| × Off-Game × × LegendaNarrazione«Dialoghi»
Every night and every morn Some to misery are born. Every morn and every night Some are born to sweet delight. Some are born to sweet delight, Some are born to endless night. Willam Blake
E' bellissima? La Sonata al Chiaro di Luna? Era la ciliegia, era la cosa che ti prendeva e ti trasportava in altri mondi, in altre dimensione, era il soffio vitale, uno di quelli che donava la scintilla, che donava la corda, che dava la forza e la capacità di rialzarsi e di vedere oltre, oppure, semplicemente, di perdersi nel trascendentale. Sì! Il trascendentale. Quello che nessuno riusciva a vedere, ma che, grazie proprie alle opere dei vari Beethoven, Mozart, Bach, Prokofiev ed altri appariva sempre di più vicino, sempre più toccabile, sempre più intuibile, tangibile, reale e presente. Che lo signorina lo sentisse anche lei? Che sentisse le corde dell'anima vibrare? Che sentisse le stelle danzare, cantare, squillare, trasportarla in altri mondi, mondi pieni di suoni e di poesie, di speranze, ma, ahimé, anche di sofferenza e di dolore? Sì, probabilmente. Probabilmente lo sentiva. Probabilmente vedeva anche lei mille colori e mille mondi intorno a loro; anchela signorina Goodheart, forse, guardava il buio danzare, i steli d'erba soffrire, e gli alberi, ahimé, cantare. Anche lei vedeva quel mondo pieno di pathòs, non divino, ma umano, che ti prendeva, ti faceva affondare nel proprio calore, e, non volendo più tornare alla vita di tutti i giorni, alla accollante routine dei compiti e dei voli, ci rimanevi. "Sì". - Pensò Raven. - "Quella sonata ti scioglie nella notte; quella sonata ti fa divenire la luce lunare, essa ti porta con sé stringendoti la mano... e l'anima." - Finì di pensare Raven, osservando la notte. Quando sarebbe stato bello suonarla proprio li? Accanto al misterioso castello, resistito a mille battaglie, ma che presto, molto presto, sarebbe caduto. Raven conosceva le note, a parziali tratti sapeva anche suonarla; era una di quelle melodie che agivano su di lui come i movimenti di un incantatore dei serpenti, su di un cobra; essa lo calmava, lo distoglievo dalle preoccupazioni odierne su Lord Voldemort, sulla morte, sul dolore, sparso ovunque, e sulla vita, ahimé, sempre più pesante, marcia, e forse anche buia. Non ci si poteva aspettare niente di meno da un genio, il cui nome era destinato all'eternità, e la cui Arte non poteva che venir scoprta, riscoperta, e scoperta ancora da generazioni sempre più nuove, ma ugualmente passionali. Sì, miss Goodheart aveva terribilmente ragione, e il silenzio di Raven, non faceva altro che sottolinearlo, non faceva altro che dare il giusto peso alle sue parole, poiché ogni altro termine umano non poteva che diminuire il significato di quel silenzio. Ogni parole, ma anche gesto, che Raven avrebbe espresso o detto, avrebbe semplicemente diminuito il genio umano di Beethoven, e forse anche della comprensione delle cose di miss Goodheart; una comprensione decisamente simile a quella di Raven, ma umana, diversa, forse femminile, forse meno piena della passione di Raven per il combattimento, e per il silenzio. Non minore o maggiore, migliore o peggiore, ma semplicemente diversa, o diversamente intuibile. In compenso alla risposta, Raven ben osservò il cordiale sorriso della giovane donna. Ah, quanto era ancora giovane! Ah, quanto era graziosa, li, danzante tra i riflessi delle stelle nella neve, a sorridergli, e parlargli di Beethoven, e delle sue composizioni eterne! Forse era quel soffio di purezza di cui Raven aveva bisogno per rendersi conto, che il mondo non era ancora completamente caduto nella trappola della fierezza individuale, nella trappola del marcio, del "voglio io" e del "egoismo" gratuito. Vi era ancora qualche speranza nel cambiare senza grandi spargimenti di sangue, e quella donna non faceva altro che confermarlo, non solo con la sua intelligenza e cultura, non solo grazie alle sue conoscenze, ma anche e sopratutto grazie al suo comportamento, e al corso dei suoi pensieri. O forse... Forse soltanto grazie all'intuibile purezza del suo cuore; una purezza, forse destinata a cambiare le sorti di quel mondo, da sempre immerso nella tristezza dei eterni conflitti; o forse nel cambiarlo, ma affondandolo ancora di più nel sangue, nel dolore, nell'odio e nella vendetta per via delle proprie perdite e dei propri pensieri. Osservando il movimento delle braccia della giovane addomesticatrice, Raven non si mosse. Aveva freddo? Certo, poteva regalargli il suo mantello, ma sarebbe stato decisamente più prolifico invitarla nel castello, nei sotterranei, nella sua residenza spartana e priva di ogni lusso materiale, ove lei, Aquileia Goodheart, avrebbe potuto ammirare in che condizioni si ritrovava il giovane professore. E difatti, osservando quel suo gesto, Raven aprì bocca per replicare, ma ecco che, con malinconia osservando i corpi celesti, replicava Aquileia. «No.» – Replicò secco, tornando anch'egli ad ammirare le stelle. Erano eterne quasi loro. Forse meno eterne di Mozart e di Beethoven, ma pur sempre... infinite. Eh! Quanto anch'egli avrebbe voluto risplendere di luce propria, diventare una stella, e fungere da guida per i giovani maghi in cerca di qualcosa! Poi tornò a guardare il vuoto, buio e misterioso, tra una stella ed altra. Anche quel buio lo affascinava! Vuoto, ma anche pieno. Senza di lui non ci sarebbero mai state le stelle; se non ci fossero stati i periodi bui, non ci sarebbe stata nemmeno la luce... Era così che funzionava, davvero. Una parte si completava con l'altra: il bianco contrastava col nero, ma in contempo formava il grigio. "Pazzesco". «No.» – Replicò di nuovo, ancora fermamente scuotando la testa. - «Queste opere non si possono paragonare, miss Goodheart.» – Disse Raven. - «Sono due opere estramente diverse: i notturni sono un viaggio, lungo e profondo, fin dentro la notte, fin