We'll be lost before the dawn

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view post Posted on 6/11/2016, 17:50     +8   +1   -1
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view post Posted on 21/11/2016, 17:19     +1   +1   -1
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view post Posted on 25/11/2016, 00:31     +3   +1   -1
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Pack yourself a toothbrush dear
Pack yourself a favorite blouse
Take a withdrawal slip
Take all of your savings out
'Cause if we don't leave this town
We might never make it out
I was not born to drown
Baby come on

Forget what Father Brennan said
We were not born in sin
Leave a note on your bed
Let your mother know you're safe
And by the time she wakes
We'll have driven through the state
We'll have driven through the night
Baby come on

If the sun don't shine on me today
And if the subways flood and bridges break
Will you lay yourself down and dig your grave
Or will you rail against your dying day


And when we looked outside
Couldn't even see the sky
How do you pay the rent
Is it your parents
Or is it hard work dear
Holding the atmosphere
I don't wanna live like that

If the sun don't shine on me today
If the subways flood and the bridges break

Jesus Christ can't save me tonight
Put on your dress, yes wear something nice
Decide on me, yea decide on us
Oh, oh, oh, Illinois, Illinoiss

Pack yourself a toothbrush dear
Pack yourself a favorite blouse
Take a withdrawal slip
Take all of your savings out
'Cause if we don't leave this town
We might never make it out
 
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view post Posted on 12/1/2017, 04:18     +1   +1   -1
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Yakou Tsuchimikado

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Tokyo Ravens, ep.13
 
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view post Posted on 3/2/2017, 10:34     +2   +1   -1
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view post Posted on 6/2/2017, 23:02     +3   +1   -1
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Will you wait until it all burns down
Will you hide until it all burns down

Will it hurt when it all burns down
Will you fight when it all burns down

Will you stand when it all burns down
Will you love when it all burns down
Will it end when it all burns down
Will you just let it all burns down


How long can you stand the Pain





 
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view post Posted on 11/2/2017, 03:43     +3   +1   -1
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« Anche le Mura del Castello più possente possono crollare se distrutte dalle fondamenta.
In certe occasioni, anche un misero sasso sul bordo della strada può diventare un’Arma. »

.

 
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view post Posted on 7/4/2017, 18:26     +5   +1   -1
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Per tutte le cose che non ho detto

