Squilli vicino al Lago

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view post Posted on 5/1/2015, 21:33
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«Dialoghi»


E' necessario combattere per difendersi, diceva la giovane donna. Era quindi necessario uccidere, per difendersi, privare delle famiglie dei loro padri, per difendersi, uccidere chiunque la pensasse in maniera differente, per difendersi. Perché allora non scagliare un maxi-attacco preintenzionale, spazzando via chiunque, senza che abbiano fatto nulla, per difendersi da una futura minaccia che, condizionalmente, potrebbero portare al sistema magico creatosi e ai grandi capi, che a questo sistema facevano da vertice? Erano tutti coinvolti; facevano tutti, - sia mangiamorte, sia auror, - parte di un unico cerchio, e di differenze, in fin dei conti, non c'e n'erano mica poi tante: sia gli uni che gli altri pensavano di fare del bene. Sia gli uni, che gli altri, facevano questo bene in relazione alla propria comprensione del bene, e misurandosi in base alla scala dei valori che si è venuta a creare: gli uni, per un ideale che Raven considerava essere falso e invalido, per il bene come tale, e che come tale è solo una passione illogica e poco furba; gli altri – per difendere il mondo magico dalla scomparsa, agendo nell'ombra, essendo dei partigiani, per come i babbani li intendevano, nel vero senso di questo termine. Poteva Raven considerarsi un essere malvagio soltanto perché mirava a essere il braccio destro del Dio Oscuro? Chiudere persone dentro ad Azkaban era malvagio. Succhiare via la loro anima per dei semplici punti di vista era malvagio. Ecco cos'era malvagio! E lui, che aveva ucciso abbastanza persone, elfi domenstici, animali selvaggi, guardiani di Hogwarts, babbani e anche auror poteva forse considerarsi malvagio?
"E' soltanto che non hanno ancora compreso la mia filosofia del dolore...". - Pensò Raven, per poi, nella mente, chiedersi: "se chi uccide perde la dignità, nessun auror e nessun mangiamorte allora ha la dignità. Ne risulta che siamo in un guerra svolta principalmente da persone senza dignità...".
"Io non amo nessuno, miss Gooheart". - Gli venne da dire, ovviamente mentendo, e ripensando ad Aryadne, la quale era ormai scomparsa da tempo immemore: né una lettera, né un incontro, né un segnale. Poi però si tenne.
«Difendo i miei studenti, perché un interiore e profondo senso di dovere me lo suggerisce di fare, miss Goodheart. Non avessi questo senso, non muoverei un dito. E questo non significa, che manderei un mangiamorte che vuole uccidere gli studenti ad Azkaban, o che lo ucciderei. Semplicemente... lo trasformerei in mio amico.» – Disse, sicuro di sé, e sicuro del fatto, che quella situazione stava diventando del tutto paradossale. Non glie ne poteva fregare di meno dei studenti, tranne che di alcuni serpeverde. E anche quelli li vedeva come il seme oscuro, come il re degli scacchi, che doveva essere difeso e cresciuto, affinché ci fosse qualcuno a prendere il posto del giapponese, una volta che Raven fosse morto, o imprigionato, o gli avrebbero succhiato via l'anima... Non pensava mica che Raven potesse rischiare la vita solo per quel gruppuscolo inutile di babbei? Solo secondi fini. Lo avrebbe fatto solo per dei propri secondi fini, come per esempio difendere la preside e gli allunni da un attacco di un sedicente Dio che alla fin dei conti gli aveva regalato la runa del serpente, non tanto per salvarli, quanto per conquistarsi la loro fiducia.
«No.» – Disse atono. - «Non è Nieztche. Nieztche è quello de "I deboli e i malriusciti devono perire; questo è il principio del nostro amore per l'uomo"!» – Esclamò appassionato, ritrovando perfettamente il proprio carattere in quelle parole. - «Quello di prima è di Sun-Tzu.» – Mentì spudoratamente. - «Oppure... forse così mi sembra, ma è capace che m sbagli.»
"Compromessi..." - Pensò. E chi li avrebbe mai accettati? I mangiamorte erano largamente in vantaggio secondo tutti i criteri. Un compromesso, seppur ragionevole dal punto di vista del più debole, non potevano esistere: gli auror non gli avrebbero chiesti mai, poiché così avrebbero legittimato l'altra fazione, quella dei mangiamorte; ai mangiamorte non servivano dei compromessi: avrebbe sterminato i ranghi avversari in lungo e in largo ancor prima che questi fossero riusciti a dire "A". Era un cerchio che piaceva a Raven; gli dava le forze per continuare a sperare, a combattere per gli ideali propri e di coloro che amava, e anche di uccidere, come aveva fatto in passato, e non una volta. Tra centauri, elfi, auror e quant'altro, doveva ammettere di avere un curriculum di tutto rispetto in quel senso... Lui sapeva mandare avanti le trattative dal punto di vista del più forte. Lui sapeva anche fingere...
«Non finirci dentro, dice...» – Disse Raven alzandosi, poco prima di chiedere a miss Goodheart di uscire. - «Bhe, se è vero che la morte non è la cosa peggiore che possa capitare agli esseri umani, è altrettanto vero, che uno destinato ad Azkaban preferirà morire, suicidarsi portandosi dietro altri innocenti, pur di finire altrove.»
E sorridendo, ascoltando le parole della giovane domatrice di cavalli alati, si mise il proprio cappello e uscì, intento ad ammirare il bellissimo panorama circostante.

"Dove portavano i passi che facevano?" Avrebbe chiesto un famoso babbano, guardando il duetto camminare, lentamente, sulla neve. I loro passi avrebbe rimasto dei segni nella coperta argentea che rivestiva i dintorni del castello. Rispondere alla domanda sarebbe stato difficile: era un viaggio giusto per, un viaggio senza meta. L'anno era già finito: a breve ci sarebbe stato il ballo, e le scartoffie, alla fin dei conti, non erano poi così tante. Una misteriosa passeggiata, con una donna dagli occhi bicolore (diavolo! Quanto gli piacevano!), se la poteva pur permettere; per non pensare al fatto, che era da moltissimo tempo che non si trovava da solo in compagnia di una donna. Ed era la prima volta nella propria vita, che la donna in compagnia della quale si trovava aveva gli occhi bicolore; aveva persino realizzato dubbi su una possibile esistenza di persone così. Portavano fortuna? Portavano sfiga? Nel suo paese dicevano che le persone con gli occhi di colori diversi fossero degli abili maghi, e avessero delle elevate capacità extrasensoriali. Se così fosse, - pensò Raven, - lei aveva già compreso chi egli era per davvero; aveva già percepito il sangue sulle sue mani, aveva già capito la sua natura profondamente oscura; dentro di lui non vi era altro che un abisso. Un abisso infinito, più grande dell'universo, anch'esso potenzialmente infinito...
«Questo» – Iniziò, quando i due sarebbero arrivati vicino alle sponde del Lago Nero. Indicando il Lago e le migliaia di stelle splendenti sopra di lui. - «è' ciò che il mio lavoro non può darmi. I soldi non sono tutto, e aveva ragione ad affermarlo.» – Disse Raven, che oltre ad afferrare babbei cadenti qua e la non aveva più niente da fare. - «Questo è Tutto. La poesia è tutto. La bellezza del mondo magico è tutto.» – "La Potenza è tutto, il Dolore... e lui, che amava infliggerlo e godere, e riceverlo, e godere ugualmente, lo sapeva fin anche troppo bene. -
«Una volta, ancora da studente, mi avevano costretto a nuotare fino alle profondità di questo lago, per salvare una rarissima specie di serpente, che era scappata da un qualche campo qui nei dintorni... » – "Ero fortunato ad essermene uscito". - Pensò Raven, ricordandosi di quella volta che un babbeo grifondoro lo era venuto a chiamare per aiutare la professoressa a recuperare quel dannato esemplare magico.
Poi, con la mente e le parole, tornò li, alle sponde del Lago, vicino alla giovane domatrice.
«Mi dica: non avrà nessun drago da domare prossimamente?» – Chiese serio. - «Vorrei almeno provare a realizzare le mie fantasie giovanili.» – "E a percepire dell'adrnalina nelle mie vene... di nuovo."
 
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view post Posted on 7/1/2015, 01:06
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«And the only solution was to stand and fight» Merlino ballerino!

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Passeggiavano. La neve sotto le loro scarpe produceva un suono ovattato e soffice, che accompagnava silenziosamente i loro passi e i loro pensieri. Aquileia procedeva silenziosa, di fianco a Raven, altrettanto sulle sue, mentre osservava i fiocchi di neve punteggiare l'oscurità della notte che li circondava, spezzata solo dal tenue e morbido riflesso della luce lunare sul manto bianco che copriva il paesaggio. Che ore erano? *Tardi. Molto tardi*. Come aveva previsto, il sonno non era venuto a prenderla, quella notte. No, quella notte l'aveva lasciata andare, l'aveva lasciata vagare per Hogsmeade, dopo tanti mesi, e l'aveva lasciata entrare alla Testa di Porco. E ora, stava passeggiando con il giovane docente di volo, incontrato in quel posto così malfamato, incredibilmente vicino alla Scuola di Magia più famosa di tutta l'Inghilterra. *E che incontro*, pensava tra sé e sé, ripensando allo scambio di battute che avevano avuto al pub. Opinioni, semplici e chiare, ma con un qualcosa dietro che lei ancora non si spiegava. Da un bel po' di tempo, non le era più capitato di sentire quella morsa allo stomaco, di sentire i suoi muscoli così tesi, i suoi sensi così all'erta. E per scoprire qualcosa in più su di lui, l'aveva seguito, accettando il suo invito, uscendo da quella bettola piena di ubriaconi e trovandosi nell'algida (ma, doveva ammetterlo, veramente splendida) atmosfera invernale di quegli ultimi giorni di Dicembre.
Aquileia girò leggermente la testa in direzione del giovane professore, mentre entrambi camminavano silenziosi, in direzione di Hogwarts. Un piccolo movimento, quasi impercettibile, seminascosto un po' dal cappuccio che le proteggeva la testa, e un po' dalla notte. Le sue iridi bicolore studiarono il profilo di Raven, che si stagliava nell'oscurità illuminato dalla fioca luce della luna. Quegli occhi nerissimi e profondi, a tratti vivi e a tratti glaciali, quell'espressione indecifrabile che aveva visto sul suo viso, quei movimenti calmi al limite del calcolato, la facevano pensare.
*Chi sei, Raven?* si chiese di nuovo, mentre lo guardava, da dietro il suo cappuccio. Era strano, però. Là fuori, in quella silenziosa e calma notte d'inverno, non sentiva più la stessa forte avversione verso di lui che aveva sentito prima, in certi momenti. Aveva forse intuito male? Ancora non lo sapeva. Certo, non era rilassata. Ma doveva ammettere che quella strana passeggiata la incuriosiva. Era il suo lato temerario a suggerirle quella sensazione? Sì, probabile. D'altronde, se non ne avesse avuto uno, non si sarebbe mai avventurata nella notte con qualcuno conosciuto appena un'ora prima. Uno che aveva opinioni così apparentemente fredde, rigide e taglienti, ma a cui piaceva ammirare la bellezza del mondo, a cui piaceva la letteratura -*anche se quel Sun-Tzu non mi pare proprio di averlo mai sentito, ma in compenso conosce Nietzsche*- e che, a quanto pareva, sapeva apprezzare il silenzio. Si scoprì a pensare che, come le sensazioni che aveva avuto alla Testa di Porco, anche quella strana curiosità era una cosa che non le era più capitata da parecchio tempo.
Distolse, decisa, lo sguardo dal giovane docente, puntandolo in direzione di Hogwarts. La sagoma della scuola dominava imponente lo sfondo del cielo notturno.
*Fra qualche giorno ci sarà il ballo* realizzò la ragazza alzando la testa, lo sguardo attraversato da un brillìo improvviso. Anche quell'anno vi sarebbe tornata, onorando la tradizione di famiglia. Sorrise leggermente tra sé e sé, scostandosi un boccolo dal suo occhio color ghiaccio, mentre il loro cammino piegava in direzione del Lago Nero.
Il bianco manto nevoso si stendeva sulle coste del Lago, delineate dalla tenue luce lunare, sovrastato dal cielo notturno in cui splendevano miriadi di stelle. In quell'oscurità, sufficientemente lontano dalle luci della scuola e del villaggio, si poteva vedere nitidamente quella infinita meraviglia. Era uno spettacolo che alla ragazza toglieva il fiato: solo ai tempi di Durmstrang, quando contemplava il freddo Mare del Nord, si era potuta riempire gli occhi con quell'immensità. Mentre Raven ricominciava a parlare, alzò lo sguardo ancora più in alto verso il cielo, seguendo il gesto del giovane docente, le labbra che si schiudevano in un'espressione di stupore. Il cappuccio le cadde indietro, lasciandole scoperta la folta capigliatura biondo scuro.
"Già" disse, quasi in un sussurro. "Nessuna somma vale questo Splendore". Rimase in silenzio per qualche istante. "Sa, c'è un'opera di musica classica, in cui uno dei protagonisti canta alla Notte. La Turandot" disse poi, quasi automaticamente, il suo sguardo ancora rivolto al cielo. E nel sentire la risposta di Raven, le sue iridi chiaroscure si portarono nuovamente verso di lui, che guardava come lei verso il Lago e verso la Notte. La poesia. La bellezza del mondo magico. La ragazza lo osservò ancora, discretamente, ma attentamente; la sua alta statura, quei lineamenti orientali, imperscrutabili, delicati e decisi assieme, e quei profondi occhi scuri, illuminati dal morbido riflesso della neve. Per un momento, le parve che la voce di lui assumesse una sfumatura meno fredda, nel pronunciare quell'ultima frase.
"Non ho visto quasi mai una stellata così. Hogwarts, e il Lago Nero, non deludono mai. Poco fa stavo pensando che solo a Durmstrang ho visto un cielo paragonabile a quello di stanotte". Era diventata calma, e silenziosa. Tutto il risentimento, tutto l'astio, tutta la diffidenza, erano state semplicemente sopraffatte da quello spettacolo. Stavolta, ad essere domata, era proprio lei, una ex-domatrice. "Davvero. Certe cose sono così belle, così potenti. E ci mostrano quanto la nostra dimensione sia piccola e insignificante rispetto al Tutto" continuò, riportando lo sguardo in alto, e rimanendo poi in silenzio.
Si aggiustò il mantello nero sulle spalle, mentre Raven ricominciava a parlare.
"Oh. Un'impresa coraggiosa. Il Lago Nero non era famoso per essere particolarmente praticabile, e immagino non lo sia nemmeno adesso" gli rispose. La sua successiva domanda, la riportò alla realtà della situazione. Lei, agli occhi del giovane docente, era una domatrice. E come tale doveva comportarsi. Doveva dire, però, che alcune sue parole, alcuni suoi sguardi, e quel suo meravigliarsi di fronte allo spettacolo della Notte, la incuriosivano. Possibile che, quello stesso uomo che le aveva dato l'impressione di essere così ambiguo, le desse anche l'impressione di essere così profondo e riflessivo?
"Oh..." iniziò, un po' colta di sorpresa dalla domanda -*anche perché, i Draghi, sono piuttosto difficili da raggiungere in generale*-, "beh, in questo periodo non so se mi capiterà. Non credo" rispose, sciogliendosi delicatamente i capelli. *Al Quartier Generale sicuramente no*. Si volse verso di lui, riportando alla mente il suo scopo. Fare in modo che lui si fidasse di lei. Creare una sintonia. *O seguire la curiosità?*. Gli puntò nuovamente le iridi chiaroscure nei suoi intensi occhi neri, inarcando un sopracciglio. "Ho l'impressione che non le basti cavalcare una scopa, se mi ha fatto questa domanda. Sbaglio?".


Scusa il ritardo, oggi ero piena di impegni!
 
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view post Posted on 8/1/2015, 19:23
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«Dialoghi»


Già. Nessuna somma poteva valere quel tipo di splendore. Erano un'infinita di stelle, ben consce del fatto che alcuni infiniti in loro erano più grandi di molti altri infiniti. A pensarci poi, anche loro due erano circondate da un immenso infinito, composto, teoriacamente, da altri trilioni di infiniti, più piccoli o più grandi tra di loro. Era il pensiero e la teoria di molti, in parte anche di Raven, che oltre a vederci l'illusiorietà del mondo e l'incapacità della ragione di spiegare ciò che ci circondava senza scadere in contraddizioni logiche, dava per scontato, che nulla forse reale, e quindi che tutto fosse lecito. Certo però è che tra la teoria, che Raven sentiva e a cui sembrava non avere errori di sorta, e la pratica, Raven sceglieva comunque la pratica, percependo come inesistente quel sottile limite tra pensare e fare, e quindi dando valore e credito soltanto a ciò che vedeva, e non a ciò che, giustamente o ingiustamente, pensava. La pura logica era un buon faro; ma gli occhi erano un faro migliore.
La Turandot... Raven si ricordava un nome simile, ma non si ricordava se aveva mai visto quell'opera. "Parlava forse di una donna giapponese che si innamora di un americano, ma l'americano parte, e quando torna in Giappone con la sua nuova donna giovane, la giapponese si ammazza con un harakiri?" - Gli venne da chiedere. Però non lo fece, in compenso soltanto annuendo. Il teatro, l'opera e il balletto gli piacevano giusto perché erano dei prodotti babbani, con un tocco magico in ognuna di esse. Le belle storie – ma anche quelle brutte, e quelle con il finale dove i buoni di turno muoiono -, gli piacevano un sacco; il ragazzo, semplicemente, anche da adulto amava sognare, amava immaginare. Era un sognatore. Era un sognatore a cui piaceva partire per universi lontani, distanti, per capire, sapere, comprendere, o semplicemente per rilassarsi e scappare dalla routine giornaliera. Perché necessitava di farlo? Perché necessitava di staccare la spina? Semplicemente perché era divino; il vedere un arcobaleno ove non ci fosse era divino; il vedere una rosa, dopo essersi punto con migliaia spine, era divino. Era quello che lo distingueva dalla massa grigia – il poter vedere quello che non c'era, e includere anch'esso nei suoi ragionamenti; semplicemente essere, vedendo la passione, il romanticismo e il combattimento per un Ideale ovunque. Si potrebbe anche pensare che Raven si stesse sbagliando, che il suo Ideale non fosse quello giusto; infine le malelinque potrebbero anche pensare che, da troppo giovane, Raven abbia semplicemente intrapreso una strada sbagliata. Ma cosa importava? Cosa importava quale fosse l'ideale, se ciò che lo circondava era la passione? La passione di amare e di credere; credere malgrado tutto, malgrado il cinismo e il degrado; malgrado un avversario, forse sognatore anch'egli, a capo di un esercito, e con la volontà di battere, sconfiggere?
"Alcuni infiniti sono più grandi di altri infiniti". - Pensò Raven, volendo anche aggiungere al suo pensiero, che egli era l'infito più grande di tutti gli altri infiniti. Perché? Semplicemente lo sentiva. Così gli diceva di fare l'Amore, e anche l'Odio, che da bravo orientaloide aveva sintetizzato tutto in un unico punto di vista, in un'unica filosofia... La Filosofia del Dolore, perché, l'odio o l'amore ne derivavano soltanto; perché il dolore, più intenso era, e più soddisfazioni dava; perché il Dolore non aveva antonimi che non fossero grigi e insignificanti. Perché il Dolore dava modo di imparare, e quindi di costruire...
"Credere malgrado tutto". - Ripensò Raven, poi distolse il suo sguardo dal cielo.
«Non credo di aver mai visto la Turandot. Sono però più che certo di aver assistito ai spettacoli del faluto magico e di Madame... Butterfly, sì, credo si chiamasse così.» - Disse. - «Ma ora che mi ha detto che c'è qualcuno che canta alla notte...» – "come i lupi dentro di me" – «...assisterò all'opera non appena gli eventi mi permetteranno.» – Disse serio. Quindi asocltò, cogliendo dalla sua interlocutrice le informazioni al riguardo del cielo sopra Durmstrang. Conosceva a malapena quella scuola; ne aveva avuto giusto delle alcune notizie, sparse qua e la, e che era difficile da mettere insieme. Dicevano che fosse una scuola per duri quella; una scuola con dei problemi con la magia nera; una scuola dalla quale uscivano Maghi e Streghe, e non dei babbei incapaci di tenere in mano la propria bacchetta magica in modo giusto. A ripensarci, se avesse mai voluto realizzare i suoi sogni, e quindi rovesciare il Mondo, sottometterlo e crescerlo, avrebbe raccolto tutti i Maghi e Streghe delle scuole magiche più toste in un unico esercito. Sì, quantitativamente sarebbe stato inferiore, ma qualitativamente? Ecco accanto a lui un esempio lampante di come fosse la gente di quelle parti: una giovane donna, domatrice di animali magici pericolosi... Hogwarts non aveva speranze.
Sorrise, scuotendo il capo a destra e a sinistra.
«Lei ha studiato a Durmstrang, o ci è soltanto stata?» – Chiese atono. Cosa gli importava? Nulla. Gli sarebbe soltanto piaciuto sapere che scuola fosse se poteva contarci per il futuro, quando la Grande Rivoluzione sarebbe stata anche supportata da una buona dose di Forza Magica e di incantesimi, che Raven avrebbe appreso.
Aveva dei grandi piani per il futuro. Dio se erano grandi! Prima avrebbe si sarebbe sbarazzato del secondo Dio sulla sua strada: il Dio Oscuro, che altro che essere Dio, sembrava soltanto campare come Ombra, ombra di sé stesso, e del suo stesso stereotipo. Se era davvero Oscuro, non poteva non conoscere l'Amore, perché soltanto nelle profondità più buie dell'Ade splendono le stelle d'amore più luminose... Poi, una volta sconfitto quel nasopiatto, di cui prima temeva le capacità, e di cui ora vedeva soltanto immensi vuoti e deserti, si sarebbe impossessato di tutto ciò che aveva: capacità, schiavi, elfi, troll, mangiamorte. Voldemort era solo un buon drago, che caricava la vittima con la propria potenza e non fletteva le budella abbastanza per pensare a qualcos'altro. Nelle mani di Raven tutti loro sarebbero stati decisamente un instrumento di molto migliore: egli avrebbe saputo usarli con l'Arte dell'Inganno; avrebbe aggirato, confuso, colpito da dietro; avrebbe scambiato il vero con il falso in un modo molto abile e agile, e avrebbe colpito, in un colpo solo, quando avrebbero abbassato la guardia; quando avrebbe creduto nel suo poter essere un amico; quando avrebbero ammirato il suo cuore, pieno di pietà e misericordia, avrebbe staccato loro la testa a morsi.
«Il Lago Nero non è mai stato famoso.» – Disse. - «E' da sempre stato un posto colmo di pericolo e insidie, provocate dalle creature più abili di questo mondo. Però con un paio di riflessi aggiuntivi non sono di certo quell'ostacolo, che non si può aggirare in una qualche maniera.» – Raven non mentiva: c'erano tanti pericoli nell'acqua oscura, ma non erano mai abbastanza per Raven; il dolore, come, del resto, il pericolo, non era mai troppo. Era soltanto un'aggiunta in più all'adrenalina e all'eterna ricerca del piacere edonistico, responsabile di compensare vuoti emotivi.
Non le capiterà, dunque. "Peccato." In realtà gli sarebbe piaciuto non poco scoprire i lati deboli dei draghi; scoprire come batterli; intrufolarsi all'interno di loro stessi, ma anche... trovarli, e sottometterli; per poi usarli allo scopo di un Ideale più alto, di un Bene assoluto.
«Peccato.» – Avrebbe detto Raven esplicando i suoi pensieri. - «Mi sarebbe piaciuto...» – Quindi, volgendo di nuovo lo sguardo al cielo, Raven ascoltò la domanda della donna.
«Su un campo di quidditch ho vinto tutto quello che potevo: miglior cercatore, miglior sguadra, miglior giocatore, il primo posto più e più volte...» – avrebbe risposto, per poi aggiungere: - «Ha presente una droga?» – Chiese. - «Quando ti stanchi della droga che da meno sensazioni, passi a una droga più potente, poi ancora più potente, poi ancora, ancora e ancora. E alla fine giungi a un punto dove la droga ti distrugge, se non riuscirai più a controllarne gli effetti. Ecco, io sono alla ricerca di quella droga più potente...» – Rispose, tornando a fissare le iridi bicolore della giovane domatrice. Che cosa ci vedeva? Strano da spiegarsi. Eppure dicevano che gli occhi fossero lo specchio dell'anima... Un po' di inquietudine, un po' di indecisione, un po' di tristezza, un po' di fascino per il mondo, un po' di preoccupazione (sempre per il mondo), un po' di poesia, un po' di canto, un po' di pittura e dell'arte, un po' di dolore, nessun ricerca piacere, ma tanto dovere. Poteva riassumere le caratteristiche di miss Goodheart con quei pensieri? Ne dubitava. Ne dubitava profondamente, poiché anche lo sguardo spesso inganna. Di fronte a Raven, rigido e attento, freddo e nero, miss Goodheart sembrava non aver ancora perso il piacere di avere degli amici, di avere un ragazzo, dei genitori, una famiglia. Lei non aveva ancora perso i suoi legami; non si era ancora disfatta della sua umanità... E Raven? Gli sembrava di aver letto quei libri religiosi dei babbani, e uno in particolare, la Bibbia, lo aveva colpito: il senso era che per elevarsi spiritualmente, bisognava tagliare ogni legame e seguire il proprio Maestro. E infine, lui cosi aveva fatto; pur non tagliando i legami – quelli li han tagliati gli eventi a parte suo fratello -, egli erano andato fin in fondo col suo Maestro, suo Dio, ed ora gli sembrava di essere arrivato al punto in cui quel stesso Dio doveva venire ucciso, segnando così soltanto un altro gradino sulla scalata di Raven verso il cielo.
«I suoi genitori, i suoi parenti, il suo ragazzo, o anche i suoi bambini... Non si preoccupano dal fatto che lei non è in casa e vaga altrove scoprendo la notte? » – Chiese Raven, ricordandosi delle semplici parole che erano abituati a pronunciare gli umani che erano troppo umani; parole e gesti di galanteria; etica e morale, che scadevano dal punto di vista dell'Assoluto.
Poi tacque, lasciando che fose miss Goodheart a rispondere o a rimarcare eventuali correzioni. Con le sue parole sarebbe stato bello anche ascoltare le stelle, la notte, e il canto che essi diffondevano nel mondo.
 
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view post Posted on 10/1/2015, 22:59
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Ecco una situazione in cui difficilmente si sarebbe aspettata di ritrovarsi. Sulle rive del Lago Nero, notte fonda, dopo aver seguito un uomo conosciuto poco meno di due ore prima, sulla base di pure impressioni soggettive, assecondando un qualche istinto che le diceva che nonostante quel qualcosa che non le quadrava, poteva arrischiarsi ad accettare una passeggiata con lui. E adesso, entrambi erano lì, sul Lago -lei chissà quanto tempo dopo l'ultima volta che ci era tornata, lui un frequentatore probabilmente più assiduo e abituato a godersi quello spettacolo- con il naso in su, verso il cielo, completamente affascinati e immersi in quell'infinito che si stagliava, calmo e indifferente al mondo, sopra le loro teste. Era vero: la bellezza del mondo era in grado di far fermare, far stupire e a volte far commuovere chiunque. Per lei, quell'immensità era uno specchio in cui vedeva due cose apparentemente contraddittorie: quanto erano piccoli gli uomini, e allo stesso tempo quanta grandezza poteva esserci dentro di loro. Quel cielo nero, così grande e incontenibile, quei miliardi di corpi celesti sopra la sua testa, erano talmente prorompenti da infonderle un senso di vertigine e calma insieme, squarciando in qualche modo il silenzio e la tristezza che erano in quel momento dentro di lei. E la cosa incredibile, per come era fatta lei, era che anche in quella situazione completamente inaspettata -in cui probabilmente chiunque si sarebbe sentito a disagio, se non agitato o addirittura impaurito- quel cielo, quel lago, quell'angolo di mondo, erano riusciti a catturarla completamente, come ogni volta. Ecco perché adorava le stelle. Perché, semplicemente, fermavano il suo sguardo e placavano il suo animo, mettendola davanti a se stessa, ma facendole vedere quanto i suoi sbagli, i suoi rimorsi, le sue paure, fossero così piccole rispetto al Tutto.
E anche ora, sotto quel cielo, la paura svaniva.
Sentendolo rispondere, riportò lo sguardo su Raven, annuendo con un lieve cenno del capo.
"Vedo che anche a lei piace la Musica classica, professore" rispose, con tono leggermente compiaciuto. "Sì, esatto, Madama Butterfly. La conosco anche io. Splendida, triste e passionale" disse, cominciando a camminare distrattamente lungo la costa del Lago, riportando lo sguardo verso la calma piatta dell'acqua. "Come anche il Flauto Magico: l'Aria della Regina della Notte è la rappresentazione perfetta del furore e dell'Odio. Mozart era imbattibile" continuò, la voce che assumeva una sfumatura impercettibilmente più scura, un'ombra eterea di quello stesso Odio di cui lei, e la Regina della Notte, parlavano. Si fermò, il mantello nero che fluttuava leggermente ai suoi movimenti e l'alamaro che brillava sotto la luce della luna. "Trovo che la Musica sia una delle rappresentazioni più veritiere delle passioni, delle emozioni e dei sentimenti umani. Spesso, queste cose non sono esprimibili adeguatamente a parole. In qualche modo, la Musica le libera, e libera allo stesso modo anche noi stessi" osservò, guardando verso il Lago, il bianco disco lunare che si rifletteva nell'acqua calma e silenziosa. Si voltò verso il giovane professore, ricominciando a camminare verso di lui. "Le è mai capitato di sentirsi così?". Era confidenza, la sua? No. Si stava solo, lentamente, avvicinando, assecondando quella strana curiosità che aveva provato mentre raggiungevano il lago. Ma pur restando guardinga, pur conservando quell'innata diffidenza che la caratterizzava, cosa le impediva di lasciarsi prendere dal Mondo, dall'Arte, dalla Bellezza? Cosa le impediva di rendere onore alle cose che più di qualunque altra cosa, ne erano meritevoli? Assolutamente niente. Si mosse ancora verso Raven, con passo lento e calmo, osservandone i movimenti, e cogliendolo nuovamente mentre scuoteva la testa. "Cos'è che le fa scuotere il capo, signor Shinretsu?" stava per chiedergli, ma il giovane docente la anticipò con la sua domanda.
"Vi ho svolto dei corsi di perfezionamento, dopo Hogwarts, per...diciamo un paio d'anni" rispose, con un gesto vago della mano. Un gruppo di piccole falene notturne le sfrecciò di fianco, mentre ricominciava a camminare vicino all'acqua. "Lassù ci sono molte riserve di creature magiche, molte più che qui in Inghilterra. E soprattutto..." lo guardò con sguardo scaltro, inarcando un sopracciglio "...ci sono molti più draghi". Si voltò ancora verso l'acqua, aggiustandosi il mantello di lana sulle spalle. "Ma i Norvegesi hanno il pugno duro" proseguì, facendo ondeggiare la testa in un gesto di constatazione, più che di dispiacere o di sofferenza. Era vero: Durmstrang, riguardo ai metodi, era tutto un altro mondo rispetto a Hogwarts. Non bastavano la tenacia, la determinazione, la concentrazione: erano necessari anche la freddezza, il calcolo, la rapidità, la forza. "Più che di studio, direi che si può parlare di addestramento" continuò, tornando a guardare il giovane docente in volto, scrutandone attentamente l'espressione. Si avvicinò di nuovo. "Lei invece? Ha studiato qui o nella sua terra d'origine?" Sorrise al giovane docente, un sorriso gentile, ma che non stemperava la guardinga attenzione e il residuo di diffidenza che c'erano nel suo sguardo bicromatico.
Nel sentirlo parlare, quella strana curiosità si mischiò di nuovo a quella morsa allo stomaco, così inquietante, che aveva sentito alla Testa di Porco. Osservò ancora la sua espressione, sempre impenetrabile come un muro d'acciaio, quel portamento calmo, quegli occhi neri e magnetici, che fissavano intensamente i suoi. Un mezzo sorriso si disegnò sulle labbra di Aquileia, metre Raven parlava. Una droga, diceva lui; un qualcosa che ti costringe a volerne ancora e ancora, sempre di più, fino a rimanerne schiavo. E così, al bel professore piaceva oltrepassare i limiti. Abituato alla vittoria, agli alti risultati, assuefatto dalla noia di essere sempre il migliore e di non avere più un tetto più alto da raggiungere. Voleva di più, cercava di più e pregava di avere sempre di più, fino a sacrificare anche il proprio controllo. *Interessante* pensò, il suo sorriso che si faceva scaltro, quasi beffardo. Se sapeva cosa voleva dire? Oh, certo che lo sapeva. E non solo perché era una domatrice. Perché lei sapeva bene quanto i confini tra Bene e Male, tra Giustizia e Vendetta, tra Obbedienza e Fanatismo, tra Legge e Dittatura, fossero talmente sottili da sembrare inesistenti. Lei, semplicemente, conosceva i suoi limiti, li vedeva, aveva imparato a conoscerli. E lui? Lui sapeva ciò di cui stava parlando? Stavolta fu lei a scuotere la testa: *No. Lui non lo sa*. Sorrrise ancora.
"Potente come un Drago, per esempio" disse la ragazza, finendo la frase di Raven e fissandolo dritto negli occhi. "Sì, i draghi sono affascinanti e terribili". Iniziò a riavvicinarsi lentamente a Raven. Le sue iridi chiaroscure, sempre attente e controllate, furono attraversate da un lampo di sfida. "Sa, professore? Il confine tra coraggio e temerarietà diventa molto labile, quando ci si avvicina ad un drago. E a volte, svanisce" continuò, i suoi occhi fissi in quelli neri di lui. "Lui, nella sua grandezza e ferocia, ti guarda dritto negli occhi, privo di qualunque paura, conscio di ciò che sa fare, conscio di essere forte e mortale. E tu lo guardi a tua volta, dal basso della tua statura, consapevole che, se non sei abbastanza veloce, in un solo secondo lui ti potrebbe incenerire con una sola fiammata. La tua vita è appesa ad un filo sottile, e tu lo sai. Potresti scappare, ma per qualche viscerale motivo, non te ne vuoi andare. E' un istinto pericoloso e forse perverso, ma che in qualche modo, ci impone di dimostrare sempre di più a noi stessi, ed è l'unico in grado di spingerci oltre il limite. E in qualche modo, senti dentro di te la perversa certezza tutto questo non ti basterà mai". Quante volte aveva provato quell'istinto, davanti al Drago dell'Odio? Quante volte stava per lasciarsi catturare, e lasciarsi bruciare? Ma lei sapeva che il punto non era il sacrificio, la distruzione. Il punto era il controllo. I draghi non esistevano per essere uccisi, o per farsi uccidere da essi. Esistevano per essere cavalcati. E l'Odio, esisteva non per cedervi, ma per imparare a resistergli. Quello era il vero obiettivo: non dare all'Odio e alla Vendetta la soddisfazione della vittoria. Si mosse ancora verso il giovane professore, stavolta arrivandogli decisamente più vicino rispetto a prima, sostenendo lo sguardo negli occhi di Raven. "So bene di cosa parla, professor Shinretsu. E lei, è sicuro di saperlo?" gli sussurrò, per poi passargli di fianco e ricominciare a camminare per qualche metro lungo la costa del Lago Nero, lo sguardo di nuovo rivolto alle stelle.
La sua domanda la colse totalmente di sorpresa. Era forse un tentativo di galanteria? Sì, probabile. Ma alle sue parole -*il suo ragazzo*- si fermò istantaneamente, rigida, lo sguardo sbarrato verso l'oscurità. Tutti i ricordi, gli istinti, i rimorsi, le piombarono di nuovo addosso come proiettili di catapulta. Il suo ragazzo. Tra tutti quelli che aveva nominato -che comunque non si sarebbero preoccupati per lei, visto che suo padre era morto da anni, sua madre era in Irlanda e sua sorella in Francia, e non aveva figli- ripensare a Brendan la fece seriamente vacillare. Stette in piedi, guardando l'acqua, la mano sinistra che istintivamente cercava la sua bacchetta con le dita. No, non poteva lasciarsi sopraffare. Non poteva lasciarsi prendere dalle sue emozioni. Non l'avrebbe mai più fatto, l'aveva giurato a se stessa e a lui. Non avrebbe fallito un'altra volta.
Decise di non parlarne. Sapeva quello che doveva fare: semplicemente, dissimulare. Senza dare indizi. Niente. Esattamente come le avevano insegnato in quelle poche lezioni di Occlumanzia che aveva preso: essere un muro bianco, forte e impenetrabile.