dentro le stelle, fino dentro il significato che loro hanno; mentre la Sonata al Chiaro di Luna, non è tanto un viaggio in questi misteriosi elementi, quanto un viaggio nella loro immensa bellezza, quanto un viaggio in loro stessi. Se Chopin esprime il profondo significato della notte, delle sue ore, pause e minuti, Beethoven, d'altronde, ci porta dritti-dritti al fascino della Luna, e potere che questo fascino esercita su di noi, umani. Se il primo entra nell'elemento, facendocelo comprendere e percepire, il secondo entra nell'Idea stessa di quell'elemento, facendola apparire così, come dovrebbe essere: pura, misteriosa, priva di influenze esterne e di significati strambi. Sono anche molto diverse per stile, e quindi anche per profondità...» "Ma." - Avrebbe voluto aggiungere Raven in seguito. - "Questa è solo una mia opinione. Non l'opinione di un musicista, ma di una persona qualsiasi, che i notturni nemmeno li ha ascoltati tutti...". E invece tacque, continuando, con lo sguardo completamente glaciale e tranquillo, a guardare i puntini luminosi sparsi per il cielo. Chissà se anche Beethoven e Chopin vedevano ciò che vedeva lui; chissà se anche loro si nutrivano di quell'atmosfera in contempo tangibile e misteriosa, come a poterla afferrare, e trasformavano i suoi sentimenti in note su un pentagramma. Certo era però che entrambi loro la notte la comprendevano molto diversamente, e, forse, Chopin più umanamente di Beethoven. «No.» – Disse di nuovo Raven, tornando poco dopo ad ascoltare la nuova affermazione. - «Non ho un compositore preferito, miss Goodheart. Mi piacciono tutti. Ma,» – continuò, lentamente volgendo lo sguardo verso la esile figura della giovane donna. - «ho due opere in assoluto preferite su tutte le altre. E' la sinfonia numero 45 di Haydn, e il Requiem di Mozart.» – Disse, ricordandosi le parole dello stesso Mozart, a proposito della, - a parere di Raven, - sua opera più grande. "Ho paura che sto scrivendo un Requiem per me stesso". E così fu, come succede spesso con le menti brillanti e colte, con gli uomini destinati a essere stelle e non pianeti. Morendo, Mozart non riuscì a completare l'opera, ed essa venne ormai finita da uno dei suoi migliori allievi. "Chissà come sarebbe stata, se fosse stato Mozart a finirla...". - Spesso si chiedeva Raven, ascoltando la parte dell'Introitus, e quella del Dies Irae, dentro l'opera le sue preferite. Se fosse stata diversa, lo sarebbe stata non di molto, ma giusto un po'. Prima di morire, quel geniaccio era riuscito a lasciare un'ultima stella, un'ultimo canto del cigno morente, proprio come nel caso di Beethoven, e, splendendone, andarsene da quel mondo con la testa alta. «Un Dio.» – Disse Raven a voce alta, perdendo del tutto la propria glacialità e infuocandosi in un attimo, con quel calore tipico designato alle anime in grado di donarsi, amare, soffrire ed accendersi, quasi con le lacrime che gli volgevano agli occhi al solo pensiero di quel Requiem, ascoltanto nelle grandi cattedrali, in un'atmosfera di sacralità e purezza d'animo pura. Sì, diamine, lo era. Mozart era un Dio, intoccabile, puro, semplice e complesso in contempo, che sapeva manipolare coi mille colori e mille emozioni, che si elevava, facendo percepire cosa combinavano li, nel Paradiso, sul Monte Tabor, ma anche nel Limbo e altrove. Lui era Achille, e Beethoven era Ettore; Mozart non aveva punti deboli, semplicemente, mentre Beethoven... si, li aveva, ma soffriva come gli umani, suonava come gli umani, trepidava come noi, umani, e proprio in questo splendeva. Del resto, sì, tra Achille ed Ettore Raven da sempre ammirava di più Ettore, proprio per la sua capacità di essere il migliore tra gli umani, per il non esere mai stato emerso in un fiume fatato, e di avere molti punti deboli, ma in contempo dell'essere umano, del sentire sempre la morte vicino, e per questo vivere, vivere davvero. Ma no, non in quel caso... «Se proprio mi costringesse a scegliere un compositore preferito, miss Goodheart, penso che le direi di preferire più Mozart rispetto a Beethoven.» – Sì, diamine! Mozart! Mozart! Mozart! E ancor Mozart! Anche lui pieno di pathos umano, anche lui pieno di emozioni, sofferenze, corde, dolore, dell'amore, ma anche della morte, delle lacrime, della sinfonia numero 40 e di quella numero 25, di Figaro e del suo matrimonio, ma anche della musica sacra, elevata, e in contempo passionale. E le sue sonate! Le sue sonate al piano! "Parliamone!" - Volle gridare a chiunque che lo avrebbe contradetto in quel momento, per poi saltargli addosso con pugni, calci, sputi, Sectusempra, e quant'altro. In fondo, ahimé, Raven era ancora un bambino che faceva tanto l'oscuro e il glaciale, ma che si scioglieva, e tornava ad essere bambino non appena iniziava a percepire tutto il significato nascosto nel termine Arte, e in quello che ne derivava. Un cuore! Ce lo aveva ancora un cuore quel ragazzo; sì che ce lo aveva. Il mondo! Sì, lo percepiva, lo studiava, e lo vedeva. Viveva ancora grazie alle passioni, alla sua capacitò di comprendere, di capire, di entrare in un concetto, di vederlo nel suo Iperuranio, e per questo di farselo suo. "E allora Haydn!?" - Volle dirle, quasi gridando, pur limitandola con uno solo sguardo. - "E allora la sinfonia numero 45? Quella che ti fa sembrare il mare, le onde, l'oceano, quella che ti sbatte contro le rocce, ancora, ancora, ancora e ancora, finché il sangue non ti bagna gli occhi, finché il suo sapore non inizia a bagnarti la lingua, e finché capisci che tutto è perduto, che sei morto, che la tua anima sta per raggiungere l'Eterno, e che tutte le tue passioni, i tuoi combattimenti, bha!, anche i tuoi limiti, non sono destinati a far altro che fallire, a non-essere, a perdere... E poi BOM! Ecco li che tu, l'acqua, le onde, l'oceano, inizi a dare forma alle rocce, inizi a spaccarle, a designarle, a sottomettere, a fartele sue! Inizi