| Oliver Brior • Caposcuola Grifondoro Era come lui. Ne ottenne consapevolezza ben prima del contatto delle mani sul cristallo. Come una rivelazione che aveva atteso a lungo, come un incontro già scritto, il Divenire tesseva la sua trama maestra. Era lei, era proprio lei. La più piccola tra i presenti, il germoglio nascente di un'eredità che li accomunava e che rendeva lui, perfino lui meno solo. Chiunque la bambina fosse stata per davvero, non aveva più importanza. La sua età, le sue origini, la sua storia, tutto passava paradossalmente in secondo piano di fronte il suo sguardo, le sue sensazioni, le sue abilità. Perché era lei, era lei fin dal principio. Fin da quando la Stamberga Strillante aveva fagocitato la sua figura, fin da quando lo aveva catturato in un grembo che di materno, a conti fatti, perdeva valore. Era lei, Hanne. Con la lepre morta tra le braccia, con l'apatia di un volto che Oliver aveva imparato ad osservare, e aveva cercato per molto di allontanare nel riflesso del suo stesso specchio da parete; con la diffidenza di una mancata conoscenza, e con la gentilezza che ne tradiva complicità, in un'empatia che ancora una volta poneva differenza. Era lei, Hanne. La bambina, l'assente prodigio dei molti, il privilegio dei pochi. Per lui, per lui era come ritrovarsi. Come vedere, e come vedersi. Al di là dei confini, al di là delle epoche, quello era un punto fisso. Mentre la superficie della sfera di cristallo brillava argentea, la Vista spezzava i cardini del momento. Le fittizie, temporalesche nubi al suo interno si resero portatrici di promesse appena sussurrate, e le voci tremarono le une verso le altre. Un singhiozzo, impercettibile com'era, bagnò la gola e la bocca, e non ne pretese suono alcuno. Era una percezione, quella, che Oliver Brior viveva da tempo, viveva nel tempo. Ed aveva il senso della nostalgia, di quello che aveva perso e di quello che aveva acquisito; aveva il senso di una costante, tra quello che era cambiato e quello che invece era nascosto; ed aveva il senso primario, e ogni altro senso. Di una bambina, di un ragazzo. Di una catapecchia incastonata maldestramente in un bosco, unica superstite di velenose presenze. Il senso di un ritrovo, e di un déjà-vu. Di una coppia di Veggenti, e del loro dono più prezioso. Inspirò l'ebbrezza del Divenire, ne accolse la più incauta testimonianza. Le spoglie mortali, nella loro miseria, vacillarono all'ospitalità che via via andavano considerando. Il passato, il presente, il futuro - viverne l'esito era una possibilità, ma contenere l'uno e l'altro era una condanna. Mentre la cornea brillava di candore, le iridi smeraldo sbiadirono fino a dare l'impressione di spegnersi; il respiro parve cristallizzarsi nell'ultimo soffio, il petto che lento già si abbassava; e il cuore, in frenesia eccelsa, spinse sangue in battiti cadenzati, in un ritmo che avrebbe spaventato chiunque e che in lui invece concedeva consenso. Non ne ebbe paura, non come una volta. Il suo corpo, a fatica, si era abituato: la Vista ne sferzava la pelle, giungeva talvolta a scuoterlo, a spossarlo fino alla perdita di conoscenza. Ma al risveglio era lui, era ancora lui. Quello che vedeva, quello che era, tutto era identità vera e propria. La pelle vibrava di aspettativa, e lo sguardo infine poneva a fuoco quello che era già stato, quello che sempre sarebbe stato. Il Cristallo, tra tutti, gli offriva un ponte, un porto d'approdo, una certezza. Quando i contorni sfumarono nella rappresentazione di un altro ambiente, Oliver percepì la dolcezza del suo dono - così come l'aveva accolto, ora veniva accolto. Sotto di sé, il terriccio sfrigolava al tormento di una scena che mai avrebbe voluto avvolgere; e il cielo, zampillante d'orrore, si macchiava di sfumature che non gli s'addicevano, e che screziavano la più pacata notte. Il fuoco era demonio assoluto, andava insinuandosi sulle pareti, sulle travi, sui confini di un'abitazione che Oliver giurava di conoscere. Non vi era mai stato, non prima. Allo stesso tempo, era familiare. Guizzò in lui la memoria di chi era stato, e di chi era in quel momento. Le fiamme, ardenti nella loro furia vendicatrice, erano ormai libere e danzavano così sulla struttura di fronte; il senso di costrizione di un elemento che rinnegava fin nel profondo ebbe modo di stringere il petto in una morsa - quello che il fuoco aveva rappresentato per lui, quello che gli aveva causato, tutto era vibrante; le ustioni che avevano bruciato le sue braccia, il marchio mefistofelico che avevano lasciato nitidamente, tutto riecheggiava in screzi che non avrebbero mai