| Qualcosa di freddo scivolò sgradevolmente dentro di lei, come dita gelide che frugavano irriguardose gli intimi recessi della sua coscienza. All'esterno, la notte era bianca come la morte, avvolta nel rigido amplesso del sudario di nebbia. Le poderose nubi danzavano attorno a una luna argentea, e le stelle osservavano come altrettanti occhi glaciali attraverso l’umida coltre del madido, febbrile profilo cittadino. Deboli fasci di luce penetravano l’aria lattiginosa e spessa, sfuggenti e scabri come le mani di un cieco, cogliendo a tratti il tacco di una scarpa, il lembo di un cappotto, il dettaglio di un volto. Tutto permaneva in uno stato di latente sospensione, e tutto lasciava presagire che ogni cosa sarebbe sopravvissuta indenne e immutata almeno sino alle prime ore del mattino, quando il sole avrebbe infine dato nuova consistenza alla materia. Eppure, vi era incontestabilmente un qualcosa in atto, una percezione incalzante del divenire, una diversa densità delle tenebre che appesantiva la figura dell'uomo in un mosaico di ombre. Un pallore mortale scese sul suo viso mentre l’irresistibile cuneo di quel casuale contatto attecchiva nelle profondità delle sue viscere, e la consapevolezza di possedere una propria vulnerabile anima prendeva il sopravvento, lasciandola vergognosa e sconvolta. Non era solo paura: si sentiva defraudata, violata. Il sentore della debolezza era nella sua pelle, un odore pungente, dolciastro, viscido, che si mesceva agli acri vapori delle vivande e al lezzo untuoso dei corpi. Avvertiva nella testa un'estraneità prepotente che scoraggiava ogni pensiero all'infuori di Lui. Non poteva più scegliere di non guardare. Gli occhi grigi turbinavano come il mare d'inverno, torbidi e abissali. Vedeva davanti a sé il sorriso divertito dell'uomo e capiva, con assoluta feroce certezza, che Lui, Lui conosceva il suo cuore, e se ne prendeva gioco. Non c'era rammarico, comprensione, pietà: solo l'incrollabile aspettativa di qualcosa di ineluttabile. Era un pensiero terribile, e confortante a un tempo. Come se in fondo anche lei non avesse fatto altro che attendere che qualcosa accadesse. E là, in quegli occhi calmi e inquietanti, quel qualcosa c’era, un qualcosa che lei voleva, che voleva disperatamente. Se ne sentiva a tal punto dilaniata da percepire quel desiderio come un dolore fisico, pronto a trascinarla in egual misura nel dubbio o nel piacere. Un mormorio lontano, in sottofondo. Dapprima quasi non se ne accorse, come se quella percezione non fosse che un'estensione del suo io inconscio; poi, l'eco vibrante dei sussurri crebbe fino a diventare un tempestoso imperativo, terribile e totale. Le parole si insinuavano seducenti nella sua mente, corrompendo la sua volontà, fluendo lussuriose sulla superficie intonsa delle sue ancora mutevoli possibilità future. La verità lenta e fragile del loro contenuto si riversava con disarmante necessità nel suo sangue, con una dolcezza così impellente e definitiva da rendere impossibile negarsi ad essa. Il brusio attorno parve spegnersi ed improvvisamente fu sola nella vastità solenne della pervicace mente dell’uomo, che si fondeva invincibilmente nella sua. Il cappotto scivolò con un fruscio lungo le sue gambe e le pesanti maniche ricaddero sui polsi bianchi e sottili mentre si alzava. Non poteva… Non poteva… Cosa? La voce… Sapeva che era di Lui. Glielo si leggeva nella piega ironica di quella bocca, in quel trasporto a un tempo distaccato e pressante che emanava dalla sua figura e che si protendeva senza freni verso di lei, impedendole di sottrarsi all’ottenebrante estasi del sentirsi, in qualche modo profondamente sbagliato, desiderata. Eppure era allo stesso tempo la propria voce: emergeva dal profondo caos della sua interiorità spezzata, spogliata, come il respiro trepidante e tremulo, intollerabilmente vicino di un amante. Una mano salì a sfiorarle la fronte, le esili gelide dita che tremavano in una silenziosa disperata supplica. Non poteva… Non poteva… Non poteva aspettare. Il solo pensiero era una liberazione, una caduta verso il nulla, e un’ammissione con sé stessa. Poteva rimanere lì, in frustrante attesa di un qualcuno che ormai era certo non si sarebbe presentato… o far tornare a splendere la vecchia fiamma del suo spirito e prendere in mano la situazione presente. Poteva attendere che l’uomo andasse via… Ma di fronte alla possibilità concreta che ciò accadesse, come se quelle parole nella sua testa le avessero lasciato un’ultima estrema possibilità di accettarlo, capì di non volerlo: non prima di aver saputo… Lui, Lui pareva conoscere quel che lei si affannava a decidere ancor prima che lei stessa giungesse a un compromesso con la sua coscienza. Non era sicura che se anche avesse pensato di rimanere immobile al suo