a bucare il muro dopo l'infinità di volte che ci sei sbattuto! Inizi a vincere... Sì, inizi a sembrare quel Ettore da sempre destinato a perdere contro Achille, e che ora, alla fine della sinfonia, sta vincendo! Sta vincendo grazie alla sua umanità alla sua sofferenza, al suo non essere divino, alle sue carni, ossa, ma anche al suo spirito!". Un solo sguardo non avrebbe potuto dirle tutto quel che Raven pensava, non avrebbe potuto farle capire cosa lei, domatrice, aveva acceso in lui, un bambino troppo cresciuto, un bambino che aveva tolto vite a destra e a sinistra, ma che era ancora un fanciullo, e che il mondo, i suoni, le parole, i termini, gli faceva suoi così, da fanciullo! Lei lo aveva reso di nuovo umano, diamine. Gli aveva fatto comprendere, che essere il più forte, che il non poter essere toccato da nessuno, dell'essere un Achille, non lo sollevava dalla responsabilità del poter soffrire con gli altri, e quindi di essere in contempo anche un Ettore! Mesi e mesi di preparazione, del sembrare sembro calcolate, freddo e glaciale, stavano andando sotto la coda di quel Thestral al solo ripensare alla sinfonia numero 45, la sua opera di musica classica preferita. A quel diamine di Sturm un Drang, tipico tedesco, che ti accendeva come un fiammifero, e che ti gettava da solo contro un esercito, contro chiunque, anche in uno contro un milione, sapendo che vincerai, vada come vada, soltanto grazie alla forza dle tuo spirito! Who! Quella donna sapeva porre le giuste domande per accendere in Raven la passione, per tirargli dal suo interno quelle scintille, fiamme, quel raggio di Volontà, di metallo, che egli si portava dentro. Lei! Cavolo se lo sapeva! Che fosse la sua anima gemella?! Nessuno era riuscito a trasformarlo in quel tipo, nessuno, nemmeno Aryadne, aveva mai trovato la chiave per infuocarlo come un bastione sulle nevi dell'oriente, e il lucidio, brillante e strepitoso, dei suoi occhi, dell'espressione del suo sguardo, non poteva che significare una sola cosa: aveva fatto centro. Aveva fatto il centro dei centri, non dritto all'anima di Raven, ma altrove – fin dentro il suo cuore. Come? Con una sola affermazione... Affermazione che lo aveva portato a riscoprire Mozart, e dali Haydn, e dali la numero 45, e da li... Wow! Un universo intero di cose. Una sinfonia che rispecchiava Raven completamente, che lo descriveva in ogni dettaglio, che disegnava quel carattere, quella persona, che come un oceano si abbatteva su quel sistema ingiusto e putrido, senza risultato, ma modificandolo piano-piano, e, nel risultato finale, spazzandolo via del tutto. "La chiave, miss Goodheart". - Pensò Raven guardandola. - "La chiave". Già. Che chiave? Cos'era ad attrarlo, a scongelarlo, a renderlo più umano, più vicino? L'atmosfera della misteriosa figura, quella limpidezza delle parole e dell'essere, quel tipico preoccuparsi,vivere, soffrire, averei dei legami, una storia, delle immagini da raccontare e condividere, ma in contempo forse era anche ingenua, considerando che il suo cuore, e Raven ne era certo, risultava, ad intuito, il più puro fra i puri, lontano anni luce da quei dolori, nei quali Raven era affossato, nei quali si era incastrato, abituato, e dei quali, alla fin dei conti, aveva ben imparato a godere. Il dolore ora era una parte indivisibile da lui, era una aprte del sé, era quella parte spaventata della donna li affianco, quella che avrebbe voluto compiere una divisione completa e totale, spuntare fuori da Raven a mò di ombra, e correre, correre, correre verso la notte, trovandoci riparo e nascondiglio... E poi c'era anche l'altra parte, forse ora più presente nello sguardo del Mangiamorte; era la sua parte luminosa, quella poetica, quella che non avevava ancora dimenticato di poter semplicemente amare, o, ahimé, anche di poter essere. Essere per davvero. «Quando parlavo dell'esagerazione, miss Goodheart, intendevo dire che l'esagerazione nelle sue mani, diventava comunque un esagerazione tangibile, voluta, e quindi una di quelle che doveva esserci nel brano, che il brano lo distingueva dai brani altrui... Quell'esagerazione sfonda il tetto, semplicemente, trasportando l'ascoltatore» nei mondi lontani almeno per un attimo, e poi facendolo tornare li, tra le braccia della dolorosa agonia, tra le braccia della morte, ma anche della passione; dell'amore, ma anche del dolore delle perdite... – "E sa qual'è la perdità più grande miss Goodheart?"- Avrebbe pensato di colpo fermandosi e osservandolo fin dentro le iridi. -«E' la più grande perdità è la perdità della della possibilità.» – Il poter dire "ti voglio bene" a un cadavere non basta, il poter affermare che si era dei buoni amici, o amanti, o anche due spezzoni di uno stesso cuore... Il poter porgere la spalla, donare un bacio, essere un amico, trasformarsi in eroe, poi tornare umano e regalare un sorriso... Tutte queste erano possibiltà che, una volta perse, mai avrebbero potuto esserci di nuovo. Tutte queste possibilità andavano sfruttare durante la vita, per essere uomini e non spettri, per poter dire "Grazie, solo perché esisti... Così, senza nessun motivo... Perché ci sei nella mia vita", e quindi vivere per davvero, e morire per davvero; morire come un cigno, come un piccolo cigno, la fine delle passioni del quale sarebbe stato un dolore insopportabile per alcuni, e una gioia mirabolante per altri... Eppure... A pensarci tutto questo per Raven non era altro che una fantasiosa logica, un lontano miraggio. Era la sua parte umana a cantargliene anche li, nel giardino, e lui, ben conscio che mai sarebbe tornato indietro, e mai l'avrebbe accettata, non faceva altro che camminare in avanti, di tanto in tanto invidiando qualcuno per una tensione dell'essere maggiore, per un sorriso, o sguardo, più profondo. Eh, e come invidiava quelle persone! Come invidiava le loro debolezza, il loro poter morire, le corde del loro cuore, sempre