Non era una bambina amata a scuola.
Era piccola, più piccola degli altri ed era “strana”, almeno era così che la definivano sussurrando con la mano sulle labbra e la cattiveria che solo i bambini, a volte, sanno mostrare.
E con il passare del tempo ed i tanti istituti visitati, aveva iniziato a crederlo un po’ anche lei. Eppure, il tempo per soffrirne non era ancora arrivato, era presto per starci male; e quindi, checché ne dicessero, a lei esser strana stava bene. Se voleva dire starsene a leggere durante la ricreazione, fare domande strane, indicare dei fiori ed inventarci storie, disegnare qualcosa che andasse al di là di case ed alberi… A lei stava bene.
Era quel tipo di bambina che, quando la maestra chiedeva cosa avessero fatto durante il fine settimana, lei rispondeva che si era divertita a giocare a Dama col nonno che tutti odiavano. Finiva sempre che ridessero di lei e non riusciva proprio a capire perché lo facessero. In realtà, non lo capisce ancora oggi, non davvero.
Per farle dei scherzi, le incollavano le pagine dei libri con la colla o le rubavano il diario scrivendole cose brutte, scarabocchiando sulle storie che vi custodiva. Non sapevano quanto fossero importanti per lei e non li biasimava: non capivano, poteva davvero incolparli per cose che non erano in grado di comprendere?
Questa suo modo di fare, la faceva sembrare “passiva”, impaurita, spaventata ma la verità era che non le importava affatto: non era colpa sua, non si sentiva in colpa per essere quel che era e non poteva dire che gli altri fossero cattivi perché credeva che ognuno agiva a seconda dei propri sentimenti.
“Forse, allora, gli do fastidio”, iniziò a chiedersi un giorno. E quel giorno iniziò anche a star male.
Cambiò scuola, di nuovo. Nella sua classe c’era persino una cugina ma non si volevano bene, lei non la sopportava ed era troppo ingenua per tentare di nasconderglielo. “Sei bionda e ti piacciono le cose rosa”, le aveva detto un giorno e lo intendeva davvero. Non voleva essere un’offesa, cercava solo di spiegarle cosa, superficialmente, le desse fastidio, qualcosa che per lei significava non andare proprio d’accordo. Ma se si fossero impegnate, aveva aggiunto, se anche l’altra le fosse andata incontro, forse avrebbero potuto giocare e fare i compiti insieme.
Ma anche lì, divenne presto quella strana e la cugina le disse che era troppo stramba per andare d’accordo, non le piacevano le stesse cose e con un’alzata di spalle, la bambina si ritrovò d’accordo. Sapeva che sarebbe stata di nuovo sola che, nessun altro, avrebbe fatto le stesse cose che piacevano a lei.
“Forse il rosa non è brutto colore”, aveva pensato poi. Magari non doveva esser così sincera, magari poteva adattarsi.
Ma non ci provò nemmeno, per quanto lo avesse desiderato – per quanto avesse desiderato non essere sola almeno in quella scuola; il motivo era semplice: era complicato farsi piacere le cose che non le piacevano, era difficile pensare che potesse impiegare la ricreazione a parlare di quanto brutto fosse il disegno di quel bambino quando poteva finalmente aprire un libro e vedere cosa fosse successo al cattivo di turno.
Un giorno, però, decise di non starsene in disparte. Giocavano in cortile, la classe divisa in due gruppi, due cerchi di bambini che si tenevano per mano e canticchiavano delle strofe. Le regole erano semplici: ogni cerchio rappresentava un castello; i due castelli erano nemici e l’uno doveva tentare di abbattere l’altro rubando le pietre. Le pietre erano loro e questo le piacque un sacco.
Realizzò presto che quel gioco funzionava in modo strano; le pietre scelte per essere distrutte erano i preferiti della classe, in ordine decrescente. Il primo era quello che aveva sempre lo zaino e l’astuccio nuovo, quello che invitava sempre tanti amici a casa ed aveva tanti giochi con cui divertirsi tutti insieme; il secondo, era il più simpatico, quello che faceva sempre ridere e portava le caramelle a scuola, e così via.
E quindi, non capiva: se li preferiscono perché li scelgono per abbatterli? Continuò a giocare fin quando non rimasero in pochissimi e, inutile dirlo, nessuno sceglieva lei. Sapeva che sarebbe rimasta l’ultima ma, insomma, andava bene: seguendo le regole del gioco, sarebbe stata quella a resistere di più, grazie a lei il Castello sarebbe crollato più tardi possibile. Fiera di quella piccola consapevolezza che la rendeva orgogliosa contro l’ignoranza altrui, continuava a cantare e divertirsi. Quando sentì il suo nome, prima degli altri, prima di quanto si aspettasse, si sentì delusa eppure… Alzando lo sguardo per capire chi l’avesse chiamata per raggiungere il castello più grande, al suo fianco, trovò un sorriso sincero ed una mano tesa nell’aria.
Quello fu il giorno in cui si sentì meno sola. Il giorno in cui pensò che non era male avere un amico.
Grazie a lui, gli ultimi anni delle elementari furono molto più piacevoli e grazie a lui, era diventata amica di quello più simpatico della classe tanto da combinare diverse malefatte e riderne fino ad avere mal di pancia. Fu il suo, il primo vero compleanno tra amici a cui partecipò, o meglio, il primo a cui si divertì sul serio. Arrivò a casa sua sentendosi a disagio e dopo aver fatto gli auguri ad uno dei due festeggiati, chiese dove si trovasse anche l’altro, il suo amico, ma non ricevendo risposta, girò per la grande casa fino a raggiungere il tetto da cui si poteva vedere l’intera piazza del paese. Dalla porta socchiusa aveva sentito ridere e lì, proprio lì, aveva trovato i due sue amici.
Il primo, quello che l’aveva invitata, le corse incontro abbracciandola prima di prendersi il regalo che gli aveva fatto.
E quella fu la prima volta in cui entrarono in contatto.
L’estate passò in fretta ed altrettanto in fretta arrivarono le Medie. Si ritrovò triste, assegnata ad una classe dove non erano i suoi due amici, dove non era lui ma sarebbe stato semplice, le disse: bastava scegliere un corso di pomeriggio dove andare entrambi.