"Oh, no" rispose quindi, mascherandosi dietro ad un'espressione vagamente divertita. "Io non ho bambini. Vivo da sola da un bel po' ormai" continuò, mentre assumeva un'espressione scherzosa. "E non faccio preoccupare nessuno" rispose, stavolta più seria, guardandolo in viso. "E come può vedere, non ho paura di scoprire la notte". *Nessuna notte, dopo quella notte, mi fa più paura*. Si mosse di nuovo, avvicinandosi ad uno spuntone di roccia lì vicino, e ci si sedette scostando un po' il mantello, il fisico snello e atletico sotto il maglioncino nero e i pantaloni di tessuto, che si delineava nella luce della luna. Si voltò di nuovo verso Raven. "E lei, invece? Non c'è nessuno che l'aspetta, a casa?" gli chiese.
 
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view post Posted on 13/1/2015, 15:47
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Semper Fidelis

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× Off-Game ×


× Legenda
Narrazione
«Dialoghi»

La musica classica? Sì, gli piaceva. Non tutta: alcuni brani erano davvero insopportabili non solo per la loro lunghezza, ma in alcuni tratti per la troppa mielosità, in altri – per la totale assenza di ogni pathos umano, ancora in altri – per il tema trattato, o per la mancanza di profondità, con la quale un tema veniva esposto al pubblico. Considerando tutto questo, considerando le sue attenzione verso la musica in generale, e, ancor più in generale verso l'arte di qualsiasi genere (la pittura, che gli piaceva al pari della musica classica, se non forse ancor di più, considerano l'inclinazione del suo miglior babbano quando Raven era ancora giovane e tornava in Giappone nella pausa tra un anno a Hogwarta e un altro, come dire: io divento un mago, e tu diventerai un pittore... bha!; e la letteratura, annessa la filosofia e la poesia, che amava, poiché completava quei vuoti sconosciuti, che il Docente di Volo si portava appresso ovunque, anche li, al Lago, oppure quando era in missione, e, sembrano Achille, ma puntando ad essere Ettore, sconfiggeva chiunque si mettesse sulla sua via..., ma questa era un'altra storia). In due parole, se poteva anche risponderle, era con un "sì" deciso, ma non troppo; un "sì" di quelli che avrebbe lasciato spazio ad altro, affinché lo completasse magari con un "sì, mi piace, ma preferirei che fossero tutti come Haydn, Mozart e Bethoven, piuttosto che come un Chopin, un Mendhelson o un Pachelbel, senza nulla togliere, ovviamente, a Chopin, Mendhelson o Pachebel, miss Goodheart...". Invece non rispose, preferendo ascoltare. Dicevano che chi sapeva ascoltare, sapeva anche parlare. E parlare, come Raven ben sapeva, si doveva poco, e si doveva giusto nel tema. Gli uomini d'azione, d'altro canto, amavano agire, lasciando la parola e i termini alle discussioni tra politici, filosofi e altro. Del resto, si ricordava ancora il motto di un gruppo di soldati, idealisti e capaci, nato nella Romania babbana: "La nostra parola è l'azione". Poi finì male la loro storia, anche se secondo certuni, la loro storia finì come finisce la storia di un santo, e come, forse, sarebbe finita anche la storia di Raven: con un martirio (ma questo, di nuovo, è tutt'altra storia).
Invece li, vicino al Lago, immerso nel proprio silenzio, e nella mente il ricordo dei tempi in cui parlava troppo e parlava a vuoto, Raven osservò le movenze della giovane donna, che, poeticamente, si muoveva lungo le sponde del lago. Gli piacevano le donne? Sì, gli piacevano le donne. Anche lei gli piaceva, e non era quel tipo di amore che alcuni adolescenti consideravano essere "platonico"; era l'amore bestiale, quel che in genere provocava l'ormone ossitocina (il modo di spiegare le cose dei babbani era bestiale anch'esso, come lo erano i libri trovati nell'armadio del suo miglior amico, prima con le manie da dottore, e dopo – da pittore), e che posizionava un velo roseo sugli occhi di un uomo che guarda, innamorato, una donna, e su di una donna, a cui, ahimé, piace un uomo. Fu proprio per quello che gli sembrava tutto quel discorso degli ormoni e degli istinti essere un discorso troppo umano, ma ancor più che umano – babbano, e quindi, - bestiale! E lui non si sarebbe mai abbassato al livello di una bestia, all'amore bestiale preferendo l'osservazione divina, se non considerando quelle poche volte in cui una donna di nome Aryadne, gli faceva, ahimé, balzare gli ormoni dai loro posti... Ma anche quella, direi, è un'altra storia.
Tornando a noi, ascoltando ciò che miss Goodheart ebbe da dire a proposito di Mozart, non poté che sorridere.
«Se non sbaglio, miss Goodheart, Beethoven ha scritto sia di più di Mozart, sia, per certi tratti, più profondamente di Mozart... Non si può certo togliere merito al suo Requiem, o alla sua sinfonia n...» – Sì, proprio così disse, "en" – «...25. Non per caso era allievo di Haydn, però temo che abbia avversari potenti per quanto riguarda il termine "Imbattibile".» – "Per esempio," - volle dire, - "lo stesso Beethoven, Bach, o perché no Vivaldi con Tchaikovsky e la sua danza mirabolante". Però tacque, preferendo ancora una volta il silenzio. Che quella donna stesse riuscendo a scongelare il ghiaccio dentro di lui, e a renderlo un po' più vivo? Più... umano? Con gli stessi interessi.
Difficilmente una cosa del genere sarebbe potuta accadere, ma tant'è...
La Regina della Notte, dunque. Che stesse cercando di impersonificarsi? Non solo dunque una che amava addomesticare bestie pericolose, ma dunque anche una che amava vedersi in ruoli tanto differenti, quanto bizzarre. Raven poteva dirsi Re della Notte? No. Non poteva nemmeno cantare alla notte, e il tutto questo per il solo motivo che, in un senso o nell'altro, egli era la Notte, e la Notte gli albergava dentro. Nessuna passeggiata sulle sponde di un lago tanto bellissimo quanto meraviglioso, avrebbe potuto salvarlo dall'ormai incessante crescere della sua notte; notte, che prima o poi avrebbe raccolto sotto di sé tutte le creature della notte, li avrebbe addomesticati e sottomessi al proprio volere, e poi sarebbe partito, fin li, fino a conquistarne la regina della notte, fino a sottomettere anch'essa. Perché era un predatore, sì, ma perché aveva dei bisogni, e aveva anche dell'onore, che molti altri ormai avevano perduto.
«Sì, rispose. La musica è magia anch'essa.» – Poi ascoltò la domanda. Sentirsi così? Sentirsi liberi ascoltando la musica? No. Per lui la musica era sofferenza, ed era anche passione. Era il dialogo, un libro con le immagini e i suoni al contempo, in cui il compositore ci raccontava una storia, e le storie, come si sa, non svuotano, ma anzì: ti accendono, ti forniscono energia, ti animano. Ispirazione, la chiamava Raven, ma forse, sotto alcuni aspetti, anche Liberazione: uscire dalla routine quotidiana di noiosi compiti e altrettanto noiosi voli, per vedere una battaglia epica, un'amore non ricambiato, per ascoltare il battito del cuore del cigno, che si suicida nella piena beatitudine, o per ammirare quanto più di buono possa fare il Don Giovanni, sempre di Mozart, alle prese con le sue avventure.
Pausa.
«Decisamente sì.» – Rispose. - «La musica è l'unica di quelle poche cose che...» – e si fermò. Che volesse dire "è una di quelle poche cose che riescono a scongerlare il mio cuore e rendermi come sei tu, con le tue passioni, amori, ricordi, piani futuri ed emozioni; con un amore dentro il cuore che mi leghi a una ragazza, a dei compagni, a un fratello che si è perso tra le frivolezze banali della vita, e una squadra di mangiamorte con cui, ahimé, voglio rovesciare il mondo"? Scosse la testa di nuovo, come dire "no", non è quello. Poi riprese, il pensieri che aveva interrotto.
«Sì.»- Disse secco, preferendo non continuare a parlare: l'interesse verso la parola non doveva diventare troppo. Il parlare troppo era pericolo, per tutti.
Perché gli veniva incontro? Di colpo, Raven indietreggiò, ascoltando la risposta alla sua domanda. Cautela? No. Quella donna aveva un non-so-che di strano e di insicuro. Quel suo sguardo bicromatico, quelle movenze passionali e poetiche, ma in contempo decise.
"Mi dicevano, che la poesia e la bellezza trionfavano sempre sulla sola forza bruta..." - Pensò Raven, poi fermandosi di colpo. Sì, anche quell'ultimo pensiero era focoso e passionale, ma illogico. I poeti, i bardi, i compositori sono soltanto lo specchio delle battaglie vissute, sono soltanto un'ombra del duello tra Achille ed Ettore, Goffredo di Buglione e il gran sultan arabico, tra il Bene e il Male... Lui invece voleva vivere quelle esperienza direttamente. Quelle battaglie, sì, voleva combatterle; quelle sofferenze... provarle. La vita la voleva vivere appieno, per essere lui cantato e osannato nei canti dei bardi; per essere lui il soggetto delle poesie e dei romani; per essere lui il nuovo conquistato delle Opere...
"La storia non la studio... la scrivo". - Pensò, fermandosi proprio di colpo, e ascoltando dei "corsi di perfezionamento" della giovane donna.
«Pugno duro? Addestramento?» – Chiese. - «Ho sempre pensato che gli adestratori inglesi fossero del tutto incapaci.» – Disse sicuro, come rispondendo alle parole di Aquileia. E lei invece?
Prese e fiato e coninuò nel loro batti-ribatti.
«Ho studiato qui. Ho completato il corso di studi, dato un MAGO che mi annoiava darli tutti, e sono stato assunto come Docente di Volo.» – Disse, rispondendo alla domanda della ragazza. Poi ascoltò. Potenti e terribili... Non immaginava ancora quanto fosse potente e terribile Lord Voldemort, o quanto possa esserlo un Dio, che ha saputo sovrastare il tempo e lo spazio, per venirsi a prendere ciò che è suo ed attaccare il castello. Ma anche questo è un'altra storia...
Ascoltato le parole di miss Goodheart, Raven, forse per la prima volta nell'arco di tutta la serata, avrebbe sorriso. Sinceramente sorriso.
«Il confine di cui parla è sempre molto labile la prima volta. Ripensi a quando è salita sulla scopa la prima volta, o quando la prima volta si è messa a duellare...» – "Che mi guardasse pure negli occhi tutto il tempo che gli serve." - Pensò Raven. - "Probabilmente, con gli assi che io ho nella manica, il mio sguardo sarebbe l'ultima cosa che egli vedrebbe". Non voleva la sua droga perché era soltanto una droga. Voleva la sua droga per migliorarsi, per capire, ma anche per vedere se un drago si poteva sottomettere; se vi era uno spazio per i draghi nella creazione del suo futuro, nel Mondo Nuovo, nella creazione delle armate del Dio Oscuro. Era quella la sua intenzione principale, ma mai e poi mai, annuendo a ogni singola parola di Aquileia, Raven avrebbe dato a vedere.
«Ha ragione, miss Goodheart. E dopo le sue parole, ammetto di non essere per niente sicuro delle mie, di parole. Però ho due scelte: la prima è quella di conoscere, la seconda è quella di ignorare e non conoscere mai cosa si provi di stare dinnanzi a un drago. Immagino che, per come sono fatto, rischio o no, sceglierò sempre la prima.» – Disse, di nuovo gelido, come se stesse parlando del suo lavoro, o di un'altra cosa riguardante la routine quotidiana, di quelle che egli, in veste di professore, fa sempre.
Poi la ragazza chiese, se non vi fosse nessuno che mi aspettava a casa. No. Non vi erano nessuno. Padre morto, madre sparita, fratello che aveva deciso di abbandonare gli studi...
«No.» – Rispose brevemente. - «Non c'è nessuno. Mia madre è sparita, mio padre è morto, e mio fratello ha deciso di abbandonare gli studi e godersi la gioventù.» – "Triste storia, eh?" - Pensò Raven, osservando la donna sedersi su uno spuntone di roccia li vicino. Pensò quasi, che se non avesse deciso di non farsi prendere dagli istinti animali che albergavano nel corpo di ogni umano, quei particolari, tra cui il fisico della domatrice e il suo viso, avrebbe avuto più importanza nel suo modo di vedere le cose.
«Ognuno fa le sue scelte.» – Disse Raven quindi, dopo qualche attimo di silenzio. Suo padre aveva scelto la strada sbagliata, - la strada dell'odio, del criminale, e infine era stato sopraffatto dagli auror. L'unica cosa che aveva lasciato era una spada, spezzata a metà, e una casa, dispersa tra le colline nel Giappone. Sua madre, invece, era sparita; forse morta, forse viva, che importava? Tanto uno che mirava a essere eterno non poteva avere un madre e una padre; non poteva prestare troppe attenzioni ai suoi legami famigliari, e quello con il suo fratello lo aveva tagliato di ben volentieri, non appena egli decise di vivere da bestia.
Triste storia.
 
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«And the only solution was to stand and fight» Merlino ballerino!

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Gli piaceva eccome, la musica classica. Uno che si ricordava che Mozart era stato in grandi rapporti con Haydn non era uno che semplicemente apprezzava, ma era uno che alla Musica ci si dedicava con passione. La ragazza lo squadrò, piuttosto sorpresa ma compiaciuta. Sì, decisamente il giovane professore era un intenditore. "Oh, è vero, Beethoven, come anche altri compositori, formano un gran testa a testa con Mozart. Di Beethoven, adoro La Tempesta, soprattutto il terzo movimento. E' come se in quella sonata vi fosse contenuto tutto il ventaglio delle emozioni e delle paure umane. La conosce?" gli chiese, stranamente loquace. Non era da lei, parlare a lungo...eppure, con lui le riusciva.
"Ma come quell'Aria di Mozart... sa cosa dicono, i primi versi? 'La vendetta dell'Inferno ribolle nel mio cuore, la morte e la disperazione fiammeggiano intorno a me'. E la musica è, in contrasto, soave, vibrante, quasi angelica, per poi diventare profonda e scura, abissale. Come se volesse far vedere la maschera dell'Odio, e infine il suo vero volto. E' veramente da brividi". Quando l'aveva sentita la prima volta? Forse a 11, 12 anni, non se ne ricordava con precisione. Si ricordava solo di suo papà, che le raccontava la trama di quell'opera fiabesca, e le faceva ascoltare tutte le arie più belle. E anche ora lei, ogni volta, si innamorava, e si lasciava portare dalle parole schiette di Carmen, o dal rassegnato canto di Manon Lescaut, o dalla struggente preghiera di Tosca. Quante volte, in quell'anno, si era sentita così, come la Regina della Notte? Smaniosa di vendetta, di strage, di morte e di distruzione? Ma lei non era la Regina della Notte. Nessuna parte di lei avrebbe costretto una Pamina, una se stessa fragile e leale, ad uccidere; non c'era nessun Sarastro, da uccidere. *La vera distruzione è essere sovrani di cose che non siamo capaci di governare*.
Lasciò i suoi pensieri, ritornando sulle rive del Lago Nero, vicino al giovane professore di Volo. Continuava a camminare distrattamente verso di lui, mentre ascoltava la sua risposta. E per la prima volta in tutta la serata, colse nelle sue parole un'esitazione. Si era interrotto bruscamente, lasciando la sua frase a metà. La ragazza socchiuse le palpebre, osservandolo con minuziosa attenzione. Nella morbida luce della luna, credette di distinguere incertezza, sul volto di Raven, un'incertezza mista a una specie di rammarico...o forse di consapevolezza. *Ah, ma allora non sei di ghiaccio* pensò. E poi, di nuovo quel "no" con la testa, seguito da quella risposta secca, quasi lapidaria. Sì, era proprio così: Raven si nascondeva. E ormai lei l'aveva capito.
Camminava, senza mostrare particolari espressioni o segni sul proprio volto, continuando a parlare e a seguire il filo dei loro discorsi, sulla riva del Lago. Non lo guardava, ma sentiva il suo sguardo su di lei, si sentiva addosso quegli intensi occhi neri che seguivano ogni suo movimento mentre procedeva. Normalmente quella sensazione le avrebbe dato fastidio. Ma lì, invece, c'era qualcosa... qualcosa che, in qualche modo, era come se le permettesse di
-*lasciarsi andare*- non preoccuparsene troppo.
Osservò l'acqua e la sua quiete.
"Forse perché della fatal quiete tu sei l'imago, a me sì cara vieni, o Sera" disse, automaticamente, in un sussurro. Non sapeva se Raven aveva sentito, non ne era sicura, ma in fondo non aveva grande rilevanza. *Foscolo, sempre tu mi viene in mente, su questo lago* pensò sorridendo, mentre il giovane docente ricominciava a parlarle.
All'affermazione di Raven in risposta ai suoi corsi a Durmstrang, la ragazza inarcò un sopracciglio e lo guardò, sorridendo scaltra.
"Gli inglesi, forse sì. Ma non i norvegesi". Si mise la mano sinistra in tasca, scostando il mantello, mentre con la destra faceva un vago segno nell'aria. "Tanto per farle un esempio, mentre qui ci si rilassa, lassù invece, nelle pause tra un corso e l'altro, i domatori ammazzano il tempo esercitandosi a lanciare coltelli. E sa com'è..." mise anche la destra in tasca, fermandosi. "...paese che vai, usanza che trovi. Mi sono dovuta abituare" disse, vaga, alzando con noncuranza le spalle. Si ricordava ancora tutti i suoi centri, su ogni bersaglio. Era la domatrice più giovane, ed era quella che faceva più punti in assoluto. << Aquileia, mai nome più azzeccato di questo!! >> aveva esclamato una volta Hazel, esterrefatta. Quella volta aveva fatto dieci centri su dieci. *Forse dovrei ripropormi in qualche squadra di Quidditch* le venne da pensare. *Se mi ricordo ancora come si vola*.
Diede un leggero colpo alla neve con la punta del piede, muovendosi ancora, e riflettendo su Raven, su quell'ennesima contraddizione: prima l'indietreggiare, quasi timoroso, poi il mostrarsi scettico, forse addirittura sarcastico. Era una strana accozzaglia di alti e bassi, un continuo passare dal nero al bianco e dal bianco al nero, era un'incognita. Eppure, in tutto quel ventaglio di sensazioni, quella che più di altre non la mollava, era sentire quel "qualcosa" che non lasciava sopire la sua curiosità. Anche mentre lo fissava dritto negli occhi, così vicina a lui, rispondendogli e parlandogli dei draghi, quella sottile sensazione era sempre lì. Ascoltò la sua risposta, senza muoversi. "Lei mette al primo posto la conoscenza, a costo di qualunque sfida". Inclinò leggermente la testa, socchiudendo le palpebre. "Molto interessante, professore. E' lo spirito di uno che vuole arrivare in alto" disse, prima di passargli di fianco e ricominciare a camminare e raggiungere lo spuntone di roccia.
La risposta di Raven alla sua ultima domanda la fece leggermente sobbalzare, e le fece sparire dagli occhi e dal viso quella altera indifferenza dietro cui sempre si mascherava, quando qualcuno le chiedeva delle persone a lei care. Lo guardò in silenzio, sostenendo lo sguardo, in un'espressione che era un misto di sorpresa, rammarico e dispiacere.
*E così, anche lui conosce la perdita. Anche lui conosce la solitudine...anche lui conosce la morte*. Era come uno squarcio, in tutto quel quadro di sensazioni che aveva avuto su di lui, come se dietro a quel Raven che l'aveva messa all'erta, che l'aveva provocata, che l'aveva incuriosita, ce ne fosse un altro, che cercava in tutti i modi di restare nascosto. "Mi dispiace" disse semplicemente, voltandosi verso il terreno innevato, evitando di fissarlo in volto in maniera inopportuna. Ma avrebbe voluto continuare a guardarlo.
"Ognuno fa le sue scelte". Aquileia annuì con la testa, senza distogliere lo sguardo dalla neve.
*Già. E' incredibile come certe scelte condizionino il tuo intero destino*. Si girò di nuovo verso di lui, guardandolo osservare l'acqua con un'espressione insondabile. Cosa vedeva in lui, da quelle due ore e mezza che lo conosceva? Passione, dolore, ricerca, poesia, perdita, morte, tenacia, temerarietà, controllo. *Caos*. Sì, era così: quell'uomo sembrava un vero caos. Il giorno e la notte insieme, il fuoco della passione e il gelo del ghiaccio. L'indifferenza e la sfida. Le vette della vita, e gli abissi neri della morte. Era una contraddizione, come le sue parole con la sua voce. Era l'inquietudine di avere davanti una contraddizione, a stringerle lo stomaco, ma allo stesso tempo a provocarle quella strana curiosità. Quella curiosità che la spingeva a tentare di avvicinarsi a lui, per studiarlo, per cercare di capire se veramente ci aveva visto giusto...
*Ma falla finita, pivella. La verità è che lui ti piace*.
Bam.
Voltò la testa verso il Lago con un gesto deciso, facendo ondeggiare i suoi boccoli biondo scuro, zittendo immediatamente quella vocina dentro di lei.
Lui le piaceva? Lui? No.

*Oh, certo. E prima parlavi dei draghi, mica di lui, signorina "potresti-scappare-ma-per-qualche-viscerale-motivo-non-te-ne-vuoi-andare" Goodheart*.
Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si portò le mani davanti al corpo, intrecciando le dita, non di scatto, ma con un movimento leggermente più teso e nervoso. Sospirò. Sì, era nervosa. Certe sensazioni erano una lama a doppio taglio. Non che fossero pericolose, questo no; il pericolo era ben altra cosa. Ma il non saper definire chiaramente ciò che sentiva, questo sì, la metteva in seria difficoltà. Non lo guardava, ora; si limitava a rimanere seduta sulla roccia, le mani conserte, osservando l'acqua. Cosa sentiva? Era interesse? Sì. Era affinità? A quanto traspariva dai loro discorsi, si poteva dire di sì.
Era attrazione?
*Sì, che lo è*.
Sì, dannazione, lo era. Doveva ammetterlo, quell'uomo la attraeva. E in un certo modo la affascinava. Se non fosse stata conscia del proprio carattere, avrebbe quasi detto che si trattava di mero istinto. Cosa che lei non si sarebbe mai abbassata ad assecondare. Ma si conosceva. E non era mero istinto. Le sue dita incontrarono nuovamente il suo anello. Possibile? Avrebbe giurato di no. Avrebbe giurato di no, fino a quel momento.
Stava ancora guardando l'acqua, quando all'improvviso le sembrò di udire un rumore, che proveniva da una piccola radura poco lontano da loro. Si voltò in quella direzione, le palpebre serrate che cercavano di sondare l'oscurità.
Dalla roccia dove era seduta, intravide qualcosa. Un arbusto si muoveva leggermente scosso da...qualcosa. Probabilmente un animale, ma sulle prime la ragazza non riuscì a vedere di cosa si trattasse. Poi, piano piano, nella fioca luce lunare apparve. Due ali nere, grandi e leggere, come una ragnatela scura, fluttuavano eleganti nell'aria; un corpo scarno e ossuto, del colore dell'ossidiana, veniva avanti con andatura calma e indifferente, gli occhi acquosi, bianchi e spettrali. La ragazza rizzò lentamente la schiena, nel vederlo uscire, maestoso, dalla foresta, con quel suo portamento elegante e severo. Un thestral. Si era dimenticata che lì, nella Foresta Proibita, ogni tanto se ne trovava qualcuno. Lo guardò fisso, affascinata e triste insieme.

"Sembra che abbiamo compagnia stanotte" disse a Raven, senza staccare gli occhi dall'animale, e facendo un cenno con la testa nella sua direzione. Si alzò automaticamente dallo spuntone di roccia, continuando a fissarlo, mentre l'animale si avvicinava alla riva del lago. La ragazza si mosse verso di lui con calma, tendendogli la mano destra per avvicinarlo. L'animale volse la grande testa verso di lei, fissandola per qualche istante con quei suoi occhi spettrali. Poi, docile, colpì la mano di Aquileia con il muso, in segno di saluto.
La ragazza lo accarezzò sul muso, malinconica, inclinando la testa di lato.
*E' stato tutto reale*. Ecco cosa pensava, ogni volta che si trovava davanti a un thestral. Che era tutto vero, altrimenti lei non sarebbe stata in grado di vederli. Alcune persone odiavano quegli animali, perché secondo loro incarnavano la crudeltà della realtà. Ma come si poteva odiare qualcosa, solo per la sua natura?
Si voltò. Fece un verso di richiamo all'animale, e cominciò a tornare verso il giovane professore di Volo, seguita dalla maestosa creatura.
Quando gli fu abbastanza vicino, Aquileia si rivolse a Raven, facendo un cenno con il capo in direzione del cavallo alato. "Lo vede?" Gli chiese, fermandosi a un paio di metri da lui. Ma subito dopo, si mosse, senza realmente attendere la sua risposta. Senza pensare. Si avvicinò al giovane professore, e gli prese la mano sinistra, con la propria sinistra. "Fidati" gli disse, guardandolo dritto in quegli occhi neri come la notte stellata. Avrebbe portato la sua mano, cautamente, sul muso del cavallo alato. Anche se Raven non fosse stato in grado di vederlo, l'avrebbe comunque sentito. Avrebbe guidato lentamente i suoi movimenti lungo la pelle coriacea dell'animale, mostrandogli il gesto giusto per addomesticarlo. E ritrovandosi decisamente vicino al giovane professore, davanti a lui, quasi dandogli le spalle. Probabilmente, avrebbe potuto sentire il suo respiro. "Ci sono persone che odiano i thestral, sa? Il motivo più addotto è che rievocano loro la morte delle persone care, e non vogliono sentirne parlare, né tantomeno vogliono pensarci" avrebbe detto, continuando a guidare la sua mano e osservandone i movimenti, sul muso di quella maestosa creatura. "Io invece credo che le perdite aprano gli occhi. Sono dolorose, ma proprio il dolore è una delle poche cose che ti fa sentire veramente vivo....". Si sarebbe voltata verso di lui, incrociando di nuovi i suoi occhi con le sue iridi chiaroscure. "...che ti fa combattere". *Cosa CAZZO stai facendo, Aquileia Goodheart?!?* le avrebbe urlato la sua vocina. La verità era che nemmeno lei lo sapeva. Nemmeno lei sapeva ciò che cercava in quei discorsi, in quella notte così strana, in Raven.
 
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view post Posted on 16/1/2015, 20:17
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Semper Fidelis

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Narrazione
«Dialoghi»