tese, sempre pronte a spezzarsi! E lei, ammiratrice di Mozart, il cui cuore, più puro dell'acqua del fiume, battendo, le avrebbe regalato ancora quella droga di cui Raven andava privandosi: le emozioni, il poter vivere. «Ha ragione miss Goodheart.» – Avrebbe semplicemente affermato il ragazzo giapponese, rispondendo al fatto che Beethoven e Mozart non erano sullo stesso stile. Poi, fatto silenzio, avrebbe continuato ad ascoltare quel che la giovane domatrice aveva da dire in proposito ai due. E sopratutto per un attimo si chiese fin dove arrivasse la sua cultura nel campo, cosa conoscesse, cosa trascurasse, quanto in profondo, la giovane donna, aveva solcato quei mari di musica passionale, che, a suo tempo, avevano incantato Raven nel totale e completamente. "Ti sfida?" - Pensò Raven ascoltando le parole della giovane donna. Quasi gli venne da dire che se Mozart lo avesse sfidato, lo avrebbe semplicemente appeso con la testa in giu su di un albero qualsiasi nella foresta, ove avrebbe avuto a che fare con icantropi centauri, mostri, troll, e quant'altro; poi però ritenendo quel commento un commento troppo banale e infantile, quasi irraguardante verso la situazione, Raven si astenne, preferendo percepire le note della notte, e i loro sussulti intorno a lui. "No". - Si disse infine Raven. A lui non era successo. Mozart non lo aveva sfidato. Mozart gli aveva dato il proprio avambraccio mentre lui era disteso a terra senza forza alcuna, e lo aveva alzato, lo aveva rimesso in piedi, gli aveva donato le forse per comprendere e per continuare a lottare, per non arrendersi, per infiammarsi, per capire il significato del silenzio, della forza, del coraggio, dell'essere leali, ma anche del sfruttare le giuste occasioni. Mozart era quello che albergava nei cieli, un angelo, - "Proprio come lei, miss Goodheart", - che scendeva ogni tanto, a mò di scintilla, e con il proprio marchio dorato sceglieva qualcuno su quella terra priva di senso, portandolo con sé, fin sopra le nuvole. «Bhe, miss Goodheart...» – avrebbe risposto Raven, tornando ad essere quell'uomo glaciale, calmo, atono e grigio, di pochi minuti prima. - «Non può pretendere che Mozart e Beethoven siano uguali. Sono entrambe delle individualità splendenti, affermatisi come tali, e proprio per questo simili e diversi.» – Già! Dovevano esserlo. Dovevano essere diversi! Del resto, erano cresciuti per essere diversi, si erano sviluppati diversamente, avevano letto e preferito cose diverse, avevano persino mangiato in luoghi diversi e pure diversamente. E nessuno, nessuno di loro, avrebbe mai voluto essere simile a qualcun altro. Perché è così, perché quando sei Mozart, quando sei Achille, quando sei Modigliani, quando sei Leonardo, sei una stella brillante di tuo, e non hai bisogno di alcun riflesso altui. Sei autonomo, sviluppato. Gli altri ti girano intorno, vedono in te quel superuomo di cui l'umanità ha bisogno per continuare a esistere, o forse soltanto riscoprirsi. Ritenere che uno possa aver influenzato l'altro, ritenere che ci fossero dei punti di contatti più grandi di quei che erano realmente, posizionarli accanto per quanto riguardava stile, composizione, scritture e altro era una blasfemia. Perché ti trasportavano e ti sfidavano entrambi. Perché la loro sfida era diversa da quelle che tu, povero-misero-umano-mortale, eri destinato a vivere. Perché Mozart scriveva le sfide bianche, e Mozart – nere. Perché erano entrambi dei geni altissimi, e il solo parlare ad alta voce di loro non poteva che considerarsi essere una blasfemia di quelle pesanti. "No, miss Goodheart," - avrebbe voluto dire, - "Una sfida senza il trasporto è incompleta, e un viaggio senza le sfide, senza le avventure, è noioso. E' per quello che ognuno di loro ha analizzato ogni singola vibrazione, ogni singola nota, ogni respiro, battito, ogni conseguenza e le sue derivazioni, ogni successo, insuccesso, ogni trepidazione... Non ci può essere Mozart senza Beethoven, miss Goodheart. Altrimenti il mondo sarebbe incompleto. Altrimenti il bianco sarebbe senza il nero, l'azzurro senza il grigio, il giallo senza viola... Così come non è possibile la luce senza ombra, miss CuorePuro. Così come non è possibile la luce senza l'ombra." Poi, immediatamente, si ricompose. Gli brillavano ancora gli occhi per via delle emozioni provato parlando di Haydn e della sua musica? No. Il gelo, il freddo, la notte, il thestral. Tutto questo aveva lasciato in lui soltanto l'ombra di sé stessa; aveva altro a cui pensare. Aveva quel vortice, vortice di sentieri e di emozioni, che lo spingevano verso il suo obiettivo – la trasformazione di quelle lande deserte in un mondo migliore, un mondo di Luce, di vera Luce! Sì, proprio come avrebbe voluto Haydn, nel mentre scriveva le "Ultime 7 parole del nostro Salvatore sulla croce". Proprio come avrebbe Mozart, nel mentre scriveva la sinfonia numero 25, e proprio come avrebbe voluto Beethoven, cieco, sordo e solo, ma con l'ultima scintilla, l'ultimo canto, nella canna del suo fucile. Raven aveva ancora tanto da dire, e difficilmente sarebbero bastati pochi per poterlo fare. Da vincitore, da vincente, da trionfatore, con un sorriso sulle labbra si sarebbe alzato sulle rovine di un mondo vecchio, mondo, in cui l'amore, quello vero, non era altro che un frutto marcio, un frutto da consumare in fretta e senza esitazioni, un mondo in cui non esisteva né il coraggio, né l'onore. Lo sapeva lei? Lo sapeva miss Goodheart tutto questo? Sapeva, che un sorriso poteva valere più di mille parole, che l'amore, quello idealista, quello trans-corporeo, quello mentale, poteva esistere? Per un attimo Raven si chiese se la sentisse anche lei quell'attrazione, provocata dagli argomenti delicati et intellettuali, provocata forse da una vicinanza sentimentale, forse da altro. Poi abbandonò il tutto, lasciandolo cadere nel vortice dei suoi ideali e della sua volontà