Per un attimo gli sembrò di tornare negli abissi del Lago Nero, così com'era stato pochi anni addietro. Il paradosso sferzava ogni ragione, ne era consapevole, ma non poteva ignorare il confronto come memoria che si ripeteva: viveva infatti lo stesso senso di costrizione, lo stesso respiro involontariamente trattenuto, lo stesso brivido lungo le braccia. Più di ogni altra cosa, lo sentiva, era il cuore a stringersi in una presa di ferro. Cominciò a boccheggiare proprio quando tracciò il passaggio con il gessetto, e quella parete che svettava come promessa infranta lì di fronte acquisì la stessa voragine della pietra calcarea - un altro luogo, un'altra fuga. Così com'era stato in passato, lasciando alla magia il comando di rimpicciolire il suo corpo tanto da permettergli di superare uno spiraglio tra le pietre dei fondali, così era in quel giorno morente. Come allora, aveva creduto di avere un'altra scelta, di poter infine giungere ad una strategia vincente, ad un risultato che non gli diventasse fallimento, e che non gli serrasse la gola in un nodo convulso. Ma era lì, lo era sempre: la realtà perdeva ogni tratto onirico, rinnegava la speranza di un cambiamento, e tutto quello che avrebbe potuto fare dipendeva da un misero, infido gessetto. Quel colore, quel bianco, mai avrebbe immaginato riuscisse a svelarsi così spento. In balìa di sensazioni confusionarie, alcune tanto familiari da somigliare ad un déjà-vu, perdeva una parte di sé - dietro, alle spalle, e per sempre. Lì sarebbe rimasta, già lo vedeva. Lì sarebbe stata, incastonata tra l'antica mobilia, quasi come un granello di polvere. Avrebbe voluto sostenere lo sguardo di Hanne, tra tutti loro. Avrebbe voluto crogiolarsi, almeno in un sospiro di sollievo, alla conferma di aver tentato ogni strada, di aver battuto ogni sentiero possibile; la verità, però, era che il tempo gli si palesava meschinamente. Né si era accorto, infatti, del pericolo appena alla caviglia, e né comprese subito il sortilegio di Megan. Un moto di sorpresa lasciò immediato, sul volto, il marchio di una colpa, e quello di un segno di riconoscimento. Uno scudo, un fascio di luce adamantina, l'ambivalente occasione di difesa e di offesa poneva anche lui in salvo. Estrema, la coscienza quasi desiderò esserne invece vittima. Un assalto, anche soltanto uno, gli avrebbe dato l'impressione di aver subito a sua volta, tanto da spingerlo per istinto di sopravvivenza a scappare via. In parte già era così, si convinse; in parte, tuttavia, appariva fisicamente illeso, e il senso di spossatezza non reggeva alcun confronto: ogni ferita che aveva saputo sfidarlo altro non era che intangibile, all'apparenza inesistente. Gli risultava quasi un oltraggio - nei confronti di Emma e verso quelli di Hanne in particolar modo. Già si volgeva indietro una volta, un'ultima volta - il rimorso era così atroce da ripristinare la stessa memoria d'esordio. Un tempo fuggiva da Kàlha, inseguito dalle schiere di guerrieri maridi; e quel giorno fuggiva da Hanne, incalzato dalla disarmante impossibilità a compiere la differenza. Avrebbe voluto credere di non aver avuto soluzione, perché così come la Sirena gli aveva imposto di allontanarsi prima che fosse sopraffatto, così la Bambina gli aveva gridato di andare via, via da lì, via per sempre. Ma forse, lo comprendeva in quel momento più che mai, la decisione di ritirarsi assottigliava l'inadempienza di ogni sua etica, di ogni valore.
Nella Casa dei Boschi segreti, lui abbandonava anche se stesso. Com'era stato, com'era tuttora: un dolore, quello, che non avrebbe potuto mai estinguere; un dolore, si disse, che bruciava più di ogni morso di vipera. Il gessetto brillò tra le sue mani, e in silenzio - come se ad un tratto ogni parola fosse stata per lui superflua - lasciò che il varco si manifestasse come bocca famelica. Tanto vorace, gli parve, da somigliare al vuoto eterno, e nel buio percepì le ombre screziare il suo petto, insinuarsi come maledizione fin sottopelle. Oltreconfine, oltre se stesso.
«Cosa ho fatto.» Quando la voce sfumò in un sussurro, appena percettibile, quasi pretese che tacesse per sempre; perché ogni suono gli sembrò un diniego, ogni suono gli sembrò un'offesa - per lui, per tutti loro. Quando intorno si svelò un ambiente appena più familiare di quello che avevano appena lasciato, non riuscì a trarre alcun sospiro di sollievo. Invero, si accorse di come avesse trattenuto il respiro fino all'estremo, e quando liberò la bocca gli apparve di inghiottire fumo, ceneri, fiamme così ardenti da bruciare lungo la gola. Invece, era altrove - com'era stato in principio, sostava così all'incauta apertura tracciata sulla parete. Sperimentò il disagio di chi aveva rinnegato se stesso, e mai,
mai avrebbe augurato qualcosa di simile. Inerme com'era, sentiva le ginocchia cedere sotto il peso di quella che di per sé non poteva essere semplice spossatezza, sotto il peso di una gravità che avrebbe trascinato a lungo nei giorni seguenti. Avrebbe anelato ad una reazione, ad una qualsiasi, ancor più quando il grido invalicabile bagnò d'ultimo orrore perfino tutto intorno; avrebbe sperato di spingersi di scatto, come una furia, verso la parete che svettava come illusione, tanto da spezzarla sotto l'assalto delle sue mani, sotto un assalto fisico - di pugni, di colpi, di calci - e non più, non più di semplice magia. Perché Hanne, ancor più della stessa sorella, aveva consumato il suo cuore; e Hanne, sempre lei, si aggiungeva alla schiera degli affetti innati e improvvisi, di quelli che aveva perduto contro ogni previsione, contro ogni augurio.