La tempesta, dunque. Sì, la conosceva, anche se ormai di quella composizione ricordava soltanto dei pochi, deboli, e lontani frammenti; era una composizione non molto famosa, e per questo anche molto preziosa. Un po' ambigua, e per questo facilmente interpretabile; paradossale, e sopratutto per questo facilmente intuibile, poiché i sensi, l'inuito, la comprensione astratta, quella momentanea, arrivava laddove la ragione falliva, arrendendosi miseramente. Sì, dunque, la conosceva, ma non troppo bene per chiamarsi "intenditore": pur avendola sentita, nella sua mente quella sonata si trovava in mezzo a decine di altri capolavori del genio di Beethoven, un po' coperta da opere forse più profondi e più grandi, un po' invece luminosa, come a voler esprimere proprio le paure e le incertezze di quel tempo, di quel periodo di vita del genio tedesco, di rendere immortali le minime oscurità del suo animo, di scolprile in una statua di bronzo ad eternum. Tutti i compositori, che fosse Mozart o Beethoven, entrambi con una casa in quel di Vienna e abbagliati dal fascino di quella meravigliosa città, erano riusciti a splendere; a trovare un posto nella storia, a essere ricordati. Loro avevano vissuto per davvero, e vivevano ancora; il suono prodotto dal tocco alle corde della loro anima, erano meraviglioso, profondi, ma luminoso; oscuro, ma in contempo anche buono.
"Testa a testa con Mozart" – Pensò. Non ne capiva il motivo, ma gli sembrava di ascoltare il suo amico di vecchia data, quel babbano, pittore, che gli parlava del cubismo, e del "testa a testa" tra Picasso e Modigliani. Già. Ettore-Achille. Mozart-Beethoven. Piccaso-Modigliani. Caravaggio-tutti gli altri. Alla fine, se non prendere in conto Ettore, che gli sembrava troppo lontano e troppo maestoso (da sempre era un Achille, purtroppo), in Caravaggio si rivedeva alquanto: un duello ogni tanto, ogni del vino, qualcuno ferito alla morte che muore in una pozza di sangue... Non era forse geniale?
«Sì, la conosco. Però preferisco la Sonata al Chiaro di Luna, l'Appassionata, al suo completo, e, sempre delle sonate, la sua ultima sonata... Se non erro, la 111 n.32.» – Sì. Rappresentava la fine della vita del cigno. Non il suo volo, oltre le nuvole, oltre il cielo, oltre il tutto; bensì l'abbandono, la tristezza, il raccoglimento di un ultimo soffio vitale, e quindi la preparazione per un nuovo, meraviglioso viaggio. Mai una nota fu più azzeccata di quelle scritte da Beethoven alla fine del suo percorso; ma più nostalgica e triste potrebbe essere una sonata babbana, se non tenere in conto Chopin, i suoi notturni, e la sua marcia, la marcia funebre. - «Quella sonata, » – disse – «è l'ultimo grido, l'ultima fiamma, l'ultima scintilla. Non una richiesta di aiuto, bensì un fatto: il fatto di aver avuto una vita valida, e di poter salutare queste lande con un sorriso sulle labbra, e una tristezza, una tristezza divina, impressa nel cuore. Come i piccoli uomini del nostro tempo difficilmente saprebbero fare...»
Beethoven era un grande, e ci era poco da discutere. Le sue sinfonie scaldavano anche gli animi più spenti, portavano verso il cielo, suonavano toccandoti davvero l'anima. La musica sacra era profonda, e incomprensibile al primo ascolto; ma poi il Kantore tedesco sapeva regalarti quella particolarità, quell'elemento tipico di Beethoven, che lo contraddistingueva da molti altri. Quella nota, la nota sacra, la nota emotiva... Alcui dicevano l'avesse presa da Bach, ma Raven non era d'accorso: seppur vi era un'influenza, e questo era innegabile, Bach aveva un tutt'altro stile. La nota esistenziale, quell'elevazione a un livello più "umano", "sofferente" di Beethoven in Bach trovava altro luogo e metodo: due geni che esprimevano il proprio "sé" in maniera molto differente, e in questo sembravano trovare unione.
«Mozart a delle volte esagerava.» – Disse Raven tranquillo, tornando ad essere glaciale come prima. Perché esagerava? Forse troppo poetico, forse troppo drammatico. Non che potesse aspettarsi altro da un tedesco, e al più anche da un tedesco con il cuore in fiamme, ma la troppa teatralità dei gesti e delle parole l'aveva più volte lasciata ad altri, tornando quindi a Mozart soltanto per verificare, se gli altri erano giunti in cima alla montagna della poesia. - «Ed è proprio in questo che sta il suo punto più importante.» – "Nell'esagerazione dei sentimi umani" – volle aggiungere. Nella loro iperbolizzazione, nel poterli percepire, toccare, vivere. Abissale. Già. O scendi nella profondità dell'abisso, ove impari a conoscere la sofferenza umana, e di questa sofferenza ne fai una statua un'opera che durerà in eterno, oppure sali sulla più alta cima del monte Tobor, ove la luce e la melodia dei canti angelici ti rendono ciechi e sordi rispetto a tutto ciò che succede in mezzo alle due estremità del mondo. Quella donna aveva ragione, aveva dannatamente ragione: alla fin dei conti, alcuni dei babbani erano dei veri maghi e, forse, non meritavano nemmeno di finire incatenati nel modo e nel sistema che Raven aveva progettato per loro. Meritavano un futuro migliore? Forse. O forse no. Chi era per dirlo? Semplicemente sentiva ed agiva, alcune volte basandosi sul proprio istino, altre – sulla propria ragione, e il più delle volte agiva semplicemente perché l'istinto e la ragione, sembrava, erano in grado di mettersi d'accordo. Certo però era che tra mere disquisizione filosofiche e la dura azione (leggasi: divertimento), Raven preferiva decisamente l'azione. Le parole spesso stancavano, e non era nemmeno colpa loro: era la colpa delle persone, illogiche e frastornate, se il mondo si basava sull'irrazionalità: il movimento non esisteva, la vita era soltanto un sogno, la morte è soltanto una fobia, e tutti gli umani non erano altro che una coscienza unica, vibrante e circolante su sé stessa, che prendeva esperienza del "sé" soltanto vivendo.
Lasciando cadere l'immagine delle stelle, sempre brillanti e luminose, come se volessero assistere a tutta quella marea di casini che gli umani volevano combinare, il giovane professore ripose lo sguardo verso la figura mite, esile e dolce, ma di sicuro ingannante, della giovane domatrice dei cavalli alati e dei ippogrifi. Che vi trovasse un riparo nelle sue fluide movenze? Che trovasse un luogo sicuro nei suoi gesti, nella poeticità delle sue parole e del suo cuore? Che pensieri sciocchi... A Shinretsu Raven non servivano ripari umani: egli stesso era il suo proprio riparo, il proprio Dio, trovato incandescente all'interno di sé stesso dopo decine di uccisioni e battaglie. A qual scopo, dunque, un riparo? E da cosa? Dalle preoccupazioni della vita, e dall'eterna lotta. Tutto quello, i morti, gli auror, i mangiamorte, i continui scontri e progetti, continue tattiche e arruolamenti lo avevano stancato; voleva vivere la propria notte in santa pace, senza preoccupazioni altrui, al caldo di parole poetiche, e lontano da quel volto Oscuro, ma Giusto, sempre pronto a colpirti, a elevarsi, a essere migliore di quanto son gli altri. Forse era quello che Shinretsu Raven vedeva nella giovane donna: non un nemico, bensì una possibilità; non una guerra, bensì l'armistizio; non una battaglia, ma forse, ahimé, anche una resa.
E chi l'avrebbe mai potuto pensare? Chi l'avrebbe mai detto, che Raven Shinretsu, il fiore dei fiori coltivati e cresciuti da niente popò di meno che Lord Voldemort, stava abbassando le proprie difese, che ritirava le proprie bandiere nere, dinnanzi a una semplice, ma poetica, questo sì, donna?
C'era un tempo per la guerra, e un tempo per la pace; - gli diceva suo padre, - un tempo per l'odio, e un tempo per l'amore; c'era un tempo per la luce, e uno per l'oscurità; un tempo per essere Vermi, e un tempo per divenire Eroi. C'era un tempo per vivere da Uomini.
"E un tempo per morire." - Finì di pensare Raven al tempo, in cui il filo rosso della sua vita sarebbe stato tagliato, ed egli, miserevole e debole, caduto. Ma fino a quel tempo... "No." - Pensò. - "Devo resistere, resistere il più possibile... L'amore è una debolezza e non rende forti; soltanto la capacità di taglire via i legami, soltanto essa..."
A tali profondi pensieri, accompagnate da parole altrettanto profonde da parte della giovane donna, Raven tirò un sospiro. Era tardi? Sì, lo era. Ma che importava? Era uscito non per rientrare dentro fin da subito, ma prendere e portare dentro di sé ciò, che egli consideava Arte. Un respiro profondo prima del balzo, per alcuni. Per altri semplicemente un breve tempo di pace, prima di una nuova maschera argentea sul suo volto, prima di un altro attacco, prima di altre creature, magiche e non, morenti in agonia sotto il suo freddo e incurante sguardo. Sarebbe toccato anche a lui?
Lievemente sorrise, cercando di inalare più aria gelida possibile. Rinnovarsi, respirare...
«E' una poesia stupenda, miss Goodheart.» – Disse, guardandola camminare. - «Forse, perché la quiete intorno a noi è davvero fatale; forse, perché entrambi conosciamo la morte, e sappiamo quante sofferenze può portare la dualità delle cose.» – Disse serio, atono, gelido, monotono, e, forse, anche noioso. Poi aggiunse, per restare in tema: - «Son luce ed ombra; angelica
farfalla o verme immondo,
sono un caduto cherubo
dannato a errar sul mondo,
o un demone che sale,
affaticando l'ale,
verso un lontano ciel.
»
– Conosceva quella poesia. Gli piaceva. Era la quasi-sua-preferita dei maestri di Parola italiani (la prima era quella di "O, Ermione...", e anche quella di "...un atomo pieno del male". Conosceva anche la continuazione di quella poesia; la prima volta che l'aveva letto, lo aveva catturato completamente: sembrava essere la sua biografia, e lo rispechiava, sì, lo rispecchiava come poche altre. Rispecchia ciò che lo circondava, spiegava ciò che era al suo interno; parlava delle sue ricerche, ma anche delle sue battaglie, della propria Arte, ma anche della ricerca di un qualcosa di vero? Non importava se Aquileia Goodheart conosceva quella poesia; non importava nulla. Glie l'avrebbe detta, spiegata, ripetuta più e più volte. Rime semplici e incuranti si mischiavano con una forma profonda e ricercata; cosa si poteva volere di più?
"O Ermione... Infinito... Male...".
Sorrise.
Sì, decisamente. Gli piaceva la compagnia di quella donna, e non poteva negarlo. Non era nemmeno tanto per la sua figura snella ed elastica, quanto per la sua conoscenza, per le sue parole; per l'interiorità, e non per l'aspetto. E poi, come si poteva restare indifferenti a una che lanciava i coltelli fra un the e l'altro? Quasi-quasi Raven pensò che lei potesse dar pista a molti mangiamorte inglesi, e che, quindi, in un modo o nell'altro l'avrebbe arruolata. Poi indietreggiò sulle proprie opinioni: cauto, Raven, cautezza prima di tutto, e la vittoria, forse, sarà nel tuo pugno.
«Però, » – disse, - «non dev'essere stato molto facile studiare in Norvegia. » – "Strano però che lancino i coltelli." - Gli venne da aggiungere. - "Ci sono gli incantesimi per quello, ed è per questo che noi non siamo babbani, anche se, di tanto in tanto, un scazzotata a coltellate o a pugni ben ci sta..." Poi però tacque, non volendo aggiungere nient'altro. Doveva far finta che andasse tutto bene; che i babbani fossero della brava gente, e che i norvegesi, invece, fossero dei cazzuti, che avrebbe voluto avere vicino, per dare loro modo e scopo, e ricostruire a partrire dalla radice le ruine, in cui era avvolto il mondo magico, e nelle quali si è trasformato per colpa di autorità negligenti, ma anche per colpa della debolezza di Raven ed altrui. Non aveva di che lamentarsi, del resto: la storia o la studi o la scrivi, e lui non era ancora riuscito a fare né l'una, né l'altra.
«Che io sappia, miss Goodheart,» – rispose, guardandola passare oltre, vicino a lui - «la conoscenza è oro. Dunque, se dovessi scegliere tra il vivere nell'ombra di milioni, o elevarmi a qualsiasi costo e rischio e ricevee l'oro che voglio, sceglierei sempre la seconda.» – "Perché io ho sempre quello che voglio, miss Goodheart. Perché le mie idee sono parassitarie, perché sono nato sotto il segno dell'Ariete e finché non raggiungo ciò che voglio, anche a costo di spezzare le corna, non sarò felice e non mi calmerò, miss Goodheart. Perché io sono, perché so di esserlo, perché so di non essere portato verso una destinazione sconosciuta da un fiume in piena, bensì io stesso sono quel fiume, bensì io stesso porto gli altri, bensì io stesso mi servo degli ostacoli datimi della vita come di un strumento, come di un gradino da conficcare nella mia scala, per arrivare a prendere la stella che sono in cima alla scalitanata, e quindi per scendere, in pace, da Vincitore".
E invece tacque, lasciando che a parlare fosse il vento circostante. A miss Goodheart piaceva la neve? Dal canto suo Raven non poté che constatare il piccolo calcino che aveva dato alla neve. Gli piacque quel gesto, e non seppe perché; gli piacque perché era fluido e naturale, istintivo, e per questo vero. In mezzo a tanti buffoni, a tante storie inventare, in mezzo sorprusi e immascheramenti, almeno qualcuno che riscopriva il bambino dentro di sé... Non era forse dannattamente bello? No, era geniale. Era stupendo. Era profondo. Era solare.
Lo era anche quando disse che le dispiaceva, e come paura di trovare Raven indispiaciuto per una cosa che non gli dispiaceva affatto, abbassò lo sguardo. Diamine sì: era umana. Lei era umana. Lei viveva, lei soffriva, lei aveva dei sentimenti e delle emozioni, dei ricordi. Lei era fuori dalla sua pazza corsa, dal cerchio dell'odio, della morte e della disperazione.
"Ognuno fa le sue scelte." - Come per rimarcare quella differenza tra lui e lei, pensò Raven. Lei, che forse non aveva mai ucciso, che non si era mai privata di quel fuoco tipicamente umana, di qualla passione volta a difendere qualcosa, ad amare qualcosa, forse anche a combattere... E lui, che nons'importava più di niente e nessuno a parte quei piccolo gruppo di Mangiamorte, santi ed eroi, che volevano far sì, che il mondo attorno rispecchiasse la loro volontà. Lui non era umano; era un abisso, un deserto forse vuoto, forse schiavo e prigioniero delle sue stesse idee, ma niente di più, e per la prima volta da anni, pensò che, forse, aveva sbagliato strada.
Conscio di ciò scosse nuovamente la testa, come a voler dirsi: no, io sono forte, io posso spazzare via chiunque, non posso aver sbagliato strada.
"Ma hai perso la tua dignità". - Gli risuonò in testa la voce di Aquileia Goodheart, nel mentre la gurdava passeggiare, calma ed immobile tra le nevi. - "E allora?" - Pensò. Avrebbe dovuto chiedere scusa a tutti? Avrebbe dovuto presentarsi nel Quartier Generale Auror e confessare tutti gli omicidi, e poi marcire ad Azkaban per sempre?
Mal di testa, diamine. Mal di testa...
Come se d'istinto, si portò una mano al capo; i suoi lineamenti divennero meno freddi, meno gelidi, più docili, forse anche più umani. "Difendere il cuore pieno d'amore..." - si ricordava quella frase come se fosse ieri. Un cuore pieno d'amore, un cuore da amare...
Ancora un sospiro, come a voler prendere una decisione, una scelta, o forse ammirare lo splendore intorno al castello.
Poi ci ripensò, e distolse la mano.
"No." - Si disse. - "Gli auror hanno ucciso mio padre e io ho dato il giuramente di sterminarli tutti. Non posso avere torto...".
Forse i suoi pensieri avevano fatto capolino nella testa della giovane domatrice, forse erano altri i motivi che spingevano la graziosa donna a intrecciare dita delle proprie mani dinnanzi al suo stesso corpo. Forse, ahimé, aveva capito qualcosa, e la maschera del gelo, come fosse solo un guscio vuoto, senza cuore od emozioni, tornò rapida sul volto di Shinretsu Raven, nascondendo dietro anni di omicidi, di ricerche, di dolore, di sofferenze; anni bui, ma anni validi. No. Non l'avrebbe scoperto mai. No, il fascino della giovane donna, una poeta tra le nevi, non poteva spezzarlo. Da quando il mondo è mondo la forza bruta domina sempre su di un cuore puro...
"Però è il cuore puro, in istanza ultima, ad avere ragione, e tu, Raven, a morire come un coniglio, senz'onore". - Pensò, e strinse i denti, pensando prima che ormai non vi era alcuna strada di ritorno, e quindi percependo quella leggera bramosità della giovane donna. Percependo forse del fascino, forse dell'interesse verso di lui. "E' il tipico fascio di un ragazzo oscuro e profondo, intelligente, ma freddo". - Pensò. Eppure vi era qualcos'altro? Non conosceva streghe con la sua conoscenza delle arti babbane, non conosceva streghe, che avevano un cuore abbastanza puro simile al suo; non conosceva straghe, con cui si poteva disquisire di Mozart, Haydn, Beethoven, della Prima scuola di Vienna al suo completo. Non conosceva streghe che potessero cantargli alla Notte, né streghe che non solo conoscessero la poesia e la sua bellezza, ma saprebbero interpretarla e raccontarla, avvolgendosi dei sussurri della notte, e delle parole gridate dal vento gelido tutt'intorno. Poteva quindi affermare che fosse il corpo, l'aspetto, l'esteriorità ad essergli interessante?
Scosse la testa.
No. Decisamente no. Se era vero che l'occhio voleva la sua parte, era oltremodo vero che dopo poco l'occhio si stancava. E rimaneva solo il cuore. "Quel maledetto cuore", come avrebbe detto un certo Alan, Edgar Alan... Quella donna gli metteva addosso interesse non per la sua bellezza, bensì per la sua conoscenza e particolarità e purezze e poesia e voglia di scoprire, di conoscere oltre, e forse, anche di morire. Morire per qualcosa, anche lei, diamine. Era un circolo vizioso... Morire. Morire sempre. Per qualsiasi cose. Come pecore. Venir spazzati via come foglie dal vento...
Del resto, come Aryadne Cavendish. La ragazza che l'aveva incantato, per poi sparire, tra le montagne, nei vecchi quadri appesi sulle pareti di Hogwarts, nella foresta poribita, ovunque. Le mancava. Sì, diamine. Le mancava. Però... No. La volta che si erano conosciuti sulla Torre di Astornomia era di molto diversa rispetta allo scambio di finezze e intellettuali e di fascino, cenni d'intesa, con miss Goodheart. Li l'amore era adolescenziale: due scambi di sguardi su una Torre, ed ecco due cuori fondersi. E qui?
C'era altro. Diamine. Sembrava esserci un'attrazione reciproca, dell'ignoto contro l'ignoto, di una forza contro un'altra forza. Del fuoco contro il ghiaccio? Forse più del demoniaco contro dell'angelico...
La guardò nel mentre, maestosa, siedeva sulla roccia. Sì, era un angelo, o almeno quello sembrava. Un angelo misericordioso per certi versi, che avrebbe spedito Raven nei sotterranei di Azkaban, se solo avesse saputo chi si trovava di fronte come interlocutore. Se solo avesse saputo quante vite spezzate, quante famiglie distrutte, quanto sangue si trovava sulle sue mani, quante anime lo seguivano nei suoi sogni. Lui non era un demone, lui era un dannato. Era dannato a soffrire per l'eternità, e lo sapeva benissimo. Era più o meno per quello che non vi potessero essere storie tra un angelo venuto li da non si sa dove, a cercare non si sa cosa, e lui, l'anima in pena, con la voglia in corpo di perseverare nei suoi errori, perché "perseverare era diabolico", e a lui il diabolico, il forte, il potere, piaceva.
Fu forse per quello, che quando entrambi sentirono del rumore provenire dalla foresta, Raven d'istinto scattò verso la bacchetta, nascosta nella tasca dei pantaloni, e lei si mosse, graziosa e delicata, verso l'animale che ivi si trovava. Nell'ombra non si vedeva; nella notte Raven non riusciva a ben interpretare la sagoma dell'animale, che si trovava tra gli alberi. L'istinto lo portava ad attaccare, la ragione invece guardava la figura della donna, priva di nervosismo, priva di pericolo.
«Visite?» – Chiese serio, quasi in procinto di scagliare un schiantesimo verso gli alberi, cercando ancora di individuare la sagoma. Non gli piacevano visite in generale, ancor meno visite di animali nascosti tra gli arbusti. E se fosse un animagus? "Non avvicinarti, Aquileia!" - Volle gridargli, senza troppe esitazioni. Poi si mosse, non delicato, né grazioso, ma veloce. Hogwarts non era sicura di quei tempi, e Voldemort – imprevedibile. E cosa, se quell'animale era invece una trappola? Cosa, se era davvero un animagus? Nella cerchia del dio Oscuro Raven era conosciuto da tutti, ma se non l'avessero visto e attaccato?
"Calmati Raven, sembra sia solo un thestral." - Disse una vocina nella sua mente. Poi aggiunse: - "E un animagus non può essere un thestral."
La ragione venne e il panico passò.
«Sì.» – Disse. - «Lo vedo.» – Forte e chiaro. Lucido e nitido, come se fosse giorno e la luce del sole fosse li, sopra il Lago, a illuminargli la scena: una donna bella e intelligente che accarezzava sul muso un animale orrendo ma fiero... Disegnando quella scena, un pittore sarebbe potuto diventare ricco e famoso. Era la primavera a fondersi con la notte...
Poi si fece prendere la mano (il tocco della donna era gentile e morbido, la pelle – fredda), ricambiando lo sguardo gentile e privo di segreti di miss Goodheart e passivamente la portò verso il muso del Thestral. Certo, la pelle coriacea dell'animale era molto particolare, ma quanto era particolare il tocco della ragazza? Quell'improvviso contatto con un altro corpo, quel miscuglio di sensazioni lo riscaldarono, ma in contempo è come se gli avessero dato una botta in testa: il più sanguinario e cattivo tra i mangiamorte era li, con una donna sconosciuta, ad accarezzare un animale oscuro e maltrattato. Un altro quadro, un'altra fortuna, ma sopratutto: chi diamine l'avrebbe mai potuto dire?, e poi: che cosa, sempre diamine, stava succedendo in quei istanti?
"Dunque e questo il gesto per addomesticarlo." - Pensò – "E a me chi addomestica? Chi mi legerà a un palo impedendomi di scendere ancor di più nell'abisso della morte e del dolore? Qual'è il gesto giusto per addomesticarmi?"
«Le persone odiano tutto, e spesso lo fanno senza motivo alcuno. Mi ricordo le parole di un grande uomo a tal proposito... ehm... ehm...: "Ogni giorno il mondo è più egoista e più brutale. Ci si odia tra uomini, tra classi, tra popoli, perché tutti si accaniscono alla ricerca di beni materiali il cui possesso furtivo rivela il nulla." » – "Ci si odia tra religioni, tra filosofie, tra punti di vista, ahimé, tra sessi, tra razze, tra maghi e animali..." - Pensò Raven. - "Metterò fine all'odio, e tutti troveranno pace sotto un unico Pacificatore...". Un Robert Oppenheimer del mondo magico, avrebbe probabilmente detto qualcuno, ma Raven non sarebbe stato d'accordo nemmeno in questo: lui era la Pace, ma era anche l'odio. Era l'odio che avrebbe dapprima ucciso Voldemort con le sue gesta inutili e la sua mancanza di tattica, e quindi tutti gli altri, tutti coloro che si opponevano all'Eden, a un mondo fatto d'amore e di luce. Sulle rovine dell'amoralità, sarebbe nato un nuovo impero.
«Le perdite aprono gli occhi, miss Goodheart.» – Disse, rispondendo alla ragazza. - «Ma portano odio. L'ideale, nel caso della perdita delle persone a noi care, sarebbe non odiare, ma amare i nostri nemici. "Trasformare i nemici in amici", si ricorda?» – Chiese, un po' incredulo di essere tornato al suo discorso a Hogsmead. Poi scosse il capo, già la seconda volta in quel breve lasso di tempo. Amare un mostro? Chi potrebbe amare un mostro come Raven? E come Raven avrebbe potuto amare gli auror che gli avevano distrutto la vita, la famiglia, la felicità? Mentiva. Mentiva spudoratamente, esplicando punti di vista non suoi, e lo faceva soltanto per sembrare anche lui un angelo, anche lui un buono, anche lui un amorevole individuo. Nient'altro. Soltanto una maschera, dunque. Li odiava. Li odiava tutti. Dal primo all'ultimo.
Sì, combattere. Ma per cosa? Il mondo era un circolo vizioso.
"Io ho sempre combattuto, miss Goodheart." - Volle rispondergli. - "Ma non ho avuto niente. La mia ragazza è sparita, mia madre non so esiste, di mio padre non ho nemmeno la tomba su cui poggiare dei crisantemi, e mio fratello è solo un accumulo di carne e ossa che pensa a bere e scopare... Il combattimento per gli ideali mi ha portato ad essere solo.
Ma non sono completamente solo. Ci sono i miei fratelli d'armi, sparsi ovunque su questo mondo, miss Goodheart. E spero che almeno loro non mi lascino; spero che non vengano uccisi da degli auror, perché allora, miss Goodheart, le giuro che ucciderò 100 auror per ogni mio fratello morto... Le giuro che affogherò chiunque nel suo stesso sangue, le giuro che quei dannati auror pregheranno per essere uccisi, e si dispiaceranno per essere nati, ed essermi capitati tra le mani".
«L'odio genera odio, miss Goodheart.» – Avrebbe detto guardandole dritto negli occhi, staccando la propria mano dal muso dell'animale e continuando a parlare, quasi a sussurrare. - «Il combattimento è valoroso e onorevole, ma così come dal fiore nasce un fiore, dal dolore e dalla morte nasce altro dolore e altra morte. Non si può fare altrimenti: se lei uccidesse un auror, gli auror ucciderebbero lei per vendicarsi; un auror che uccide un mangiamorte, provoca gli altri a cercare vendetta sul loro compagno caduto in battaglia. » – Poi continuò, guardandole negli occhi, bensì pensango, senza esplicare i suoi pensieri, e nemmeno facendoglieli capire. Il suo sguardo sarebbe rimasto freddo, inemotivo, atono e incolore anch'esso. Di nuovo la maschera di prima...
"Le vie d'uscita sono due, miss Goodheart: o troviamo una personabilità abbastanza forte da odiare abbastanza e ssconfiggere tutti grazie al suo odio, oppure ne troviamo una che riesca ad assorbire tutto l'odio, e spargere solo affetto ed amore... E tra i due, miss Goodheart, io sono decisamente il primo".
«Non le chiedo il motivo per cui vede il Thestral, e di chi le è capitato di vedere la morte, perché non sono affari miei. Una curiosità però mi preme: se vede il Thestral, ha perso qualcuno. Se ha perso qualcuno, dice aver aperto gli occhi, e di voler combattere. Certo però che combattere contro mulini che girano al vento sarebbe un problema... E allora contro chi combatte?» – Chiese curioso, più che altro. La ragazza aveva già detto di essere anche lei fuori dalla scacchiera, di essere neutrale, di essere grigia. Però... Non combatteva perché non aveva forze per farlo, o vi erano altri motivi? Non sembrava una debole; forse aveva già trovato vendetta, forse la cercava, forse Raven, il dannato, avrebbe potuto salvarla dall'abisso in cui si stava inoltrando, o, forse, avrebbe potuto tirarla con sé, nell'Odio, sempre di più, a riscoprire la stella che era perduta in lei.
"La chiave". - Intuì Raven. - "Sembra che questa ragazza abbia intuito la chiave per addomesticarmi...".
«Combattendo si uccide.» – Disse Raven, tornando a fissare le stelle. - «Si perde la propria dignità, come direbbe lei.» – "Non glie lo consiglio, ma se proprio vuole...".

 
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view post Posted on 20/1/2015, 19:34
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«And the only solution was to stand and fight» Merlino ballerino!

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Ma chi sei, tu, che nascosto dalle tenebre della Notte, sorprendi i segreti miei?
(William Shakespeare)

Aquileia sorrise. *La Sonata al Chiaro di Luna*. Splendida, assolutamente splendida. Era una musica che cullava, con le sue note delicate, lente e dolci. Le venne da pensare che quella musica ben si addiceva a ciò che sentiva in quel momento, durante quella notte, su quel lago, sotto quel cielo punteggiato di stelle che li guardava silenzioso e terso, malinconico, proprio come le note di quella sonata. Un dolce viaggio misterioso e insondabile, come essere soli, su una barca, che va lenta in mezzo al mare. Un dolce lasciarsi portare dalla Notte, ma non da una Notte oscura e assassina come quella raccontata da Mozart, no. Una Notte triste ma mite, quieta, a cui puoi affidare tutti i tuoi segreti, che abbraccia e accoglie tutto, anche la rabbia, l’astio, il rancore, e il dolore. E li dissolve, lasciando spazio alla malinconia, lasciandoti arrendere alla tua umana tristezza, sciogliendo la vergogna e cullandoti il cuore, e custodendo per te anche i ricordi che non riesci a guardare, e che vorresti lasciarti alle spalle. Non poteva non amare quella composizione, per tutto ciò che esprimeva e che le trasmetteva ogni volta che la ascoltava. Innumerevoli volte si era sentita così, sola, davanti a se stessa, vulnerabile alla tristezza, desiderosa di qualcuno che, semplicemente, ascoltasse, abbracciandola senza parlare. Proprio come la Luna, proprio come quella Notte amica di cui parlava Beethoven, con quelle magnifiche note, a cui potevi affidare tutto il tuo cuore. “E’ bellissima, la Sonata Al chiaro di Luna, signor Shinretsu” gli rispose, fermandosi per un momento, e sorridendogli di un sorriso lieve e triste. Erano molte, le composizioni che riuscivano a scuoterle il cuore, ma pochissime le sentiva così sue come quella sonata. Mosse ancora un passo, stringendosi le braccia come per ripararsi dal freddo – o forse, come per simulare quell’abbraccio che le mancava. Tornò a guardare, malinconica, le stelle. “Forse solo i notturni di Chopin riescono ad eguagliarla. E’ come se quelle note esorcizzassero ogni dolore, ogni tristezza, ogni male. E’ come se riuscissero ad ammansire ogni lato oscuro dell’animo, abbracciandoti, senza nessuna fatica, anche se non vorresti lasciarle entrare mai. E’ assolutamente magnifico” disse, quasi parlando per sé, quasi senza accorgersi che, in quella frase, aveva iniziato a parlare di lei, aveva detto qualcosa, un’infinitesima parte, del tumulto che la agitava dentro e di ciò che aveva nell’animo.
“Mi sembra di capire che Beethoven sia il suo compositore preferito” gli rispose, nel sentire la sua ultima affermazione. Lo guardò ancora, mentre camminava tranquilla sul lago, ascoltando con interesse le sue parole, e non poté fare a meno di sorprendersi colpita da ciò che diceva il giovane professore. Amava la musica, e amava studiare le emozioni che essa trasmette, questo era evidente, e agli occhi della ragazza questo appariva senz’altro interessante – non capitava tutti i giorni (*o tutte le notti?*) di poter intavolare un piacevole discorso sulla musica classica; ma ciò che veramente la colpiva era la profonda passione, il trasporto, con cui ne parlava. Non sembrava il frutto di un semplice - per così dire – studio accademico, per quanto approfondito; sembrava piuttosto il discorso di qualcuno che sente proprie quelle emozioni, le sente sue sotto la pelle, fin dentro di lui. No, decisamente il signor Shinretsu non era di ghiaccio, anche se era molto, molto bravo a farlo credere.
“Mmm, non so se Mozart esagerasse. Indubbiamente, rispetto a Beethoven, è tutt’altro stile; Mozart scriveva opere liriche, Beethoven scriveva composizioni, sinfonie. La componente teatrale non è da trascurare, nel criticarlo” rispose, interessata, all’ultima frase del professore. “Ma, personalmente, è proprio per quello che lo adoro. Beethoven ti abbraccia, ti accoglie, ti accompagna nel sentire e nel provare la tua umanità. Mozart la esalta, ne esalta ogni sfumatura, ogni dettaglio, per renderlo evidente anche all’occhio più cieco, rendendoti conscio fino all’ultimo respiro di ciò che senti dentro. Beethoven ti sostiene, ma Mozart ti sfida”. Sì, la sfida. Non era questo che il suo cuore cercava, che aveva sempre cercato? Non era questo, ciò a cui una parte di lei non aveva mai saputo rinunciare? Quando domava grifoni e sfingi senza curarsi degli incantesimi protettivi, per riuscire ad arrivare allo stesso livello di suo padre, quando aveva affrontato i suoi draghi anche se forse in fondo non era del tutto pronta per farlo... *e quando ho prestato giuramento agli Auror*. Sì, anche quella era una sfida, per lei; una sfida contro il signore Oscuro, contro il male, contro le forze che erano intervenute così brutalmente nella sua vita, una sfida che non poteva rinunciare a raccogliere, facendone il suo dovere, il suo ideale, la sua ragione di vita, quasi la sua fede. Si era marchiata a fuoco nel cervello e nell’animo quell’ideale, la Giustizia, pagandolo al prezzo di notti insonni passate a combattere contro la bestia dell’Odio, contro i demoni del Rimpianto, del Senso di colpa e della Vendetta, contro la tentazione di voltare le spalle a tutto e a tutti, e scivolare sullo stesso sentiero delle bestie che avevano ucciso lui, il suo uomo. Gli stessi demoni che, quella notte, erano tornati a trovarla, instancabili quanto lei, e che, immortali come Mozart, la sfidavano a chi cedeva per primo. La vera, ultima sfida, era quella contro se stessa, constatò Aquileia tra sé e sé, ricominciando a camminare verso l’acqua del Lago. Un velo di tristezza tornò sui suoi occhi, mentre in quei brevi attimi di silenzio, sentiva lo sguardo del professore su di lei, che non la mollava. Si rese conto, in quell’istante, di aver abbassato la guardia. Era lì, con un uomo praticamente sconosciuto - e che a dirla tutta, poco prima alla Testa di Porco le aveva fatto tutt’altro che una buona impressione, con quel suo sguardo glaciale, quei movimenti così artificiosi, quel tono di voce così atono e inquietante, e quelle sue indecifrabili e ambigue parole – ed era arrivata lì armata fino ai denti, per così dire; da un lato, voleva controllarlo, per capire se fosse un malintenzionato o chissà cos’altro, dall’altro l’aveva presa come una sfida, seguendo il suo istinto temerario. Ma no, diciamola tutta, era solo per il secondo motivo, perché lei non era nata per rinunciare alle sfide, non ne era mai stata capace e mai lo sarebbe stata, non era nella sua natura. Lei era abituata alle emozioni forti, lei voleva e cercava, le emozioni forti, e dovunque esse fossero, lei c’era, e in prima fila. Altrimenti non sarebbe mai tornata a Hogsmeade, dopo quella notte terribile, solo per esorcizzare i suoi ricordi; non sarebbe mai entrata alla Testa di Porco solo per rivedere davanti ai suoi occhi, i primi aspetti vividi, sporchi e cruenti di ciò che succede se si sceglie la strada della perdizione. Lei aveva il rischio nel sangue. E nonostante questo, era abituata al controllo, era sicura di sé, di saper padroneggiare le sfide che accettava di raccogliere, di saper tenere alta la guardia; era sempre stata così, metodica, calcolatrice, ma impavida e temeraria, fiera nell’indole e temprata nel carattere. E invece ora, ora, in un breve istante, un brevissimo attimo in cui semplicemente stava osservando l’acqua calma di un lago mentre quell’uomo sconosciuto le parlava semplicemente, della Musica, realizzò che la sua guardia era tutt’altro che alta. Non avrebbe dovuto lasciarsi andare, non avrebbe dovuto nemmeno per un istante allentare la presa e il controllo su ciò che la circondava. Ma in quell’attimo, in cui quell’instancabile tristezza era tornata a trovarla, perché non avrebbe dovuto lasciarla entrare, in quel momento, sotto quel cielo? Cosa le impediva di abbracciare, per un solo istante, la propria umanità? E cosa le impediva di ascoltare le parole di quell’uomo, tanto sconosciuto quanto misterioso, che in qualche modo che non sapeva spiegarsi, sembrava nascondere, dietro una strana, gelida e anonima maschera, la stessa profonda introspezione che lei stessa, a volte, sentiva? Niente. Non si era ancora resa conto, che, incredibile a dirsi, in quel primo e breve istante, il grifone – o il drago? - che lei stava cercando di addomesticare, avvicinandosi lentamente, stava in realtà iniziando ad addomesticare lei.
“La conosce?” rispose, voltando la testa di scatto verso Raven, quando rispose a quei meravigliosi versi di Foscolo che le erano sfuggiti dalle labbra, mentre osservava la quiete del lago. “Sì, è davvero stupenda. E’…come la musica di Beethoven, ti abbraccia.
<< E quando dal nevoso aere inquiete
Tenebre, e lunghe, all’universo meni,
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.>> Non le sembra l’immagine sublime di un abbraccio?”
gli chiese. Foscolo era da sempre il suo poeta preferito tra quelli italiani, insieme a D’Annunzio. Rappresentavano esattamente tutte le emozioni che prevalevano nel suo cuore: da un lato, lo spirito guerriero, instancabile e costante di chi cerca e accetta le sfide puntando a compiere imprese nobili e degne d’onore, non per la propria autocelebrazione, ma per l’ideale di Bene Comune destinato a rimanere immortale; dall’altro, l’amore per la vita, dall’altro, la fierezza, l’indipendenza, l’indomabilità, sì, anche la sfrontatezza e la voluttuosità, il continuo desiderio di scoperta, di esplorazione, che rendevano la vita stessa una continua sfida. Sorrise, di un sorriso aperto e intenso, per la prima volta in tutta la serata. “Conosce anche D’Annunzio? La mia preferita, delle sue, è La pioggia nel pineto. E’ quella in cui ogni strofa termina con << O Ermione>>. E come inizia! << Taci. Su le soglie del bosco non odo
parole che dici umane,
ma odo parole più nuove
che parlano gocciole e foglie lontane.>>. E’ una poesia capace di togliere il fiato”
. Diosanto, ma cos’era che la faceva parlare così? Eppure non aveva bevuto whiskey incendiario, quella sera. *Mi devo avvicinare a lui*, si diceva. La vocina dentro di lei si era già svegliata, ma non aveva ancora iniziato a parlarle apertamente. In quel momento, le avrebbe detto: *Siamo proprio sicure che ci stiamo solo avvicinando? Oppure ci stiamo facendo avvicinare?*. Lo ascoltò parlare, ricominciando a camminare; ancora quel trasporto, ancora quella stessa passione che aveva sentito prima, nelle sue parole. E quelle parole, non fecero altro che colpirla ancora; quel grifone, o quel drago, o qualunque cosa fosse, aveva mosso un altro passo verso di lei, e lei nemmeno se ne era resa conto. E forse, non se ne era reso conto nemmeno lui. Aquileia rallentò il passo, attenta – no, affascinata – dalle parole di Raven. *La dualità delle cose*. Diosanto, non era forse così che si sentiva lei? Divisa in due, perennemente combattuta? Certo, lei sapeva qual era la sua strada, l’aveva scelta e mai sarebbe tornata indietro, ma quanto era grande la lotta che aveva dentro per mantenersi salva l’anima? Per non cadere nelle infinite trappole della Vendetta? Quanto era furiosa e potente la bestia che dentro di lei, a volte, smaniava per scappare? Quei pensieri le fecero muovere ancora un passo verso Raven, mentre lo ascoltava parlare, guardandolo con interesse. E lui? Lui, invece, cosa sapeva della morte, e della dualità delle cose? Nelle parole di quella poesia, sconosciuta, ma bellissima, Aquileia ritrovò tutte quelle apparenti contraddizioni che aveva visto in lui, lungo tutta la serata, gli sguardi e la voce che cozzavano così tanto con le sue parole.”E’…splendida, signor Shinretsu” gli rispose, semplicemente, senza poter fare altro che dire ciò che pensava. “Vada avanti. Me ne parli ancora”, rispose, d’istinto. Si fermò un momento, guardandolo attentamente. No, no, decisamente Raven non era di ghiaccio. Quell’indietreggiare, quella rapida espressione di strana insicurezza che aveva intravisto prima, e quelle parole, quella passione, - *quel cuore?* - si nascondevano dietro una maschera. Era così. E allora, perché? Perché doveva nascondersi, da cosa si nascondeva, e soprattutto, cosa nascondeva? Non avrebbe saputo dirlo. A questo pensiero, alzò istintivamente, di nuovo, la guardia, riportando sul suo viso quell’espressione non gelida, ma neutra, che aveva mantenuto per gran parte della serata. Ma dentro, sentiva che qualcosa, in lei, iniziava ad agitarsi. Sentiva interesse, e senza dubbio, doveva ammettere che gli piaceva, stare lì a dialogare con quel giovane professore. Era colto, intelligente, sensibile, attento, senza contare che, bisognava dirlo, era anche davvero molto bello. *E a quanto pare sente le stesse cose che senti tu, nella Musica e nella Poesia*. Eccola lì, la vocina. Aquileia aggrottò leggermente le sopracciglia a quel pensiero. Perché le era venuta in mente, proprio in quei termini, poi? Scrollò leggermente la testa. Che strano pensiero; lei certo era abituata a stabilire delle sintonie, e ovviamente il fatto che le persone avessero interessi comuni ai suoi era qualcosa che si poteva benissimo verificare. *Ma noi non siamo sul piano della semplice conversazione, bella mia*. Ancora. Era vero? Sì, lo era. Sin dall’inizio della serata, quella strana curiosità non l’aveva lasciata. E ora, il constatare che la compagnia di quell’uomo non solo non la disturbava, ma addirittura le riusciva piacevole, acuiva quella curiosità. Quell’uomo aveva dentro di sé molto più di quanto non facesse vedere.
“Oh, beh, come le ho detto, ci si abitua” rispose semplicemente, di nuovo al discorso di Durmstrang. Ripensò di nuovo a quelle spericolate gare a chi faceva più centri, con quei coltellacci che solo a guardarli ti veniva voglia di diventare vegetariano per tutta la vita. Certo, c’erano gli incantesimi per lanciare coltelli, si sarebbe potuto obiettare. Ma cosa poteva esserci di più soddisfacente, del fare qualcosa con le proprie mani, soprattutto se era qualcosa che costituiva un’efficace arma di difesa contro chiunque? La realtà era che il lancio dei coltelli per lei, non era solo un hobby, ma era anche una difesa quasi assassina. La vita le aveva insegnato che non c’è mai limite, all’essere preparati, e lei non aveva certo aspettato ad imparare la lezione.
Intorno a loro, intanto, si era alzato un vento freddo ma leggero. La ragazza riavviò con un gesto quasi inconscio un riccio ribelle che era andato a coprirle il suo occhio azzurro. Non rispose oltre alla risposta di Raven, passandogli di fianco, ma altri pensieri iniziarono a raccogliersi dentro di lei. Meditava. Quell’uomo era non solo passionale, ma anche volitivo, deciso, intrepido. E allora, di nuovo, perché quell’espressione così gelida, quel tono glaciale, quella voce inespressiva? Perché si doveva nascondere? Che si fosse sbagliata sin dall’inizio? Che avesse frainteso completamente i segnali che aveva visto? No, questo era impossibile, lei con le creature magiche non sbagliava mai, e sapeva bene che con le persone non era poi tanto diverso… o forse sì? Seduta sullo spuntone di roccia, continuava a guardare il bel professore, con lo sguardo per metà indeciso se esprimere dispiacere per le sue parole sul padre e sulla famiglia, e per metà velato di quella diffidenza indagatrice che era tornata a fare capolino in lei. Lo osservava, lo scrutava, cercando di cogliere qualche segnale, qualcosa che la aiutasse a chiarire quel rebus che stava davanti ai suoi occhi e che rispondeva al nome di Raven Shinretsu. E per un momento, un segnale lo vide: quel portarsi la mano al capo, quello scrollare la testa subito dopo, in un movimento veloce, di scatto, quel rizzare la schiena in un atteggiamento che, più che fierezza, denotava auto convincimento.
*Chi diamine sei, Raven?* si chiese, per l’ennesima volta in quella serata. E fu lì lì per chiederglielo, per sbattergli davanti agli occhi quella domanda che ormai da un po’ le martellava in testa: “Cosa nascondi, Raven?”. La morsa che prima le aveva preso lo stomaco tornò, per un istante. Ma invece di inquietarsi, la ragazza semplicemente la lasciò fare, e poi la lasciò sparire. Fu lì, che la sua vocina parlò, apertamente, manifestatamente, mettendola davanti a ciò che lei stessa realmente provava, davanti a quel fascino, a quello strano -*turbamento*- interesse per quel giovane uomo che, come lei, conosceva la psiche umana, sapeva sondare la profondità delle emozioni e forse anche dei sentimenti, che come lei amava sfidare il limite, amava spingersi sempre più in là, amava cercare e volere di più da ciò che lo circondava. Fu lì che quella vocina la portò a intrecciare le dita con quel gesto tanto nervoso quanto controllato, nel tentativo (non sapeva se e quanto riuscito) di non rivelare il proprio stato d’animo. Raven aveva notato qualcosa? Non sapeva, forse sì, forse no. Lei continuava a guardare l’acqua, e mai come in quel momento aveva ringraziato il cielo per averle messo davanti, di nuovo, un thestral, un qualcosa che la distogliesse da quella miriade di pensieri che le stava catturando la mente e che poteva rivelarsi anche pericolosa, e che la riportasse alla realtà della sua vita, dei suoi eventi, della sua persona.
“Sì, visite” rispose a Raven, quasi con indifferenza, completamente catturata dalla visione di quell’animale terrificante e maestoso. Si girò per un istante, curiosa, e divertita da quello scatto del professore nel sentire il rumore degli arbusti smossi dall’animale. Scattava, -*pauroso*- guardingo, verso quell’ombra ancora ignota ai suoi occhi, ma che lei aveva riconosciuto a prima vista. E come avrebbe potuto non farlo? Pensò, tristemente, mentre distoglieva lo sguardo da Raven per riportarlo sull’animale, avvicinandosi ad esso. La realtà tornò, in quel momento, ad impossessarsi di una parte dei suoi pensieri, colorandole di nuovo lo sguardo con quella sfumatura di tristezza che già prima l’aveva raggiunta; e al contempo, la realtà lasciò spazio alla ragazza per riflettere su quella notte strana, quell’uomo, quelle sensazioni, quella vocina, che erano tanto reali quanto ciò che ella serbava nel suo passato. Sì, erano reali, non poteva più negarlo, come ora vedeva chiaramente che, forse, non era solo lei ad addomesticare lui, ma era anche il contrario. In qualche maniera, in chissà quale diamine di maniera, quell’uomo le faceva vibrare qualcosa dentro, e la cosa incredibile era che quelle sensazioni andavano a scontrarsi con quell’inquietudine, quella morsa allo stomaco che a intermittenza si ripresentava, quando ripensava all’ambiguità ce gli aveva visto addosso, e quel miscuglio strano che ne risultava non la portava lontano da lui, ma anzi, la avvicinava, fino al punto da prendergli istintivamente la mano per portarla sul muso del thestral. Lui si fidava di lei? Da quel gesto poteva sembrare di sì. E lei? Si fidava di lui? *No*. *Sì*. Non lo sapeva nemmeno lei, non capiva se quello che sentiva poteva definirsi fiducia. Forse no, lei doveva mantenersi vigile, doveva stare attenta, non doveva dare troppa fiducia a chi non conosceva - *ma siamo sicuri di non conoscerlo? E siamo sicuri che lui già da stanotte non conosca te?* - *Dannazione, lasciami in pace!!!* avrebbe voluto urlare a quella dannata vocina che ficcava il naso nella sua mente e nei suoi pensieri.
La realtà sembrò prendere nuovamente il sopravvento sui suoi pensieri, nel sentire la risposta di Raven, mentre le loro mani si muovevano lente sulla pelle di quella creatura della Notte. E di nuovo, davanti agli occhi della sua mente, facendosi strada nelle parole di Raven, comparve di nuovo la Bestia che dentro di lei strepitava per uscire fuori. L’Odio, la Vendetta, il Rimpianto, la Disperazione, il Dolore. Tutti i demoni contro cui combatteva si schierarono di nuovo lì, nella sua testa e nelle sue viscere, e di nuovo i suoi muscoli si tesero, il primo accenno di quell’attacco infernale che si muoveva dentro di lei. Sospirò, un sospirò lungo e sonoro, nell’ascoltare il giovane professore parlare, mentre la guardava negli occhi. L’odio genera odio. Era così?
*Sì*. Sì, aveva ragione; lei l’aveva visto con i suoi occhi, nel momento in cui Brendan le aveva pronunciato l’unica cosa che mai si sarebbe immaginata di sentirsi dire. << Sono uno di loro, adesso >>. Si voltò verso il thestral, un’espressione di cieco dolore comparve sul suo viso, mentre le sue braccia, impercettibilmente, si irrigidivano e la mano destra si chiudeva a pugno. Lei aveva cercato di fermarlo, di dissuaderlo; l’aveva supplicato di ascoltarla, dicendogli che non era quello il modo di farsi giustizia, non era così che avrebbe placato il suo animo, non era uccidendo a tradimento gli stessi assassini che avevano portato via suo fratello, che avrebbe avuto la pace che tanto cercava. La sua mano destra era talmente stretta che le nocche si erano sbiancate. Come aveva potuto fare una scelta del genere, dopo quello che gli avevano fatto? Come aveva potuto consegnarsi nelle mani dei suoi nemici? E ora, lei era sola.
Nel sentire la domanda di Raven, tornò a guardarlo dritto negli occhi, ma stavolta con un’espressione scrutatrice, scontrosa, quasi rabbiosa. Chiuse gli occhi, per un momento, voltando la testa verso il suolo.
*Contro chi combatto io? Io combatto contro Voldemort, professore, e contro i suoi servi. Contro quegli esseri immondi senza cuore, né nome, né volto, che hanno impunemente avvelenato il cuore dell'unica persona che io avessi mai amato, e che alla fine me lo hanno strappato via per sempre, davanti ai miei occhi, in un solo istante e senza nessuna pietà. Combatto contro quei luridi vermi vigliacchi e codardi che ancora servono questa causa, credendo di essere degli dei scesi in terra nel nome di chissà quale giustizia proveniente da chissà dove, padroni di chissà quale deprecabile legge, che da vermi vigliacchi e codardi quali sono, nascondono i loro volti dietro a delle maschere e sussurrano per nascondere come conigli la loro voce, e che dovrebbero essere rinchiusi ad Azkaban, ad impazzire dello stesso dolore che hanno causato e a sputare tanto sangue quanto le loro mani ne hanno versato.* avrebbe voluto urlargli. *Io non ho mai combattuto, signor Shinretsu, e finché non combattevo, sono riusciti a portarmi via tutto. Mi hanno tolto l'amore, i sogni, le speranze, la vita che mi volevo costruire. Ma fosse l'ultima cosa che faccio, li troverò tutti, e non moriranno, oh no, resteranno vivi ad agognarla, la liberazione della morte, e pregheranno per poterla raggiungere*. Avrebbe voluto lasciar divampare le fiamme dell'Odio, finalmente. L'odio genera Odio. Sì, sì, dannazione, era vero, fino all’ultima goccia di sangue. Amare i propri nemici? No. Mai. Per amare, bisognava prima saper perdonare. E lei, come avrebbe mai potuto perdonare anche solo uno di quegli assassini, di quei mostri dannati che le avevano portato via tutta la sua vita?
Ma poi, come altre innumerevoli notti, la frusta della Paura schioccò ancora dentro di lei. L'odio genera odio. Era vero, sì. Ma che cosa sarebbe diventata, lei, se avesse dato retta a quella terribile voce? Che cosa sarebbe diventata, se avesse deciso di lasciarsi andare nell'abisso? Se avesse deciso di lasciarsi bruciare il cuore? Peggio che odiare i propri nemici, peggio che odiare, sarebbe stato perdere se stessa. Avrebbe forse smesso di vedere i Thestral, se avesse ucciso gli assassini di Brendan? Avrebbe forse perso il ricordo di quella notte terribile che non la lasciava dormire? Avrebbe forse riavuto indietro il suo amore, i suoi sogni, le sue speranza, la sua vita, ormai perduti? No. No. No. Niente sarebbe cambiato. Avrebbe solo avuto un incubo in più, il pensiero di essersi abbassata al livello bestiale e crudele di quei vermi. Avrebbe sacrificato se stessa, l'unica cosa che le era rimasta, alla stessa causa che le aveva portato via il suo uomo.
*NO*. Piuttosto sarebbe morta cento volte. Era per questo, che era entrata negli Auror. Era per questo, che si era votata al Bene. Era solo, ed unicamente, in fin dei conti, per questo: per vincere contro se stessa. "Combatto contro i miei Demoni" rispose infine, lo sguardo rivolto al Thestral, la sua mano che gli accarezzava il muso spettrale. "E contro la Notte che sento dentro quando ripenso alla mia perdita.”. Sorrise, tristemente. “Non è forse questo che facciamo a volte, davanti alle perdite? Combattere contro noi stessi, e contro l'abisso che si apre in noi davanti all'irreparabile". Guardò Raven, quegli occhi puntati verso le stelle, così neri, come quella notte, *e come quell'abisso*. Le venne in mente quella frase, affascinante e terribile, di Nietzsche. << Quando scruti nell'abisso, anche l'abisso scruta dentro di te >>. Era così, che si sentiva, davanti a quell’uomo. Inquieta, forse spaventata, e tremendamente affascinata insieme; sull’orlo di un salto nel buio, ma con un impulso forte e potente che la portava a voler saltare. No, Raven non era un grifone. Era un drago. Si avvicinò lentamente, ancora di più, cercando i suoi occhi. “E lei, professore? Lei come si è sentito, davanti a quell’abisso?”.
 