di cambiare le cose, che, luminosa e agghiacciante, tutto assorbiva e tutto eliminava. «Sì, miss. La conosco.» – Disse, riferendosi alla poesia. Come la conosceva? Non lo sapeva dire nemmeno lui. Forse la aveva trovato da qualche parte insieme ai famosi aforismi di Chechov (quello de "Che giorno fantastico è oggi. Non se bermi un the, o impiccarmi."), forse alle poesie di Blake, insieme al Paradisto Perduto di Milton. Ma aveva importanza? L'unica cosa importante per davvero, era che la conosceva, seppur come un miraggio in lontananza, però, sì, era sua, e quelle parole delicatamente pronunciate dalla sua ospite notturna, gli tornavano in mente una dopo l'altra. Erano parole forti, docili, azzeccate, e giuste. «Però,» – aggiunse, - «la musica di Beethoven non ha bisogno di parole per entrarti dentro, ma solo di suoni. Mi sembra molto più diretta, e... passionale.» – Non che volesse offendere la poesia italiana, contrapponendola alla musica classica tedesca, è che, per un motivo o per l'altro, Foscolo, non gli piaceva, non gli dava quella nota da lui desiderata, o, in parole più pover, non lo accendeva allo stesso modo di altri (D'Annunzio, Pushkin, Lermontov, Shevchenko, Mickevich, Rimbaud, Goethe, una serie di haikuisti giapponesi e altri, altri, altri ancora). Dunque alla poesia e alle parole della giovane poeta, non rispose che con un flebile sorriso. Poteva dire e fare di più? Sì, senz'altro. Poteva mettersi a parlare anche di Foscolo, alle sue poesie cupe, quasi come la personalità di Raven, ma, ahimé, non sarebbe stato un discorso da fare. Semplicemente... preferiva altri, tra i migliaia poeti che, come stelle, sono stati sparsi nel giro del modo e dell'universo. «Mi sembra l'uso di una lingua troppo acculturata, poco capibile da chi non è italiano, e, per certi versi, molto tirata.» – Rispose, alla domanda della ragazza sull'abbraccio. Era così, e non ci poteva fare nulla. Se una poesia, strofa o rima in lui non suscitava nulla, lasciandoci piuttosto un vuoto grigio e desertico (cosa che avrebbe voluto evitare), la evitava, faceva finta che non ci fosse. - «Anche se Foscolo, in fin dei conti, è tra i migliori poeti italiani.» – Disse, quasi dicendo quella che è un'ovvietà totale su tutti i fronti e su tutte le direzioni. Poteva dire più banalità? "Ah, Raven. Finiscila di raccontare a te stesso questo tipo di banalità romantiche... è da... è da bambini hehe". Di nuovo scuotendo la testa, Raven ascoltò l'altra affermazione della giovane domatrice. «Conosco anche D'Annunzio.» – Sorridendo appena-appena disse Raven. - «E' il mio secondo preferito poeta italiano, se non tra i preferiti in assoluto.» – Disse serio. Sì, non mentiva. Non mentiva per nulla. Adorava anche lui La pioggia nel Pineto. Quella era l'essenza dell'esteta, dell'esteta ancora in vita, di quello che conosceva il modo per vedere sin dentro la pioggia, per vedervi dell'innata bellezza, creata da chissà quali mani. - «E piove su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l'anima schiude novella, su la favola bella che ieri m'illuse, che oggi t'illude, o Ermione. » – Finì Raven, quasi da sé, forse contrapponendo la fine all'inizio, o forse, semplicemente sottolineando, che quella poesia era divinamente bella nella sua completezza, che era così come doveva essere, che era completo, e spplendeva di luce biancastra in ogni sua parte, in ogni rima, frase, strofa, o persino pensiero. Se davvero vi esisteva un mondo delle idee, come qualcuno affermava, l'idea della pioggia nel pinero era sua, era decisamente sua, era decisamente di Raven, che in quelle parole, italiche, affascinanti, vedeva un mondo intero, come un infinito universo all'interno di una goccia sola della mirabolante pioggia. D'Annunzio era un genio, e bisognava dargliene atto. "O Ermione!" «E' appassionata di poesia, miss Goodheart?» – Chiese, quasi d'un tratto, , quasi sorridendo, forse arrossendo, e fermandosi poco dopo che la ragazza finì di esprimere i suoi apprezzamenti al riguardo di quelal poesia... Era una domanda lecita? Era una domanda opportuna? Sospirò nella neve, osservando le stelle brillare lontano, proprio come gocce di quella pioggia, decantata e descritta, sentita, percepita, e vissuta. - «E della Bella Arte?» – Chiese, riferendosi a tutto quel mondo di lotte, di duelli, di colori, più che suoni, che avevano, anch'esse, fatto monumenti ai fenomeni naturali, ai sentimenti umani, agli eventi e a una storia vissuta. Riferendosi a Caravaggio, a Picasso con il suo cubismo, a Modigliani, morto nel suo genio, a Roberto Ferri, i cuoi quadri soprendevano Raven sempre di più, per via dei suoi dettagli, di Monet, e le sue nuvole bianche, i suoi colori leggeri, quasi come se fossero assente. Poi ci ripensò: se avesse iniziato a parlare anche delle tele famose, del modo di esprimere le cose, di disegnare, di Rembrandt e Van Gogh, avrebbero finito a parlare in mattinata presto, e solo e soltanto per colpa di quel suo amico, pittore, che nella gioventù gli faceva scoprire quel mondo di colori misto ad immagini e ombre. «Sì.» – Disse Raven. - «La pioggia nel pineto è assolutamente una chicca; una poesia emozionante e mozzafiato. E su questo mi trova completamente d'accordo, poiché è impossibile dimenticarla, e una volta che si inizia a leggere, vien difficile da staccare gli occhi.» – Poi sospirò, guardingo. Perchè aveva iniziato a parlare della poesia con una domatrice che, inseguendola, aveva fatto finta di averla scambiata con un mangiamorte? Quel ragazzo era il paradosso, la contraddizione camminante, e a ogni respiro compiuto se ne accorgeva sempre di più. Vi poteva essere dell'altro in quel mondo illusorio, in cui il movimento non esisteva, alcuni inifniti erano più grandi di altri infiniti, la logica spesso ti portava al risultato sbagliato, e la vita di ognuno non era altro che il sogno di un qualche Dio tanto immobile quanto oscuro? "Me