| ♦ Horus R. Sekhmeth
~ È facile dire di esser caduti in un abisso oscuro, quando il mare con le sue acque nere ti avvolge. Chiunque, prima o poi, per quanto limpida possa essere la sua vita, potrebbe dire di esserci capitato. Diverso è, invece, quando l'acqua che ci avvolge diventa densa, nera, come petrolio che inzuppa gli abiti e la pelle, stringendo la gola in una morsa e divenendo catene assai più terribili di alte onde. Come un gabbiano, per sempre intrappolato, le cui ali, una volta candide, intrise di oro nero, diventano così pesanti da divenire morte . Così Horus era sprofondato in quell'oceano, annaspando, emergendo di tanto in tanto, ma inevitabilmente impuro. E quell'impurità, quella sporcizia, impastava la bocca, le dita e le gambe, trascinandolo a fondo. Non v'era speranza, per quanto anelasse al Cielo, alla Luce. Per quanto, disperatamente, cercasse di agitarsi nel suo profondo: era tardi; le sue ali, in procinto di nascere, erano ormai troppo pesanti, per muoversi. Horus sbatté le palpebre un paio di volte, continuando a fissare immobile il proprio palmo. Nella testa, v'era soltanto spazio per quel mantra. Non aveva scelta. Tutto ciò che v'era intorno, persino la stessa Camille, avevano perso consistenza, quasi fossero figurine bidimensionali appiccicate alla bell'e meglio in una scenografia di bassa categoria. Il ragazzo non seppe per quanto tempo rimase così, rannicchiato e in stato di trance, continuando a ripetersi che non aveva altra scelta. Neanche il gabbiano, ne aveva, del resto, quando si era tuffato nelle acque del mare inquinato: doveva cibarsi, o sarebbe morto. Il tocco di Camille sul braccio non venne neanche percepito dal ragazzo, così come la sua voce. Era soltanto un eco e così si perdeva tra le urla della sua mente e della sua coscienza. Se non altro, anche l'odore del sangue e le grida dell'uomo —così come la soddisfazione provata in quel momento— erano anch'esse scomparse.
Ma fu quando la donna gli prese il viso tra le mani, costringendo il Tassorosso ad alzare lo sguardo verso di lei, che qualcosa in Horus si mosse. Ancora una volta i profondi occhi ametista si specchiarono nei suoi, ma fu più difficile afferrare ciò che ella gli diceva. Fu più complicato, semplicemente, aggrapparsi a lei, quando le mani scivolavano. Sarebbe sprofondato, troppo stanco per continuare a muoversi. « Horus ... guarda me. » E la guardò. Ci provò sul serio. Le iridi si mossero vacue, cercando di mettere a fuoco quelle della donna, invano. Se avesse avuto la forza, avrebbe cercato di voltare il viso, di scappare da quelle mani fresche, da quello sguardo profondo: non voleva vedere, non voleva ascoltare. Invece, quasi fosse stato un desiderio primordiale a spingerlo a dispetto di tutte le paure, Horus rimase, rimase a guardarla, finché qualcosa non accadde. In principio le parole di Camille avevano iniziato ad esser percepite come il sottile tintinnio dell'acqua che comincia a scendere dal cielo. Una goccia dopo l'altra cadeva sulla superficie dell'acqua. Ma poi, quelle gocce avevano cominciato a scender giù con forza, dando vita ad un acquazzone. Non una pioggia violenta che ti costringe a rinchiuderti a casa, ma una pioggia che con la sua forza ti purifica, che ti spinge ad alzare il viso verso l'alto per goderne ogni piccola stilla. La stessa pioggia che dalle piume del gabbiano intrappolato e sul punto di soffocare, lava via il petrolio, disperdendolo lontano e permettendo al candore di riemergere nuovamente, alla vita di riprendere ciò che gli era appartenuto. Horus ascoltò le parole della donna, tornando a poco a poco alla realtà e spalancando gli occhi —e il cuore— ad una nuova verità.« [...] Sono carne da macello. La tua vita invece è importante. Non c'è soddisfazione nell'uccidere qualcuno ma c'è soddisfazione nel constatare di essere ancora vivi. E c'è sollievo nell'apprendere che i corpi inerti che giacciono sull'erba del giardino non appartengono a gente che conosciamo. Hai fatto di tutto per sopravvivere, Horus, e sei sopravvissuto. Questo basta. A te stesso, a chi ti vuole bene. E a me. »Fino a quel momento, non si era accorto neanche di aver avuto freddo, ma era impossibile, per il ragazzo, non accorgersi dell'improvviso calore che gli aveva appena irrorato il petto. Potevano sembrare parole banali, qualcosa che bisognava sapere già, eppure, ebbero un impatto enorme su di lui. Horus abbassò appena lo sguardo, sentendo nuovamente nelle orecchie i suoni e i rumori dell'ambiente, mentre