopracciglia. Quel senso di nausea che avvertivo premere sulla bocca dello stomaco era semplicemente fame o un'emozione che non volevo trascrivere sul mio quaderno? Ruotai il volto verso il braccio sinistro e poi di nuovo verso il soffitto spiovente, schivando il pensiero. La strada che avevo percorso da quando avevo abbandonato la casa di Inis Mor mi appariva ora immensa, tanto quasi da non scorgerne più il principio. Ero stata arrabbiata, delusa, molto spesso furiosa, talvolta incomprensibile, il più delle volte incontrollabile, fino a quando ero riuscita a trovare un modo per riscrivere me stessa. Con lo studio, con i miei risultati sul campo, con una carriera che stava per cominciare, con una egoistica e orgogliosa indipendenza. Eppure quel principio che ero convinta di non scorgere nemmeno, mi prudeva sotto pelle e rendeva agitate le notti, come onde notturne di malinconie e rancori, e debolezze che non desideravo. Con un gesto quasi di stizza mi alzai rapidamente dal letto lanciando il taccuino verso la finestra chiusa e mi spostai verso il fondo della stanza, là dove aveva trovato posto un vecchio pianoforte scovato in un mercatino dell'usato di Northcote Road. Midnight stava dormendo sulla grande poltrona laterale e non si scompose di un baffo quando la tazza di the e il plumcake gli atterrarono vicino. Prima di prendere posto sulla seduta, mi infilai in uno degli scatoloni poggiati sul tavolo basso e ne estrassi un taccuino pentagrammato dall'aspetto vissuto. Ci soffiai sopra per togliere giusto un velo di polvere e tornai verso il pianoforte. Sollevato il coperchio i tasti brillarono di un bianco inatteso nella penombra in cui versava l'intera casa. Era una notte di luna nuova quella che mi stava facendo compagnia, non che Londra avesse bisogno di un lampione in più quella sera, ma la sua assenza nel cielo notturno mi rendeva stranamente malinconica. Avevo acceso qui e là qualche sporadica candela, ma il buio mi era sempre piaciuto. Mi faceva sentire a mio agio, al sicuro. Prima di mettermi all'opera legai i capelli in uno chignon basso, in modo che non dessero troppo fastidio sotto il cappellino da baseball e arrotolai le maniche della grande felpa verde fino ai gomiti. Nonostante il vento fresco che entrava dalla finestra aperta posta sopra il pianoforte, non provai fastidio.
Non avevo assolutamente idea di cosa dover fare, se quel gesto avesse il minimo senso o la massima importanza, volevo solo che la nausea cessasse. O che mi parlasse. Il taccuino aperto rivelò diverse pagine di composizioni, tutte molto confusionarie e con tantissime annotazioni laterali e modifiche in corso d'opera. Non erano partiture originali, più il mio personale caos in diesis. Iniziai a scaldarmi da pagina due, con un motivetto che ricordavo di aver scritto pensando a Niah, ci avevo lavorato parecchio da quella volta ed era assurdo pensare che lei non l'avesse mai sentito da me, ma da uno stupido carillon. Le note scivolavano sotto le mie dita nitide e perfette, segno che l'accordatura fatta dal venditore era stata ineccepibile. Era una melodia battuta da un bel ritmo, con note basse che danzavano supportando quelle medie, senza eccessivi picchi armonici. L'avevo composta ricordando Niah sul campo da quidditch, quando lasciata la titubanza a terra diveniva un essere dai movimenti imprevedibili, un essere di puro istinto. La melodia seguiva il suo volo, nel profumo aspro della saggina che graffiava l'aria, quando poi rallentava come la musica prima di caricare un lancio, il tempo che rallentava, sibilava e poi la musica ripartiva come uno schianto, facendo accelerare il cuore, tanto degli altri quanto il mio. Alistine non lo sapeva, ma sedeva sul mio pianoforte ogni volta che suonavo il suo pezzo. Tre note lente e scandite chiusero l'esercizio, e mi permisi a quel punto un profondo respiro. Ma quando buttai fuori l'aria dai polmoni, quella sensazione di irrisolto mi premeva ancora sul petto. Presi a sfogliare il quaderno trovando una composizione di una sola riga, cancellata e modificata più e più volte, e alla fine lasciata lì a morire. L'avevo iniziata all'interno di un vecchio teatro abbandonato, nel quale avevo vissuto un paio di mesi dopo la mia fuga. Avevo dato la colpa al piano a coda scassato dal tempo, e ci avevo rinunciato. Ma rileggendola ora capivo quanto la tristezza mi impedisse di godere del suo suono, perché ogni nota mi ricordava papà, le sue dita affusolate che scivolavano sui tasti bianchi e neri, e il ricordo di una me bambina seduta al suo fianco con poche note nel repertorio, ma felice di collaborare. La musica aveva sempre avuto il tocco di una carezza, il sapore di una felicità pura, semplice, scontata. Era il calore che sentivo nella stanza, il suono di una risata, uno sguardo amorevole che riempiva ogni mia piccola fessura d'incertezza. Era il suono di un tempo che non avrei riavuto indietro, e crescere aveva significato accettare quella verità. Allungando una mano verso il ripiano sulla destra presi una matita e la poggiai assieme al taccuino sul porta spartito. Se volevo trovare il modo di andare avanti, forse dovevo solo chiudere i cerchi del passato.