ne parli ancora..." Sorrise. «Ecco perché nell'intime cogitazioni io sento la bestemmia dell'angelo che irride al suo tormento, o l'umile orazione dell'esule dimone che riede a Dio, fedel. » – Disse, togliendo lo sguardo dagli occhi, bellissimi e profondi, della signorina, e tornando a guardare il vuoto, che alleggiava sulle acque del Lago Nero. Prese un sospiro, quanto a voler comprendere, che quei versi erano suoi, che lo descrivevano, che se le sentiva come se gli bruciassero dentro, come se fossero davvero suoi, come se fosse stato lui stesso ad averle scritte, tanto tempo fa, quando non era ancora nato nel suo corpo, e ogni idea, ogni mirabolante fantasia sembrava lontana, come un sogno. Poi continuò, improvvisamente girandosi verso Aquileia, e venendole incontro, vicino, sempre più vicino, fino alla distanza di un sguardo solo. «Ecco perché m'affascina l'ebbrezza di due canti Ecco perché mi lacera l'angoscia di due canti...» – Distolse lo sguardo dagli occhi di Aquileia, guardando di nuovo nella foresta, ove l'oscurità regnava su ogni altra cosa. «Ecco perché il sorriso, che mi contorce il viso... ...o che m'allarga il cuor.» – Poi si girò, volgendo la schiena alla donna, e, continuando a camminare verso il lago, continuò a pronunciare i versi che tanto gli piacevano, e che tanto aveva fatto come suoi. Diamine! Se non erano belli... Forse, se qualcuno l'avesse contradetto in quei istanti, egli l'avrebbe semplicemente buttato nel lago, senza poi farsi troppe domande in merito alla cosa. «Ecco perché la torbida ridda de' miei pensieri, or mansueti e rosei, or violenti e neri; ecco perché con tetro tedio, avvincendo il metro de' carmi animator. » – Li sentiva miss Goodheart quei versi? La sentiva quella vibrazione? Quei sospiri, a delle volte rosei, a delle volte neri? Raven gli stava dando la chiave, gli stava dando ciò che, forse, cercava. Attraverso una poesia sola gli stava dicendo chi era, cosa ci faceva, cosa voleva, e cosa avrebbe trovato. Arrivato sulle sponde del lago, avrebbe aumentato il volume della voce, facendo in modo che Aquileia la sentisse. Era la poesia che, del resto, lo richiedeva! Era la poesia. La poesia, i versi, lettere e le idee che le persone dal cuor idealista amavano. «O creature fragili del genio onnipossente!» – Quasi gridò, volgendo lo sguardo, un misto di agitazione e rabbia, un misto di sfida e volontà di superare forse anche il Creatore, verso le stelle. Poi si ricordò, sì. "Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, ancora una volta, la nostra sfida alle stelle!". «Forse noi siamo l'homunculus d' un chimico demente, forse di fango e foco per ozioso gioco un buio Iddio ci fe'.
E ci scagliò sull'umida gleba che c'incatena, poi dal suo ciel guatandoci rise alla pazza scena e un dì a distrar la noia della sua lunga gioia ci schiaccerà col pie'.
» – Quindi si fermò, e sorrise. Quasi come per chiedere se dovesse continuare, ma in contempo fissando lo sguardo bicromatico di Aquileia, penetrando con il suo sguardo oscuro fin dentro le più remote corde della sua anima. «Talor, se sono il demone redento che s'india, sento dall'alma effondersi una speranza pia e sul mio buio viso del gaio paradiso mi fulgureggia il sol. » – Eccola la sfida, ecco lo sguardo, ecco ciò che voleva dire, ecco chi era... Lo sfidante che comprendeva quanto sciocco era, e che, in contempo, non smetteva di lottare, che non lasciava la sua missione, che continuava a camminare, luminoso, splendente, avendo contro tutto il mondo. Ecco che lo sguardo di Raven di nuovo si avvicinava alla dama misteriosa, ecco che le sue labbra parlavano ancora, questa volta riferendosi, forse, a lei stessa. «L'illusion-libellula che bacia i fiorellini, -l'illusion-scoiattolo che danza in cima i pini, -l'illusion-fanciulla che trama e si trastulla colle fibre del cor,
viene ancora a sorridermi nei dì più mesti e soli e mi sospinge l'anima ai canti, ai carmi, ai voli; e a turbinar m'attira nella profonda spira dell'estro ideator. » Poi si fermò, quasi di colpo, come a voler vedere che effetto avessero avuto quelle parole sulla giovane donna; cosa avessero provocato in lei. Diamine! Lui pensava che non esistevano parole più mirante, migliori, più azzeccate di quelle per descrivere il mondo, ma anche per descrivere lui, Raven, un infinito mondo all'interno di un infinito universo. Sorrise. «E sogno un'Arte eterea che forse in cielo ha norma, franca dai rudi vincoli del metro e della forma, piena dell'Ideale che mi fa batter l'ale e che seguir non so. » "Ideale... Quell'ideale... Parla di quell'ideale...". «Ma poi, se avvien che l'angelo fiaccato si ridesti, i santi sogni fuggono impauriti e mesti; allor, davanti al raggio del mutato miraggio, quasi rapito, sto:
e sogno allor la magica Circe col suo corteo d'alci e di pardi, attoniti nel loro incanto reo. E il cielo, altezza impervia, derido e di protervia mi pasco e di velen.
» – Quella poesia era stata scritta per lui su misura molti secoldi prima della sua nascita. E il cielo, altezza impervia... Come se fosse li, accanto, il tabor, il paradiso, l'eden, il cielo. Come se gli dei fossero diventato uomini, fossero tangibile, come se fosse tangibile un universo intero. «E sogno un'Arte reproba che smaga il mio pensiero dietro le basse immagini d'un ver che mente al Vero e in aspro carme immerso sulle mie labbra il verso bestemmiando vien. » – "d'un Ver che mente al Vero" – Ripensò, ancora guardando la fanciulla, sicuro, da vicino, fin dentro alle sue iridi, fin dentro la sua anima, fin dentro... Ah! Sospirò, sentendo che quelle parole erano il veleno della gioia, perché soltanto una mente sopraffina e geniale avrebbe potuto scrivere un'opera d'Arte pura e semplice. Solo un genio... «Questa è la vita! L'ebete vita che c'innamora, lenta che pare un secolo, breve che pare un'ora; un agitarsi alterno fra paradiso e inferno che non s'accheta più!