dentro la sua testa non riecheggiavano più le urla della coscienza né quelle dell'uomo. Soltanto la voce di Camille con essa, una nuova consapevolezza semplice ma al contempo fino a quel momento difficile da afferrare. Era vivo, dopotutto. Era salvo. E cosa c'era di male ad esserlo? Cosa c'era da biasimare se si voleva vivere a tutti costi, se si desiderava la vita, a discapito di chi cerca con ogni mezzo di togliertela? Era l'istinto di sopravvivenza, in fin dei conti, ad averlo spinto ad uccidere, non di certo la malvagità. E se aveva provato soddisfazione nell'udire l'uomo gridare allora Horus poteva finalmente giustificarsi, dire che quella che aveva provato non era altro che la soddisfazione di aver vinto contro la Morte personificata. « Ce la fai ad alzarti? »Il Tassino alzò gli occhi, guardando ancora una volta la donna che, in piedi, lo attendeva, offrendogli una mano. In realtà Camille lo aveva già aiutato a rialzarsi, solo che, probabilmente, non lo sapeva. « ... Sì. » Mormorò con voce roca il ragazzo. Nonostante il tono fosse tutt'altro che alto, quella piccola sillaba risuonò come un boato nella sua mente. A fatica, poggiando i palmi a terra, Horus cercò di rialzarsi, concentrandosi ostinatamente per riuscire, questa volta, a farcela da solo. Era un uomo e, sebbene la Morte lo avesse sfiorato più volte, non doveva lasciarsi sopraffare né da se stesso, né dalla paura, né dai propri sentimenti. Non era solo, si disse e se ne sentì rincuorato. A poco a poco, tremante, Horus si alzò; la testa girava e le gambe rischiarono di cedere più di una volta, ma il giovane riuscì a rimanere in equilibrio. Una volta in piedi, si mise diritto, respirando a pieni polmoni l'aria. Si trovavano ancora a Londra, in un quartiere non meglio definito e di certo l'ossigeno non era il massimo; eppure, penetrando nei polmoni del ragazzo, quell'aria sembrò straordinariamente buona, come se prima di allora Horus non avesse mai respirato. Una nuova vita, semplicemente. Con cautela, il ragazzo prese la mano di Camille. che in precedenza lei gli aveva porto, e la strinse. Non disse nulla, non la guardò neanche, puntando le pallide iridi verso il cielo stellato e respirando piano; soltanto le sue dita, si mossero,serrando per qualche istante quelle di lei, appena inumidite dall'erba della sera. Un ringraziamento, forse il più sincero che Horus avrebbe mai potuto fare in tutta la sua vita. Un "grazie" che, molto probabilmente, la voce e le parole non sarebbero riuscite mai ad esprimere come lui desiderava e che sperava che la donna cogliesse. Horus, poi, lasciò andare, con delicatezza, la mano della donna, costringendosi a guardare lo scenario di fronte a sé: sull'erba del giardino giaceva il cadavere martoriato dell'uomo che per poco non lo aveva fatto fuori, mentre il secondo se ne stava rannicchiato in un angolo. Sulla strada, l'albero era ancora riverso a terra e, con molta probabilità, anche il corpo del terzo individuo giaceva sotto di esso. Sirius, probabilmente, era ancora nel mondo dei sogni. Pace all'anima sua. « Chi... » La voce che fuoriuscì dalle labbra di Horus risuonò troppo debole e flebile nel silenzio notturno. Il ragazzo si schiarì la gola, per poi parlare nuovamente, voltandosi verso Camille. La testa pulsava in maniera atroce e la nausea per quel dolore era tornata ad attanagliarli lo stomaco, ma si costrinse a stringere i pugni e a resistere. Non solo la curiosità, ma il bisogno di capire cominciava a martellarlo più di qualsiasi fastidio fisico.« Chi erano quelle persone, cosa volevano e perché ci hanno attaccati... tu lo sai, vero?» Horus non si avvide del cambio di persona che aveva appena usato per rivolgersi alla donna; concentrato a non cedere a quel dolore, nonostante il buio guardò intensamente il viso di Camille, illuminato dai vaghi riflessi dei lampioni. Ora che tutto era tornato così straordinariamente reale, ora che il cuore batteva nuovamente, forte, nel suo petto e la paura era scivolata in un piccolo anfratto della sua coscienza, —presente certo, ma ben nascosta—, voleva sapere la Verità. Voleva capire, nuovamente e riprendere in mano ciò che gli era sfuggito. Il gabbiano poteva ancora volare, in fin dei conti; il petrolio era stato lavato via dalle sue ali, sebbene qualche piccola macchia scura sarebbe rimasta. per sempre nascosta fra il candore delle sue piume.«I'm not scared of dreams, when it's hard to survive the night. »
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