posto Lui avrebbe considerato persa la battaglia, eppure cercare di scoprirlo avrebbe significato attendere ancora, e ancora… E Lui sapeva che lei non poteva. Non a quelle condizioni. Il suo nome la colpì come una stilettata in pieno petto, carico di un piacere ferale, improvviso, accompagnato dal graffiare impietoso ma sottile di risa di vittoria, come sabbia portata dal vento. Eppure il bisogno di continuare a dolere degli occhi dell’uomo le impediva di perdersi del tutto. Com’era possibile che fosse giunto a simili conclusioni? Da quanto sapeva? L’aveva seguita? Cosa vedeva del suo vecchio corpo e cosa sapeva del nuovo? Era folle anche solo il pensiero. Nessuno, nessuno poteva essere arrivato a tanto… Ma… Ripensò alla notte della sua creazione, all’evento straordinario e apparentemente illogico che aveva determinato l’irrimediabile deviazione della sua esistenza: sfinge, questo era il nome della creatura che l’aveva trasfigurata. Una sfinge nella Foresta Proibita di Hogwarts… L’incontro casuale, il dono… Qualcosa che le aveva dato molto da pensare. E l’uomo… l’uomo che pareva sapere ogni cosa, che pareva aver atteso proprio lei, che in qualche affascinante modo la legava a sé. Che fosse stata tutta una subdola macchinazione di cui era caduta vittima pensando scioccamente di essere padrona delle proprie scelte? Che la sfinge fosse stata inviata al preciso scopo di incontrarla? Che conoscesse già, al momento di porle la fatidica domanda, la debolezza che l’avrebbe fatta cadere? Non era forse la regina dei tranelli? Il dubbio la investì, e la determinazione appena ritrovata vacillò. Se così era, poteva forse considerarsi nulla più di una pedina che ancora serviva alla strategia del gioco. Ma a quale scopo? Perché prendersi tanta briga? Se era vero che l’uomo era indiscutibilmente un Mago, era anche ormai certo non fosse un funzionario, erano i suoi stessi modi a dirglielo: non era lì per la sua fuga, eppure c’era, a pochi passi da lei, a osservarla, a sussurrarle un nome, il suo, e quel che si aspettava da lei, come se la conoscesse da sempre. Forse in quello stesso momento spiava i suoi pensieri… Lasciò cadere una moneta sul bancone, accanto al bicchiere non ancora vuotato dagli ultimi sorsi. Il tonfo sordo si perse nel clamore, attutito dal legno. Nessuno le badò, né lei badò ad altri fuorché a quei limpidi crateri luminosi che la seguivano ovunque. No, non poteva aspettare, lo sapevano entrambi, seppur in modi diversi. La folla numerosa era di ben misera consolazione ora che aveva la certezza che l’altro potesse usare la Magia, ma la bacchetta premeva contro il suo fianco e il pugnale contro il polpaccio. Doveva chiarire subito la faccenda. Era un momento come un altro per farlo, né migliore né peggiore. Si mosse sinuosamente nella calca, passi calibrati ma decisi, gli occhi fissi sull’uomo quasi temesse di perderne la posizione, in realtà segretamente temendo le conseguenze della fine di quel contatto. Si avvicinava, e ogni passo le dava la strana sensazione di affrettare una condanna in bilico sulla sua testa. Refoli di aria fredda le carezzarono il viso quando fu a un passo dalla porta. Rabbrividì ma non si scompose. Aveva deciso. La figura dell’uomo era imponente, ancor più ora che non appariva velata dal vetro appannato del locale, così da assumere una consistenza più reale e minacciosa. Mostrava una carnagione pallida, forse solo l’impressione dovuta alla nebbia, che pure lo rendeva, in qualche modo, più enigmatico e pericoloso. Gli sorrise, stringendosi nel cappotto con fare infreddolito, la mano avvinta tra le pieghe, nascostamente stretta alla tasca con la bacchetta. - Una serata straordinariamente inclemente per stazionare all’aperto. – Il sorriso si spense, l'arto non più artificiosamente contratto dal freddo ma strategicamente fermo sull’arma, il viso esangue scolpito nella pietra. - Una serata straordinariamente inclemente anche per chi vorrebbe starsene per i fatti propri. – Gli occhi si strinsero a fessure, due cicatrici di ghiaccio contratte in intollerabile tensione. - So cosa stavi facendo: chi sei e cosa vuoi? – Il tono era fermo, più coraggioso di quanto si sarebbe aspettata. Forse ad infastidirla, in quell’istante particolare, era l’atteggiamento sicuro dell’uomo, o il taglio obliquo delle sue labbra, o l’insistenza immutabile del suo sguardo; forse era la frustrazione nata dalla consapevolezza di partire in svantaggio in quel confronto: lei non sapeva con chi avesse a che fare, Lui, sembrava, sì. Una scintilla di primordiale rabbia si accese nel fondo dei suoi occhi, tenuta a bada dalla cautela. Aveva molte domande da porgli, ma era da quelle due prime, banali questioni che sarebbe dipesa ogni altra cosa.
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