Come istrion, su cupida plebe di rischio ingorda, fa pompa d'equilibrio sovra una tesa corda, tal è l'uman, librato fra un sogno di peccato e un sogno di virtù. » – Poi si fermò. Di colpo. La poesia era finita, e con la poesia, sembrava fosse finita anche tutta la vita di Raven, tutte le sue sofferenza, tutti i peccati, gli omidici, tutta la passione, l'amicizia e l'amore, il tradimento i nobili ideali. Diamine, vi era tutto. Persino quel sogno di virtù, li, dopo, dopo che il suo corpo fosse privo di ogni scintilla di vita, di ogni fiato. Una lacrima si avvicinò al suo occhio destro, ma non per farlo farlo, per tenersi ancora addosso quella maschera del duro professore, Raven girò di scatto e fece per pulirsi un occhio, come dalla sabbia. «Questa è la mia poesia preferita, miss Goodheart.» – Disse, con la voce triste e malinconica. - «E' la mia poesia preferita in generale, e non soltanto sulla penisola italiana. Lei... lei...» – si fermò, sentendo che gli stava arrivando un bolo alla gola, di quelli che impedivano di continuare a parlare. - «Lei è tutto.» – Disse semplicemente, come a voler confermare quei suoi sentimenti, quei suoi pensieri, quel suo essere e vivere. Arrigo Boito era un genio. Un genio incompreso, come molti, ma pur sempre un genio, e di questo Raven ne era assolutamente certo. Nulla accadeva per caso, dicevano alcuni... E quella poesia l'aveva scoperta proprio così, grazie al Caso, alla coincidenza, e gli piacque, sin da subito, sin dai primi versi. La lesse più e più volte, d'un soffio, godendosela, immaginandosela, gustandosela. «E lei?» – Chiese Raven. - «Qual è la sua poesia preferita?» – Chiese. - «Me la racconti, per favore.» – Disse, di nuovo glaciale, tornando a fissare la signorina nelle iridi, a 1 metri dal suo viso, così giovane e bello, ma dinnanzi al quale, ne era sicuro, c'erano mille battaglie, c'era il dolore, il sangue e la disperazione. C'era la perdita, e non solo della possibilità, ma anche la perdita, forse, dell'anima. Gli sarebbe dispiaciuto trovarsela di fronte su un campo di battaglia, e Raven questo lo capiva fin troppo bene. Sentiva qualcosa verso quella figura, e spazzarla via dalla sua strada... No, non poteva fare altrimenti. Gli ideali, i bisogni, un mondo migliore andava oltre i suoi sentimenti egoistici, oltre ogni cosa possibile, oltre ogni possibile... sì, oltre ogni possibile amore o attrazione. Del resto, si era promesso che avrebbe ammazzato, torturato e fatto fuori chiunque vi si ponesse tra di lui e il suo scopo, e non poteva disobbedire alle sue parole, non poteva fare altrimenti, e avrebbe senz apietà ucciso chiunque, anche suo fratello, per realizzare i suoi sogni. "Il mondo non è un ufficio esaudimento desideri..." - Gli disse la sua sua mente, continuando un monologo mai interrotto. Non aveva mai avuto dei desideri, a parte un solo, unico desiderio. Tutti gli altri erano finalizzati a quello, tutti gli altri erano solo gli ostacoli sulla strada per raggiungere quel che desiderava, quel che voleva. Era così, e non ci poteva far niente. Era egoisti. E aveva un sogno. E l'avrebbe realizzato, spazzando chiunque, anche Leia Miss CuorePuro via, come una foglia al vento autunnale. Sorrise, e scosse il capo. Che vi esistesse una lotta dentro di lui? Una lotta per divenire migliore? Era già migliore. Era già migliore di molti. Era già... "No, Raven". - Diceva. - "Non sei migliore, sei peggiore. Sei senza dignità... dignità... dignità...". In un attimo volle portarsi una mano al capo e portarsi via quella voce, soffocarla, stringerla, ucciderla, ammazzarla. Poi però tacque, ascoltando la notte. Ascoltando le fronde degli alberi, i salici, ammirando il silenzio, l'armistizio, durante il quale nessuna voce osava sollevare alcuni dubbi di sorta, durante il quale non vi era alcun duello, la Pace, che Raven desiderava godersi prima della ripresa dei colpi, prima delle mani e piedi volanti, prima dei volti addolorati e delle famiglie distrutte. "Non sono più un bambino". - Pensò sincero. - "Ma ho paura comunque". Poi tacque. "Ci si abitua", sentì, come se a Durmstrang lanciare i coltelli contro un bersaglio era del tutto normale. Doveva farvici una visita in quel castello; doveva arruolare qualcuno, creare qualcosa e avviarsi verso una destinazione ancora sconosciuta. «Sì.» – Disse serio. - «Ci si abitua sempre, e a tutto.» – Continuò ancora, serio e glaciale come prima. "Ci si abitua sempre a tutto", venne a dirgli. Ci si abitua alle malattie mortali, al fatto che ti tolgono la famiglia, ci si abitua quando il Ministro ti toglie lo stipendio, ci si abiua quando una famiglia muore di fame, ci si abitua quando 3 deficienti stuprano una donna, e anche quando un idiota a caso ruba e pesta una nonnina di 80 anni... Ci si abitua. E quando si reagisce? In quel mondo, basato sul non-fare, sul falso perbenismo, sulle maschere sempre presenti sui volti di tutti, non si reagisce mai. Tanto va sempre tutto bene finché il dramma della vita non ti tocca, finché non devi scendere tu, in prima persona, nel campo. Va sempre bene, finché non devi sacrificare qualcosa di tuo.., forse la vita, forse altro, forse gli arti, forse l'onore, forse la dignità. "Et." - Sospirò. Le cose funzionavano così in quell'universo, e tutto e tutti si piegavano alla legge della Forza. Non aveva ragione chi, realmente, la ragione ce l'aveva; aveva ragione il più forte, forse il più subdolo, forse il più ingannevole e meschino. Aveva ragione colui che conbatteva per averla, e non colui che, per via della logica o di altri inganni, sembrava averla. Tutto