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view post Posted on 23/1/2015, 22:29
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Semper Fidelis

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Every night and every morn
Some to misery are born.
Every morn and every night
Some are born to sweet delight.
Some are born to sweet delight,
Some are born to endless night.

Willam Blake


E' bellissima? La Sonata al Chiaro di Luna? Era la ciliegia, era la cosa che ti prendeva e ti trasportava in altri mondi, in altre dimensione, era il soffio vitale, uno di quelli che donava la scintilla, che donava la corda, che dava la forza e la capacità di rialzarsi e di vedere oltre, oppure, semplicemente, di perdersi nel trascendentale. Sì! Il trascendentale. Quello che nessuno riusciva a vedere, ma che, grazie proprie alle opere dei vari Beethoven, Mozart, Bach, Prokofiev ed altri appariva sempre di più vicino, sempre più toccabile, sempre più intuibile, tangibile, reale e presente. Che lo signorina lo sentisse anche lei? Che sentisse le corde dell'anima vibrare? Che sentisse le stelle danzare, cantare, squillare, trasportarla in altri mondi, mondi pieni di suoni e di poesie, di speranze, ma, ahimé, anche di sofferenza e di dolore? Sì, probabilmente. Probabilmente lo sentiva. Probabilmente vedeva anche lei mille colori e mille mondi intorno a loro; anchela signorina Goodheart, forse, guardava il buio danzare, i steli d'erba soffrire, e gli alberi, ahimé, cantare. Anche lei vedeva quel mondo pieno di pathòs, non divino, ma umano, che ti prendeva, ti faceva affondare nel proprio calore, e, non volendo più tornare alla vita di tutti i giorni, alla accollante routine dei compiti e dei voli, ci rimanevi.
"Sì". - Pensò Raven. - "Quella sonata ti scioglie nella notte; quella sonata ti fa divenire la luce lunare, essa ti porta con sé stringendoti la mano... e l'anima." - Finì di pensare Raven, osservando la notte. Quando sarebbe stato bello suonarla proprio li? Accanto al misterioso castello, resistito a mille battaglie, ma che presto, molto presto, sarebbe caduto. Raven conosceva le note, a parziali tratti sapeva anche suonarla; era una di quelle melodie che agivano su di lui come i movimenti di un incantatore dei serpenti, su di un cobra; essa lo calmava, lo distoglievo dalle preoccupazioni odierne su Lord Voldemort, sulla morte, sul dolore, sparso ovunque, e sulla vita, ahimé, sempre più pesante, marcia, e forse anche buia.
Non ci si poteva aspettare niente di meno da un genio, il cui nome era destinato all'eternità, e la cui Arte non poteva che venir scoprta, riscoperta, e scoperta ancora da generazioni sempre più nuove, ma ugualmente passionali. Sì, miss Goodheart aveva terribilmente ragione, e il silenzio di Raven, non faceva altro che sottolinearlo, non faceva altro che dare il giusto peso alle sue parole, poiché ogni altro termine umano non poteva che diminuire il significato di quel silenzio. Ogni parole, ma anche gesto, che Raven avrebbe espresso o detto, avrebbe semplicemente diminuito il genio umano di Beethoven, e forse anche della comprensione delle cose di miss Goodheart; una comprensione decisamente simile a quella di Raven, ma umana, diversa, forse femminile, forse meno piena della passione di Raven per il combattimento, e per il silenzio. Non minore o maggiore, migliore o peggiore, ma semplicemente diversa, o diversamente intuibile.
In compenso alla risposta, Raven ben osservò il cordiale sorriso della giovane donna. Ah, quanto era ancora giovane! Ah, quanto era graziosa, li, danzante tra i riflessi delle stelle nella neve, a sorridergli, e parlargli di Beethoven, e delle sue composizioni eterne! Forse era quel soffio di purezza di cui Raven aveva bisogno per rendersi conto, che il mondo non era ancora completamente caduto nella trappola della fierezza individuale, nella trappola del marcio, del "voglio io" e del "egoismo" gratuito. Vi era ancora qualche speranza nel cambiare senza grandi spargimenti di sangue, e quella donna non faceva altro che confermarlo, non solo con la sua intelligenza e cultura, non solo grazie alle sue conoscenze, ma anche e sopratutto grazie al suo comportamento, e al corso dei suoi pensieri. O forse... Forse soltanto grazie all'intuibile purezza del suo cuore; una purezza, forse destinata a cambiare le sorti di quel mondo, da sempre immerso nella tristezza dei eterni conflitti; o forse nel cambiarlo, ma affondandolo ancora di più nel sangue, nel dolore, nell'odio e nella vendetta per via delle proprie perdite e dei propri pensieri.
Osservando il movimento delle braccia della giovane addomesticatrice, Raven non si mosse. Aveva freddo? Certo, poteva regalargli il suo mantello, ma sarebbe stato decisamente più prolifico invitarla nel castello, nei sotterranei, nella sua residenza spartana e priva di ogni lusso materiale, ove lei, Aquileia Goodheart, avrebbe potuto ammirare in che condizioni si ritrovava il giovane professore. E difatti, osservando quel suo gesto, Raven aprì bocca per replicare, ma ecco che, con malinconia osservando i corpi celesti, replicava Aquileia.
«No.» – Replicò secco, tornando anch'egli ad ammirare le stelle. Erano eterne quasi loro. Forse meno eterne di Mozart e di Beethoven, ma pur sempre... infinite. Eh! Quanto anch'egli avrebbe voluto risplendere di luce propria, diventare una stella, e fungere da guida per i giovani maghi in cerca di qualcosa! Poi tornò a guardare il vuoto, buio e misterioso, tra una stella ed altra. Anche quel buio lo affascinava! Vuoto, ma anche pieno. Senza di lui non ci sarebbero mai state le stelle; se non ci fossero stati i periodi bui, non ci sarebbe stata nemmeno la luce... Era così che funzionava, davvero. Una parte si completava con l'altra: il bianco contrastava col nero, ma in contempo formava il grigio.
"Pazzesco".
«No.» – Replicò di nuovo, ancora fermamente scuotando la testa. - «Queste opere non si possono paragonare, miss Goodheart.» – Disse Raven. - «Sono due opere estramente diverse: i notturni sono un viaggio, lungo e profondo, fin dentro la notte, fin dentro le stelle, fino dentro il significato che loro hanno; mentre la Sonata al Chiaro di Luna, non è tanto un viaggio in questi misteriosi elementi, quanto un viaggio nella loro immensa bellezza, quanto un viaggio in loro stessi. Se Chopin esprime il profondo significato della notte, delle sue ore, pause e minuti, Beethoven, d'altronde, ci porta dritti-dritti al fascino della Luna, e potere che questo fascino esercita su di noi, umani. Se il primo entra nell'elemento, facendocelo comprendere e percepire, il secondo entra nell'Idea stessa di quell'elemento, facendola apparire così, come dovrebbe essere: pura, misteriosa, priva di influenze esterne e di significati strambi. Sono anche molto diverse per stile, e quindi anche per profondità...» "Ma." - Avrebbe voluto aggiungere Raven in seguito. - "Questa è solo una mia opinione. Non l'opinione di un musicista, ma di una persona qualsiasi, che i notturni nemmeno li ha ascoltati tutti...". E invece tacque, continuando, con lo sguardo completamente glaciale e tranquillo, a guardare i puntini luminosi sparsi per il cielo. Chissà se anche Beethoven e Chopin vedevano ciò che vedeva lui; chissà se anche loro si nutrivano di quell'atmosfera in contempo tangibile e misteriosa, come a poterla afferrare, e trasformavano i suoi sentimenti in note su un pentagramma. Certo era però che entrambi loro la notte la comprendevano molto diversamente, e, forse, Chopin più umanamente di Beethoven.
«No.» – Disse di nuovo Raven, tornando poco dopo ad ascoltare la nuova affermazione. - «Non ho un compositore preferito, miss Goodheart. Mi piacciono tutti. Ma,» – continuò, lentamente volgendo lo sguardo verso la esile figura della giovane donna. - «ho due opere in assoluto preferite su tutte le altre. E' la sinfonia numero 45 di Haydn, e il Requiem di Mozart.» – Disse, ricordandosi le parole dello stesso Mozart, a proposito della, - a parere di Raven, - sua opera più grande. "Ho paura che sto scrivendo un Requiem per me stesso". E così fu, come succede spesso con le menti brillanti e colte, con gli uomini destinati a essere stelle e non pianeti. Morendo, Mozart non riuscì a completare l'opera, ed essa venne ormai finita da uno dei suoi migliori allievi.
"Chissà come sarebbe stata, se fosse stato Mozart a finirla...". - Spesso si chiedeva Raven, ascoltando la parte dell'Introitus, e quella del Dies Irae, dentro l'opera le sue preferite. Se fosse stata diversa, lo sarebbe stata non di molto, ma giusto un po'. Prima di morire, quel geniaccio era riuscito a lasciare un'ultima stella, un'ultimo canto del cigno morente, proprio come nel caso di Beethoven, e, splendendone, andarsene da quel mondo con la testa alta.
«Un Dio.» – Disse Raven a voce alta, perdendo del tutto la propria glacialità e infuocandosi in un attimo, con quel calore tipico designato alle anime in grado di donarsi, amare, soffrire ed accendersi, quasi con le lacrime che gli volgevano agli occhi al solo pensiero di quel Requiem, ascoltanto nelle grandi cattedrali, in un'atmosfera di sacralità e purezza d'animo pura. Sì, diamine, lo era. Mozart era un Dio, intoccabile, puro, semplice e complesso in contempo, che sapeva manipolare coi mille colori e mille emozioni, che si elevava, facendo percepire cosa combinavano li, nel Paradiso, sul Monte Tabor, ma anche nel Limbo e altrove. Lui era Achille, e Beethoven era Ettore; Mozart non aveva punti deboli, semplicemente, mentre Beethoven... si, li aveva, ma soffriva come gli umani, suonava come gli umani, trepidava come noi, umani, e proprio in questo splendeva. Del resto, sì, tra Achille ed Ettore Raven da sempre ammirava di più Ettore, proprio per la sua capacità di essere il migliore tra gli umani, per il non esere mai stato emerso in un fiume fatato, e di avere molti punti deboli, ma in contempo dell'essere umano, del sentire sempre la morte vicino, e per questo vivere, vivere davvero.
Ma no, non in quel caso...
«Se proprio mi costringesse a scegliere un compositore preferito, miss Goodheart, penso che le direi di preferire più Mozart rispetto a Beethoven.» – Sì, diamine! Mozart! Mozart! Mozart! E ancor Mozart! Anche lui pieno di pathos umano, anche lui pieno di emozioni, sofferenze, corde, dolore, dell'amore, ma anche della morte, delle lacrime, della sinfonia numero 40 e di quella numero 25, di Figaro e del suo matrimonio, ma anche della musica sacra, elevata, e in contempo passionale. E le sue sonate! Le sue sonate al piano! "Parliamone!" - Volle gridare a chiunque che lo avrebbe contradetto in quel momento, per poi saltargli addosso con pugni, calci, sputi, Sectusempra, e quant'altro.
In fondo, ahimé, Raven era ancora un bambino che faceva tanto l'oscuro e il glaciale, ma che si scioglieva, e tornava ad essere bambino non appena iniziava a percepire tutto il significato nascosto nel termine Arte, e in quello che ne derivava. Un cuore! Ce lo aveva ancora un cuore quel ragazzo; sì che ce lo aveva. Il mondo! Sì, lo percepiva, lo studiava, e lo vedeva. Viveva ancora grazie alle passioni, alla sua capacitò di comprendere, di capire, di entrare in un concetto, di vederlo nel suo Iperuranio, e per questo di farselo suo.
"E allora Haydn!?" - Volle dirle, quasi gridando, pur limitandola con uno solo sguardo. - "E allora la sinfonia numero 45? Quella che ti fa sembrare il mare, le onde, l'oceano, quella che ti sbatte contro le rocce, ancora, ancora, ancora e ancora, finché il sangue non ti bagna gli occhi, finché il suo sapore non inizia a bagnarti la lingua, e finché capisci che tutto è perduto, che sei morto, che la tua anima sta per raggiungere l'Eterno, e che tutte le tue passioni, i tuoi combattimenti, bha!, anche i tuoi limiti, non sono destinati a far altro che fallire, a non-essere, a perdere... E poi BOM! Ecco li che tu, l'acqua, le onde, l'oceano, inizi a dare forma alle rocce, inizi a spaccarle, a designarle, a sottomettere, a fartele sue! Inizi a bucare il muro dopo l'infinità di volte che ci sei sbattuto! Inizi a vincere... Sì, inizi a sembrare quel Ettore da sempre destinato a perdere contro Achille, e che ora, alla fine della sinfonia, sta vincendo! Sta vincendo grazie alla sua umanità alla sua sofferenza, al suo non essere divino, alle sue carni, ossa, ma anche al suo spirito!".
Un solo sguardo non avrebbe potuto dirle tutto quel che Raven pensava, non avrebbe potuto farle capire cosa lei, domatrice, aveva acceso in lui, un bambino troppo cresciuto, un bambino che aveva tolto vite a destra e a sinistra, ma che era ancora un fanciullo, e che il mondo, i suoni, le parole, i termini, gli faceva suoi così, da fanciullo! Lei lo aveva reso di nuovo umano, diamine. Gli aveva fatto comprendere, che essere il più forte, che il non poter essere toccato da nessuno, dell'essere un Achille, non lo sollevava dalla responsabilità del poter soffrire con gli altri, e quindi di essere in contempo anche un Ettore! Mesi e mesi di preparazione, del sembrare sembro calcolate, freddo e glaciale, stavano andando sotto la coda di quel Thestral al solo ripensare alla sinfonia numero 45, la sua opera di musica classica preferita. A quel diamine di Sturm un Drang, tipico tedesco, che ti accendeva come un fiammifero, e che ti gettava da solo contro un esercito, contro chiunque, anche in uno contro un milione, sapendo che vincerai, vada come vada, soltanto grazie alla forza dle tuo spirito!
Who! Quella donna sapeva porre le giuste domande per accendere in Raven la passione, per tirargli dal suo interno quelle scintille, fiamme, quel raggio di Volontà, di metallo, che egli si portava dentro. Lei! Cavolo se lo sapeva! Che fosse la sua anima gemella?! Nessuno era riuscito a trasformarlo in quel tipo, nessuno, nemmeno Aryadne, aveva mai trovato la chiave per infuocarlo come un bastione sulle nevi dell'oriente, e il lucidio, brillante e strepitoso, dei suoi occhi, dell'espressione del suo sguardo, non poteva che significare una sola cosa: aveva fatto centro. Aveva fatto il centro dei centri, non dritto all'anima di Raven, ma altrove – fin dentro il suo cuore. Come? Con una sola affermazione... Affermazione che lo aveva portato a riscoprire Mozart, e dali Haydn, e dali la numero 45, e da li... Wow! Un universo intero di cose. Una sinfonia che rispecchiava Raven completamente, che lo descriveva in ogni dettaglio, che disegnava quel carattere, quella persona, che come un oceano si abbatteva su quel sistema ingiusto e putrido, senza risultato, ma modificandolo piano-piano, e, nel risultato finale, spazzandolo via del tutto.
"La chiave, miss Goodheart". - Pensò Raven guardandola. - "La chiave". Già. Che chiave? Cos'era ad attrarlo, a scongelarlo, a renderlo più umano, più vicino? L'atmosfera della misteriosa figura, quella limpidezza delle parole e dell'essere, quel tipico preoccuparsi,vivere, soffrire, averei dei legami, una storia, delle immagini da raccontare e condividere, ma in contempo forse era anche ingenua, considerando che il suo cuore, e Raven ne era certo, risultava, ad intuito, il più puro fra i puri, lontano anni luce da quei dolori, nei quali Raven era affossato, nei quali si era incastrato, abituato, e dei quali, alla fin dei conti, aveva ben imparato a godere. Il dolore ora era una parte indivisibile da lui, era una aprte del sé, era quella parte spaventata della donna li affianco, quella che avrebbe voluto compiere una divisione completa e totale, spuntare fuori da Raven a mò di ombra, e correre, correre, correre verso la notte, trovandoci riparo e nascondiglio... E poi c'era anche l'altra parte, forse ora più presente nello sguardo del Mangiamorte; era la sua parte luminosa, quella poetica, quella che non avevava ancora dimenticato di poter semplicemente amare, o, ahimé, anche di poter essere. Essere per davvero.
«Quando parlavo dell'esagerazione, miss Goodheart, intendevo dire che l'esagerazione nelle sue mani, diventava comunque un esagerazione tangibile, voluta, e quindi una di quelle che doveva esserci nel brano, che il brano lo distingueva dai brani altrui... Quell'esagerazione sfonda il tetto, semplicemente, trasportando l'ascoltatore» nei mondi lontani almeno per un attimo, e poi facendolo tornare li, tra le braccia della dolorosa agonia, tra le braccia della morte, ma anche della passione; dell'amore, ma anche del dolore delle perdite... – "E sa qual'è la perdità più grande miss Goodheart?"- Avrebbe pensato di colpo fermandosi e osservandolo fin dentro le iridi. -«E' la più grande perdità è la perdità della della possibilità.» – Il poter dire "ti voglio bene" a un cadavere non basta, il poter affermare che si era dei buoni amici, o amanti, o anche due spezzoni di uno stesso cuore... Il poter porgere la spalla, donare un bacio, essere un amico, trasformarsi in eroe, poi tornare umano e regalare un sorriso... Tutte queste erano possibiltà che, una volta perse, mai avrebbero potuto esserci di nuovo. Tutte queste possibilità andavano sfruttare durante la vita, per essere uomini e non spettri, per poter dire "Grazie, solo perché esisti... Così, senza nessun motivo... Perché ci sei nella mia vita", e quindi vivere per davvero, e morire per davvero; morire come un cigno, come un piccolo cigno, la fine delle passioni del quale sarebbe stato un dolore insopportabile per alcuni, e una gioia mirabolante per altri...
Eppure... A pensarci tutto questo per Raven non era altro che una fantasiosa logica, un lontano miraggio. Era la sua parte umana a cantargliene anche li, nel giardino, e lui, ben conscio che mai sarebbe tornato indietro, e mai l'avrebbe accettata, non faceva altro che camminare in avanti, di tanto in tanto invidiando qualcuno per una tensione dell'essere maggiore, per un sorriso, o sguardo, più profondo. Eh, e come invidiava quelle persone! Come invidiava le loro debolezza, il loro poter morire, le corde del loro cuore, sempre tese, sempre pronte a spezzarsi! E lei, ammiratrice di Mozart, il cui cuore, più puro dell'acqua del fiume, battendo, le avrebbe regalato ancora quella droga di cui Raven andava privandosi: le emozioni, il poter vivere.
«Ha ragione miss Goodheart.» – Avrebbe semplicemente affermato il ragazzo giapponese, rispondendo al fatto che Beethoven e Mozart non erano sullo stesso stile. Poi, fatto silenzio, avrebbe continuato ad ascoltare quel che la giovane domatrice aveva da dire in proposito ai due. E sopratutto per un attimo si chiese fin dove arrivasse la sua cultura nel campo, cosa conoscesse, cosa trascurasse, quanto in profondo, la giovane donna, aveva solcato quei mari di musica passionale, che, a suo tempo, avevano incantato Raven nel totale e completamente.
"Ti sfida?" - Pensò Raven ascoltando le parole della giovane donna. Quasi gli venne da dire che se Mozart lo avesse sfidato, lo avrebbe semplicemente appeso con la testa in giu su di un albero qualsiasi nella foresta, ove avrebbe avuto a che fare con icantropi centauri, mostri, troll, e quant'altro; poi però ritenendo quel commento un commento troppo banale e infantile, quasi irraguardante verso la situazione, Raven si astenne, preferendo percepire le note della notte, e i loro sussulti intorno a lui.
"No". - Si disse infine Raven. A lui non era successo. Mozart non lo aveva sfidato. Mozart gli aveva dato il proprio avambraccio mentre lui era disteso a terra senza forza alcuna, e lo aveva alzato, lo aveva rimesso in piedi, gli aveva donato le forse per comprendere e per continuare a lottare, per non arrendersi, per infiammarsi, per capire il significato del silenzio, della forza, del coraggio, dell'essere leali, ma anche del sfruttare le giuste occasioni. Mozart era quello che albergava nei cieli, un angelo, - "Proprio come lei, miss Goodheart", - che scendeva ogni tanto, a mò di scintilla, e con il proprio marchio dorato sceglieva qualcuno su quella terra priva di senso, portandolo con sé, fin sopra le nuvole.
«Bhe, miss Goodheart...» – avrebbe risposto Raven, tornando ad essere quell'uomo glaciale, calmo, atono e grigio, di pochi minuti prima. - «Non può pretendere che Mozart e Beethoven siano uguali. Sono entrambe delle individualità splendenti, affermatisi come tali, e proprio per questo simili e diversi.» – Già! Dovevano esserlo. Dovevano essere diversi! Del resto, erano cresciuti per essere diversi, si erano sviluppati diversamente, avevano letto e preferito cose diverse, avevano persino mangiato in luoghi diversi e pure diversamente. E nessuno, nessuno di loro, avrebbe mai voluto essere simile a qualcun altro. Perché è così, perché quando sei Mozart, quando sei Achille, quando sei Modigliani, quando sei Leonardo, sei una stella brillante di tuo, e non hai bisogno di alcun riflesso altui. Sei autonomo, sviluppato. Gli altri ti girano intorno, vedono in te quel superuomo di cui l'umanità ha bisogno per continuare a esistere, o forse soltanto riscoprirsi. Ritenere che uno possa aver influenzato l'altro, ritenere che ci fossero dei punti di contatti più grandi di quei che erano realmente, posizionarli accanto per quanto riguardava stile, composizione, scritture e altro era una blasfemia. Perché ti trasportavano e ti sfidavano entrambi. Perché la loro sfida era diversa da quelle che tu, povero-misero-umano-mortale, eri destinato a vivere. Perché Mozart scriveva le sfide bianche, e Mozart – nere. Perché erano entrambi dei geni altissimi, e il solo parlare ad alta voce di loro non poteva che considerarsi essere una blasfemia di quelle pesanti. "No, miss Goodheart," - avrebbe voluto dire, - "Una sfida senza il trasporto è incompleta, e un viaggio senza le sfide, senza le avventure, è noioso. E' per quello che ognuno di loro ha analizzato ogni singola vibrazione, ogni singola nota, ogni respiro, battito, ogni conseguenza e le sue derivazioni, ogni successo, insuccesso, ogni trepidazione... Non ci può essere Mozart senza Beethoven, miss Goodheart. Altrimenti il mondo sarebbe incompleto. Altrimenti il bianco sarebbe senza il nero, l'azzurro senza il grigio, il giallo senza viola... Così come non è possibile la luce senza ombra, miss CuorePuro. Così come non è possibile la luce senza l'ombra."
Poi, immediatamente, si ricompose. Gli brillavano ancora gli occhi per via delle emozioni provato parlando di Haydn e della sua musica? No. Il gelo, il freddo, la notte, il thestral. Tutto questo aveva lasciato in lui soltanto l'ombra di sé stessa; aveva altro a cui pensare. Aveva quel vortice, vortice di sentieri e di emozioni, che lo spingevano verso il suo obiettivo – la trasformazione di quelle lande deserte in un mondo migliore, un mondo di Luce, di vera Luce! Sì, proprio come avrebbe voluto Haydn, nel mentre scriveva le "Ultime 7 parole del nostro Salvatore sulla croce". Proprio come avrebbe Mozart, nel mentre scriveva la sinfonia numero 25, e proprio come avrebbe voluto Beethoven, cieco, sordo e solo, ma con l'ultima scintilla, l'ultimo canto, nella canna del suo fucile.
Raven aveva ancora tanto da dire, e difficilmente sarebbero bastati pochi per poterlo fare. Da vincitore, da vincente, da trionfatore, con un sorriso sulle labbra si sarebbe alzato sulle rovine di un mondo vecchio, mondo, in cui l'amore, quello vero, non era altro che un frutto marcio, un frutto da consumare in fretta e senza esitazioni, un mondo in cui non esisteva né il coraggio, né l'onore.
Lo sapeva lei? Lo sapeva miss Goodheart tutto questo? Sapeva, che un sorriso poteva valere più di mille parole, che l'amore, quello idealista, quello trans-corporeo, quello mentale, poteva esistere? Per un attimo Raven si chiese se la sentisse anche lei quell'attrazione, provocata dagli argomenti delicati et intellettuali, provocata forse da una vicinanza sentimentale, forse da altro. Poi abbandonò il tutto, lasciandolo cadere nel vortice dei suoi ideali e della sua volontà di cambiare le cose, che, luminosa e agghiacciante, tutto assorbiva e tutto eliminava.
«Sì, miss. La conosco.» – Disse, riferendosi alla poesia. Come la conosceva? Non lo sapeva dire nemmeno lui. Forse la aveva trovato da qualche parte insieme ai famosi aforismi di Chechov (quello de "Che giorno fantastico è oggi. Non se bermi un the, o impiccarmi."), forse alle poesie di Blake, insieme al Paradisto Perduto di Milton. Ma aveva importanza? L'unica cosa importante per davvero, era che la conosceva, seppur come un miraggio in lontananza, però, sì, era sua, e quelle parole delicatamente pronunciate dalla sua ospite notturna, gli tornavano in mente una dopo l'altra. Erano parole forti, docili, azzeccate, e giuste.
«Però,» – aggiunse, - «la musica di Beethoven non ha bisogno di parole per entrarti dentro, ma solo di suoni. Mi sembra molto più diretta, e... passionale.» – Non che volesse offendere la poesia italiana, contrapponendola alla musica classica tedesca, è che, per un motivo o per l'altro, Foscolo, non gli piaceva, non gli dava quella nota da lui desiderata, o, in parole più pover, non lo accendeva allo stesso modo di altri (D'Annunzio, Pushkin, Lermontov, Shevchenko, Mickevich, Rimbaud, Goethe, una serie di haikuisti giapponesi e altri, altri, altri ancora). Dunque alla poesia e alle parole della giovane poeta, non rispose che con un flebile sorriso. Poteva dire e fare di più? Sì, senz'altro. Poteva mettersi a parlare anche di Foscolo, alle sue poesie cupe, quasi come la personalità di Raven, ma, ahimé, non sarebbe stato un discorso da fare. Semplicemente... preferiva altri, tra i migliaia poeti che, come stelle, sono stati sparsi nel giro del modo e dell'universo.
«Mi sembra l'uso di una lingua troppo acculturata, poco capibile da chi non è italiano, e, per certi versi, molto tirata.» – Rispose, alla domanda della ragazza sull'abbraccio. Era così, e non ci poteva fare nulla. Se una poesia, strofa o rima in lui non suscitava nulla, lasciandoci piuttosto un vuoto grigio e desertico (cosa che avrebbe voluto evitare), la evitava, faceva finta che non ci fosse. - «Anche se Foscolo, in fin dei conti, è tra i migliori poeti italiani.» – Disse, quasi dicendo quella che è un'ovvietà totale su tutti i fronti e su tutte le direzioni. Poteva dire più banalità? "Ah, Raven. Finiscila di raccontare a te stesso questo tipo di banalità romantiche... è da... è da bambini hehe".
Di nuovo scuotendo la testa, Raven ascoltò l'altra affermazione della giovane domatrice.
«Conosco anche D'Annunzio.» – Sorridendo appena-appena disse Raven. - «E' il mio secondo preferito poeta italiano, se non tra i preferiti in assoluto.» – Disse serio. Sì, non mentiva. Non mentiva per nulla. Adorava anche lui La pioggia nel Pineto. Quella era l'essenza dell'esteta, dell'esteta ancora in vita, di quello che conosceva il modo per vedere sin dentro la pioggia, per vedervi dell'innata bellezza, creata da chissà quali mani. - «E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione. »
– Finì Raven, quasi da sé, forse contrapponendo la fine all'inizio, o forse, semplicemente sottolineando, che quella poesia era divinamente bella nella sua completezza, che era così come doveva essere, che era completo, e spplendeva di luce biancastra in ogni sua parte, in ogni rima, frase, strofa, o persino pensiero. Se davvero vi esisteva un mondo delle idee, come qualcuno affermava, l'idea della pioggia nel pinero era sua, era decisamente sua, era decisamente di Raven, che in quelle parole, italiche, affascinanti, vedeva un mondo intero, come un infinito universo all'interno di una goccia sola della mirabolante pioggia.
D'Annunzio era un genio, e bisognava dargliene atto.
"O Ermione!"
«E' appassionata di poesia, miss Goodheart?» – Chiese, quasi d'un tratto, , quasi sorridendo, forse arrossendo, e fermandosi poco dopo che la ragazza finì di esprimere i suoi apprezzamenti al riguardo di quelal poesia... Era una domanda lecita? Era una domanda opportuna? Sospirò nella neve, osservando le stelle brillare lontano, proprio come gocce di quella pioggia, decantata e descritta, sentita, percepita, e vissuta. - «E della Bella Arte?» – Chiese, riferendosi a tutto quel mondo di lotte, di duelli, di colori, più che suoni, che avevano, anch'esse, fatto monumenti ai fenomeni naturali, ai sentimenti umani, agli eventi e a una storia vissuta. Riferendosi a Caravaggio, a Picasso con il suo cubismo, a Modigliani, morto nel suo genio, a Roberto Ferri, i cuoi quadri soprendevano Raven sempre di più, per via dei suoi dettagli, di Monet, e le sue nuvole bianche, i suoi colori leggeri, quasi come se fossero assente. Poi ci ripensò: se avesse iniziato a parlare anche delle tele famose, del modo di esprimere le cose, di disegnare, di Rembrandt e Van Gogh, avrebbero finito a parlare in mattinata presto, e solo e soltanto per colpa di quel suo amico, pittore, che nella gioventù gli faceva scoprire quel mondo di colori misto ad immagini e ombre.
«Sì.» – Disse Raven. - «La pioggia nel pineto è assolutamente una chicca; una poesia emozionante e mozzafiato. E su questo mi trova completamente d'accordo, poiché è impossibile dimenticarla, e una volta che si inizia a leggere, vien difficile da staccare gli occhi.» – Poi sospirò, guardingo. Perchè aveva iniziato a parlare della poesia con una domatrice che, inseguendola, aveva fatto finta di averla scambiata con un mangiamorte? Quel ragazzo era il paradosso, la contraddizione camminante, e a ogni respiro compiuto se ne accorgeva sempre di più. Vi poteva essere dell'altro in quel mondo illusorio, in cui il movimento non esisteva, alcuni inifniti erano più grandi di altri infiniti, la logica spesso ti portava al risultato sbagliato, e la vita di ognuno non era altro che il sogno di un qualche Dio tanto immobile quanto oscuro?
"Me ne parli ancora..."
Sorrise.
«Ecco perché nell'intime
cogitazioni io sento
la bestemmia dell'angelo
che irride al suo tormento,
o l'umile orazione
dell'esule dimone
che riede a Dio, fedel.
»
– Disse, togliendo lo sguardo dagli occhi, bellissimi e profondi, della signorina, e tornando a guardare il vuoto, che alleggiava sulle acque del Lago Nero. Prese un sospiro, quanto a voler comprendere, che quei versi erano suoi, che lo descrivevano, che se le sentiva come se gli bruciassero dentro, come se fossero davvero suoi, come se fosse stato lui stesso ad averle scritte, tanto tempo fa, quando non era ancora nato nel suo corpo, e ogni idea, ogni mirabolante fantasia sembrava lontana, come un sogno. Poi continuò, improvvisamente girandosi verso Aquileia, e venendole incontro, vicino, sempre più vicino, fino alla distanza di un sguardo solo.
«Ecco perché m'affascina
l'ebbrezza di due canti
Ecco perché mi lacera
l'angoscia di due canti...»
– Distolse lo sguardo dagli occhi di Aquileia, guardando di nuovo nella foresta, ove l'oscurità regnava su ogni altra cosa.
«Ecco perché il sorriso,
che mi contorce il viso...
...o che m'allarga il cuor.»
– Poi si girò, volgendo la schiena alla donna, e, continuando a camminare verso il lago, continuò a pronunciare i versi che tanto gli piacevano, e che tanto aveva fatto come suoi. Diamine! Se non erano belli... Forse, se qualcuno l'avesse contradetto in quei istanti, egli l'avrebbe semplicemente buttato nel lago, senza poi farsi troppe domande in merito alla cosa.
«Ecco perché la torbida
ridda de' miei pensieri,
or mansueti e rosei,
or violenti e neri;
ecco perché con tetro
tedio, avvincendo il metro
de' carmi animator.
»
– Li sentiva miss Goodheart quei versi? La sentiva quella vibrazione? Quei sospiri, a delle volte rosei, a delle volte neri? Raven gli stava dando la chiave, gli stava dando ciò che, forse, cercava. Attraverso una poesia sola gli stava dicendo chi era, cosa ci faceva, cosa voleva, e cosa avrebbe trovato. Arrivato sulle sponde del lago, avrebbe aumentato il volume della voce, facendo in modo che Aquileia la sentisse. Era la poesia che, del resto, lo richiedeva! Era la poesia. La poesia, i versi, lettere e le idee che le persone dal cuor idealista amavano.
«O creature fragili
del genio onnipossente!»
– Quasi gridò, volgendo lo sguardo, un misto di agitazione e rabbia, un misto di sfida e volontà di superare forse anche il Creatore, verso le stelle. Poi si ricordò, sì.
"Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, ancora una volta, la nostra sfida alle stelle!".
«Forse noi siamo l'homunculus
d' un chimico demente,
forse di fango e foco
per ozioso gioco
un buio Iddio ci fe'.

