Era
possibile ricordare così bene qualcosa, così precisamente da averne stampati in mente anche i dettagli più insignificanti - e dimenticare completamente qualcos'altro?
Completamente. Pezzi di vita andati via, chissà dove, sepolti dentro di me - oppure persi per sempre. Esperienze vissute. Persone conosciute.
Pouf. Cancellate. Come adesso. Come in quel momento, lì al dipartimento Auror. Se pensavo a Rosalie potevo ricordami perfino la prima volta che la vidi nella culla. E in quella stanza invece non ricordavo niente di ciò che mi stavano domandando. Come se fosse successo a qualcun altro.
«Donovan non devi avercela con te stessa» disse infine il Capo.
«Pare sia stato proprio potente quell'Oblivion. E sei stata in coma tre anni. Insomma,» fece Rufus, un mio collega, ridendo infine nervosamente e scuotendo un po' il capo. «Al tuo posto sarei ancora lì per terra» aggiunse infine e perse forza nelle parole man mano. Forse l'idea dei corpi malconci lì in terra quel giorno era ancora molto vivido nei loro ricordi. Era assurdo, lo sapevo.
Ma quanto avrei voluto avere anch'io quel ricordo. Avere la possibilità di dire alla mia mente
"ecco, eccoli lì, li vedi? Stanno stesi lì a terra e così che è andata". Avere delle certezze, delle risposte chiare, limpide. E invece in tutta quella storia non sapevo nemmeno perché mi ero ritrovata lì quel maledetto giorno.
«Sì, lo so» dissi solo dopo una lunga pausa, stretta nelle spalle.
«Però io voglio prendere parte alle indagini.»«No,» scosse la testa il Capo. «Sei troppo coinvolta. E poi non ti voglio di nuovo in servizio finché non riuscirai a correre tre volte l'isolato senza farti venire il fiatone.»
Rufus gli lanciò un'occhiata tremenda come se stesse pensando la stessa cosa che i miei lineamenti del viso non nascondevano affatto.
«Mi pare esagerato» commentai solo in un sussurro, guardando fuori dalla finestra.
«Potrei tranquillamente fare un po' di lavoro da ufficio. A casa» feci una pausa.
Casa. Quella non era casa mia. Dopo aver passato un mese in ospedale mi avevano dato un monolocale grigio e vuoto nei pressi del Ministero, abitato da altri Auror soli. Anzi, era meglio definirlo un dormitorio: una stanzetta cucina-salone, una camera con un letto singolo addossato al muro con scrivania e un bagno che aveva conosciuto tempi migliori. Per fortuna avevo una di quelle finestre lunghe con ringhiera che mi dava la sensazione di affacciarmi un po' ad un balcone per prendere una boccata d'aria. Ma ero nel centro città. Avevo comprato delle tende di lino bianco, semplici, e qualche pianta, giusto per provare a rendere più accogliente e intimo quel posto. Ma poi mi ero anche detta che le mie giornate trascorrevano uguali,
tutte uguali, e che due tende e una sansevieria non avrebbero di certo reso le mie giornate più
vive.
«A casa non so che fare» dissi alla fine. Poi li guardai a turno.
«Starei solo peggio a vegetare tutto il giorno in attesa che mi arrivi qualche ricordo a caso» contrassi la fronte e mi ficcai le mani nelle tasche del pantalone grigio a vita alta.
«Sono sicura che qui potrei essere di qualche utilità e stare a lavoro mi renderebbe anche più facile unire i puntini» spiegai.
Rufus guardò il Capo, le mani sui fianchi e la giacca sollevata scomposta sulle spalle. «Ha ragione» disse.
«Grazie» sussurrai a fior di labbra, così che solo Rufus potesse capire. Lui mi sorrise.
«Sì però non ti voglio fuori dall'ufficio» alzò il dito contro di me, «sia chiaro o non se ne fa niente» mi minacciò. Doveva essere severo e perentorio all'esterno ma tra le iridi grandi potevo vedere l'espressione preoccupata di un padre.
Quando fui presa come Recluta ero una delle ragazze più giovani. Eravamo tanti, quel giorno. Ma poche donne, pochissime. E alcune non continuarono. Il Capo mi aveva sempre rispettava. E forse, un po', mi voleva anche bene. Non riusciva a guardami per più di qualche istante negli occhi e qualcosa mi diceva che non voleva proprio affrontare il senso di colpa che vedeva riflesso in me - quello di non essere stato in grado di proteggere
i propri. Era quello che io sentivo. Un senso di colpa fortissimo a cui nemmeno potevo dare uno scopo Un senso di colpa in quei lunghi giorni al San Mungo che mi aveva risucchiato con l'angoscia e l'apatia e poi mi aveva scatenato dentro una grande rabbia; quindi un senso di rivalsa aveva poi preso il sopravvento, una fredda determinazione che mi aveva permesso di camminare ogni giorno di più... e, infine, mi aveva portato fuori da quell'ospedale.
«Lo prometto» dissi seria, togliendo le mani dalle tasche e congiungendole dietro i reni.
Io e Rufus venimmo congedati e uscimmo fuori dall'Ufficio, nel corridoio. Era quasi ora di pranzo e in quel momento stava scemando il via vai di ministeriali rendendo il Quartier Generale più silenzioso.
«Come ti senti...?» mi chiese infine Rufus.
Gli feci un sorriso.
«Come se mi avesse appena risputato una lavatrice.»«Una lava-che? »
«Una lavatrice,» scandii,
«è un oggetto babbano che lava i vestiti. E' un elettrodomestico. Tecnologia» continuai a precisare ma trovai dall'altra parte solo un muro di confusione.
«Mio padre è-»degluitii,
«era babbano.» Avrei voluto continuare a raccontargli della lavatrice, dei miei che litigavano su chi dovesse metterla - o su chi dovesse stendere i panni e chi stirarli.
«Donovan ci vediamo domani in Ufficio allora,» cambiò discorso, forse conscio di trovarsi su un terreno scivoloso. Come biasimarlo.
«Ci sono alcune informazioni a cui vorrei dessi un'occhiata... se ti senti pronta» mi disse Rufus.
«Assolutamente» annuii, lo salutai e lo guardai andare via e sparire oltre il corridoio.
Tirai fuori il
taccuino dei ricordi - o, almeno, così avevo deciso di chiamarlo. Una versione un po' romantica ed edulcorata di quello che in realtà era. Un blocknotes dalla copertina nera e morbida su cui appuntavo tutto ciò che mi veniva in mente, anche se non mi sembrava esattamente un ricordo. Per sicurezza, nelle ultime settimane presi a scrivere
tutto. E non mi era molto difficile farlo. Rosalie diceva che
radiografavo le cose. E così tutto ciò che mi veniva in mente lo descrivevo nei minimi dettagli e tentavo di analizzarlo a fondo. In breve, quel taccuino era diventato a metà tra un diario e un flusso di coscienza. Ed in qualche modo era perfino terapeutico.
Un piccola goccia salata sporcò le pagine rigate del foglio che tenevo tra le dita. Mi passai rapidamente quelle stesse dita sotto l'occhio destro e ricacciai i pensieri più duri, ancora una volta, dentro di me.