Invece, Oliver attendeva. Alla parete, al passaggio, al gessetto ancora tra le dita. Attendeva, senza speranza; dapprima una mano, poi l'altra, entrambe si accostarono alla parete come in preghiera, ne carezzarono così la superficie ruvida, tanto spessa. Non c'era più, Hanne non c'era più.
«Com'è stato possibile.» Non ebbe bisogno di volgersi, non avrebbe dovuto. La Stamberga Strillante appariva per lui come
silenziosa, più di quanto ogni voce, ogni leggenda, ogni superstizione avessero saputo concederle. C'erano loro, c'erano soltanto loro due. Nel suo tono, Oliver tradiva sconfitta - dolcemente, come chi era grato di essere vivo, e chi parimenti era devastato dalle conseguenze.
«Megan, io...» Grazie, avrebbe voluto dirle. Per essere stato con lui, per aver
rischiato con lui; per ogni intervento che aveva compiuto, non ultimo quello che di un probabile assalto; soprattutto, sentiva vivamente, per non essere andata via.
«Non ne sarei uscito senza di te.» Quelle, invece, svelarono quanto avrebbe voluto esprimere a voce; con una nota puramente vivida, con assoluta sincerità. Volgeva verso di lei alla fine, quasi come se restare lì accanto alla parete gli procurasse disprezzo, gli ricordasse quello che aveva lasciato.
«Pensi che staranno bene, che le rivedremo più?» Nessun'altra domanda contava.
«Questo passaggio, sai, credevo fosse una voce di corridoio, avevo sentito parlare dei segreti che custodiva la Stamberga, ma mai.» Sospirò.
«Mai avrei creduto potesse essere tutto vero. Credo... credo che non dovremmo farne parola.» Perché è un rischio, perché è imprevedibile, perché siamo Caposcuola, avrebbe dovuto dire; e in parte, ora che la spilla sulla divisa brillava di nuovo oltre ogni polvere, era per quello. Ma ne trovava un'altra ragione.
Era loro, era soltanto loro.
«Perthro, pochi mesi fa.» Un passo, una trama in eterno divenire.
«La Runa del Viaggio l'aveva predetto.» Lasciò che il ricordo, tanto tangibile per lui da tornare come breccia tra infiniti pensieri, delineasse un legame, un vero richiamo - di quando si erano trovati, entrambi, al quarto piano del Castello di Hogwarts; di quando si erano fermati, e lì avevano tracciato un primo, prezioso sentiero insieme; di quando le rune avevano sussurrato segreti, segreti che non erano allora pienamente comprensibili, segreti che lì assumevano un senso, diventando così
oltreconfine. Così era stato per lui, così era stato per loro.
Poche ore addietro, nell'Aula di Divinazione il tempo gli aveva offerto un'ulteriore conferma. Di quel che sarebbe stato, di quel che
infine era stato - il
Cerchio, il principio e la fine, il disegno che si completava, il varco che si apriva e si chiudeva come doveva sempre accadere; il
Serpente, insidia di carne viva, nel nugolo che aveva accolto e salutato entrambi nel luogo lontano; l'
Albero, le cui radici concretizzavano passaggi tra i mondi, dal Platano Picchiatore alla Stamberga Strillante, dalla Casa dei Boschi al rientro effettivo; e infine...
Respira, Oliver. Così, le
Spighe di grano concludevano ogni Visione. Il ritorno, il cambiamento,
la rinascita - si chiese se la sola conferma di essere vivo, di essere di nuovo tra i territori di Hogwarts, potesse allora valere. Intimamente, sperò che rinascita - per lui - fosse un tassello ancora da sistemare, come guarigione da ogni tormento di quanto vissuto quello stesso giorno. Sorrise. A dispetto di ogni sensazione, a dispetto di ogni esperienza. Perché erano lì, erano al sicuro.
Perthro, il Viaggio, già si svelava.
«Ho bisogno di uscire di qui.»Di nuovo, tornò all'altra.
«Dobbiamo solo non essere scoperti. Sarebbe il colmo, non credi, trovare due Caposcuola nella Stamberga Proibita.»Dietro di sé, un sentiero.
Di rami infiniti, di serpenti famelici.
Così di rimpianto, di abbandono, di ogni fine.
Davanti a sé, un viaggio.
Di cunicoli segreti, di riflessi di luna.
Così di malinconia, di scoperta, di ogni rinascita.
Accanto a sé,
una destinazione.
Un bivio, una scelta, un incontro.
Di amicizia, di rivelazione.
Accanto a sé, Megan Haven.
Un punto fisso nel tempo.