E ci scagliò sull'umida
gleba che c'incatena,
poi dal suo ciel guatandoci
rise alla pazza scena
e un dì a distrar la noia
della sua lunga gioia
ci schiaccerà col pie'.

»
– Quindi si fermò, e sorrise. Quasi come per chiedere se dovesse continuare, ma in contempo fissando lo sguardo bicromatico di Aquileia, penetrando con il suo sguardo oscuro fin dentro le più remote corde della sua anima.
«Talor, se sono il demone
redento che s'india,
sento dall'alma effondersi
una speranza pia
e sul mio buio viso
del gaio paradiso
mi fulgureggia il sol.
»
– Eccola la sfida, ecco lo sguardo, ecco ciò che voleva dire, ecco chi era... Lo sfidante che comprendeva quanto sciocco era, e che, in contempo, non smetteva di lottare, che non lasciava la sua missione, che continuava a camminare, luminoso, splendente, avendo contro tutto il mondo. Ecco che lo sguardo di Raven di nuovo si avvicinava alla dama misteriosa, ecco che le sue labbra parlavano ancora, questa volta riferendosi, forse, a lei stessa.
«L'illusion-libellula
che bacia i fiorellini,
-l'illusion-scoiattolo
che danza in cima i pini,
-l'illusion-fanciulla
che trama e si trastulla
colle fibre del cor,

viene ancora a
sorridermi
nei dì più mesti e soli
e mi sospinge l'anima
ai canti, ai carmi, ai voli;
e a turbinar m'attira
nella profonda spira
dell'estro ideator.
»

Poi si fermò, quasi di colpo, come a voler vedere che effetto avessero avuto quelle parole sulla giovane donna; cosa avessero provocato in lei. Diamine! Lui pensava che non esistevano parole più mirante, migliori, più azzeccate di quelle per descrivere il mondo, ma anche per descrivere lui, Raven, un infinito mondo all'interno di un infinito universo.
Sorrise.
«E sogno un'Arte eterea
che forse in cielo ha norma,
franca dai rudi vincoli
del metro e della forma,
piena dell'Ideale
che mi fa batter l'ale
e che seguir non so.
»

"Ideale... Quell'ideale... Parla di quell'ideale...".
«Ma poi, se avvien che l'angelo
fiaccato si ridesti,
i santi sogni fuggono
impauriti e mesti;
allor, davanti al raggio
del mutato miraggio,
quasi rapito, sto:

e sogno allor la magica
Circe col suo corteo
d'alci e di pardi, attoniti
nel loro incanto reo.
E il cielo, altezza impervia,
derido e di protervia
mi pasco e di velen.

»
– Quella poesia era stata scritta per lui su misura molti secoldi prima della sua nascita. E il cielo, altezza impervia... Come se fosse li, accanto, il tabor, il paradiso, l'eden, il cielo. Come se gli dei fossero diventato uomini, fossero tangibile, come se fosse tangibile un universo intero.
«E sogno un'Arte reproba
che smaga il mio pensiero
dietro le basse immagini
d'un ver che mente al Vero
e in aspro carme immerso
sulle mie labbra il verso
bestemmiando vien.
»
– "d'un Ver che mente al Vero" – Ripensò, ancora guardando la fanciulla, sicuro, da vicino, fin dentro alle sue iridi, fin dentro la sua anima, fin dentro... Ah! Sospirò, sentendo che quelle parole erano il veleno della gioia, perché soltanto una mente sopraffina e geniale avrebbe potuto scrivere un'opera d'Arte pura e semplice. Solo un genio...
«Questa è la vita! L'ebete
vita che c'innamora,
lenta che pare un secolo,
breve che pare un'ora;
un agitarsi alterno
fra paradiso e inferno
che non s'accheta più!

Come istrion, su cupida
plebe di rischio ingorda,
fa pompa d'equilibrio
sovra una tesa corda,
tal è l'uman, librato
fra un sogno di peccato
e un sogno di virtù.
»
– Poi si fermò. Di colpo. La poesia era finita, e con la poesia, sembrava fosse finita anche tutta la vita di Raven, tutte le sue sofferenza, tutti i peccati, gli omidici, tutta la passione, l'amicizia e l'amore, il tradimento i nobili ideali. Diamine, vi era tutto. Persino quel sogno di virtù, li, dopo, dopo che il suo corpo fosse privo di ogni scintilla di vita, di ogni fiato.
Una lacrima si avvicinò al suo occhio destro, ma non per farlo farlo, per tenersi ancora addosso quella maschera del duro professore, Raven girò di scatto e fece per pulirsi un occhio, come dalla sabbia.
«Questa è la mia poesia preferita, miss Goodheart.» – Disse, con la voce triste e malinconica. - «E' la mia poesia preferita in generale, e non soltanto sulla penisola italiana. Lei... lei...» – si fermò, sentendo che gli stava arrivando un bolo alla gola, di quelli che impedivano di continuare a parlare. - «Lei è tutto.» – Disse semplicemente, come a voler confermare quei suoi sentimenti, quei suoi pensieri, quel suo essere e vivere. Arrigo Boito era un genio. Un genio incompreso, come molti, ma pur sempre un genio, e di questo Raven ne era assolutamente certo. Nulla accadeva per caso, dicevano alcuni... E quella poesia l'aveva scoperta proprio così, grazie al Caso, alla coincidenza, e gli piacque, sin da subito, sin dai primi versi. La lesse più e più volte, d'un soffio, godendosela, immaginandosela, gustandosela.
«E lei?» – Chiese Raven. - «Qual è la sua poesia preferita?» – Chiese. - «Me la racconti, per favore.» – Disse, di nuovo glaciale, tornando a fissare la signorina nelle iridi, a 1 metri dal suo viso, così giovane e bello, ma dinnanzi al quale, ne era sicuro, c'erano mille battaglie, c'era il dolore, il sangue e la disperazione. C'era la perdita, e non solo della possibilità, ma anche la perdita, forse, dell'anima.
Gli sarebbe dispiaciuto trovarsela di fronte su un campo di battaglia, e Raven questo lo capiva fin troppo bene. Sentiva qualcosa verso quella figura, e spazzarla via dalla sua strada... No, non poteva fare altrimenti. Gli ideali, i bisogni, un mondo migliore andava oltre i suoi sentimenti egoistici, oltre ogni cosa possibile, oltre ogni possibile... sì, oltre ogni possibile amore o attrazione. Del resto, si era promesso che avrebbe ammazzato, torturato e fatto fuori chiunque vi si ponesse tra di lui e il suo scopo, e non poteva disobbedire alle sue parole, non poteva fare altrimenti, e avrebbe senz apietà ucciso chiunque, anche suo fratello, per realizzare i suoi sogni.
"Il mondo non è un ufficio esaudimento desideri..." - Gli disse la sua sua mente, continuando un monologo mai interrotto. Non aveva mai avuto dei desideri, a parte un solo, unico desiderio. Tutti gli altri erano finalizzati a quello, tutti gli altri erano solo gli ostacoli sulla strada per raggiungere quel che desiderava, quel che voleva. Era così, e non ci poteva far niente.
Era egoisti. E aveva un sogno. E l'avrebbe realizzato, spazzando chiunque, anche Leia Miss CuorePuro via, come una foglia al vento autunnale.
Sorrise, e scosse il capo.
Che vi esistesse una lotta dentro di lui? Una lotta per divenire migliore? Era già migliore. Era già migliore di molti. Era già... "No, Raven". - Diceva. - "Non sei migliore, sei peggiore. Sei senza dignità... dignità... dignità...". In un attimo volle portarsi una mano al capo e portarsi via quella voce, soffocarla, stringerla, ucciderla, ammazzarla. Poi però tacque, ascoltando la notte. Ascoltando le fronde degli alberi, i salici, ammirando il silenzio, l'armistizio, durante il quale nessuna voce osava sollevare alcuni dubbi di sorta, durante il quale non vi era alcun duello, la Pace, che Raven desiderava godersi prima della ripresa dei colpi, prima delle mani e piedi volanti, prima dei volti addolorati e delle famiglie distrutte.
"Non sono più un bambino". - Pensò sincero. - "Ma ho paura comunque". Poi tacque.
"Ci si abitua", sentì, come se a Durmstrang lanciare i coltelli contro un bersaglio era del tutto normale. Doveva farvici una visita in quel castello; doveva arruolare qualcuno, creare qualcosa e avviarsi verso una destinazione ancora sconosciuta.
«Sì.» – Disse serio. - «Ci si abitua sempre, e a tutto.» – Continuò ancora, serio e glaciale come prima. "Ci si abitua sempre a tutto", venne a dirgli. Ci si abitua alle malattie mortali, al fatto che ti tolgono la famiglia, ci si abitua quando il Ministro ti toglie lo stipendio, ci si abiua quando una famiglia muore di fame, ci si abitua quando 3 deficienti stuprano una donna, e anche quando un idiota a caso ruba e pesta una nonnina di 80 anni... Ci si abitua. E quando si reagisce? In quel mondo, basato sul non-fare, sul falso perbenismo, sulle maschere sempre presenti sui volti di tutti, non si reagisce mai. Tanto va sempre tutto bene finché il dramma della vita non ti tocca, finché non devi scendere tu, in prima persona, nel campo. Va sempre bene, finché non devi sacrificare qualcosa di tuo.., forse la vita, forse altro, forse gli arti, forse l'onore, forse la dignità.
"Et." - Sospirò. Le cose funzionavano così in quell'universo, e tutto e tutti si piegavano alla legge della Forza. Non aveva ragione chi, realmente, la ragione ce l'aveva; aveva ragione il più forte, forse il più subdolo, forse il più ingannevole e meschino. Aveva ragione colui che conbatteva per averla, e non colui che, per via della logica o di altri inganni, sembrava averla. Tutto questo era vuoto e sciocco, privo di senso. Raven aveva bisogno solo di una boccata d'aria, di uno stop, di una pausa per pensare e riprendere, per fare i suoi calcoli, logici, ma solo in quel caso, e poi per muoversi di nuovo verso la sua destinazione, al tempo stesso nota e sconosciuta.
Il Thestral non gli metteva paura. Li vedeva sin da bambino quelle creature, al tempo misere e potenti. Li vedeva, li accarezzava, sapeva entrarci in contatto, e sopratutto, li ammirava. Loro, che erano riusciti a resistere nonostante tutto, nonostante il dolore, e nonostante il fatto, che fossero stati creati al puro scopo di essere visti da coloro, che avevano conosciuto (e qualcuno anche apprezzato), la morte. Dopo aver brevemente accarezzato il muso del Thestral, Raven guardò la signorina. Era preoccupata? Era dibattuta? Non capiva cosa fosse quell'agitazione, quei cambi, quei "Demoni". Non capiva che passato abbia potuto avere... Non capiva il motivo per cui si era ritrovata li, con lui, l'uomo più pericolo di tutti dopo Lord Voldemort, a disquisire su poesia e musica, pittura e Arte in generale. Non capiva, e voleva, - diamine, come lo voleva! -, capire, cosa nascondesse il suo cuore, oltre alla purezza più limpida e al bagliore più chiaro.
No. Ne era certo. Quella donna non avrebbe spedito ad Azkaban una mosca. Lei non avrebbe ucciso, non avrebbe odiato, lei sarebbe morta, perché i troppo buoni muoiono per primi.Perché quelli che lottano e combattono secondo le regole della Lealtà, sono destinati alla tomba, e solo coloro che si elevano sopra ogni altra morale, sopra ogni altro uomo, sopra le regole, sopra la magia... Solo loro sono in grado di vivere per sempre. Solo loro, come diceva Nieztche, sono in grado di diventare superuomini, e fungere da guida.
Sì, per tratti Raven pensava che Nieztche si sbagliasse. Per altri tatti – che avesse ragione. Era in disputa continua con sé stesso quel "occhi a mandorla", ma in quel frangente, sentendola parlare dei suoi demoni, non poté far altro che pensare a come sarebbe finita, a come i demoni l'avebbe sovrastata, cattura, e uccisa. Perché non bastava saper tirare i coltelli contro un bersaglio e addomesticare i draghi per poter lottare contro i demoni, del passato, del presente e di quelli futuri. Perché i demoni, spesso, anche loro lanciano i coltelli, anche loro addomesticano i draghi, e anche loro, a differenza di quelli leali e sinceri, uccidono, senza pietà, senza ripensamenti.
"Io non combatto contro nessuno, miss Goodheart". - Gli venne da dire, quasi sinceramente, ascoltandola. - "Sono gli altri che combattono contro di me. Io cammino soltanto sulla mia strada. Faccio quel che sono destinato a fare, e se loro si mettono di mezzo, miss Goodheart, è solo colpa loro, e non colpa mia. Io non li combatto. Io li spazzo via con il benestare dell volontà universale delle cose... Si ricorda cosa scriveva Crowley, miss Goodheart? Si ricorda Thelema, il culto della volontà? Si ricorda, che se la mia volontà è quella di cambiare il mondo, ed è in linea coi bagliori universali, allora chiunque si infrapponga fra me e il mio obiettivo merita la morte, poiché oppostosi al volere dell'universo intero? A differenza sua, non ho nemici, miss Goodheart. Ho solo persone che cercano di portarmi mia via il mio Desiderio, ma saranno loro ad essere portate via. Saranno loro a perire...".
«Non so lei,» – disse Raven quindi, - «ma io la mia perdita l'ho accettata con non pochi sussulti prima, e dopo quasi a cuor sereno. Del resto, "niente muore, a meno che non sia già morente", come disse un pittore austriaco morto a Berlino, e "Niente succede per caso", come dissero molti altri. Dunque devo accettare quel che è successo, e altrimenti non posso fare. Altrimenti... Altrimenti... E' la volontà di un architetto più grande, geniale, colui che decide, e colui che sa cosa è bene, e cosa è male. Io, dal mio basso, rispetto solo la sua volontà.» – "E se ho perso la mia famiglia, è perché vi era un motivo: così doveva essere, per me, ma anche per loro, per quegli esseri deboli, esseri incapaci di difendersi e di vivere... Selezione naturale, miss Goodheart. Niente di che." Tanto morire vent'anni prima o dopo, poco importava. Quel che importava per Raven, per quanto riguardava la morte, e morire Bene. E nessuno, né suo padre, né sua madre, ci erano riusciti nella fatidica impresa. Spettava dunque a lui il turno? Sorrise, poi continuò.
«E per vedere l'abisso, miss Goodheart, non serve nemmeno perdere qualcuno. Basti andare a King Kross a mezzogiorno e vedere i volti dei babbani ivi presenti. Si renderà presto conto che sui loro volti c'è già l'abisso. Che l'abisso è ovunque. Che ora, sopra le nostre teste, tra i puntini luminosi nel cielo, c'è un abisso. Che c'è un abisso dentro di lei, e uno dentro di me, che il mondo... che il mondo stesso è un abisso, dal quale alcuni riescono ad uscire.»
"Si renderà presto conto, miss Goodheart, che..." - Distolse lo sguardo, volgendolo verso l'infinito.
«L'acqua limpida dei cuori si è intorbidita sino agli strati più profondi. Il fiume degli uomini trasporta un diffuso odore di fango. »
Amava quel libro. Amava la sua lotta. La lotta contro nessuno, ma contro l'Idea che vi era dietro, e che taluni incarnavano. Amava, amava, amava. Proprio come diceva quel libro, proprio come se lo trasportasse, come se gli facesse vivere.
"Il Destino mi troverà forte e degno". - Pensò, pensando al futuro. Poi si scompose, e un sorriso, flebile, ma sincero, comparve sulle labbra del docente. - "Il futuro mi troverà senz'altro preparato...".
 
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view post Posted on 7/2/2015, 18:10
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«And the only solution was to stand and fight» Merlino ballerino!

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“Spiegami, se puoi, questa paura, questo turbamento;
rabbrividisco se mi dici “Angelo mio”, e intanto
sento le mie labbra tendere verso di te.”
(Charles Baudelaire)

E così, anche il bel professore conosceva i Notturni, la loro inafferrabile bellezza, la loro assoluta e delicata intensità. E a quanto pareva, a sentirlo parlare, li conosceva anche abbastanza bene. Mentre lui parlava, le iridi bicromatiche della ragazza si posarono di nuovo sul suo viso, su quei lineamenti delicati e misteriosi, su quello sguardo tanto profondo quanto insondabile che in quel momento era rivolto verso la notte. *Un viaggio*. La ragazza sorrise, in accordo con quella definizione. Sì, Raven aveva ragione, i Notturni erano un viaggio in tutti gli aspetti della Notte, ne solcavano le ombre come onde, ne descrivevano la natura malinconica e solitaria, facendosi strada tra la mutevolezza della Luna e l’algida immobilità di quelle Stelle lontane, incarnando la dolcezza della Notte, il suo romanticismo, così come la sua passione, e il tumulto che essa poteva causare, magnetico e violento insieme, così simile al tumulto che, a volte, agita il cuore e l’animo degli uomini, piccoli esseri insignificanti e indifesi davanti all’enormità di quel cielo lontano che si estende sopra di loro. La ragazza si volse ancora per qualche istante verso quell’infinito, gli occhi di nuovo colti da quella malinconica tristezza, mentre contemplava quell’Immenso che dominava incontrastato ogni cosa e sopraffava tutto, la neve, il Lago, la foresta, Raven, e lei. Avrebbe voluto perdersi, in quella Notte. Perdersi, definitivamente. Voltarsi una volta per tutte verso quel buio punteggiato di Stelle brillanti in cui la Luna dominava quieta, immobile e silenziosa, tuffarcisi dentro, e non tornare mai più indietro. Lasciarsi tutto alle spalle, ogni lotta, ogni corsa, ogni dolore, ogni perdita, ogni fallimento, abbandonandosi a quell’abbraccio così intenso e disarmante di cui Beethoven e Chopin, seppur in modo diverso, parlavano, scrivevano, cantavano, con le loro note vibranti, emozionanti e immortali. In quegli attimi, sentiva il fremito del mondo e della notte che vibrava di vita, di desiderio, e sentiva quel buio raccontarle, quietamente, quasi serenamente, di come il dolore e il rancore facessero parte degli uomini, al pari della gioia, dell’affetto, dell’amore. In quegli attimi, tutto quanto ci poteva essere di più deprecabile e inammissibile nel suo animo, nonostante esso fosse così temprato dalla sua fedeltà alla causa che aveva scelto, tutto ciò che era in grado di farla vacillare, liberando le ombre che dormivano nel suo cuore, tutto questo, si mostrava davanti agli occhi della sua anima, semplicemente, disarmato. In quegli attimi, tutto ciò che la provocava, la spaventava, la terrorizzava, semplicemente, stava: lì, quieto, immobile, impossibilitato a toccarla, calmato da quella Notte che, ormai, più che assassina, le era amica, confidente, compagna inseparabile, e che, placida, dominava quel Mondo bellissimo e terribile, di cui ogni parte, dalle foglie degli alberi appena agitate dal vento, alla calma dell’acqua del Lago, all’oscurità della Foresta, alla leggera danza della brezza, al cristallino freddo dell’inverno, raccontava ogni aspetto umano che conquistava il suo cuore. Come si poteva restare indifferenti a una tale enormità? Com’era possibile resistere e non arrendersi, davanti a quell’universo che in momenti come quello, si apriva come uno squarcio nell’anima? La ragazza voltò il suo sguardo bicromatico verso il bel professore. Raven le sentiva, queste cose, mentre parlava? Dietro alla sua maschera glaciale di gelo e indifferenza, dietro a quella voce atona e inespressiva, dietro a quel volto, bellissimo, e imperscrutabile, sentiva la potenza dirompente di quell’immensità? Sì, forse la sentiva, così come sentiva la passione di Beethoven, la delicatezza di Chopin, la drammaticità della splendida Morte del Cigno. Dietro a quella maschera gelida, glaciale, inquietante, che forse avrebbe anche potuto impaurirla o terrorizzarla, se lei non fosse stata quello che era e se non avesse vissuto ciò che ora era addormentato nel suo passato, forse lui coglieva le stesse sfumature che lei vedeva; certo, forse immancabilmente le filtrava attraverso quella foresta di contraddizioni che tante volte nel corso della serata non era riuscito a nascondere, almeno non agli occhi di lei, ma era certa che nemmeno quella cocciuta, ostinata e calcolata ostentazione riusciva a domare quella tensione verso un qualcosa di più alto che, in un modo o nell’altro, si faceva strada attraverso l’anima. Lo osservò ancora, scrutandolo attentamente, curiosa, cercando di sondare in qualche modo la sua espressione che, ormai, stava imparando a conoscere e riconoscere, continuando a camminare tranquilla alla luce della Luna. “Lei sa descrivere molto bene la musica di Chopin, professore. E’ vero, i Notturni sono proprio come un viaggio… e sì, sono diversi dalla splendida sonata di Beethoven. Ma le corde che entrambe queste opere toccano, non sono forse simili? Viaggiare nella Notte, come invita a fare Chopin, non vuole forse dire anche scoprirne il significato più profondo, alla stregua di Beethoven?” disse fermandosi per un momento.
“Conosce invece Dvorak?” gli chiese, ricominciando a camminare, il suono sordo dei suoi passi silenziosi che si perdeva nella neve soffice e immobile. “Anche lui era rimasto affascinato dalla Notte, tanto da far cantare la sua Rusalka alla Luna. Le è mai capitato di ascoltare quell’aria?”. Di Dvorak ne aveva sentito parlare per la prima volta da una sua vecchia amica, *Chissà dov’è ora quella dannata teppistella!*, con il pallino per quel compositore così atipico e multi sfaccettato. E lei, un po’ per accontentare quel pressing sfrenato, un po’ perché non aveva altro da fare, si era cercata qualche sonata. E ci aveva lasciato il cuore. Quelle note, quell’arpa all’inizio, quel canto così caldo, dolce e insieme struggente nella sua purezza e semplicità d’animo, l’avevano conquistata totalmente. Anche quello di Dvorak era un abbraccio, ma il suo calore era totalmente diverso da quello di Beethoven, o di Chopin. Se loro ti prendevano per mano e ti accompagnavano nella Notte, lasciando che le stelle e la Luna accogliessero tutto di te, Dvorak, dopo quel viaggio, ti donava la forza, le parole e la voce per rivolgere tutto il tuo cuore a quella Luna, che dall’alto del suo cielo vegliava sull’umanità. Quel canto era una supplica, una preghiera, che scaturiva pura dal più profondo del tuo essere. Quanto lo sentiva suo, al pari delle dolcissime note del genio di Beethoven e di Chopin! Quante volte, davanti a se stessa, non aveva potuto fare altro che appellarsi a Qualcosa, a Qualcuno più grande di lei, affinché la sorreggesse anche in quell’abbraccio così solitario, quando più dei suoi demoni, più della sua tristezza, più della sua stanchezza, si faceva largo nel suo cuore la solitudine. La ragazza sentì in un istante il primo accenno delle lacrime raggiungere i suoi occhi chiaroscuri, mentre ripensava a quel canto meraviglioso. “E’ commovente, sa?”. Sorrise lievemente tra sé, respingendo indietro con delicata pazienza quella tristezza, il cui unico riflesso sul suo volto era un repentino luccichìo dello sguardo, prima di volgere di nuovo gli occhi verso l’acqua del lago, e ricominciare a camminare, lasciando che il vento leggero della notte le facesse scivolare via quella malinconia, cullandola e addormentandola. Lei era così: sentiva, percepiva ogni cosa, ogni sensazione, ogni emozione, ogni sentimento, in ogni fibra del suo essere e fino nei più reconditi angoli del suo cuore. Lei amava, soffriva, correva, cantava, danzava, tentava, lottava, fino allo sfinimento, fino all’ultimo fremito di energia; tanto quanto vi era lo spirito della sfida, nella sua natura vi era anche quella sensibilità così acuta che le riempiva gli occhi e le faceva palpitare il cuore. Era una debolezza? Forse, sì, forse poteva esserlo, ma non le importava. In quell’istante, in cui stava iniziando a realizzare che la sua guardia non era più così alta, che i suoi riflessi non erano più così svelti (o che forse non volevano esserlo) davanti a quell’uomo, dentro di lei sentiva chiaramente che non le importava niente. Non sotto quel cielo, non durante quella notte così sorprendente, non davanti ai nomi di Beethoven, di Chopin, di Mozart, e di Haydn. Aquileia sorrise ancora nel sentir nominare la sinfonia 45 del grande amico dell’altrettanto grande Mozart, così come si compiacque che il professore conoscesse anche il maestoso e potente Requiem. “Le conosco entrambe, signor Shinetsu, soprattutto conosco il Requiem”. Come restare indifferenti davanti alla indomabile forza del Dies Irae, o davanti alla spietata grandezza del Confutatis Maledictis, il suo preferito di quell’opera incompiuta ma comunque immortale? Era assolutamente impossibile. Nello stesso istante in cui il suo cuore palpitava ancora più intensamente, nel ripensare a quelle note così travolgenti e forti, le giunse la voce di Raven, alta, forte, viva, *infuocata?*, del tutto trasformata. La ragazza si voltò di scatto di nuovo verso di lui. Non vi era traccia di atonalità, di freddezza, di gelo, in quelle due parole; in quell’istante, non vi era traccia di quella maschera sinistra, inquietante, paurosa, sul suo viso. In quell’istante, era semplicemente umano. Sì, diamine,anche lui fremeva, anche lui sentiva e percepiva sotto la sua pelle e dentro il suo animo quel mondo assolutamente meraviglioso, dietro quella dannata maschera! Solo quelle due parole, dette con quel tono palpitante, sì, palpitante proprio come il suo cuore, erano bastate a cambiare completamente lo sguardo che lei aveva su di lui. Mosse un passo, corto, ma sicuro, verso il giovane professore, ancora guardandolo con una sorpresa celata unicamente dalle ombre della notte, ma ormai padrona dei suoi occhi. E lì, insieme alle domande che già si era fatta su quell’uomo, insieme al “Cosa nascondi” e al “Da cosa ti nascondi”, un’altra domanda si fece strada. *Perché ti nascondi, Raven?*. Già, perché? Perché nascondere quel suo essere così intrepido, così passionale, così bramoso, così vivo? Perché celare quell’animo ardente come il fuoco dietro a un muro di ghiaccio? Perché, in un certo senso, sacrificarsi così, e in nome di cosa? Cos’era che poteva spingere a imprigionare la propria sensibilità, il proprio essere, il proprio cuore? Cos’era che lo persuadeva a nascondere quell’animo così desideroso di infinito?
Davvero, quell’uomo era un rebus perfetto. Incomprensibile, inafferrabile, e insieme tremendo e affascinante. Diosanto, ma che le stava succedendo? Perché era così facile per lei, in quegli istanti, abbassare così le sue difese? Perché era così facile mostrare una parte di se stessa a quell’uomo?