Toccai le prime note, giusto per ricordare l'accordo, e lo ripetei più volte ad occhi chiusi per memorizzarlo. Quattro. Cinque. Sei. Sette volte. Non era male, ma era davvero un pezzo grezzo, ancora inesplorato, incompreso. Provai ad allungare le note presenti con un accordo nuovo, ma non mi convinceva. Chiusi gli occhi e provai a ricordare il dolore provato nel teatro, una parte di esso era ancora dentro di me e non credevo sarebbe mai del tutto sparito, ma confidavo fosse divenuto altro. La tristezza divenne una goccia, singola come una nota alta, picchiettava sul pavimento vuoto di una stanza enorme e solitaria. Cercai di raccoglierla tutta, di ricordarla, di provarla in ogni sua piega, in ogni ferita che bruciava. Funzionava. Così altre note si aggiunsero sul pentagramma, tenendo in forse le ultime tre sulle quali dovevo continuare a lavorare. La matita fece una piccola linea sotto quest'ultimo tratto e poi riportai le dita sulla tastiera, mentre la matita prese posto fra le labbra. Di nuovo la musica riempì la stanza, scivolando fra le candele e le piante, e prendendo in parte il volo verso l'esterno. Continuai a lavorare al brano, interrompendomi altre due volte per appuntare i progressi, ma il terzo principio sfiorò qualche corda nascosta, perchè la forza che premeva i tasti si era fatta più decisa. E senza rendermene conto la musica mi avvolse, tumultuosa mi balenava attorno con la sua forza misteriosa, si nutriva di quell'oscurità che con tanta ostinazione avevo barricato dentro il mio petto. Esplose. La sentivo attraversarmi le costole una ad una, risalire la colonna vertebrale come un vento di scirocco e poi esplodermi fra le orecchie. E più vi attingevo più quei sentimenti tanto a lungo sepolti si facevano vividi, attuali, come se non fosse trascorso un solo giorno. Perché ? Perché ? Perché ? Perché papà? Perché avete lasciato che trasformassi ogni briciola di quell'amore puro, in un odio venefico che mi lacera dentro ogni giorno della mia vita? Perché avete reso impossibile il perdono? Perché non riesco nemmeno a lasciarvi provare? Papà. Papà. Papà mi manchi. Eppure riverso su di te più odio di quanto non ne provi ancora per la mamma, e per Nathan. Perchè tu eri il mio eroe papà. E anche se ora conosco le battaglie che hai dovuto affrontare, non riesco a piegare questo cuore orgoglioso, e deluso, e amareggiato. Lui ti rinnega ogni giorno con una forza di cui non mi capacito, ti rinnega perché se lasciasse la presa al tocco gentile di una tua sola carezza, cederebbe. Farebbe un passo indietro, dieci, cento passi indietro, pur di ritrovarsi nuovamente seduto su quella seggiola di legno, vicino a te. Ma non posso lasciarglielo fare. Papà. Papà. Suoni ancora la pioggia, fai ancora danzare le foglie con la tua musica? O quella magia si è spezzata anche in te? Vorrei che fosse così papà, anche se significherebbe condividere nuovamente qualcosa. Un'emozione, un dolore. Non so se passerà questa tempesta, o se continuerò a fingere che non esista, solamente perchè mi trovo nel suo centro. Sono diventata molto brava papà, anche se non puoi più vederlo. Papà. La musica si concluse con 3 lunghe note che lasciai svanire sotto il peso morto delle mie dita.