taciuto. Si convinse di tremare, ancora una volta; si convinse di non abbassare lo sguardo, perché nell'orrenda verità che gli si stagliava intorno, la distruzione di una casa era più sopportabile della distruzione di se stesso. Deglutì a fatica, la bocca ad un tratto asciutta - non poteva negare di essere intimorito dal fuoco, ma c'era qualcosa di più soggettivo, qualcosa di più pericoloso. Il fuoco, per lui, era morte. «Non piangere.» Gli parve di socchiudere gli occhi, e di aprirli di nuovo. Alla cenere, al fumo, alla consumazione dei mondi. Accanto a sé ritrovò una figura che sentiva di conoscere, e negli estratti di percezioni che avrebbe dovuto meglio distinguere, Oliver non ebbe più paura. Non in modo viscerale, perlomeno, perché per la prima volta scoprì nel fuoco una certezza, quella di non esserne di nuovo pienamente travolto. Nella lontananza cui era costretto, come una delle creature infernali che l'Ardemonio aveva concretizzato nel suo tempo, il fuoco dava l'impressione di essere in trappola. Una preda ghiotta, la Casa, era tra le sue grinfie. E forse gli altri erano scintille che non gli appartenevano, che non gli interessavano. Per lui, allora, il fuoco si rivelava in una veste che mai aveva saputo ricamare al suo sguardo - una veste impeccabile, i ricami dell'oro sciogliendosi, la dissolvenza di spirali verso i cieli. Il buio si colorava, il tempo si scriveva. Ne catturò l'armonia di un epilogo, la consapevolezza di essere illeso. «Sentono dolore.» La domanda giaceva a sua volta, moriva sulla bocca. Una parte di sé ne conosceva la risposta, in qualche modo. Un'altra parte... ne era come incuriosita. Quando la Visione si infranse, sottopelle il cristallo gli offrì un distacco delicato. La sfera non scottava come in passato, e nel rispetto che Oliver le concedeva, sentiva di esserne stato parimenti ripagato. Cercò il volto di Hanne. Era lei, era sempre lei. Mentre le pupille ripristinavano accuratezza, il Caposcuola comprendeva di non essere mai stato fuori fase, di non mancare di equilibrio. Negli istanti precedenti il recupero, e già prima che la bambina gli parlasse, comprese come entrambi avessero visto esattamente gli stessi scorci. Tuttavia, se per lui aprivano dubbi e riflessioni pericolose, per Hanne avevano il peso del presente, e di quanto di persona già vissuto. Lasciò che la mano sinistra scivolasse, gentile, oltre il fazzoletto indaco della sfera. Non pretese il contatto di quella dell'altra, non lo cercò: il palmo però si aprì, le dita pure, e l'accoglienza ebbe il messaggio di un'offerta. Stringi la mia mano, sussurrava. In attesa, ancora una volta - perché la Vista, lo sentiva, gli aveva insegnato ad essere paziente ben prima di ogni altra etichetta, ben prima di ogni altra empatia. Ad ora sentiva un'affinità maggiore nei riguardi di Hanne, e tutto il resto scomparve impercettibilmente. Era in pericolo, erano in pericolo, e l'altra ragazza celava un rischio che fino a quel punto aveva soltanto sfiorato le sue sensazioni. Non giudicò, non una volta - quello che era stato compiuto, quello che scandiva nelle sue conseguenze, tutto era vivido tra pensieri, ricordi, riflessioni. E tutto attendeva, e tutto taceva. Non giudicò, non una volta. Cercava invece, in fretta, le parole migliori. Non quelle giuste, non quelle perfette, semplicemente le migliori. La differenza era sostanziale, e lì si inseriva in una fiducia che poteva spezzarsi, mai nascente com'era stata. La mano sinistra era ancora aperta, in attesa. Quando dischiuse le labbra, si rivolse alla bambina in un filo di voce. «Hanne, tu sei preziosa.»Non poteva credere che il suo migliore amico fosse lì dentro, non gli sembrava giusto. Le travi di legno si stringevano le une sulle altre, rivelavano un senso di costrizione: non un soffio d'aria, non un bagliore di luce. Si cullavano di un dolore che non apparteneva loro, che non mostrava una vera accoglienza. Non gli sembrava giusto, continuava a dirsi. Per lui, invece, aveva immaginato uno scrigno di un tesoro, un forziere che celava un passaggio verso altri regni, verso altre avventure; aveva immaginato un armadio, pieno di maglioni di lana, così anche avanzando con difficoltà sarebbe stato come ricevere una carezza, e un'altra, e un'altra ancora; aveva immaginato un luogo aperto, senza alcun dubbio: magari un prato in festa, forse un campo di girasoli, o di fiori gialli, luminosi, brillanti. Quando il Sacerdote aveva sciorinato ricordi, preghiere e canti di misericordia, gli era parsa più una cantilena, quasi una filastrocca. E no, neanche quello era stato giusto. Aveva creduto