*Perché ti sento così simile a me, dietro quella tua maschera?*.
Serrò le labbra e scosse lievemente la testa, gli unici segnali visibili sul suo corpo di quel prepotente schiaffo mentale che aveva usato per scacciare via quell’ultimo pensiero, mentre Raven ricominciava a parlare. E dannazione, come parlava! Lo faceva lasciando ancora trasparire quello spirito ardito, quel trasporto, quella passione. Ancora quella sfida. Già, constatò tra sé e sé la ragazza, quell’uomo era una vera e propria Sfida, una di quelle che se le raccogli non ti perdonano. “La più grande perdita è la perdita della possibilità”. Sostenne lo sguardo, sondando le iridi nerissime di lui, e lasciando che loro sondassero le sue. “Già. Un’occasione persa è come un pezzo di esistenza irreversibilmente preclusa” gli avrebbe risposto, subito prima di distogliere gli occhi da quello sguardo così intenso e magnetico -*come quello di un drago*- e ricominciando subito a camminare. Sospirò profondamente, inspirando a pieni polmoni l’aria fredda di quella notte. Quella sfida la stava mettendo a dura prova, e incredibilmente, si stava rivelando molto, molto più difficile di quanto immaginasse. No, non se lo sarebbe mai aspettata. Un altro sospiro; la brezza notturna si infilava nelle sue narici e sotto il suo mantello, regalandole brividi sottili lungo la schiena, riscuotendola dalla scossa degli istanti precedenti, riportandole addosso quell’inquietudine, ormai quasi rassicurante, che accompagnava la presenza di Raven vicino a lei.
Dunque, Foscolo non gli andava a genio. Non c’era da stupirsi; il giovane professore aveva ragione: il linguaggio molto forbito di quel grande poeta non era certo un incentivo per chi, già di per sé, non sentiva affinità particolare per le sue opere. La ragazza sorrise di sottecchi, sentendo l’ultima affermazione di Raven.
“Non deve per forza lodare ciò che non le piace, professore” gli disse, voltandosi di nuovo verso di lui, inaspettatamente (anche per lei) con tono quasi scherzoso. Cos’altro avrebbe potuto rispondere? Era palese che l’affermazione di Raven fosse una forzatura. “Ha ragione, Foscolo non utilizza un linguaggio semplice, e non tutti riescono a percepire lo spirito delle sue poesie”. Il tono non era vanitoso, ma piuttosto era accomodante, sincero. Aquileia diceva semplicemente quel che pensava… spontaneamente, dannazione. E, altrettanto spontaneamente, sorrise di un sorriso aperto, gli occhi che le brillavano, nel sentire Raven proseguire quella favolosa poesia di D’Annunzio. Diamine!! Anche lui conosceva l’assoluto genio di quell’uomo, anche lui si perdeva in quella poesia vibrante e intensa, sensazionale, unica! Anche lui subiva il fascino di quei versi coinvolgenti, sconvolgenti e assolutamente perfetti, non poteva definirli in altro modo, perfetti come lo era l’immagine di quella pioggia scrosciante in quella natura selvaggia, voluttuosa, viva. Ma come faceva, come diavolo faceva, lui, a nascondere così bene dentro di sé tutto questo?! *Sembra che qualcuno stia facendo colpo, eh, bambina?* le avrebbe detto la sua famosa vocina, che ancora non riusciva a farsi ascoltare o percepire distintamente; ma era sveglia, oh, sì che lo era, e per ora si limitava a tradurre a parole quei gesti quasi inconsapevoli che Aquileia compiva, primo fra tutti l’avvicinarsi al giovane professore, muovendo qualche passo verso di lui.
La ragazza inclinò la testa di lato alla domanda di Raven, osservandolo con una punta di piacevole compiacimento.
“Beh, sì, signor Shinretsu. Devo ammettere che lo sono” gli rispose, stringendosi leggermente nelle spalle mentre ricominciava a camminare. “Ci sono poche cose che riescono ad emozionarmi così tanto come la Musica, o la Poesia. Forse potrei sembrare esagerata, ma credo di avere ragione nell’affermare che queste due cose sono assolutamente necessarie all’animo umano. E’ impossibile non arrendersi davanti alla bellezza e alla perfezione delle grandi sinfonie, delle liriche, e dei versi dei grandi poeti. Chi dice di non subirne il fascino, o è un ottimo bugiardo, o è incredibilmente infelice”. Poteva sembrare altezzosa, ne era perfettamente consapevole, ma non avrebbe potuto parlare in altra maniera, era esattamente ciò che sentiva. “Di Arte me ne intendo di meno, devo dire” rispose, alla seconda domanda del bel professore. “Ma di certo, alcune tele sono degli assoluti capolavori”. Scostò un lembo del suo mantello, sistemandoselo meglio sulla spalla. “Prenda Caravaggio, per esempio. Quel gioco di luci ed ombre, sulle linee morbide ma intense delle figure da lui dipinte, è favoloso. Oppure Van Gogh, con quei colori così vivaci, quel dinamismo nel tratto, quella forza espressiva. Lo trovo magnifico” continuò, riportando le sue iridi chiaroscure su di lui. L’Arte, un’altra delle cose che la emozionavano, sebbene non all’altezza della Poesia, o ancora di più, della Musica. Non ne era mai stata appassionata come lo era per le prime due arti, non era esattamente il tipo di arte in cui riusciva a trovare la corrispondenza perfetta per il suo cuore; ma c’era una cosa che la incuriosiva e, sottilmente, la inquietava, dell’Arte, o meglio delle sensazioni che lei cercava nell’Arte. Se con la Musica o la Poesia lei riusciva a ritrovare ogni aspetto della sua natura, nell’Arte lei era attratta più dal buio che dalla luce, più dal forte contrasto che dai toni tenui, più dall’Oscurità che dalla Purezza. Non a caso, il suo quadro preferito era L’Urlo di Edvard Much. Quei colori forti, violenti, fiammeggianti, angoscianti, quasi senza ombre, erano un’espressione, una provocazione, che più di altre la risvegliava , e che più di altre la soggiogava con il proprio fascino. Forse perché, in cuor suo, sentiva e sapeva che l’Odio, l’Astio, la Tristezza, il Terrore, il Rancore, erano cose che dovevano essere guardate in faccia, direttamente, senza impedimenti e senza essere oscurate, più dell’Amore, della Gioia, della Carità, della Speranza, che al contrario possono essere anche semplicemente percepiti, cantati, raccontati. “Devo dire, però, che i quadri che preferisco sono quelli espressionisti” aggiunse, seguendo il corso dei suoi pensieri. Quelle tinte non necessariamente fosche o pulite, ma forti, vivaci, decise, vive, incarnavano perfettamente il suo modo di essere, di sentire, di vivere, di lottare, ancora più del tratto di Van Gogh, ancora più dei chiaroscuri di Caravaggio. Semplicemente splendidi. “E lei, invece? E’ appassionato anche di Arte, professore?”. Chissà davanti a che tratto, a che colori, a che espressioni, Raven si emozionava. Che subisse anche lui il fascino dei chiaroscuri? *Molto probabilmente sì* pensò la ragazza, riflettendo su ciò che aveva visto di lui, e che ormai, stava imparando lentamente a conoscere. Istintivamente, le venne da pensare che, forse, poteva addirittura essere il tipo da De Chirico, o Chagall, quei pittori surrealisti o metafisici che con le loro forme squadrate, semplici, ma profondamente inquietanti nella loro linearità quasi arida, si stagliavano illuminate da un sole di rame contro un cielo di piombo nero, tumultuoso, in un distorto e sinistro contrasto. O magari no. Magari, incredibilmente, il bel professore amava invece i quadri romantici, o addirittura gli Impressionisti, con i loro contorni vaghi e i loro colori vivi e brillanti, ma in qualche modo morbidi e tenui, le stesse tinte che lei ritrovava anche in quella splendida poesia di D’Annunzio. Ricominciando a camminare e assentendo alle parole di Raven, lo guardava, i suoi occhi bicromatici seminascosti da una morbida ciocca biondo scuro che le incorniciava la fronte. Seguiva quel sospiro profondo, un’altra eco di quell’ardore che poco prima aveva trovato sul suo volto, e non lo mollava, come poco prima lui non aveva mollato lei, mentre ora Raven sorrideva, distogliendo gli occhi da lei, e ricominciava a parlarle, ricominciava a raccontarle, a svelarle, le parole di quella poesia che l’aveva colpita, a sorpresa, mentre lei lo ascoltava incuriosita e affascinata da quelle parole.
Fu come un tornado. No: come un terremoto. Ma non un terremoto improvviso e squassante, che subito si rivela in tutta la sua piena potenza. No, all’inizio, fu… un lontano sussulto. Un qualcosa di cui, all’inizio, puoi percepire solo una debolissima presenza, solo una sensazione, anzi addirittura solo una flebile e vaga impressione, un qualcosa di cui non sei sicuro nemmeno della reale esistenza, il cui unico riflesso era stato quel sorriso strano sul volto del bel professore di volo. Aquileia teneva lo sguardo fisso su Raven, seguendone ogni movimento; quel guardare verso il lago, quell’iniziare a camminare, recitando la sua poesia, e poi quel girarsi all’improvviso, puntandole addosso quei suoi occhi abissali. E quando lui iniziò ad avvicinarsi, lentamente ma inesorabilmente, fino ad arrivare al suo viso, così vicino che avrebbe quasi potuto sentire il suo respiro, la sentì. La prima, forte, potente scossa, amplificata dalle parole di quella poesia. Il suo sguardo cambiò, un misto di sorpresa e forse di timore, e istintivamente fece per fare un passo indietro… ma senza riuscirci. La prima scossa, senza che lei se ne rendesse conto, era andata a segno. Qualcosa la teneva incollata allo sguardo di lui, qualcosa che non sapeva ancora descrivere. Erano le parole della poesia? Non si muoveva, immobilizzata da quelle strofe e da quella vicinanza, le sue iridi chiaroscure spalancate e fisse sul volto di lui, intimorite di sentirlo e vederlo a pochi centimetri da lei. Cos’era, che l’aveva fermata? Perché non si era allontanata, diosanto, perché?! Il suo respiro era leggero, ma veloce, segno che la tensione stava iniziando a prendere il sopravvento sul suo studiato controllo, e fu con un istantaneo sollievo che guardò il giovane professore allontanarsi nuovamente da lei, voltandosi di nuovo di scatto, mentre continuava a declamare quei versi meravigliosi *e maledetti*. Non sapeva, la giovane domatrice di creature oscure, che quella era solo la prima, debole e insignificante scossa.
La voce di Raven le arrivava distinta nella notte, energica, fiera, forte, ardente, come un’esplosione, rendendo un flebile riflesso il tono con cui lo aveva sentito parlare di Mozart poco prima. E insieme alla sua voce così potente, le parole di quella poesia la trafissero all’improvviso come uno sciame di frecce. Quell’ambiguità, quel dualismo che tante volte lei aveva sentito nel suo animo, erano così perfettamente descritti in quelle parole, erano così evidenti e vivi, come le luci e le ombre di Caravaggio, i colori di Munch e Van Gogh, come le note travolgenti del Dies Irae. Ma pronunciate da quell’uomo, così misterioso, così incostante e capace di essere tanto glaciale quanto passionale, le fecero correre un brivido elettrico lungo la schiena. Istintivamente, indietreggiò di un passo. Per la prima volta in tutta la serata, sentì nelle sue viscere il tocco della paura. Ma non quella Paura a cui era abituata lei, che dominava le lotte del suo cuore e che, sola, aveva il potere di domare lei stessa. No, questa era un’altra paura, una paura sinistra, esterna, estranea, stringente, selvaggia. Silenziosa, continuava a tenere lo sguardo fisso su Raven, ma nell’oscurità della notte, si poteva vedere distintamente che la sua espressione era cambiata in uno sguardo di inquieto e quasi fragile timore. Eppure, non sapeva spiegarsi perché, non riusciva a smettere di ascoltare, non riusciva a scappare, come non riusciva a correre verso di lui, fermarlo, e zittirlo.
*Che cosa mi succede?*. Per la prima volta dopo tanto tempo, era completamente spiazzata. No, no: era ipnotizzata. Un altro verso, un’altra freccia. Diosanto, quante volte dentro di lei aveva sentito quella profondità, quell’avversione, quella ribellione che ora ritrovava in quelle parole? E anche lui, anche lui, ormai era chiaro, le sentiva! Il suo petto si mosse in un potente sussulto, il cuore le balzò quasi in gola recuperando i battiti che aveva perso negli istanti precedenti, mentre Raven, in un sicuramente inconsapevole impeto di pietà, si era fermato, permettendole di tirare quel poco di fiato che le serviva per riprendere il controllo e non lasciarsi conquistare da quella paura così ambigua come quella poesia, come quella notte, come quell’uomo, e come ciò che sentiva lei stessa. Lui si avvicinò ancora, tornando a indagare le sue iridi chiaroscure, scavando dentro di esse, la sua voce un tutt’uno con l’incanto di quella poesia. Un altro balzo del suo cuore nel petto. I suoi occhi brillarono, totalmente incontrollati, ancora di quella paura che si irradiava dalle sue viscere ma che non la lasciava muovere. E stavolta, non furono più semplici frecce a trafiggerla; stavolta, fu qualcosa di più sottile, di più delicato, di più nascosto, ma forse molto più pericoloso. Ne era certa, Raven non stava semplicemente raccontando con enfasi quelle parole, non stava semplicemente declamando quell’opera spaventosa e insieme magnifica. Raven stava parlando di se stesso, le stava svelando chi era. I muscoli del suo collo e della sua schiena si tesero, rigidi, mentre il suo sguardo continuava a essere fisso in quello di lui, così vicino al suo viso. Chi pensava di essere, lui, per avvicinarsi così, con quei movimenti dolci e decisi, con quello sguardo così intenso, così profondo? Quando era stata l’ultima volta che qualcuno le si era avvicinato così tanto, con quello sguardo, e quella voce… e che lei si era fatta avvicinare? Quando era stata l’ultima volta che qualcuno era riuscito, solamente con delle parole e con i suoi occhi, a interromperla, fermarla, bloccarla, catturarla…e rapirla? Fino a quel momento, un solo uomo ci era riuscito. Solo uno. Poteva forse esserci qualcuno, all’altezza di quell’uomo? Qualcuno che arrivasse così prepotentemente, e che riuscisse quasi a scalzare il posto che quell’unico uomo aveva sempre avuto, e che quasi le rapisse il cuore? Turbata, il petto che si muoveva al ritmo del suo respiro agitato, cercò, ascoltò, tentò di percepire il suo cuore. E il suo cuore, in quel momento, fece silenzio. Non un urlo, non una voce, non un sussurro, e sarebbe stata pronta a giurarlo, nemmeno un battito. E in quella non-risposta, lei sentì la paura e quasi la consapevolezza che, invece, una risposta, già ci fosse. Nessuno, nessuno, dopo Brendan, era mai riuscito a fermarle il cuore. Nessuno, dopo il suo amore perduto, era più riuscito ad avvicinarsi così tanto a lei, a studiare e sondare il suo sguardo, fin quasi ad intravedere il suo animo. E gli occhi di lui, che ora le erano così vicini… quegli stessi occhi in cui, alla Testa di Porco, le era parso di intravedere un bagliore feroce, malvagio, quasi assassino. No, no, doveva allontanarsi da lui, da quelle parole, da quello sguardo, da quell’elettricità che le stava trasmettendo e che, dannazione, le faceva tremare l’anima. Fece per indietreggiare, proprio mentre la voce di lui si spegneva all’improvviso, interrotta dalla fine di quel tremendo poema. Raven si voltò di scatto, nascondendo quell’espressione viva e vibrante che si era impadronita dal suo viso, mentre lei, ancora immobile, imponeva come mille altre volte alla sua mente di riprendere quel dannato controllo, e al suo cuore di seppellire con i suoi battiti quegli sconvolgenti minuti. Non parlò, non rispose, non aggiunse nulla: il suo corpo, i suoi occhi, il suo respiro, avevano già detto anche troppo.
Fu invece con tono estremamente misurato, ma ancora impercettibilmente incrinato da quel tumulto, che rispose alla sua domanda. Si aggiustò il mantello, più per ritrovare il contatto con un oggetto suo, semplice, rassicurante, che per altro.
“La mia poesia preferita?” esitò, lo sguardo spalancato verso la notte. E subito, iniziò con la poesia che lei sentiva più sua in quel momento, che lei aveva sentito sua sin dal primo istante, da un anno a quella parte.
“La mia mano ha ormai
solo questo gesto che scaccia;
su vecchie pietre cade
umidità dalle rocce. “

“Altro non odo che questo battito
e il mio cuore si accorda
al ritmo delle gocce,
e con loro si perde.”

Sorrise, alzando lo sguardo alle stelle.
“Vorrei che stillassero più rapide,
vorrei che ritornasse un animale.
Chi sa dove era più chiaro -
Ma noi nulla sappiamo.”
Riabbassò gli occhi, e si voltò verso Raven, a un metro da lui, mentre il suo sguardo si colorava di un’ombra di tristezza.
“Pensa, se ciò che ora è cielo e vento,
e aria alla tua bocca e chiarore al tuo occhio,
divenisse di pietra, tranne quel punto minimo
dove sono il tuo cuore e le tue mani.”

Il Prigioniero, così si chiamava quella poesia. Le parole di qualcuno che senza mai averlo voluto, aveva perso tutto. E che dentro di sé, nei più profondi antri del suo cuore, nascondeva la bestia della Vendetta.
“E ciò che ora in te ha nome domani,
più tardi, e l'anno prossimo, e oltre -
divenisse in te piaga e denso pus,
e suppurasse, e mai più fosse alba.”

Si muoveva lateralmente mantenendo la distanza da Raven, camminando con passo lento, lo sguardo basso, la voce che si abbassava e si fletteva in un tono più cupo, davanti al sentiero che quelle parole aprivano nell’oscurità, nella trappola del Buio, nella tentazione della rassegnazione alla dannazione.
“E ciò che fu, impazzito, s'aggirasse
delirando entro te, la cara bocca
che mai rise, schiumante di risate.”

Il fremito dell’isteria, dell’Odio, della follia, si mostrò sul suo corpo, ancora una volta, irrigidendole le membra, e trasformando la sua voce in un sussurro plumbeo, nero, quasi feroce. Lo sentiva nelle sue vene, sentiva l’Odio scorrere, chiamare, squassare le grate della sua prigione per uscire.
“E ciò che fu Dio fosse soltanto il tuo guardiano
e otturasse l'ultimo buco, perfido,
con l'occhio sporco.”

Si fermò, alzando improvvisamente il capo, e puntò gli occhi verso di lui, fieri, svegli, attenti, brillanti.
“Ma tu fossi vivo.”
Finiva così, quella poesia: con la certezza della propria esistenza, con la certezza del proprio cuore, del proprio animo, del proprio io. Con la certezza di se stessi, che non poteva essere scalfita, spenta, domata, da nessuna rassegnazione, da nessuna perdizione, da nessuna oscurità. La stessa certezza che nessuno, mai, le avrebbe portato via.
“Il Prigioniero, di Rainer Maria Rilke. E’ questa, la poesia che più mi affascina, ora, professore” gli disse poi, ricominciando a camminare e allontanandosi da lui.
Quella notte le stava facendo tremare la terra sotto i piedi. Sospirò profondamente, assaporando di nuovo l’aria fresca, ancora scossa dall’impeto di tutte quelle emozioni così forti, tutte insieme. Lei, le sue battaglie, il suo passato, i suoi ricordi, e Raven, soprattutto Raven, quel suo sguardo magnetico e profondo, quel sentirlo lì vicino, a pochi centimetri da lei, quel vedere forse, gli squarci del suo animo. La inquietava, eppure non riusciva a scappare via, non riusciva a fare a meno di raccogliere quella sfida. Al punto da avvicinarsi a lui più volte nel corso di quei discorsi, al punto da quella vocina, al punto da prendergli la mano per accarezzare quel thestral, al punto da rivelargli una parte di se stessa nel suo viso, nei suoi occhi chiaroscuri, nel suo sguardo, nelle sue parole. E dannazione, quella sfida, più di altre, la faceva sentire viva. Ecco perché non scappava, ecco perché davanti a quell’abisso,davanti a quel salto, lei non fuggiva, anche se in fondo una parte del suo istinto le urlava che sarebbe stato meglio farlo. Anche ora, che si trovava di nuovo davanti a lui, davanti ai suoi occhi, a fianco di quell’animale affascinante e spettrale come l’incubo animale di Füssli, lei ancora resisteva, tenace, spavalda, temeraria. Diosanto. Che notte.
Sostenendo lo sguardo negli occhi di lui, ascoltò le sue parole. Cosa vi scorgeva? Remissione? No, rassegnazione forse? Disillusione? Sì, disillusione; ma anche consapevolezza, consapevolezza di quell’abisso così nero e profondo, così spettrale, così abissale, lo stesso che lei vedeva, conosceva, sentiva, percepiva, lo stesso che la accompagnava in ogni momento, sibilandole nel profondo del cuore, sfidandola, temprandola, stancandola, provandola, lo stesso di cui lei aveva paura, una terrificante paura, che tuttavia non le impediva di fronteggiarlo. No, non sarebbe scappata mai. Come realizzava, in quel momento, che nemmeno davanti a Raven sarebbe scappata, nemmeno davanti all’abisso di quegli occhi neri e bellissimi, avrebbe ceduto. Non dopo quello che aveva visto di lui, non dopo aver sentito la sua voce fremere, il suo sguardo vacillare, il suo corpo scattare per nascondersi anche solo per un istante, non dopo aver colto in lui quello stesso palpito e quella stessa oscurità che infinite volte aveva sentito in lei. Lo guardò, mentre lui si voltava verso le profondità del lago.
“No, ha ragione. Non serve perdere qualcuno. Basta osservare i volti di chi decide di non guardare e di non lottare. Basta ascoltare la voce di chi persevera nell’illusione che quell’abisso non esista, e che non ha il coraggio di affacciarsi sul baratro e guardarci dentro, per essere conscio del pericolo che deve affrontare”. Esitò, scrutando il suo viso. “Oppure basta vedere lo sguardo di chi si nasconde se stesso dietro a una maschera”. Di nuovo, le venne da dare voce al pensiero che per tutta la sera le era rimasto piantato in testa: *Perché ti nascondi, Raven?*. Avrebbe potuto, sì. E invece, non seppe perché, ma mise da parte quella domanda. Davanti a lui, vicina come lo era stato lui prima, gli afferrò i polsi, in un gesto innocuo, leggero, ma veloce e fermo, costringendolo a guardarla di nuovo negli occhi, e la sua voce si fece strada attraverso le sue labbra, attraverso il suo sguardo chiaro come il cielo e insieme scuro come quell’abisso. “Ma cos’è che impedisce di scappare da un abisso così?”.
 
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view post Posted on 27/2/2015, 00:15
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Semper Fidelis