questo era vuoto e sciocco, privo di senso. Raven aveva bisogno solo di una boccata d'aria, di uno stop, di una pausa per pensare e riprendere, per fare i suoi calcoli, logici, ma solo in quel caso, e poi per muoversi di nuovo verso la sua destinazione, al tempo stesso nota e sconosciuta. Il Thestral non gli metteva paura. Li vedeva sin da bambino quelle creature, al tempo misere e potenti. Li vedeva, li accarezzava, sapeva entrarci in contatto, e sopratutto, li ammirava. Loro, che erano riusciti a resistere nonostante tutto, nonostante il dolore, e nonostante il fatto, che fossero stati creati al puro scopo di essere visti da coloro, che avevano conosciuto (e qualcuno anche apprezzato), la morte. Dopo aver brevemente accarezzato il muso del Thestral, Raven guardò la signorina. Era preoccupata? Era dibattuta? Non capiva cosa fosse quell'agitazione, quei cambi, quei "Demoni". Non capiva che passato abbia potuto avere... Non capiva il motivo per cui si era ritrovata li, con lui, l'uomo più pericolo di tutti dopo Lord Voldemort, a disquisire su poesia e musica, pittura e Arte in generale. Non capiva, e voleva, - diamine, come lo voleva! -, capire, cosa nascondesse il suo cuore, oltre alla purezza più limpida e al bagliore più chiaro. No. Ne era certo. Quella donna non avrebbe spedito ad Azkaban una mosca. Lei non avrebbe ucciso, non avrebbe odiato, lei sarebbe morta, perché i troppo buoni muoiono per primi.Perché quelli che lottano e combattono secondo le regole della Lealtà, sono destinati alla tomba, e solo coloro che si elevano sopra ogni altra morale, sopra ogni altro uomo, sopra le regole, sopra la magia... Solo loro sono in grado di vivere per sempre. Solo loro, come diceva Nieztche, sono in grado di diventare superuomini, e fungere da guida. Sì, per tratti Raven pensava che Nieztche si sbagliasse. Per altri tatti – che avesse ragione. Era in disputa continua con sé stesso quel "occhi a mandorla", ma in quel frangente, sentendola parlare dei suoi demoni, non poté far altro che pensare a come sarebbe finita, a come i demoni l'avebbe sovrastata, cattura, e uccisa. Perché non bastava saper tirare i coltelli contro un bersaglio e addomesticare i draghi per poter lottare contro i demoni, del passato, del presente e di quelli futuri. Perché i demoni, spesso, anche loro lanciano i coltelli, anche loro addomesticano i draghi, e anche loro, a differenza di quelli leali e sinceri, uccidono, senza pietà, senza ripensamenti. "Io non combatto contro nessuno, miss Goodheart". - Gli venne da dire, quasi sinceramente, ascoltandola. - "Sono gli altri che combattono contro di me. Io cammino soltanto sulla mia strada. Faccio quel che sono destinato a fare, e se loro si mettono di mezzo, miss Goodheart, è solo colpa loro, e non colpa mia. Io non li combatto. Io li spazzo via con il benestare dell volontà universale delle cose... Si ricorda cosa scriveva Crowley, miss Goodheart? Si ricorda Thelema, il culto della volontà? Si ricorda, che se la mia volontà è quella di cambiare il mondo, ed è in linea coi bagliori universali, allora chiunque si infrapponga fra me e il mio obiettivo merita la morte, poiché oppostosi al volere dell'universo intero? A differenza sua, non ho nemici, miss Goodheart. Ho solo persone che cercano di portarmi mia via il mio Desiderio, ma saranno loro ad essere portate via. Saranno loro a perire...". «Non so lei,» – disse Raven quindi, - «ma io la mia perdita l'ho accettata con non pochi sussulti prima, e dopo quasi a cuor sereno. Del resto, "niente muore, a meno che non sia già morente", come disse un pittore austriaco morto a Berlino, e "Niente succede per caso", come dissero molti altri. Dunque devo accettare quel che è successo, e altrimenti non posso fare. Altrimenti... Altrimenti... E' la volontà di un architetto più grande, geniale, colui che decide, e colui che sa cosa è bene, e cosa è male. Io, dal mio basso, rispetto solo la sua volontà.» – "E se ho perso la mia famiglia, è perché vi era un motivo: così doveva essere, per me, ma anche per loro, per quegli esseri deboli, esseri incapaci di difendersi e di vivere... Selezione naturale, miss Goodheart. Niente di che." Tanto morire vent'anni prima o dopo, poco importava. Quel che importava per Raven, per quanto riguardava la morte, e morire Bene. E nessuno, né suo padre, né sua madre, ci erano riusciti nella fatidica impresa. Spettava dunque a lui il turno? Sorrise, poi continuò. «E per vedere l'abisso, miss Goodheart, non serve nemmeno perdere qualcuno. Basti andare a King Kross a mezzogiorno e vedere i volti dei babbani ivi presenti. Si renderà presto conto che sui loro volti c'è già l'abisso. Che l'abisso è ovunque. Che ora, sopra le nostre teste, tra i puntini luminosi nel cielo, c'è un abisso. Che c'è un abisso dentro di lei, e uno dentro di me, che il mondo... che il mondo stesso è un abisso, dal quale alcuni riescono ad uscire.» "Si renderà presto conto, miss Goodheart, che..." - Distolse lo sguardo, volgendolo verso l'infinito. «L'acqua limpida dei cuori si è intorbidita sino agli strati più profondi. Il fiume degli uomini trasporta un diffuso odore di fango. » Amava quel libro. Amava la sua lotta. La lotta contro nessuno, ma contro l'Idea che vi era dietro, e che taluni incarnavano. Amava, amava, amava. Proprio come diceva quel libro, proprio come se lo trasportasse, come se gli facesse vivere. "Il Destino mi troverà forte e degno". - Pensò, pensando al futuro. Poi si scompose, e un sorriso, flebile, ma sincero, comparve sulle labbra del docente. - "Il futuro mi troverà senz'altro preparato...".
|
|