Diversi riverberi di luce alle mie spalle si erano fatti più impetuosi, e ora che la musica si acquietava tornavano alla loro solita intensità. La musica doveva aver agito sul mio flusso magico, influenzando le fiamme delle candele che avevano preso ad avvitarsi su loro stesse come un turbine. Potevo aver sfiorato la tragedia di un incendio al primo giorno di trasferimento, ma non l'avrei mai saputo, perché i miei occhi erano talmente umidi da non lasciarmi vedere nemmeno lo spartito incompleto. Tirai giù la manica sinistra fino alla cicatrice sul polso, e lo avvicinai al volto per cercare di tamponare le lacrime prima che si trasformassero in un reale disastro. Sembravo una mocciosa, nei miei pieni 23 anni. Ma quel peso che avevo sentito sul petto per tutta la sera ora aveva preso una forma diversa. Tolta la nausea, e tolta la nuvola buia che l'avvolgeva, aveva rivelato la piccola figura di una bimba che ora mi dormiva fra le braccia, finalmente più tranquilla. O forse solamente esausta. La lasciai dormire così, e portai anche il mio corpo terreno verso il letto.
L'appartamento si trova nel quartiere di Nothing Hill, zona ovest di Londra. L'accesso all'appartamento è su Warrington Cres, dal portone della palazzina D, mentre sul retro la casa ha un affaccio diretto su Crescent Garden. L'ascensore vi accompagnerà fino al terzo piano, dal quale dovrete prendere un'ultima rampa di scale per arrivare all'attico. Sul pianerottolo c'è una sola porta in legno scuro con lo spioncino, un portaombrelli in ferro battuto con 3 ombrelli all'interno, uno zerbino a mezzaluna nero riporta una scritta in crine biancastro “Don't stop, be leaving”. Il campanello sul lato destro della porta non funziona, ma la targhetta Alistair vi conferma che siete nel posto giusto.
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Ingresso
Entrando dal portoncino vi ritroverete in un piccolo disimpegno oblungo che divide a metà le due ali della casa, molti scatoloni sono ancora nel corridoio d'entrata, alcuni chiusi, altri aperti e usati come cassettiere di comodo. Sulla parete destra un attaccapanni inutilizzabile si affolla di borse da viaggio di varie misure, portadocumenti e valigette a tracolla con progetti e pergamene che spuntano un po' ovunque. Potete lasciare le vostre cose dove preferite, la padrona di casa non vi baderà. Un piccolo salotto comodo sul fondo incastrato tra due alte librerie vi invita ad accomodarvi sul basso divano, tra morbidi cuscini, mentre un affaccio diretto sulla strada riempie la stanza di luce naturale. Diverse piante si infilano tra libri e scaffali, intervallati dai più disparati oggetti, ogni vaso sembra dotato di una pipetta che è incantata con un Rabbocco, per evitare di trascurarle quando è in viaggio. In realtà la padrona di casa non ha un gran pollice verde, ma un ambiente più naturale rende meno detestabile la gabbia in cui costringe il suo lato animale. Il pavimento dell'ambiente è un caldo rovere, sul quale potete anche camminare a piedi nudi perchè sempre di una piacevole temperatura. Ai lati delle librerie uno scalino vi farà accedere ai due lati della casa, la camera da letto sulla sinistra, e la cucina con il bagno sulla destra.