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Un fiore rimane un fiore, con il suo innato senso dell'empatia verso ogni cosa vivente, con il suo profumo, con i suoni, gli odori, con i petali, con le parole, le ombre e i mondi. Non era forse vero che persino in un fiore, seppur notturno, seppur con le iridi bicromatiche, vi potesse alloggiare la Pace? Non era forse vero che un fiore, visto di notte, scoperto sotto le immontabili nevi, sopravissuto al ghiaccio, al freddo, all'urlo della notte stessa e alla luce delle stelle, potesse essere molto meglio di un rubino, trovato, magari, in una terra lontana-lontana, e costoso quanto un braccio? Le piccole cose, gli sguardi, le carezze, gli abbracci, i baci, i sorrisi... Le iridi bicromatiche si dilatavano, si fermavano, poi ritornavano al proprio stato originale, quasi come se fossero aria, quasi come se il ritmo del cuore, imprigionato e costretto nel petto della giovane donna, suonasse e battesse all'unisono con l'Universo intero. Tic-tac, tic-tac... Raven lo sentiva? Sì. Lo sentiva. Forse. O forse soltanto lo percepiva. Per un attimo si chiese se fosse davvero così, se il ritmo del cuore di Aquileia Goodheart rispecchiasse il ritmo che Raven percepiva, che Raven sentiva intorno a sé come se fosse una specie di odore, come quello dei succh di zucca scaduti, che gli elfi domestici, di tanto in tanto, sembravano fornire ai studenti. Che stesse studiano il suo visto? Probabile. Del resto, quando due astri del cielo si scontrano, vi è dapprima una fase iniziale, una fase di stallo, e quindi...
I lineamenti delicati della giovane domatrice di ippogrifi e draghi non gli dicevano nulla, se non fosse per dei piccoli particolari, che, nel quadro generale, davano a quel viso un senso di specialità, di particolarità, di "essere" che, in mezzo ad altre stelle vaganti nell'universo, faceva di Aquileia Goodheart proprio Aquileia Goodheart, come gli occhi a mandorla, la cicatrice, che si era procurato da bambino, e lo sguardo gelido, ma in contempo focoso, faceva di Raven Shinretsu un Shinretsu degno di questo nome. Persino quell'istante faceva di Raven un essere che viveva. Persino un fugace incontro con gli occhi, persino uno scambio di battute, di poesie, di intensità o di ritmi, permetteva al giapponese di camminare in avanti.
Come se fosse un passo, e poi soltanto un altro passo. E poi un passo ancora. Le si era avvicinato? Sentiva i notturni di Chopin suonargli dentro, per quanto se li ricordasse come tali, niente di più e niente di meno, se non fosse che... Già. Se non fosse che ora era aperto. Come un scrigno, ma soltanto più ampiamente. Era aperto a 360 gradi, come se fosse un cerchio chiuso, ma in contempo aperto. Era l'apertura della porta più interna che esisteva, quella che suonava, quella che pittava, quella che si trovava dentro la sua anima, se ve ne poteva essere una; quella che, con la giusta chiave, di tanto in tanto si apriva, lasciando che la luce fluisse all'esterno. Lasciando che l'oscurità cedesse per un attimo, lasciando che abbagliasse, lasciando che fluisse e che vibrasse. Lasciando, del resto, che i notturni facciano posto ad altro; lasciando che la luce, mischiata al fuoco – questo sempre presente, - la portasse con sé.
Un viaggio! Sì. Un viaggio. Un vaggio lungo un sguardo. Un viaggio infinito, di quelli che durano un secondo, ma si vivono per sempre. Di quelli che prendono un coltello o una freccia, e ti tagliano, ti pizziccano, ti fanno a pezzetti, lasciando le tue logiche, le tue convinzioni, forse anche le tue idee (o forse no?.. per il motivo che le Idee, come tali, sono Te stessi), li, da parte, lanciati nell'abisso come se fossero spazzatura. Al grido "Roba vecchia", per mettersi in cammino e ritrovare la roba nuova, quella importante, quella che segnerà la tua vita, quella che spianerà la strada, quella che passo dopo passo ti aiuterà, forse porgendoti una spalla, o forse isabbiandoti, ingabbiandoti dentro l'Azkaban, nella cella più oscura, nei meandri della prigione, vicino a un Dissennatore, dietro le sbarre...
"Affinché ogni ricordo divenga soltanto una speranza, e ogni possibilità – un'illusione". Non temo la morte, diceva la protagonista di quel libro. Non temo il dolore, diceva. Temeva le sbarre. Temeva che la vecchiaia, consumata in solitudine, lontano dalla luce del sole, non la privasse delle possibilità; non la privasse della possibilità di avere delle occasioni di valore, la cui presenza potrebbe essere abbastanza vaga e insignificante, o un'inutile desiderio, l'ultimo desiderio di quel fuoco che chiunque è durante la vita, che uguagliava il miraggio, si faceva miraggio, e si affogava nell'illusione. Non era forse quella la frase che metteva Raven spiazzato dinnanzi alla letteratura? Non era forse una di quelle che lo aveva riempito, infuocato, acceso in lui la scintilla? Sì. Voleva lottare. Voleva avere le occasioni di valore. Mentre gli altri stavano da Peverell a studiare le gesta altrui, lui voleva scolpire nel bronzo le gesta proprie, affinché rimanessero nell'Eternità, per sempre. E di nuovo nella sua mente suonavano brani, spuntavano frasi, si creavano immagini e fantasie di Uomini di valore, sparsi sul globo e ormai morti e sepolti, di cui l'ombra, di cui il ricordo era ancora Vivo.
"La vita di un uomo è breve, ma io voglio vivere per sempre!" - Diceva, prima di morire, o meglio: prima di essere accolto dalla Storia come Eroe, e rimanere nelle teste di molti babbani come Eroe, da cui trarre esempio.
Rimasto li, a pensare e a osservare, a capire, intendere, vedere nelle iridi intenzionni e pensieri, non oltrepassare la linea, ma stando li, sul post, calmo e tranquillo, rilassato e in contempo leggermente emozionato, un ghiaccio rovente pronto ad esplodere, pensò di essere ancora un lombrico, in attesa di diventare farfalla. Era un paragone stupido in quel momento, ma quanto più azzeccato vi potesse essere: soltanto donando il proprio nome all'Eterno, avrebbe ciò che voleva: l'Eternità. Sì, questo avrebbe voluto anche li, dinnanzi alla Bellezza più assoluta, dinnanzi allo Spettaccolo e all'Eleganza. Stringerla. Abbracciarla così, come se nulla fosse, senza motivo, ma semplicemente sperando, e poi partire, gridando. Sì, era un pazzo, ma chi di noi non lo è? In quel caso, nel caso della guerra, della lotta, dei passi verso il futuro, del'autosacrficio... Ogni morte è una morte bellissima! Ogni morte è la Morte del Cigno, o più semplicemente: ogni Morte è la Morte. E' la Morte vera, quella che conta, quella che spiazza, quella che si perde nelle iridi bicromatiche, quella che la analizza, la studia e poi, passionalmente, si lascia andare. Chopin, Beethoven, Mozart, Vivaldi o chi per loro era soltanto il Dio delle emozioni e delle Opere, ma chi scriveva le vere storie erano Romeo e Giulietta, erano i Tre camerati tornati dal fronte, erano Roskol'nikov e i suoi amici, era Mazzeppa, a Hugo cuciva gli inni dal nulla, ed era Napoleone, diventato stella e poi caduto. Erano le cariche disperate e senza successo, citate ne "La Carica della Brigata leggera" di Alfred Tennyson, "Magnifiche e mortali", a sentire persone di quell'epoca; erano i massacri come nella Foresta di Wewelsburg, ai danni dei romani. E persino Nerone... Rimasto nella storia in preda alla sua follia; scolpito nella roccia, nel marmo e nell'oro come simbolo, come parola, e come logos, come Idea!
Vi era sempre pposto per un'altra testa calda in quel mondo! Vi era sempre posto per la Morte e per la Magnificienza! Vi era sempre posto per la virtù, vi era sempre posto per il tradimento, vi era sempre posto per l'amore e posto per l'odio! Non era forse magnifico quel mondo? Non era forse esaltante farne parte? Non era forse sublime essere la pietra che può cambiare la direzione del fiume? Il mondo era un mondo bellissimo, ed era proprio la possibilità di plasmarlo stando ai propri pensieri e ai propri voleri, che faceva di Raven un'idea vivente, poiché...
"Non esiste combattente che non incarni un'idea; un'ideale è soltanto lo specchio di un uomo".
Ma tutto questo Aquileia quando lo avrebbe capito? Quando avrebbe compreso il pericolo dinnanzi al quale si ritrovavava? Quando avrebbe capito cos'era Raven, cos'era diventato, sospinto dai sospiri, sublimato dalle idee, mosso, manipolato, caduto, spesso rialzatosi, feritosi e il tutto questo per solo delle frasi, solo per delle utopie. Tanto sangue era sempre una scena meravigliosa! Tanto dolore vibrava nell'atmosfera donandole note mozartiane; quel sublime respiro di morte... Quella sublime ombra che rendeva la vita una vita più profonda, una stella più splendente.
«No.» – Rispose il professore secco e convinto. - «Per niente.» – Ripeté ancora. - «Le corde toccate sono lontane, miss Goodheart. Viaggiare nella Notte si può realmente, ma viaggiare nella sua essenza, toccarne il significato, capirne gli elementi, Essere la Notte...» – Disse, ascoltando solo dopo la domanda di miss Aquileia Goodheart, e preparandosi a risponderle, rigido, fermo, come un soldato spartano, testa alta, risposte soldatesce: chiare, precise e brevi. Non poteva fare altrimenti: quello era il suo stile di vita. Era ciò che gli aiutava nell'andare avanti; ciò che gli faceva sentir parte di un meccanismo, di un ordine, di alcune regole, di un movimento e anche di una cultura: l'impostazione della voce e del tono, delle gesta delle mani, della camminata, e persino del modo di dormire o di mangiare.
Shinretsu Raven era un soldato sì, ma anche un aristocratico, e come tale si comportava.
«Sì.» – Disse dunque. - «Non ho mai approfondito abbastanza le sue opere da poter pensare che lo conosco, ma lo conosco sopratutto per quel che considero essere la sua opera madre.» – Disse, senza volgere lo sguardo altrove, tenendolo poggiato li dov'era: sugli occhi, sul viso, sull'anima. Voleva averla sua? Le aveva dato la chiave e forse aveva sbagliato. Anche la chiave era una debolezza; anche un'ombra era una debolezza nella situazione in cui si ritrovava. Era duro essere uno dei adepti preferiti di Tom Riddle. Era dura vivere sapendo che si può morire, di essere sempre all'altezza di tutto, di correre, correre, correre verso la Perfezione e non fermarsi mai, sapendo che un fallimento uguagliava la morte, che un passo sbagliato, e Raven sarebbe stato come la protagonista di quel libro, che aveva paura delle sbarre e della mancanza delle occasioni di valore.
«Mi pare si chiami La Sinfonia del Mondo Nuovo, di cui apprezzo particolarmente il 4 ° Movimento.» – Disse calmo, ancora una volta, ascoltando della Rusalka. Poi scosse la testa, lentamente quasi assaporando l'accorciamento di ogni fibra dei muscoli del suo collo.
«No.» – Confermò quindi con le labbra, con una parola monosillaba, come sempre, come prima. - «Credo che rimedierò a una tal mancanza il più presto possibile, miss Goodheart. Grazie per avermelo fatto notare.» – Sì. Certo che lo avrebbe fatto. Si sarebbe vestito da babbano, magari rubando il vestito da qualche parte, imperiando o crucciando qualcuno, forse anche uccidendo (ma questo dipendeva dall'umore e dal giorno), e sarebbe andato all'Opera, a vedere i babbani nel fare una delle poche cose che sapevano fare senza mostrare tutta la loro inferiorità: cantare, suonare, creare. Sapeva già che gli sarebbe piaciuto: a giudicare dall'Opera madre, quel pezzo di un Dvorak sembrava essere un compositore talentuoso e promettente; sembrava sottoscrivere ciò che Raven pensava, e come Rave agiva. Dvorak, ahimé, sembrava esserci, e aver scritto La Sinfonia del Mondo Nuovo appositamente per Raven, come se lo conoscesse, come se carpisse le vibrazioni più minime della sua anima, come se fosse riuscito a prevedere il futuro, a capire che un giorno qualcuno, un mago a lui sconosciuto si sarebbe posto a difesa dei deboli e di coloro che, per via di leggi assurde e punti di vista, erano stati oppressi. E da li avrebbe iniziato a costruire un mondo nuovo. Esattamente quel Mondo Nuovo! Ove lui era la Pace e ogni minaccia era stata eliminata. Un mondo di eguali sotto a un unico Dio, a un unico Imperatore. Ove ogni regola naturale trovava la propria realizzazione, ove la Luce – la Luce vera, non quella propagata da menti subdole e malate, - illuminava la via e il cammino ai giovani maghi. Ove il sangue non sarebbe mai più stato impuro! Ove ci sarebbe stata sola gioia e felicità, e ove non sarebbero più esistiti né la morte, né il Bene, né il Male, ma soltanto la Forza, e il modo in cui ognuno la usava a proprio favore. Sì. Decisamente. Dvorak e Raven erano fratelli, e ognuno faceva il suo: il secondo cercava di costruire la propria Utopia, e il primo la descriveva, segnando delle note su un pentagramma, lasciando che queste vibrassero, fluissero, che descrivessero Raven.
«Sì, lo è.» – Disse Raven, ancora guardando negli occhi quella gentile, piccole, esile, ma in contempo intelligente, forte ed abile creatura divina. In ogni nota, in ogni verso, in ogni respiro, in ogni suono, in ogni stella. Divina in tutto e per tutto divina. E se un giorno lei si fosse messa sulla sua strada?
Come alcuni istanti prima, Raven scosse la testa. Divino o Idea? Era anche quella la questione che Dvorak si poneva verso la metà del 4° Movimento. Era quella la domanda: tra la Morte e l'Amore; l'Altruismo e l'Utopia. Le scelte difficili non sono mai abbastanza complete. Le scelte difficili lasciano sempre posto al compromesso: a questo e a quello; e quest'altro, e poi anche a questo. Del resto, era la natura umana che albergava ancora nell'animo del giovane professore. Una natura umana che non voleva andarsene affatto, rendendolo il più simile possibile al Dio Univo e Vero, e lasciando sì che fosse umano, che fosse di carne ed ossa, di cellule, atomi, molecole.
«E' commovente davvero, miss Goodheart.» – Disse Raven di nuovo, senza capire nemmeno perché lo diceva, ma parlando così, come gli veniva, in automatico, forse lasciandosi traportare da quella commovenza, forse lasciando che l'essere commovente lo possedesse, e in contempo lo facesse sentire vivo. Sì. Vi era Tutto. Sofferenza, gioia, dolore, tristezza, speranza, ricordi, fuoco, paura e anche tranquillità. L'essere Tutto e il contrario tutto, l'essere, come diceva Crowley, una stella danzante nell'universo. L'essere... Perché nessuno di loro comprendeva questo verbo? Perché nessuno di loro sapeva cosa voleva dire "vibrare"? Senza essere ci sarebbe mai stato un Requiem, e sopratutto, Mozart avrebbe mai compreso, che quel Requiem sarebbe stato scritto per la prima volta al suo funerale? Lui lo sapeva, perché lui esisteva;perché ogni cosa di quel mondo per lui non era né segreta, né incalcolabile. Perché sentiva che erano le ultime note, che il suo viaggio era finito, in un modo così splendente, quasi stellare, triste e gioioso in contempo, quasi come se conoscesse ciò, che lo attendeva dietro al palco, dietro alla porta del Teatro, che, per via della propria età doveva abbandonare. Sì, uno come lui era morto dignitosamente, andando dal Direttore del Teatro Umano e pretendendo da lui una ricmpensa 100 volte maggiore di quella data ad altri.
"Perché lui aveva sofferto". - Pensò Raven tra sé e sé, ripensando a Mozart. - "Sofferto".
Raven sorrise alle affermazioni di Aquileia.
«Sono entrambe opere sublimi, miss Goodheart.» – Disse lo Shinretsu allora. - «E penso che siano allo stesso livello... Un livello mostruoso.» – Disse quindi, sperando che Aquileia Goodheart lo avrebbe sostenuto in questo. Del resto, era forse possibile tracciare linee perpendicolari tra l'allunno e il maestro? Possibile individuare chi, ove, dove, come e quando aveva raggiunto il monte Tabor, elvandosi al divino? Tutto questo era vano e sciocco: entrambe opere di immenso spessore, sarebbe stato inutile destreggiarsi ancora nel cercare il migliore; era meglio l'accettazione, e la comprensione dei limiti che, per quelli umani come i due vicino al lago, erano impossibili da oltrepassare.
Un'occasione persa... Disse. Raven scosse il capo. Non era d'accordo. O, per lo meno, non era completamente d'accordo. Sì, una possibilità perduta era un sasso che affogava nell'oceano: non avrei mai potuto ritrovarlo di nuovo, di nuovo stringerlo, assaporarne, rendermi conto della sua esistenza, ma in contempo era anche una spinta: una spinta positiva, di quelle che non ti avrebbero mai permesso di perdere un'occasione o una possibilità ancora una volta. Di quelle che ti permettevano di volare, di vivere davvero, di muovere passi in avanti, o semplicemente di essere.
«D'altro canto, miss Goodheart, se nessuno perdesse mai delle occasioni saremmo tutti perfetti, non trova?» – Sì. Erano gli errori, talvolta anche dolorosi, talvolta anche non voluti, che permettevano di scalare fino alla vetta. Di crescere. Di capire.
Ascoltò le parole della giovane donna su Foscolo, ma non ebbe niente da ridire, se non scuotendo leggermente il capo, come dire "sì, ha ragione miss Goodheart, ha proprio ragione". Tuttavia, perché parlare se si poteva gesticolare? Talvolta era meglio lasciare le parole ove erano, ove si trovavano: nella loro beata beatitudine, del resto, loro erano solotanto un limite alla ccapacità di espressione dell'uomo, e senza si poteva fare decisamente meglio.
«Heh.» – Disse Raven con voce seria. - «Ha ragione, miss Goodheart. L'animo umano ha bisogno delle emozioni.» – "delle emozioni forti, quelle che riempiono gli animi di tristezza e felicità" – «Senza saremmo soltanto degli animali, i cui istinti sono programmati a farli funzionare in una maniera tutta la vita.» - Poi continuò:
«L'Arte è bellissima, miss Goodheart. In particolare la pittura la trovo decisamente affascinante. E' un sospiro della storia. E' un modo per immortalare Giorgio nel mentre infligge il drago con la propria lancia; è un modo per immortalare la bellezza di San Michele, nel mentre calpesta le corna del Male; è un modo per individuare la bellezza, ma anche immortalare Pushkin, il grande poeta russo, nel mentre lancia i suoi saluti all'oceano. Ogni forma di espressione artistica è una chiave per la compresione di significati più nascosti. » – Disse Raven seriamente, forse nemmeno credendosi, nell'udire quelle parole. E davvero, che cos'è che stava blaterando li? Dell'Arte? Chi diavolo era lui per parlare dell'Arte? Di coloro che osservavan, che toccavano, che percepivano? Un Caravaggio era uguale a un Beethoven; un Honorè de Balzac a un Majakovskiy. Non era forse bellissimo tutto ciò? Sì, che lo era, - si rispose Raven, fra sé e sé, scuotendo il capo. Anche i pittori erano dei cigni; anche loro sapevano cosa significava la trepidazione dell'attesa, che cosa significava l'amore e la gloria, cosa significava la storia, e l'importanza di attribuirle i giusti momenti, di lasciare alle generazioni future il seme della conoscenza. Ascoltando le parole della giovane donna, si accorse anche della sua personalità. Quadri espressionisti? Gli venne quasi da dire. Ma non lo fece. Ognuno aveva il suo stile, aveva ciò che gli piaceva di pi, e ciò che gli piaceva di meno. A parte Raven. A lui i quadri che piacevan erano quelli bui, nascosti, grigi, con molte ombre, con il Dolore, che tra tutte le cose umane preferiva di più.
«Uhm.» – Disse. - «Io sono appassionato di Arte. Mi piacciono tutte quelle tele che hanno una sfida in sé, come l'Addio di Pushkin al Mare, o come San Giorgio e il Drago, di Capraggio...» – Continuò ancora, sperndo, tra sé e sé, di non dilungarsi troppo e di non risultare troppo noioso alla sua interlocutrice. Del resto non voelva sembrare arroggante, schizzonoso, sin troppo colto, o noioso; voleva soltanto dirle chi era, e spendere qualche parole sulle tele che gli erano rimaste impresse nella memoria, non era poi un'idea così cattiva. Certo: non era da tutti interessarsi anche alle tele, ma tra tutte le arti, la Grande Arte lasciava in Raven molti ricordi e speranze, oltre a qualche cicatrice; oltre al fatto che dietro ai nature mort e ai disegni su paesaggi, vi erano anche li le sfide. Vi erano anche li quelle opere destinate a durare, a essere tramandate nei secoli e dei secoli. Guardando come la donna camminava sulla neve, bellezza e poesia nel contempo, Raven prese fiato e sospirò. Era notte fonda, ma non faceva affatto freddo. Tutt'altro.
Sembrava persino una notte molto calda.
«Ma in assoluto preferisco il lavoro chiamato Davide con la testa di Golia, di Caravaggio, e il lavoro di Albrecht Durer, chiamato Melencolia I.» – Poi fece una pausa, quasi come se volesse riflettere sulle proprie stesse parole; quasi come se volesse attribuire loro un senso, capirne l'importanza, con la mente tornare verso entrambe di quelle opere, a prima vista così diverse tra di loro, ma con un fondo comune, una base condivisa, e degli elementi che entrambi i lavori portavano in sé.
«La prima mi da una sensazione di leggerezza e in contempo di imbattibilità: un Ideale, come quello di salvaguardare il proprio popolo da nemici esterni, da sempre la possibilità di cavalcare la situazione, di dominare la propria fatica o la paura, miss Goodheart.» – Si fermò di nuovo, magari per respirare. - «Il secondo lavoro è invece molto più complesso da capire, seppur geniale anche in quel suo aspetto. Durer ha di molto anticipato i suoi tempi. Nei suo lavori metteva sempre delle simbologie collegate da un nesso unico. In particolare in Melencolia vediamo ciò che è la rappresentazione perfetta del genio di Durer, ma in contempo anche dei tempi che correvano: un angelo annoiato, circondato da simbologie occultiste, osserva chissà cosa... » – "Che poi, secondo me, sono gli uomini che osserva. Le loro vite vuote e inutili nel contempo". Gli venne da dire, ma invece tacque, ascoltando piuttosto la poesia che la giovane donna aveva da raccontargli. Non poteva dire se era una poesia bella o brutta. Semplicemente era una poesia degna di quel nome, e quindi, per forza di cose, esaltante.
Parlava della vendetta quella poesia. Ma perché? - volle chiedere Raven. Perché la vendetta tra tutti i mali che alberavano nei cuori degli uomini? Perché altro sangue? Perché l'odio? Tante domande gli nacquero nella testa durante l'ascolto della poesia e delle sue rime. Ebbe da obiettare, ebbe da odiare anche a lui, alla fine volle anche mettersi a filosofare su ogni singola parola, ma in compenso stette zitto, attendendo che Aquileia Goodheart finisse di reclamare le strofe, per poi presentare la poesia e allontanarsi da Raven di quel passo, nel mentre questi sostava fermo come prima, quasi immobile, come un albero, intento a guardare il magico castello e le sue nevi, e respirare aria fredda, introducendola fin nei polmoni.
«Capisco.» – Disse alla fine, non dando a vedere nulla delle domande nate e cresciute nel suo cervello. E alla fine, poteva dire di aver compiuto i giusti passi nella direzione giusta? Poteva seriamente affermare che l'aveva compresa tutta quella poesia? Un po' lo rispecchiava, e questo non poteva negarlo, ma dopo? Dopo aver ucciso, quante volte aveva pensato, che prima o poi, qualcuno avrebbe vendicato l'auror morto? Tante volte. Il Dolore era ovunque. Gli uomini lo davano e lo prendevano. Lo regalavano e se lo tenevano per sé. Era così che funzionavano le cose, - volle dire. Era così, miss Goodheart, che girava il mondo. Su base del Dolore. E della Forza. E della morte. E allora a che serviva lottare... A che serviva avere degli ideali, delle persone da difendere. A che serviva il combattimento, la guerra, il far cadere il sangue al suolo. Tanto, alla fin dei conti, avrebbe comunque la morte; il Nulla avrebbe trionfato sul Tutto. Perché alla fine era così, e semplicemente così era giusto, e in tutte le altre maniere no. «E' una poesia molto bella, miss Goodheart.» – Disse Raven alla fine, guardando i profondi occhi della sua interlocutrice, e ascoltando ciò che ebbe da dire sul lottare. Scosse la testa e poi continuò:
«Una vita a cui basti trovarsi faccia a faccia con la morte per esserne sfregiata e spezzata, forse non è altro che un fragile vetro. » – Disse sicuro di sé, esplicando i suoi pensieri in quell'istante. Certo, la maggior parte delle persone non voleva lottare, non voleva vedere l'abisso, non voleva capire di trovarsi in un mondo dualre, non voleva schierarsi, non voleva vivere come vivrebbe un guerrieri, non voleva vedere la relatà per quel che era davvero.
«Tutti portano la propria maschera, miss Goodheart.» – Ridisse Raven, percependo le mani della giovane donna sui propri polsi. Erano fredde quelle mani. Era gelido quel tocco. Per un attimo si chiese, se non era meglio rientrare nel castello, affinché qualcuno di loro non si ammalasse per via di quella neve così bianca e della temperatura così bassa, ma scosse il capo, e con quel gesto mandò via i pensieri dalla testa. Certo che tutti hanno una maschera, - gli venne da dire, e invece si astenne. Tutti. Lei, il Capoauror, l'auror morto, il guardiano ferito a morte nel cuore, Raven, Lord Voldemort... L'unica differenza era l'essere consci del portarla la maschera. Il capire quei motivi, comprendere l'origine delle cose, del male e del bene, delle relazioni umane, e dei motivi oer cui babbani erano sempre inferiori ai maghi. Non vi poteva essere altro. Ogni filosofia cadeva dinnanzi alla convinzione ela sicurezza. La Forza, ben supportata da scelte e giuste e argomentate, non poteva mai avere torto. La forza era soltanto un surplus alla spiccata comprensione dei meccanismi del mondo; era soltanto il modo di migliorare il mondo, il modo per rendere logico, giusto, illuminato e buono.
«Le sue mani sono fredde.» – Disse Raven, prendendo le mani di lei nelle sue, decisamente più grandi, e forse anche più calde, e strofinandole un po' le une contro le altre. Poi lo fece, non sapendo perché, né il come, né dove, né quando.
«Credo che lei debba rientrare nel castello... Potrebbe ammalarsi.» – Sì? E dove? Nell'ufficio di Shinretsu Raven? Laddove c'era un tavolino malilluminato da candele, lavori dei studenti, una scopa e un letto che una persona sana di mente non direbbe mai essere un letto? Raven viveva alla spartana, e invitare una donna nel suo spartano ufficio gli sembrava essere una follia di quelle pesanti. E cosa avrebbe poi pensato di lui lei? Scosse il capo, pensando a che figura avrebbe potuto fare. Poi prese fiato, e rispose all'ultima domanda della giovane donna.
"Chi le ha detto che scapperei dall'abisso?" - Per un attimo si chiese, quasi come se fosse quella la risposta. Poi però parlò, esplicando quel che pensava davvero, ma in contempo non dando alla ragazza modo e possibilità di comprendere il ragazzo, di individuarne i punti deboli, di capire chi era per davvero, di capire perché si nascondeva, perché portava la maschera, perché si interessava alle arti, e perché ora era li, in veste di docente, sulle sponde del lago Oscuro.
«La mia vita, miss Goodheart.» – Rispose sicuro, con tono deciso e voce atona. - «E la mia vita non è fragile vetro.» – Disse, riferendosi alla frasi di prima, di un famoso prosaico giapponese. "La mia vita è Diamante". - Miss Goodheart. - "La mia vita è la Guerra, è la lotta continua. La mia vita è la mia morte. La mia vita è fatta di Diamante, e messa a contatto con la fine della vita non si spezza, né si rompe: si rinnova, come una fenice, rinascendo dalle proprie ceneri".
Poi, avvicinatosi con il proprio viso verso il viso della ragazza, appoggiò le proprie labbra, sulle fredde labbra della giovane domatrice. L'aveva addomesticata? Volle sorridere a quel pensiero stupido, ma invece si fermò, continuando nel spontaneo gesto che gli venne da fare in quel preciso istante. E in quel stesso preciso, istante, staccatosi un attimo, sussurrò:
«E' bene avere così cara la vita da lasciar morire lo spirito?»
 
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view post Posted on 20/3/2015, 14:50
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«And the only solution was to stand and fight» Merlino ballerino!

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Play their game, so unafraid, their hearts in synchronized
Into the night we ride, scars wide open
Into the night, you and I, torn and broken
Bleed into the night, and I’ll meet you there
Waiting for the world to end


Sarebbe stato possibile che un cuore avvolto e afferrato completamente dall’Oscurità celasse dentro di sé l’ultimo barlume di quella che poteva essere un’anima? L’ultimo, tenace e splendente bagliore di quell’umanità che la cupidigia della Notte Assassina non era ancora riuscita a ghermire e a portare via? Sarebbe stato possibile ritrovare se stessi davanti a quello specchio maledetto e dannato, riconoscendo una somiglianza viscerale e terribile nella sua assoluta realtà?
Sarebbero state queste le domande che, per un istante, avrebbero dominato la mente e, senza alcun dubbio, il cuore della ragazza, che, avvolta dall’ombra della Notte e dalla tenue luce della Luna, riflessa su quell’algido manto di neve, continuava ad osservare l’espressione e i movimenti del giovane e bel professore, e ad ascoltarne le parole, i sospiri, le esitazioni, le inflessioni della voce. Sarebbe stato possibile ammettere che anche un Cuore Oscuro fosse capace di provare dolore, sconforto, remissione, pietà, compassione, perdono, affetto… amore?
Sarebbe stato possibile che le sue emozioni, le sue sensazioni, e forse anche i suoi sentimenti fossero ben lontani anche solo dal somigliare a qualcosa di vagamente simile all’Odio, una volta intravisto quell’ultimo solitario bagliore in fondo a quella Notte cieca e nera e senza fine, in quell’uomo che più di ogni altra cosa era la personificazione di tutto ciò che lei avrebbe dovuto odiare?
Sarebbe stata questa, la domanda ultima ad impadronirsi di lei, a piantarsi come un chiodo nella sua testa e a colmarle di tensione il cuore, se avesse saputo chi era davvero l’uomo che in quel momento si trovava a pochi passi da lei, poco lontano da un Lago Nero accarezzato da quella luce lunare che pareva un velo, vicino a quell’animale così inquietante ma così definitivamente reale, per tutto ciò che simboleggiava. Sarebbe stato quello, lo sconvolgimento che l’avrebbe catturata in ogni fibra del suo essere, ben più intenso e peggiore di qualunque poesia, di qualunque tela, di qualunque sinfonia, se avesse saputo chi si nascondeva dietro la maschera del giovane Docente di Volo. Quell’uomo che in quella notte così strana e imprevedibile, per un solo momento le aveva fermato il cuore, spingendosi dove un’unica altra persona era riuscita ad arrivare fino a quel momento, scuotendola fin nel profondo. E probabilmente, davanti a tali domande, ma soprattutto davanti al delinearsi di una risposta positiva, allora sì, Aquileia si sarebbe fermata. Probabilmente, se le fosse parso inequivocabile che dietro le nere profondità dei suoi occhi, Raven celava esattamente quell’Oscurità che pur e proprio essendole così affine era diventata la sua Nemica, davanti a quell’evidenza, avrebbe indietreggiato, spaventata da se stessa e da quella vicinanza che bruciava come il fuoco; avrebbe alzato le sue difese fino al cielo, sguainato la bacchetta come se fosse stata una spada, e spezzato le catene della bestia che dormiva dentro di lei, liberandola dalla sua prigione, e lasciando che compisse esattamente quello per cui bramava esistere e respirare: Rivalsa, Vendetta, Violenza, Dolore, Rabbia, Disperazione e Furore. Questo, sarebbe successo, alla luce dei fatti, della coscienza e della consapevolezza di essere in equilibrio sul filo che la separava da tutto ciò che aveva giurato di combattere, strenuamente, fino alla morte.
«Ma noi nulla sappiamo». Come diceva proprio la sua poesia, lei niente sapeva di Raven, di ciò che era, di ciò che aveva fatto, e di ciò che aveva nel cuore, come lui stesso, del resto, niente sapeva di lei, di ciò che lei era, della Causa a cui si era votata, con lo stesso spirito e la stessa dedizione con cui probabilmente lui si era consacrato al Signore Oscuro. In fin dei conti, Raven aveva ragione: ognuno di loro portava una maschera, ognuno di loro nascondeva il proprio vero io, il proprio vero essere. Eppure, ogni maschera, ogni evento passato e presente, ogni azione compiuta con intenzioni di Vendetta o di Giustizia che fossero, ogni cicatrice, ogni lacrima, ogni perdita, ogni rancore, ogni dolore, ogni perdizione, ogni bestia imprigionata nel profondo del loro essere, ognuna di queste cose, erano come cristallizzate, fermate, avvolte e sparite nel limbo di quella notte. Una delle Auror più tenaci e agguerrite di tutto il Ministero, e il Mangiamorte più sanguinario e cattivo dopo Voldemort in persona, erano lì, uno davanti all’altra, a loro insaputa, e paradossalmente, quel frangente era forse l’unico momento in cui le maschere da docente e da domatrice, le bugie, le omissioni, non erano valse a nascondere nemmeno per un momento la verità ultima dei loro spiriti e dei loro cuori.
E così, Aquileia ascoltava le parole di Raven, ne osservava i lineamenti, ne scopriva le emozioni e ne sondava i pensieri, in quegli occhi tanto neri quanto le acque di quel Lago in quella strana e incredibile notte, allo stesso modo con cui lui si avvicinava a lei; come in una specie di danza che inizia lenta, guardinga, con diffidenza, e pian piano diventa più fluida, più dolce, più confidente, e si snoda pericolosamente verso quella imprevedibile vicinanza che, in ultimo, era l’unica, vera responsabile di quel terremoto che aveva scosso così profondamente l’abisso del suo animo.

“...e non è forse solo viaggiando nella Notte, sperimentandone ogni aspetto, ogni stella, come ogni ombra, che si può forse giungere anche alla sua vera Essenza?” rispose, in riferimento alla splendida competizione tra i gloriosi Chopin e Beethoven, scesi in campo attraverso le parole e le sensazioni, le emozioni di quella notte. Sostenne lo sguardo in quello intenso di lui, sondandolo profondamente. “Non è forse anche questo, il vero scopo di un viaggio?”. Esplorare, studiare, capire, fare proprio ogni particolare, il tutto con il fermo riferimento di qualcosa di più grande, di più prezioso, di più imprescindibile e immutabile, forse anche di eterno. Non era forse simile a ciò che faceva chi perseguiva anche il Bene Comune, chi correva per un traguardo oltre se stesso, e chi combatteva per le grandi utopie? E allo stesso modo, non era forse questo che i grandi filosofi e i grandi poeti facevano quando guardavano dentro se stessi, alla ricerca di quella scintilla da cui tutto il loro cuore, il loro pensiero, la loro introspezione e il loro spirito traeva vita? La ragazza sorrise a Raven, di un sorriso forse più morbido e dolce di quanto si sarebbe aspettata, forse addirittura senza rendersene totalmente conto, prima di riportare lo sguardo verso il Lago, proseguendo nei loro discorsi. Non era forse quello che anche Dvorak cercava, l’Essenza, nella sua personale Utopia, che trovava espressione in quella magnifica sinfonia? Aquileia si compiacque della risposta del giovane professore, anche se ormai non la stupiva più: sentiva di poter pensare con quasi assoluta certezza che quell’uomo, davanti a qualunque composizione, sarebbe stato in grado di percepire un qualsiasi aspetto profondo e intenso, divino e umano. Lei vedeva la sua sensibilità, e anche se in quel momento non se ne rendeva conto, anche se ne avrebbe avuto piena coscienza solo dopo, con quel tumulto e con quei versi caotici e maledetti, era chiaro dentro di lei che, già ora, ne era del tutto rapita.
“Sì, è esatto, la Sinfonia del Mondo Nuovo è la sua opera più famosa” rispose, con un pizzico di compiacimento nella voce, inarcando il sopracciglio destro mentre riportava lo sguardo sul viso di Raven. “Sa, non so spiegarle perché” - mentì spudoratamente, avrebbe potuto addurre almeno una ventina di motivi per ciò che stava per dire, tutti riconducibili a quanto stava vedendo di lui quella notte - “ma non mi sorprende che lei sia rimasto colpito proprio dal quarto movimento… professore”. Se lo ricordava perfettamente, quel movimento; del resto, era quello che identificava la sinfonia completa. E non sapeva ciò che stava pensando lui, Raven, ma gli occhi (o meglio, il cuore) di lei rintracciava dentro a quelle note tutte le sfumature, le ombre e le luci che aveva visto nei movimenti, nelle espressioni e nelle parole di quell’uomo. La passione, la trepidazione, la fermezza, la determinazione, sì, anche il gelo e a tratti l’oscurità, ma allo stesso modo quella inaspettata delicatezza *no, dolcezza* e quell’assolutamente imprevedibile sensibilità. Chissà cosa pensava lui, ma indipendentemente da questo, lei non potè fare a meno di pensare che Dvorak, probabilmente, avrebbe trovato molto interessante un incontro con il giovane professore di Volo, Shinretsu Raven. *Almeno quanto lo stai trovando interessante tu*. Sorrise a quel pensiero, e stavolta fu lei a scuotere la testa. *…Ma che vai a pensare, ragazzina*.
E ancora, sorrise alla risposta di Raven sulla Rusalka, quell’aria che più di ogni altra di Dvorak le era così cara. Sorrise con l’affabilità che faceva capolino nella sua espressione, un’affabilità che pian piano stava scalzando via l’inquietudine di quel viso sconosciuto e di quella voce straniera. “Non c’è di che. E’ raro trovare canti così accorati, appassionati e vivi. Credo proprio che la gradirà molto” rispose, mentre il primo accenno di quelle lacrime che si sarebbero quasi mostrate pochi istanti dopo, stava raggiungendo i suoi occhi. Le si strinse il cuore a ripensare alle parole di quel canto. *Luna, resta qui un momento, e dimmi, ti prego, dove si trova il mio amore*. Quanto era strano, ora, in quel frangente, ripensare al passato, ripensare a lui, al suo amore perduto. Quanto era difficile guardare ciò che lui era stato, rispetto a ciò che lei era adesso, rispetto a ciò che aveva ora. E quanto era ancora inspiegabilmente sorprendente pensare, sotto quella luce, a quanto stava accadendo quella notte. “Luna, non andartene” sussurrò, automaticamente, seguendo il corso dei suoi pensieri che a loro volta seguivano l’impronta indelebile di quel canto struggente. Voltò la testa dall’altra parte immediatamente con un gesto comunque calmo e paziente, mentre le lacrime si mostravano nei suoi occhi chiaroscuri, e la sua voce agiva da sola, ammettendo quanto fosse commovente quell’aria, e nello stesso momento il sorriso si disegnava nuovamente sulle sue labbra. E quando si voltò nuovamente verso Raven, ritrovò i suoi occhi neri, fissi nei suoi, e ritrovò la voce di lui che, come la sua, ammetteva quel fascino irresistibile, quell’abbandono, quella commozione. Quella umanità. Quella miriade di emozioni che solo gli spiriti profondi possono vantare di possedere. La ragazza non abbassò lo sguardo, né diede segno di volerlo fare, e per la prima volta in tutta la serata, probabilmente Raven avrebbe potuto notare un guizzo diverso, nelle sue iridi chiaroscure, un qualcosa che si allontanava significativamente dalla diffidenza, dalla pacata imparzialità, dal mero sostenere un discorso. Qualcosa che, forse per la prima volta dopo tanto tempo, era riuscito a oltrepassare le sue rudimentali eppure tenaci difese da apprendista occlumante, e che forse solo l’oscurità della notte e la tenue luce della luna avrebbero potuto celare. E lei, lei se ne era accorta? Oh, stavolta sì, stavolta ne aveva piena coscienza, eppure non si era nascosta. Non si era voltata, non era scappata. Non l’avrebbe fatto. Del resto, non sapeva.
“Sono assolutamente d’accordo” proseguì, riferendosi all’ultima affermazione del giovane professore, sul testa a testa (ma davvero si poteva chiamare così?) tra Mozart e Haydn. No, non si poteva davvero chiamare così; alla fine dei conti, erano entrambe opere grandiose, sarebbe stato praticamente impossibile stabilire una gerarchia che andasse oltre quella del maestro-allievo. “Sono entrambe magnifiche e impareggiabili. Sottovalutarne una rispetto all’altra sarebbe un insulto a quella Gloria che per forza di cose le comprende entrambe”. Si mosse ancora di qualche passo, con la camminata calma e pacata che ormai la stava accompagnando da tutta la sera, scostando un morbido boccolo che le ricadeva sulle spalle e ravviandosi i capelli biondo scuro.
«Se nessuno perdesse mai delle occasioni, saremmo tutti perfetti». Non trovava? Sospirò, a quell’affermazione di Raven, rimanendo meditabonda per qualche secondo. Non lo sapeva. Forse, forse il giovane docente non aveva tutti i torti; del resto, una vita per quanto breve sia, non presuppone per forza la lungimiranza che serve per vedere chiaramente tutte le occasioni da cogliere, e per farlo al momento giusto, e in questo riconosceva il non rincorrere a tutti i costi la perfezione.
*Ma certe occasioni… non ricapitano un’altra volta*. La perdita della possibilità, come anche lui stesso aveva detto prima, era la più grande perdita, nessuno meglio di lei poteva avere ben chiaro il significato di quella frase. “Sì, forse è così. Ma certe volte, perdere un’occasione può essere una condanna…" *…al rimorso e al rimpianto*, avrebbe voluto continuare, ma non lo fece. Come ormai da tempo era abituata a fare, si nascose nuovamente dietro a una delle sue tante maschere, quella del silenzio, che tutto era, tranne che un silenzio vero e proprio, o almeno così era per lei. A che sarebbe servito, del resto, parlare degli eventi che l’avevano portata a ragionare in quel modo, condizionando il suo pensiero, le sue scelte e la sua vita? A che sarebbe servito pensare *che se fossi stata in grado di impedire a quel legilimens di entrarmi nella mente, lui forse sarebbe ancora vivo* - sospirò profondamente, muovendo un passo verso l’acqua e puntando lo sguardo, divenuto glaciale, verso il cielo, impedendo a quel pensiero di procedere oltre. No, non sarebbe servito a niente. E non avrebbe permesso a nessuno di arrivare a carpire quel suo pensiero, nessuno sarebbe riuscito ad entrare così in profondità nel suo cuore da comprendere quello che aveva passato. Quell’unica porta sarebbe rimasta chiusa, per sempre.
La voce di Raven la riscosse dai suoi pensieri, riportandola nuovamente sulle rive del Lago Nero. Si voltò di nuovo verso di lui, incontrando ancora una volta il suo viso imperscrutabile, mentre lo ascoltava con interesse parlare dell’Arte, come la intendeva lui. Non era andata affatto lontano, pensò fra sé con un sorriso appena accennato, quando aveva pensato che i chiaroscuri potevano affascinare un tipo come lui, e non la sorprese affatto sentirgli dire che ciò che cercava nei quadri era la Sfida. Sorrise. Cos’altro poteva cercare, uno spirito come il suo, se non le emozioni forti, i contrasti, le ombre più nere e la luce più splendente? Ma poi, c’era davvero qualcos’altro, che si poteva cercare nell’Arte, se non quella tensione verso il superamento dei propri limiti, che solo attraverso la Sfida si poteva mettere in atto? Lei, dal canto suo, pensava proprio di no. Annuì alle parole di lui.
“Capisco bene cosa intende, signor Shinretsu. Credo che certe sensazioni trovino la loro massima espressione solo nella pittura, forse ancora di più che nella musica” disse, seguendo il corso dei suoi pensieri di pochi minuti prima. “Forse, alcune emozioni, alcune sensazioni, sono fatte solo per essere viste, guardate, osservate, senza filtri, senza seconde vie. E credo che lo stesso valga per lo spirito della Sfida”. E poi, si lasciò portare dalle sensazioni che Raven le descriveva, parlando dei suoi quadri preferiti. Non conosceva nessuna delle due opere, pensò con una punta di dispiacere; il preferire la Musica e la Poesia portava inevitabilmente a non avere una panoramica altrettanto approfondita anche della pittura. Ma conosceva molto bene la storia raccontata dalla prima delle due opere – il suo caro papà non si stancava mai di raccontare a lei e a Iridia ogni meravigliosa impresa di ogni tipo di eroe, e il Davide della Bibbia non era certo sfuggito alla selezione – e non poté fare a meno di condividere le impressioni che quella scena aveva suscitato nel giovane professore, pur non avendo visto la tela. *Dominare la paura e la fatica*. Aquileia annuì a quelle parole, volgendo uno sguardo più intenso verso il giovane docente di Volo. Quelle parole le suonavano tutt’altro che nuove: erano esattamente i precetti su cui lei basava ogni suo gesto, ogni suo movimento, ogni sua parola; il controllo e la concentrazione erano il suo baluardo, la sua bandiera. Diamine. Ancora, sentì riaffiorare quell’affinità verso di lui. E rimase incuriosita dalla descrizione della seconda tela. «Un angelo annoiato, che osservava chissà che cosa». No, non le pareva proprio di aver mai visto questa Melencolia I, ma l’immagine che nella sua testa si era formata bastava per farle pensare che sicuramente si sarebbe documentata in merito. “Stavolta sono io che ringrazio lei, professore” rispose, sorridendo interessata. “Non ho mai visto nessuna delle due tele, anche se conosco la scena descritta nella prima” proseguì, dando voce ai suoi pensieri “ma senza dubbio, stavolta spetta a me colmare la lacuna” concluse, inclinando leggermente la testa verso sinistra. *Buon scambio, ragazzina* si trovò a pensare, divertita.
Già, in un certo senso, poteva essere divertente, o meglio paradossale, quella notte. Che cosa sarebbe successo, se davanti a tutto questo, davanti alle parole, alle sensazioni, alle emozioni, alla tensione, all’intesa – sì, perché quello era, intesa, un qualcosa di più della semplice attrazione che per sua natura si ferma solo al corpo o alla superficie – cosa sarebbe successo se, di fronte a tutto questo, lei avesse visto chiaro cosa lui era veramente? Se avesse deciso di prendere come oggettive le impressioni che aveva avuto di lui in quella bettola che era la Testa di Porco? O il contrario, se lui avesse avuto la rivelazione di quello che lei rappresentava? Si sarebbe lasciata scappare quei sospiri, quello sguardo così trepidante e intenso nel sentire la sua poesia? Si sarebbe lasciata sfuggire le redini del proprio cuore, arrivando a farsi travolgere da quei versi tumultuosi, e lasciando che sul suo viso trovasse posto, insieme a quella ancestrale e viscerale e selvaggia paura, anche quella consapevolezza che lui, proprio lui, era riuscito dove fino a quel momento lei pensava che nessuno sarebbe riuscito mai? Si sarebbe abbandonata a quell’inflessione così cupa della propria voce, alle parole di quella poesia di Rilke che descriveva così bene il suo lato più oscuro e impervio, avrebbe lasciato che lui intravedesse anche quel lato? Lui l’aveva fatto, con quei versi lunghi e incantevoli. Lei non realizzava interamente, ma qualcosa nel profondo le aveva fatto intuire che aveva trovato la sua chiave. E lei, lei, gli avrebbe dato la propria, di chiave? Questa domanda comparve improvvisamente come una lancia scagliata dentro al suo cervello, al pari di quello sciame di frecce che poco prima l’aveva sconvolta. Ma a che valeva, ora, quella domanda, dopo gli sguardi, dopo le parole, dopo quel viaggio e quelle emozioni? Era ormai chiaro come quella Luna che dominava la loro notte: come lui le aveva consegnato la propria chiave, così sempre lui era riuscito ad ottenere la sua.
“Lo è davvero, signor Shinretsu” rispose al suo commento, davanti a lui, di nuovo così vicino, gli occhi fissi nei suoi, le iridi chiaroscure coraggiosamente puntate in quelle nere di lui, ostinatamente determinate a non abbassarsi mai. “E ha ragione. Nemmeno la prospettiva della Morte deve bastare, per stroncare la propria lotta”. Era davvero come diceva quella poesia: «se tutto ciò che ha nome domani suppurasse, e mai più fosse alba». *Ma tu fossi vivo*. “Lottare vuol dire accettare la realtà, e accettare la realtà vuol dire anche accettare la Morte”. *Quando la Morte verrà per me, voglio che mi trovi viva*. Pensò, senza ricordarsi dove aveva letto quella frase. “Altrimenti, non si può dire di aver lottato davvero” concluse, sicura, ferma, convinta di ciò che diceva. Sì, schierarsi era vitale, fondamentale, e chi non lo faceva, chi non voleva farlo, era già morto in partenza. Scegliere, e scegliere bene: era quello che rendeva le persone degne di essere chiamate uomini. Anche a costo di portare, a volte, la propria maschera. Perché era così, come stava dicendo anche Raven: tutti portavano una maschera. Annuì silenziosamente a quelle parole, mentre le sue dita fredde incontravano la pelle di lui, lievemente più calda della sua. E un’altra domanda, forse più inquietante di quelle che avrebbe voluto fargli fino a quel momento, fece capolino nella sua mente. *Qual è la maschera che tu porti, Raven?*. Ma avrebbe davvero voluto conoscere la risposta, ora che era così vicina a lui, e ora che quegli occhi neri sondavano le profondità dei suoi, ora che lui prendeva dolcemente le sue mani nelle proprie, in quel gesto spontaneo e semplice del riscaldarle? Forse no. Sorridendo leggermente, il suo sguardo si spostò sulle proprie mani, così piccole in confronto a quelle grandi e più calde di lui. Istintivamente le sue dita bianche e affusolate assecondarono i movimenti di Raven, cercando la stretta delle sue mani. I suoi occhi bicromatici si mossero nuovamente verso il suo viso dai lineamenti taglienti eppure delicati. “Ma non le sue” gli rispose, prendendogli le mani a sua volta. Senza staccare gli occhi dal suo viso, sorrise. Rientrare nel castello? Lei non aveva un ufficio suo, là dentro… dove sarebbe rientrata? Nell’ufficio di Raven? Era un invito, il suo? Entrare nell’ufficio di un professore? Conosciuto quella sera, in una delle circostanze più strane che lei avesse mai sperimentato? Eppure ora erano così vicini… *Ma cosa ti salta in testa, ragazza?!*. Lo osservò scuotere la testa, leggermente divertita. Che avesse avuto la stessa sorpresa? “Si preoccupa per me, professore?” gli chiese, la voce lievemente più bassa, avvicinando di poco il viso a quello di lui, prima di porgli la sua domanda. E alla sua risposta, per un istante, la morsa che le aveva afferrato lo stomaco lungo quella serata e davanti alle parole di Raven, si mostrò nuovamente, in un palpito sfuggente. Che cosa voleva dire? Per un istante, qualcosa in fondo a lei si chiese di nuovo se fosse vero ciò che aveva visto, quel bagliore negli occhi di lui, quella voce che in certi momenti diventava plumbea e quasi feroce. Ma in quell’istante, assieme a quella domanda, si delineò nella mente di Aquileia anche la risposta, una risposta che forse suo malgrado era l’unica priva di maschere, priva di bugie, priva di qualunque cosa non appartenesse a quell’ultimo bagliore di umanità che vedeva in quell’uomo: non le importava.
Le sue labbra incontrarono quelle di Raven, così calde rispetto alle sue, come le sue mani. E lei chiuse gli occhi, lasciando andare via la sua mente, lasciando perdere ogni guardia e ogni arma per quell’istante. E staccandosi da lui per un solo momento, quelle sue insolite iridi, diverse eppur egualmente splendenti sotto la luna, sondarono le profondità di quelle di lui, nere, cupe, quasi irreali, mentre alle sue orecchie arrivavano le sue parole. Lo guardò ancora, profondamente, per un istante che le parve infinito. E gli rispose, nel silenzio di un sussurro:
“Finché si ha qualcosa di caro, lo spirito non può morire.”.
E poi, si mosse. Le sue labbra trovarono ancora quelle di lui e le sfiorarono, schiudendosi leggermente a quel contatto così straniero, ma così vivo allo stesso tempo, per poi poggiarsi su di loro con la stessa spontaneità con cui avevano risposto al suo bacio. La sua destra lasciò la presa sulla mano di lui e si mosse, lentamente, salendo verso il viso di Raven, in una carezza ferma eppure leggera, mentre le dita snelle e pallide della sua sinistra si muovevano nella mano di lui, così grande rispetto alla sua, stringendola dolcemente senza lasciarla andare, mentre tutte le domande e le sensazioni di quella sera, sparivano, catturate da quell’istante.
 