che la terra mutasse in grembo materno, proprio come avevano detto tutti gli altri, ma che lo facesse in modo... più delicato, sì, più delicato. Invece. Invece era stato rumoroso, sgraziato, per nulla elegante. Un tonfo affievolito soltanto dal tremolio di una campanella, e dall'armonia di cinguettii tra gli alberi sempreverde. Forse il bosco era stato materno, almeno in parte, e almeno verso la fine. Comunque, a lui non era sembrato giusto. Non una volta, non un momento. Quando la nonna gli aveva stretto la mano, tutto quello che aveva pensato era come lei, Adeline Brior, mai fosse stata così affettuosa con lui. E no, neanche quello gli era sembrato giusto. Abbassando gli occhi sull'intreccio delle loro mani, gli era sembrato... forse, sì, forse gli era sembrato un peccato. I segni del tempo sulla pelle piena di rughe della nonna, e quelli dell'assenza sulla pelle liscia della sua mano. Gli era sembrato curioso, e poi interessante, e poi di nuovo inutile, e di nuovo così sbagliato. Quando l'ultima calendula aveva bagnato d'oro quella cassetta in legno, che non era né uno scrigno del tesoro né un armadio incantato, gli avevano chiesto qualcosa. Forse di proseguire, forse di raggiungere il legno e chissà, forse offrire una carezza. Un'ultima carezza. Ma non c'è spazio, credeva di rispondere. Non c'è spazio, è così stretto. Il mio amico, diceva. Il mio amico non può muoversi. Questa cassetta è stretta, insisteva. Non può uscire, non può correre nel prato con la nostra lepre. Non può vedere il sole, gridava. Non può vedere il sole, quello era il prezzo peggiore. Non poteva vedere il sole. Ma lui, lui l'aveva visto - nel riflesso di una crisalide, nel contrasto sulla pietra del pozzo nel quale l'amico era scivolato, e anche sull'amico. Lui aveva visto il sole tra i suoi riccioli, una prima volta, un'ultima volta. Nonna, aveva chiesto. La stretta leggera delle loro mani. Nonna, perché ho visto il sole tra i suoi capelli. Nonna, perché ho visto il sole quando era notte. E la stretta, allora, si era fatta più vigorosa. E il tempo si era fermato, e la bara in nocciolo era caduta. E il tonfo, il tonfo, il tonfo. Non era elegante, non lo era. Il tonfo, il tonfo, il tonfo. Un botto, un diniego, la terra che si apriva in una voragine. Nonna... Nonna, perché. «Perché sei prezioso, bambino mio.» No, non era vero. Perché lui sapeva, lo sapeva prima di tutti gli altri. E per colpa sua, si diceva. Per colpa sua, Loras non poteva più vedere il sole. Nonna... Andavano via, via dalla chiesetta. Nonna, perché. Non lo chiese più, mai più. Ma la risposta sarebbe stata sempre vivida. Perché sei prezioso, gli aveva detto. Sei prezioso, Oliver. E no, non gli era sembrato giusto. «Sei preziosa, Hanne.»Lo ripeté, un sussurro. Poteva aprirsi una voragine sotto di loro, potevano ardere tra le spire del fuoco più indomito, e perfino i serpenti - all'esterno, ovunque fossero stati - potevano tornare in quel momento. Ma non avrebbe rimandato ancora, non di nuovo. Il tempo si fermava - per lui, e per lei. Ed erano soli, in quella casupola. Nel grembo di un legno, nel bagliore di un cristallo. Non c'era sole, neanche quella volta. Hanne, tu sei preziosa. Il palmo della mano sinistra aperta, la gentilezza sul suo volto. Non chiese altro, non pretese di sapere altro sul passato della bambina. Non era il momento, non gli sembrava giusto. Chiuse gli occhi, e quando li riaprì tornò sull'altra. Erano preziosi. «Il muro, Hanne. Portaci al muro.»Nelle nubi del Cristallo ebbe come l'impressione di scorgere un profilo, un paio di orecchie lunghe, e un musetto più scuro. «Vuoi venire via con noi?»statistiche / inventario salute 315/315 corpo 285/285 mana 343/343 exp 59.5
incanti I, II, III, IV Classe completa V Classe » Claudo, Nebula Demitto, Plutonis, Patronus VI Classe » Perstringo Chiari » Stupeficium, Rituale Perfetto
abilità Divinatore Esperto, Maridese, Materializzazione
inventario bacchetta magica, galeone ES, spilla C.r.e.p.a., bracciale di damocle, libri di Divinazione, sfera di cristallo, rune sacre con gessetto, occhialini ghostbuster, macchina fotografica
in breve Quello che Hanne rappresenta per Oliver ha già ora un valore infinito: è un'identità che si ritrova e che si congiunge, da lì la breve parentesi sul passato come punto di contatto. Oliver vede sé in Hanne, quello che ha vissuto è sottopelle, è nel profondo. La visione ne ha rafforzato l'esito, la conclusione è volutamente paziente: chiede ad Hanne del muro e di andare via con lui. Teme infatti possa essere in pericolo, come loro.
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