Camera da letto
La camera da letto è strutturalmente molto simile alla sala d'ingresso, seppur posizionata su un piano rialzato di una spanna o poco più. Una finestra a tre battenti, identica a quella della sala, occupa quasi interamente la facciata Est che affaccia come l'altra sul lato strada. Sotto di essa, posizionato su un basamento basso di tipo giapponese, troverete il letto leggermente in disordine, e avvolto con lenzuola bianche, l'unico colore che troverete per la biancheria della casa. A terra altri scatoloni fungono da comodino, corredandosi a diverse ceste in vimini e un piccolo baule nascosto sotto una pila di materiale da lavoro. Voltandosi verso sinistra, con il letto alle spalle, vi affacciate nel lato più intimo della camera da letto dove Mya ama passare le sere malinconiche e le notti insonni. Sul lato opposto della stanza si trova infatti un vecchio piano che la ragazza ha trovato in un robivecchi e che ha fatto restaurare perchè tornasse a suonare. L'intera casa è schermata da un incantesimo quindi non deve preoccuparsi dell'altrui fastidio, quando decide di farlo “miagolare” nelle notti di luna nuova. Sopra il piano, in parte nascoste dalle piantine e dal disordine, si vedono delle finestre a ribalta incastrate nel tetto spiovente, che affacciano sul lato Ovest dell'appartamento. Questo è il suo accesso secondario all'appartamento, scelto appositamente con un affaccio su una zona boschiva, così da non destare sospetti nel momento in cui rientra in volo in forma animagus. La scelta della casa non è stata casuale, ma ben ponderata sulle esigenze di vita della ragazza. Il lato a destra del pianoforte ospita uno stander a vista che funge da armadio, con un'alzatina nel quale trovano posto i vari stivali e scarpe. Sul lato sinistro invece una seconda libreria e una comoda poltrona vintage, quando vuole dedicarsi alla lettura.
Cucina
La cucina è un ambiente piccolo ma accogliente, illuminato sempre da una grande finestra sul lato strada. Sul fondo si trova un frigorifero vintage, il lavello, un piano di appoggio con un bollitore e una caffettiera, diversi barattoli disposti su piccole scaffalature poste al di sopra e un piano cottura a induzione, che la padrona di casa difficilmente utilizzerà per servirvi la cena. Sotto la finestra potete prendere posto ad un piccolo tavolo tondo di legno chiaro, con sedie nere, e aspettare una tazza di acqua calda, che potrete arricchire con uno dei 40 tipi di the che la padrona di casa tiene all'interno di una scatola, a centrotavola. Sulla parete di destra una rastrelliera raccoglie vari utensili, una piccola bacheca vetrata e una porta bianca che conduce al bagno.
Bagno
Il bagno in piastrellato bianco è di piccole dimensioni, aumentate però dal colore chiaro delle pareti e dalla presenza di finestre trasversali aperte sul tetto. Entrando nella stanza troverete frontalmente a voi una vasca in ceramica bianca rivestita con lo stesso materiale delle pareti, mentre il pavimento in gres scuro creerà un deciso contrasto. Sulla sinistra della vasca, incastrato tra il muro e un piccolo sgabello portaoggetti c'è un wc in ceramica bianca, mentre sul lato della porta troverete un lavabo, sorretto da una struttura industrial in ferro nero e legno, con un grande specchio frontale. In una cesta di vimini a terra potete trovare molti asciugamani bianchi arrotolati, di diverse misure, la carta igienica è impilata a terra, appena sotto lo sgabello. Anche in questa stanza si sente la presenza piacevole del verde, ma non badate troppo alla piccola piantina che ondeggerà ogni qualvolta vi siederete sul gabinetto.
Lo vogliamo, lo vogliamo . Il forum castello è grande, talmente grande che c'è sempre spazio per accogliere qualche nuovo forestiero. Io sono qui da 15 anni(quindici??) e ancora riesce a stupirmi, spero possa diventare anche per te un posto magico dove divertirti o fare terapia
Credo che l'ultima volta in cui mi sia sentita circondata da persone mature sia stato in seconda elementare. Perché davvero non mi spiego la difficoltà che ha un adulto di assumersi la responsabilità di una cazzata fatta, cercando invece ogni modo possibile per cascare sempre in piedi.
Non è da me seguire più serie contemporaneamente, perché c'è l'alto rischio di perdere pezzi qui e là, mentre un binge watching massivo mi mantiene il focus.
Quindi guardare The Bear, Boba Fett e Leoni di Sicilia rischia di diventare una strana serie in cui un tizio venuto dalla Calabria interstellare, vuole aprire un ristorante stellato a Palermo gestito da droidi che si chiamano tutti CHEF
Il rituale che Mya compie è un atto abitudinario che lei compie fin dalla fanciullezza, logorando e consumando oggetti nuovi, per vestirli di una esteriorità che lei riconosce, in cui si identifica e con la quale familiarizza.
Meraviglioso il minuto di silenzio osservato a lavoro, tra chi si scaccolava, chi pensava al fantacalcio, chi se la rideva perché è troppo strano stare in silenzio. Meraviglioso, e soprattutto utile.