Giornalismo non era poi così male, poteva inventarsi storie e potevano stare insieme. Decisero anche di fare scacchi perché c’era il professore, quello lì, quello strano che guidava anche se aveva le stampelle. Venne fuori che quel vecchio strambo era un buon amico di famiglia e quando ne parlarono, lui invitò entrambi i bambini a casa a prendere dei libri dalla sua grande biblioteca se avessero voluto.
Ci andò spesse volte, lui un po’ di meno: non gli piaceva leggere ma lei gli voleva bene lo stesso.
E così passarono anche le medie, tra incontri fortuiti, feste di paese, Carnevale - che la bimba aveva sempre odiato ma che con lui era quasi divertente, compleanni e gite ora piacevoli perché anche se lui rideva dei posti che visitavano e a lei piacevano, alla fine rideva sempre anche lei.
Con le superiori, fu diverso. Scelsero delle scuole diverse, stava sempre più tempo di lui a scuola e prendere lo stesso pullman per tornare a casa era impossibile. Gli amici cambiarono, lei divenne persino una ragazza apprezzata tra quelli del suo anno e questa situazione nuova le scombussolò abbastanza la vita. Non le piaceva stare al centro dell’attenzione ma qualsiasi cosa facesse, era diventata quella strana, sì, ma anche quella interessante. E dannazione se non le piaceva. Ad ogni modo, passava pomeriggi interi a studiare mentre lui usciva sempre più spesso con i vecchi e nuovi amici. Il sabato tornava a casa tardi mentre lei trovava il tempo per leggere i suoi amati libri.
Si incontravano raramente e con una sorta di sottile imbarazzo, si salutavano. I momenti in cui restavano insieme da soli, erano diventati rari e frequentando cerchie diverse, anche stare tutti insieme era divenuto impossibile.
Qualche volta, quando era concesso loro, si aggiornavano sulle cose che succedevano e parlavano di argomenti interessanti come universi paralleli e futuri utopici. Un giorno, lui le chiese cosa fosse successo se fossero vissuti centinaia di anni prima, quando il castello sulla collina non era ancora stato distrutto e le macchine non esistevano. Rimasero a fantasticare parecchio fin quando entrambi non giunsero alla conclusione che, in un villaggio tanto piccolo in cui tutti sarebbero vissuti e morti nello stesso posto portando avanti le loro tranquille vite, molto probabilmente si sarebbero sposati e avrebbero avuto fin troppi mocciosi in zonzo per casa. “Però tu avresti potuto raccontare storie”, “e tu gli avresti insegnato a prendermi in giro”.
Quella piccola realtà sapeva di amarezza, in qualche modo. Ridevano, è vero, ma lei si sentì in qualche modo triste. E smise di vederlo come prima.
Ogni tanto il pensiero di lui le affollava la mente, era il suo migliore amico dopotutto; spesso ripensava a quando, ancora alle medie, lei era con i suoi fuori ad un bar ed sull’uscio le era cascato il gelato appena comprato. Lui era apparso dal nulla mettendole la mano sulla spalla e dicendole che potevano andare a prendere un altro ma lei, vergognandosi tantissimo, aveva scosso la testa ed imbarazzata l’aveva lasciato lì. Per quell’avvenimento non si erano parlati per qualche giorno; lui era offeso, lei amareggiata. C’era dell’altro, credo che lo sappia ora, a distanza di tanti anni; c’era dell’altro in quel secondo contatto e non importa quanto quel qualcosa fosse cresciuto col tempo, lei non l’avrebbe capito se non troppo tardi.
All’università, lui scelse di fare l’infermiere e ce lo vedeva proprio: era gentile, premuroso e divertente. Aveva un umorismo tale da farti ridere anche davanti la peggiore delle cose. Ed aveva un sorriso che era impossibile non contraccambiare. Era una persona felice e rendeva felice lei.
Non si videro più; si scrivevano, certo, ma non era la stessa cosa. Al terzo anno, entrambi tornarono per l’estate. Lei lavorava in piscina – “ma se hai paura dell’acqua!” – e lui spesso vi passava le giornate.
Un giorno lui si era presentato nel primo pomeriggio; tutto era calmo e tutti erano via per il pranzo. La piscina era all’aperto ed il silenzio che la circondava nel verde era così piacevole che starsene all’ombra ad ascoltare la musica provenire dagli altoparlanti, donava qualche ora di reale pace.
Verso quell’ora, metteva spesso una canzone: le piaceva ascoltarla con quella serenità, con l’assenza degli schiamazzi ed il suono dell’acqua increspata dal vento. Uno dei tanti giorni, mentre quella familiare melodia risuonava nell’aria accaldata, lui era arrivato. Non era da solo ma tanto, lei già lo sapeva. La sua ragazza era carina e sembrava una persona gentile. Non era del loro paesino e fu inevitabile non ricordarsi la storiella che si erano inventati, su quella realtà monotona in cui il Castello era ancora pieno di vita e trionfante.
“Se non smetti di ascoltarla, non torno più”, le aveva detto ridendo ma lei gli rispose con una linguaccia e non tolse quella canzone. Le piaceva e poi, dopotutto, era arrabbiata per qualche arcana ragione.
Fu l’ultima estate che passarono insieme.
Il terzo contatto avvenne quando lui la buttò di peso in piscina al tramonto mentre tutti ridevano perché in tanti ci avevano provato ma, prima di lui, solo i bambini ci riuscivano. Durante il campeggio in alta montagna, in quella pianura circondata da pini dove tutti posizionavano in fila le tende, lo vide dormire per la prima volta e ricordò il bambino che l’aveva chiamata per rafforzare il proprio castello.
Fu l’ultima estate perché lui, davvero, non tornò più.
Lei era ormai lontana dal loro paesino, lui continuava la sua vita. Si era laureato, le aveva scritto e lei ne fu felice. Non lo sentì per parecchie settimane a venire ma tanto, si diceva, sarebbe tornata a casa a Luglio, lo avrebbe rivisto. Ma nemmeno lei tornò, troppo impegnata, troppo concentrata su qualche esotica meta da voler raggiungere.
Se fosse scesa, forse le cose sarebbero andate diversamente, pensa spesso, ma la verità è che nessuno dei due sarebbe più tornato.

Quando si svegliò, una mattina di luglio, si svegliò piangendo.
Sua madre entrò in camera, in lacrime e corse ad abbracciarla ma lei non capiva.
“Allora lo sai già. Mi dispiace tanto.”
Non sapeva ancora cosa fosse successo e le venne detto nel peggiore dei modi possibili.
Non disse mai a nessuno cosa voleva dire per lei la sua assenza. Non ha mai detto a nessuno quanto ancora faccia male, ogni giorno. In qualche modo, aveva iniziato a pensare che fosse colpa sua. Aveva iniziato a realizzare fin troppe cose e dirle, dirle dopo che lui era andato via, sembrava un ridicolo modo per attirare l’attenzione su di sé, un orrendo modo di ricordarlo agli altri e macchiarne la memoria.
Quindi è rimasta sempre in silenzio.
E, quando fa troppo male, ripensa a quel Castello ancora pieno di vita in un tempo tanto, troppo lontano.
Alla sua camminata strana mentre usciva dal portone di casa ed attraversava la piazza.
Al suo sorriso, alla sua voce.
A quella mano sulla spalla, al tuffo in piscina.
Alla terrazza di casa sua.
Al gelato alla fragola che ora odia.
E a quella maledetta canzone.

 
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view post Posted on 27/8/2017, 21:30     +5   +1   -1
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Un po' mi dispiace, piccola.
Nel senso, molti direbbero che è un mondo un po' brutto in cui venire alla luce, non credi?
No, effettivamente non puoi saperlo.
Se fossi lì, ti racconterei delle cose belle.
Ti racconterei di lui.
Spero che lo facciano.
Mentre cresci tra genitori che litigano e bimbi che tirano le treccine.
Quando il palloncino appena comprato ti vola via mentre resti a fissarlo con la manina aperta.
Quando perdi le prime cose, quando imparerai a camminare a testa alta sulle tue sconfitte.
Quando ti sentirai sola ed abbandonata.
Quando piangerai e ti mancherà qualcosa.
Spero ti racconteranno di lui.
Del suo sorriso e della sua gentilezza.
Del suo ottimismo e della sua timidezza.
Davanti al primo gelato.
Al primo giocattolo.
Al primo cucciolo.
Alle prime carezze.
Alla vista del primo Oceano.
Davanti al primo fiocco di neve.
Spero ti racconteranno di lui.
E ti diranno che hai i suoi occhi.

 
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view post Posted on 1/9/2017, 21:08     +5   +1   -1
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view post Posted on 7/1/2018, 23:38     +1   +1   -1

In a coat of gold or a coat of red, a ℓισи ѕтιℓℓ нαѕ ¢ℓαωѕ.

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Ohana means family, and family means no one gets left behind or sits alone in the mental institution.





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view post Posted on 7/1/2018, 23:48     +1   -1
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Non so ridere, o piangere.
Nel dubbio impreco contro il fotografo--
E comunque non credo che ci lascino stare nella stessa cameracella, nello stesso angolo giochi, nella stessa clinica, istituto, prigione--- Guess why.
E comunque dimenticavo che se tornavi tu, tornavano pure le foto a sbuffo, ma non c'è il pulsante "segnala questa persona"?
Vabeh, mi piglio tutto il pacchetto *mett in groppa mogliettin e scappa via

<3
 
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view post Posted on 7/1/2018, 23:51     +1   -1

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Era un foto bellllllisssssima. Era poco prima di andare ad avvelenarci al pub degli spagnoli-------se non ricordo male m'hai portato a casa di peso perché ero diventata molesta.
Ah, il bello delle relazioni <3
*si lascia portare in spalla di buona lena
 
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