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view post Posted on 2/4/2015, 12:25
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"Mi senti? Ti amo!" Gridò ancora.
"Quale amore!" Disse la sventurata rabbrividendo.
Lui rispose: "l'amore di un dannato."



Non tutti potevano vantarsi di avere un'anima; nessuno che Raven conoscesse, e ne conosceva tanti, poteva vantarsi di aver avuto quella vita valida che il giapponese tanto cercava. Nessun (o forse solo in pochi?!) aveva tenuto forte nella propria mano un coltello argenteo, con il quale ritagliare i contorni del suo proprio spirito, modellarlo, dargli una forma, fare che l'anima, lo spirito, ogni sospiro destinato a una causa maggiore, diventasse un falco pericoloso, un elegante cigno, oppure soltanto un Mozart, la forma della musica, su suoni del quale camminare verso un destino per lo più incerto. Soltanto i cuori ardenti potevano sperare di influire sulle meccaniche del mondo. Non con la moneta, né con la diplomazia. Con il cuore, tanto acclamato nelle opere più tragiche e mistiche, tanto ricercato, saputo, conosciuto, ma, ahimé!, anche esplorato... Per essere una persona non necessitava d'altro che di un cuore, di un cuore puro, privato dell'egoismo personale. E dunque, non vi era alcuna oscurità nei gesti e nelle parole di Raven. Vi era dell'ombra, sì. Vi era dell'incertezza. Forse qualche omicidio alle spalle per via degli uomini a cui aveva tolto la vita (in fondo, poteva dirsi un assassino? poteva dirsi colpevole delle debolezze altrui e dei bisogni dell'universo? No. Decisamente no: erano morti perché erano deboli, perché si erano trovati sulla strada sbagliata, avendo fatto scelte sbagliate... colpa loro, dunque), forse del rancore, conquistato durante le proprie sconfitte, durante quei momenti in cui non era riuscito a raggiungere il suo scopo. Ma altro? No. Altro no. Voleva pulire il mondo da quegli insetti che vi albergavano non per scopi personali, ma per il bene di tutti. Per il bene di quei folli che non riuscivano a togliersi gli occhiali; per il bene suo, di Aquileia Goodheart, per il bene di Persephone Bennet e di Camille Pompadour. Oscurità o Luce, Bene o Male... Esisteva l'universo delle cose, ed era Uno. Proprio come Una era la Forza, l'Intelligenza e l'Astuzia, che donavano la capacità di piegare le cose, e gli eventi, a una stessa mente. Tutto il resto, tutta la filosofia... Inutili vaniloqui. Vaniloqui, che sarebbe scomparsi come la neve sotto il sole estivo. Non dunque la Notte, bensì la Luce. Era questo che Raven era, questo che si credeva: cambiare le cose non con le inutili parole, bensì con la sola forza. Catturare i malvagi (sì! i veri malvagi! Coloro che permettevano ai mezzosangue di camminare vicino alle mura della leggendaria Hogwarts... e... e punirli! Cambiarli!).
Raven volle ghignare, e invece non fece. Si trattenne, osservando il riflesso della luna cadere sulla neve, e poi sulle ciocche dei cappelli di Aquileia Goodheart. La luna sarebbe sempre rimasta solo luna, e null'altro. Certo, avrebbe fatto ammirare di sé alcuni, altri le avrebbero composto delle poesie, altri ancora – brani, odi, canti. E in realtà... In realtà era solo un corpo celeste che rifletteva la luce di un altro corpo celeste. E Raven? Per un attimo si chiese se egli stesso non fosse quella luna, che rifletteva le azioni e i pensieri di un Sole più grande. Poi scosse il capo, come ormai era solito fare e come gli veniva d'abitudine: no, - si disse, - non era la luna di Lord Voldemort. Non rifletteva la sua luce. Era un Sole molto più grande. Era una Stella gigante, e il suo bagliore avrebbe bruciato le carni e le ossa di chiunque avesse osato a mettersi sulla sua strada.
Lui avrebbe cambiato il mondo, - pensò, e si spostò di lato, ancora tenendo il proprio sguardo sui capelli di lei. Poteva un cuore oscuro amare? Poteva. Amava il mondo magico. Allora non era oscuro. Non era malvagi. I malvagi erano loro. A partire dagli auror semplici e finendo con il ministro Pompadour. Erano loro i malvagi, - pensò di nuovo, poi si corresse. Sono sempre stati malvagi. Erano loro i veri oscuri. Erano loro che bramavano il potere e che lo impartivano ad altri. Erano loro che succhiavano le anime e le forze vitali. Erano loro che prima stabilivano leggi in base alla loro stessa volontà, e poi ammazzavano.
Strinse i pugni, poi pensò al futuro. Morti. Tutti. Fino all'ultimo. Sui cadaveri di tutti loro sarebbe nato un Mondo più giusto e migliore, sul quale un unico Imperatore, la Divina Giustizia, l'unico che, per volere divino e capacità proprie, doveva governare sul mondo. Una teocrazia! Un impero governato dalla Giustizia Divina, da un unico Liberatore, Salvatore della Patria... Poi si corresse. Non era disposto a fare soltanto da Luna dell'imperatore. Era disposto a fare la Provvidenza, oppure rimescolare le carte in tavola. Chi non ha mai conosciuto l'amore, non conoscerà nemmeno l'odio. Chi non ha mai conosciuto l'odio, quello vero, potrà mai conoscere il vero amore? Chi non toglie vite, non può dare vite: le leggi dell'universo erano semplici da capire. Poi si corresse. La capacità di vedere oltre era la malattia dei geni, ma chi vedeva l'erba, avrebbe senz'altro visto anche la Luna. Lì, quando sotto di lui vi era l'immenso composto da terra e stelle, e sempre lì, quando sopra di lui albergava lo stesso immenso, si chiese per un attimo se tutto quello che pensava aveva un senso. Sì. Lo aveva. Lo aveva chiaramente. La sua scelta, d'altro canto, era stata fatta molto tempo prima. Sì, - si ripeté nella mente osservano l'Arte nella sua espressione più pura. Se Lord Voldemort era Dio, egli, Raven, nera la Provvidenza. Se Dio stesso, ormai per la seconda volta, era sceso dai cieli immischiandosi negli affari di noi uomini, Raven ne era l'arma. Era la mano, la sua Giustizia, la sua Forza.
E dunque poteva lei aspirare a cambiarlo? Poteva puntare sul cambiare il cuore di lui? Messosi in cammino, ormai niente lo avrebbe fermato; forse solo le stelle, e la loro flebile luce. Accarezzò di nuovo il muso di quel Thestral, un po' come se egli fosse lui stesso, quel stesso Raven, che tanti ne aveva uccisi in nome di un Bene più grande, e che tanti ne avrebbe uccisi ancora in futuro. Sì, la morte gli apparteneva, e gli piaceva uccidere. Si ricordava ancora gli occhi delle sue vittime, i loro respiri, la paura che alleggiava nell'aria circostante, e poi... Il tremore delle loro mani, del loro cuore. Tra tutti, l'omicidio di auror gli portava soddisfazioni maggiori. Era quello che lo rendeva vivo: la morte. Sì, la morte. Il lato contrario alla vita, e per questo un elemento che non può mai sfuggire, che non può allontanarsi, ma che deve coesistere sempre, poiché se ne viene a mancare una, mancherà anche l'altra.
E lei? E Aquileia Goodheart? Era morte, oppure era vita? Era un rosso tramonto, oppure era un'Alba, una scoperta nuova; una stella, di quelle che splende unicamente grazie alla luce propria, e che indica la via ad altri? Ma che via poteva ella indicare, se il rubicone, se il punto di non ritorno, fu già superato da anni e anni or sono? La sua presenza, le sue parole, forse anche il suo sguardo. Tutto ciò non era altro che, forse, un segnale del destino, un scherzo del fato, impossibilitato a pronunciare parole proprie, e allora giocoso con i destini altrui, mischiandoli come carte in una notte invernale, lasciando che energie, che parole, che fatti, intenzioni e ricordi fluissero, sovrapponendosi gli uni altri altri, lasciando che si scambiassero sguardi e opinioni, lasciando che due probabili nemici, con punti di vista oltremodo differenti si trovassero proprio li, vicino al lago, ove il riflesso lunare era mistico più che mai. Ove abitavano sirene, calamari, meduse giganti, e ove due persone, osservando quel specchio scuro, potevano scambiarsi qualcosa di più di semplici due frangenti d'idee: potevano scambiarsi le chiavi per uno scopo comune, un'anima oppure due, per un sguardo, un invito, una danza, forse un ballo, ma anche una strada percorrere insieme. Sì! Quella strada? Quale strada? Per un, pensandoci, volle scuotere il capo nuovamente, ma da subito rigettò l'idea, mantenendosi composto e rigido, freddo come prima, e come sempre, quasi come se nessuno bagliore potesse arrivare ai suoi occhi, quasi come se il suo sangue, freddo come la neve, non fosse capace di esprimere emozioni. Quasi come se... No. Quel fuoco dentro di lui era vivo. Era vivo da sempre. Da sempre voleva cambiare il mondo, e prima o poi ci sarebbe riuscita. La sua maschera sul volto era solo una delle tante, e una delle tante sarebbe rimasta. Da mettere quando più la cosa lo aggradava, da fingere, pur di arrivare alla vittoria, pur di avere il risultato stretto tra le dita, fino a sentirne il calore e, con lo sguardo rivolto verso le stelle, poter esclamare: sì, l'ho fatto!
I lineamenti di lei, con l'immensità sopra e l'immensità di sotto, con l'infinito a raggiungerci e ragguagliarci da ogni lato, non facevano altro che esprimere i pensieri di Raven in forma di viso. Non facevano altro che dire: guarda! C'è lei. Può essere un amico, oppure un ostacolo, può essere la tua morte, oppure la tua vita; può essere il tuo rancore, il tuo odio, ma anche la tua felicità. Può essere il tuo amore, oppure... Raven rivolse lo sguardo verso le mani, verso il dito anulare, poi lo tornò a posare sul suo volto.
Oppure non essere Niente, - finì il pensiero. Niente. Come tutto ciò che vi era in quel mondo pieno di Niente.
«No.» - Rispose, sicuro di sé. - «Non devo per forza navigare nel Mare del Nord, per sapere che vi sono dei grandi ghiacciai, né devo viaggiare nello spazio, per toccare le stelle. L'essenza di tutto ciò posso carpirla così, soltanto a fiuto, con la contemplazione e la visione interiore...» - "...quella dei geni, ove ognuno deve possedere una enorme vista interiore". - «Viaggiando nella notte invece non riuscirò a capire l'essenza della notte; caso mai capirò l'essenza del viaggio, ma non della notte stessa.» – Finì di dire sicuro.
Poi mosse alcuni passi sulla neve, quasi aggirando il Thestral posto li vicino. Quasi ascoltando ogni rumore di ognuno dei suoi passi: la neve li addolciva, rendendoli meno pesanti di quel che erano, quasi li ammorbidiva, lasciando che il rumore prodotto dalle sue scarpe, fosse meno sordo, un po' più acuto, tipico di quelli che produceva la neve quando era ghiacciata e quando un qualcuno vi camminava in mezzo. Quella specie di strano "tonz...tonz...tonz...", che, pur segnalando la presenza di qualcuno, segnalava anche la durezza della neve, la bassa temperatura, e il modo in cui i fiocchi si univano gli uni agli altri.
Mirabolante.
La fissò, ricambiandole lo sguardo. - «Non so lei, miss Goodheart,» – iniziò a rispondere, - «ma lo scopo di un viaggio è solo quello di arrivare alla meta, qualunque essa sia.» – Disse, alludendo che in un stesso viaggio vi potevano essere diverse, di quelle mete. Viaggiando nei deserti dell'Africa per arrivare alle piramidi egiziane, per esempio, si potevano scorgere diverse meraviglie della natura, ad accompagnare il viaggiatore: cammelli, serpenti velenosi del deserto, mosche piccole e meravigliose, elefanti, dune, miraggi e oasi, forse anche le stelle, con la Via Lattea ad indicare la strada. E seppure le piramidi fossero il principale oggetto di interessamento e la meta primaria, tutto il resto non faceva altro che suonare da accompagnamento, quasi come a voler spingere il viaggiatore, quasi come a volergli far comprendere l'essenza del bel viaggio, ma mai, no, mai l'essenza del deserto. O forse anche sì... Ma non solo quella. Un viaggio permetteva di capire cosa fosse un viaggio, ma per capire cos'è un deserto bastava la profonda contemplazione dello stesso anche a distanza di migliaia di chilometri. Il cuore di un poeta è sempre stato come un uccellino che vuole salvarsi dalla trappola del cacciatore: esso permette di elevarsi, di giungere nei posti più proibiti e infine di tornare li, sulla terra, quasi come se loro, i poeti, vivessero sulla terra come nel paradiso, on la possibilità di capire tutto, esplorare tutto e sopratutto soffrire tutto. Danzando, i poeti vedevano i grandi fuochi all'orizzonte alzarsi e abbassarsi: ogni canto per loro era una prova, ogni melodia – una fortuna, ogni sinfonia – un viaggio nel deserto.
Abbassando lo sguardo, lo Shinretsu osservò la superficie del lago Nero, osservò il riflesso della Luna sulle acque oscure. Di nuovo per un attimo pensò ai comportamenti delle sirene e degli animali nelle viscere delle acque. Potevano anche loro vantarsi di avere delle ali poetiche? Potevano vantarsi di avere un cuore?
Scosse il capo, poi pensò alla frase di prima: "...ma chi vede i fiori, vedrà anche la Luna". Sì, - si disse, nel silenzio, fra la sua mente e la sua mente. E chi vede i sorrisi di giovani domatrici di draghi possiede sia il cuore, sia le ali, elevandosi fino a quel settimo cielo mai visto da nessuno, ma così abilmente descritto in poemi, romanzi e poesie da menti sopraffine e mani acute. Nulla sarebbe stato possibile i tutto ciò, senza la possibilità di vedere le cose non fino al'ultimo atomo di cui erano composte, ma fino all'ultima Idea che albergava ai loro interno. Iperuranio! Iperuranio! Avrebbe gridato qualcuno. No. La verità era soltanto che vivere nel Mondo delle Idee, nutrirsi di esse per continuare a fantasticare sul mondo e sulla possibilità di cambiarlo, era decisamente meglio che vivere nel Mondo degli Uomini e ogni giorno restare delusi da essi. Abitare nell'Iperuranio per diventare un'Idea... E pensare che fino a qualche anno fa avrebbe preso questa frase per completamente seria. Le avrebbe dato credito, e, infuocato come non mai, si sarebbe immolato per la causa, fino a diventare una parte integrante; fino a gettarsi, a petto nudo, dinnanzi a frecce, spade e cavalli volanti.
"Nulla è meglio dell'autosacrificio per un nobile scopo" – pensò. Poi, posizionandosi dinnanzi a miss Goodheart, spalle dritte, sguardo e voce sicuri, parlò, rispondendo freddo e in contempo energico.
«E non mi sorprende.» – Disse Raven. - «E' calda, accogliente, gustosa, in contempo è anche equilibrata e divina. Se lo merita...» – Disse, in mertio alla Sinfonia del Mondo Nuovo, un'opera di quelle pensanti, di quelle che permettevano di essere presi e trasportati sulle ali della fantasia, quasi oltre le nuvole, oltre l'orizzonte. Vi era il fuoco dentro, quel fuoco necessario al compimento di un grande passo; quella scintilla – come avrebbe detto qualcuno, - che permetteva di venire presi, di accendersi, come se si fosse una stella in mezzo a un migliaio di altre, ma di brillare, di splendere sopra ogni altra cosa.
La musica classica era così: ognuno sceglieva il proprio. Qualcuno – il canto delle serene, oppure la notte, il suo viaggio, la sua comprensione. Ma Raven... Raven no. Ascoltando il mondo, guardandolo cadere; percependo chiaramente quel vuoto di passioni formatosi per colpa della Pace e ben capendo di dover dare l'inizio a un grande Krieg!, assaporava soltanto quell'alba, aspettando, riflettendo, sperando che i raggi rossi di un Sole completamente rinnovato, avrebbero soltanto riflesso una terra bagnata dal sangue dei suoi nemici.
«Non sorprende nemmeno a me, miss Goodheart.» – Rispose brevemente, quasi come se fosse un soldato meccanico, un ghiacciaio, che di tanto in tanto assaporava i brividi delle emozioni, lasciandosi trasportare da questi. Certo che non ne era sorpreso: tra le molte sinfonie, poche sembravano avere un senso preciso. Sembrava, che mancasse quella destinazione, quel punto di arrivo materiale o soltanto ideale, a permettere loro di avere un fine. Questa invece... No. Questa no. Questa permetteva di viaggiare, e viaggiare sul serio. Questa permetteva di intravedere una luce li, nel varco, alla fine del tunnel, fino quasi a comprenderla, fino a capirla. Per lei, la Sinfonia del Mondo Nuovo, un fine ce l'aveva: ispirare gli uomini nel rendere quel mondo un posto migliore. E chi, se non Raven stesso, poteva cogliere quelle piccole sfumature di quella sinfonia così grande? Chi, se non lui, a viaggiare fin dentro le note, fin dentro la comprensione stessa della musica, di quel che rappresentavano quegli alti e i bassi, fino a scorgerci dietro un'anima, un cuore, no!, delle note da amare, da far proprie, da far continuare a vivere, come se fossero te stesso? Gettarsi a capofitto nella mischia per fermare quella pace così debole e insulsa; gettarsi, forse anche morire, per permettere di esistere ad altri, lasciando che la loro vita fosse simile a una corda del violino, tesa e danzante, splendida, come non mai. Tra tutti i cuori che gli uomini potevano vantarsi di possedere, quelli che preferiva erano dei cuori brucianti. Solo loro conoscevano la vita e la morte; solo loro potevano dare inizio ad un'opera sì meravigliosa ed eterna. Poiché soltanto sulle sue note, quell'Utopia che da tanto tempo albergava nella mente di Raven sarebbe stata possibile. Soltanto aggrappandosi al braccio di Dvorak, lasciandosi aiutare da lui nonostante fosse solo un babbano e nulla di più, avrebbe potuto, mattone su mattone, costruire quel Paradiso che ormai da troppo tempo albergava soltanto nella sua mente, senza mai andare oltre. Senza mai uscire, senza trovare la propria realizzazione.
Stinse i pugni. Poi abbassò il capo.
«Mi fido dei suoi gusti, miss Goodheart.» – Rispose, sicuro che prima o poi avrebbe sentito quel canto, in un modo o nell'altro, in un posto o nell'altro, abbassando le proprie guardie dinnanzi alla poesia e, con la ferocia che soltanto i poeti possedevano, gettandosi in un'altra storia, in un'avventura, probabilmente una lotta, o forse soltanto un viaggio meraviglioso di una altrettanto meravigliosa mente. Poi pensò che avrebbe dovuto ringraziare in un modo migliore quella domatrice di draghi. Come? Volle scuotere il capo e invece si fermò: un poeta doveva scegliere il momento, altrimenti era soltanto un muratore che conosceva dei sillogismi e delle frasi ad effetto. Parzialmente una noia, quindi. Ma come farlo? Poi sentì la richiesta della donna alla luna. Non voleva che arrivasse il mattino? Ma era quella la cosa bella di una notte! - pensò. Dopo il buio arrivava sempre la luce. Dopo la notte – il mattino. Le stelle danzanti dell'universo e delle anime umane dovevano lasciare posto ad altro tipo di stelle, ad altre emozioni, ad altri viaggi.
«Non può fermarla, miss Goodheart.» – Disse, osservando anch'egli la luna. - «Al suo posto deve venire un'altra stella a illuminare il cammino dei cuori puri. Al posto di questa neve, di questo thestral un po' spaventoso, verranno gli uccelli del mattino; sotto la neve nasceranno dei fiori, ma non saliranno ancora in superficie, aspettando il momento propizio.» -" proprio come i poeti, Raven, proprio come i poeti" – «Al posto degli animali della notte, verranno gli animali del giorno. Questo thestral scomparirà, sciolto tra le fronde degli alberi, e al suo posto nasceranno i canti degli uccelli. Questa neve» – Raven indicò la neve sotto i suoi piedi, per un attimo abbassando lo sguardo – «Questa neve non sarà così fredda domani.» – La poesia non poteva durare per sempre, così come la luna non poteva restare per sempre appesa nel cielo. Eppure... Quel riflesso così argenteo negli occhi di lei era la stessa Arte e la stessa poesia, quasi un'esplosione, no! - un'implosione! - d'argento; un vorticare di emozioni velocissimi, istantanei, incomprensibili ai più, e per questo sottili. Cosi vi era in quel sguardo di così dannatamente... chiaro? Un cuore puro – pensò Raven. Un cuore puro. E non era forse una meravigliosa scoperta, questa? Quella di vedere degli occhi puri, in un'anima ancora non putrefatta dalla pace imposta, dal bene imposto, dalla giustizia decisa da altri? Il suo interessamento, la sua positività. Dov'era la sua chiave? Per un attimo si chiese se non fosse, fredda al vento gelido, già presente nel suo pugno, a contatto con la sua pelle. E invece ci ripensò: davvero la voleva quella chiave? Davvero era così sicuro di non sporcare un cuore puro? Non poteva peccare d'arroganza quel sera. Non poteva peccare di superbia. Prima di rendere vano il sacrificio di un unicorno, doveva capire se questo rischio valeva la candela. Se salvarla – o dannarla – poteva rendere il mondo un posto migliore, o un posto ancora più brutto di quel che era diventato per colpa del ministro Pompadour.
Quindi scosse la testa in un cenno affermativo.
«Sono in tutto e per tutto d'accordo con lei, miss Goodheart.» – Disse freddo. - «Quando a voce alta si parla di Beethoven, Mozart o Haydn, si deve quanto meno ammettere che, in confronto a noi umani, loro sono tutti divini. » – Quindi prese di nuovo dell'aria, come se volesse continuare a parlare e invece si fermò, osservando la sua scena, guardando come la Rusalka camminava in mezzo alla neve, divina, come Haydn, ancor più divina rispetto alle sue precedenti passeggiate in riva del lago nero quella serata d'inverno.
«Fare un errore nella vita non è una tragedia, miss Goodheart. La tragedia vera è quando tutta la vita è un errore.» – Rispose sincero, alla sua affermazione sulla condanna. Certo, - volle rispondere. Alcuni si condannavano da sé, altri portavano al Ministero fior fiori di galeoni soltanto per avere un diritto in più nel futuro: quello di vendersi. Ma fare degli errori era normale. Era umano. Errare non era mai stato una tragedia. Una tragedia è stato trasformare la propria vita in un errore continuo, lasciandola priva di ogni significato, li, immersa nella densa nebbia dal colore argento, quasi perdendosi tra di essa, quasi dimenticando di vedere i fiori spuntare fuori dopo una lunga primavera; quasi dimenticandosi di vedere il sole, di sentire il cantico dei cantici, o assaporare la melodia della natura. Quella era una tragedia: non avere una vita valida, scappare, non riuscire mai a salire in cima alla montagna, non sentire mai la propria voce riecheggiare tra le montagne. Non essere.
L'anima di alcune persone era fin troppo piccola e amorfa per poter essere compresa. Quasi come lo erano gli uomini stessi.
Con quelle parole non voleva dare alla giovane domatrice una spinta, né del coraggio. Non voleva condannarla, né spingerla a riflettere. Non era una legge, né una teoria. Era una Verità. Chi aveva spesso camminato sul filo del rasoio, senza mai cadere; chi aveva visto il proprio riflesso nell'acqua limpida dei fiumi scozzesi; chi aveva viaggio, chi aveva sfidato la sorte, il destino, un sedicente Dio... Coloro comprendevano il bisogno di curare il proprio respiro, di essere uomini, al di la del bene e del male, di avere degli ideali e dei valori che superavano ogni altra cosa: Dio, Voldemort, il sacro e il profano, e persino la sua stessa Utopia. Averei dei valori...
"Essere uomin d'oggi" – avrebbe completato quel pensiero Drieu la Rochelle. E invece Raven avrebbe protestato, testardo come sempre. Non serviva nemmeno essere uomini d'oggi. Bastava essere uomini di ideali e di valori; coloro che, posizionando l'aristocrazia e il nobile sentimento sopra ogni altra cosa, si immolavano nella difesa dei bisognosi, dei deboli, degli affamati... Essere uomini e vivere da uomini. Nessun Dio, nessun Diavolo oltre al superuomo e le sue regole morali.
«Non si preoccupi, miss Goodheart.» – Avrebbe quindi esclamato Raven, ora meno glaciale e calmo di prima. -«Non conosco uomini sani di mente che non abbiano fatto degli errori nella propria vita.» – Avrebbe sorriso quindi, leggermente distaccando le labbra e mostrano i denti, ormai non più così bianchi come anni e anni prima. Sorriso?! Lui?! Si fece catturare dalla contemplazione di Aquileia Goodheart del cielo notturno. Di nuovo Rusalka...Non era forse poeticamente divino anche quello? Sì. Con la profondità degna dei cuori poetici Aquileia Goodheart contemplava l'infinito del cielo, forse aspettando che, per via di quella discussione così lunga, Venere, la stella del mattino, facesse capolino in quel luogo.
«Sì, miss Goodheart.» – Disse. - «Coloro che disegnavano la sfida, amavano la sfida. Pensi a Caravaggio e al suo spirito combattivo. Pensi a Modigliani, o a Picasso: non erano forse i battibecchi tra loro, quasi minacce di morte reciproca, a tenere salda l'Arte di entrambi? Non era forse quello il motivo per cui, disteso sul letto di morte, un pittore di fama come Picasso, gridava il nome Amedeo?
E di nuovo torniamo al concetto di prima, miss Goodheart: colui che vede il fiore, vedrà anche la Luna. Colui che sente Haydn, vedrà anche Caravaggio. Perché il profondo e il bello possono essere visti solo dai geni con la vista interiore...»

Certo. Gli piacevano i quadri. La bella Arte era tanto complessa quanto la musica: i pittori di una volta ci mettevano anni per arrivare un stile, per sviluppare qualcosa, per sentire respirare le loro opere, e quindi cadere nella malattia dei geni. Raven poteva parlarne per ore: la Storia dell'Arte gli piaceva. Ogni linea, ogni croce, ogni viso, ogni sussulto. Tutto questo faceva parte di un immenso patrimonio: quello dell'umanità intera. Ecco cos'era una tragedia! Una tragedia sarebbe stata se tutto ciò fosse andato perduto. Se le tele di un Van Gogh, o di un Rembrandt; e il testo e la partitura della Sinfonia numero 9 di Beethoven; se le "Illusioni perdute", di Balzàc, o se la Divina Commedia... questa sarebbe stata una tragedia degna di quel nome: la loro scomparsa.
Come in ogni nobile uomo, ricordandosi dei vecchi spiriti del passato, di quel Goethe, e di quella nobilità d'animo, Raven da tempo immemore ormai si era impresso dentro una rigida dittatura. Nessuna emozione involuta, nessun sorriso, nessun passo: tutto andava in fila con l'Ordine dentro di lui. Ogni pensiero era già ponderato; ogni azione da svolgersi – già pensata. Nulla sarebbe dovuto essere lasciato al Caso, come nell'amore, così anche nella guerra: soltanto l'esercito più ordinato e rigido avrebbe avuto la vittoria. Soltanto i morti avrebbe visto la fine della guerra.
Poi scosse il capo, lentamente, due volte precise. A che serviva ringraziare lui, che era soltanto il portatore di quelle conoscenze e di quella cultura, che altri avevano progettato, disegnato e tramandatoci? Lo fece leggermente sorridendo, quasi come se fosse divertito da quella purezza, forse ingenuità infantile, ma comunque un tratto molto positivo della personalità di Aquileia Goodheart. Gli piaceva quella donna in ogni sua sfumatura, e non aveva più i mezzi necessari – né sospiri, emozioni, movimenti del capo, - per poterlo negare. E allora cosa fare? Dopo aver scosso la testa, preso il fiato, come un soldato che rapportava dell'esito di una missione al proprio superiore, parlò nuovamente.
«Non serve ringraziarmi, miss Goodheart.» – Disse ora serio e ora sincero. - «Ringrazi Caravaggio, per essere stato un genio e aver vissuto una vita valida; e ringrazi Durer, per aver conosciuto il mondo, essere perso nei suoi simboli, aver compreso l'infinito e avercelo tramandato.» – Finì di dire, ora volgendo lo sguardo verso di lei, verso l'esile corpo, ora alzandolo alla luna, sempre più calante, giacché la notte, ormai, stava passando in fretta. Le interessava quella Luna? Un colpo e sarebbe stata sua. Ogni luna sarebbe stata sua. Ogni stella piegata al suo volere. "Dai Raven, finiscila di romanticare... queste cose lasciale ai film babbani e ai loro libri. Tu continua ad affinare la tua vita, rendila un gioiello, o una stella" .
E allora poco importava come rendere affilata, a mò di lama, una strada. Poco importava cosa fare, come agire: l'intuizione, più che l'istinto, avrebbe portato ogni pezzo del puzzle a incastrarsi al proprio posto, formando quel quadro generale, quella splendida scena, di cui tanto aveva bisogno non solo per ricercare la forza, ma anche per ricercare il bello. Il bello! Non era forse li, dinnanzi a lui, qualche passo più a lato, fermo, imperscrutabile, e divino nel contempo? Il bello era eterno, e quella scena, vissuta li, sulle sponde di un lago in quiete in una notte d'inverno, sarebbe stato probabilmente scolpito nella memoria di lei, di lui e del Thestral, finché tutti e tre sarebbero vissuti per davvero, ricordandosi di come guardavano il fiore assieme alla luna, di come assaporavano gli odori, di come si inglobavano in ogni sfumatura della vita e delle relazioni umane. Ricordando la passione dei giovani anni, ricordando, e forse rivivendo anche quegli attimi che sarebbero sicuramenti durati una vita intera. Ma bastava davvero una vita intera – sputo dinnanzi all'universo delle cose, - a rendere immortali alcuni momenti?
Scosse la testa.
«Non avrei mai detto che questa poesia potesse rappresentarla, miss Goodheart. Ma evidentemente mi sbagliavo...» – Disse quindi. Poi continuò:
«La prospettiva della morte nel combattimento è una prospettiva anche fin troppo dolce, miss Goodheart. C'è chi muore perché gli cadé un sasso in testa. C'è chi muore al lavoro, sgridato dal proprio capo. C'è chi muore pugnalato alla schiena dal proprio miglior amico. E c'è chi fugge, dalla vita e delle sue paure, trovando la propria fine cagnesca. Ma morire nel combattimento...» – scosse la testa per la seconda volta, nel mentre lo sguardo si accendeva di un fuoco rosso vivo, l'anima iniziava a danzare, i denti si serravano, e il sorriso ora si trasformava in una sfida al Mondo intero – «... no. Morire nel combattimento è un onore. Che sia per un mondo migliore, che si per la pace tra le due fazioni, che sia per salvare una vita innocente o un bambino in lacrime... Questa morte è la morte degna di essere scolpita nel tempo.»
"La vita umana è molto breve". - si ricordò Raven le parole di un giapponese degno di quel nome. - "Ma io... Io no! Io voglio vivere per sempre!" Sì. Preso da quei ricordi, afferrato da quelle parole, ricordandosi che esistevano principi nobili più importanti della propria pelle, delle proprie ambizioni, ahimé, anche della propria vita, il ghiacciaio si sciolse, mostrando ora un soldato – sempre spartano e composto, - ma ora più vivo che mai. Non era forse quello, l'Ideale di vita, nel rendere davvero vivi? Non era quello, l'avere una meta, che permetteva di salire fino alle cime più innevate, e da li ascoltare la propria voce tuonare ovunque nel mondo? Il pathos umano. Il dolore. Ogni cosa era una causa per delle conseguenze più ampie quanto imprevedibili. E Raven... Aveva scelto il suo pathos. Si era immolato per la causa che, nel modo più sincero possibile, riteneva maggiormente giusta. Aveva posto la propria volontà, la propria dedizione, e il proprio impegno per proteggere i più deboli, per salvaguardare i sconfitti, per a tutti i diritti che si meritavano. E se si aveva un tal nobile scopo, che ruolo poteva assumere il freddo invernale? Che cosa avrebbe potuto fare il gelo, la neve, il vento e tutte le acque del mondo? L'obiettivo da raggiungere non era mai stato importante. L'unica cosa importante era sempre stata la motivazione. Un'Ideale come quello di Raven gli avrebbe permesso sempre di essere vivo, sempre camminando sulla lama del rasoio, sempre fingendo di essere altrui, sempre indossando maschere, ma pur sempre rimanendo egli stesso. Rimanendo quel Raven che tempo e tempo prima aveva perso ogni cosa, che aveva visto suo fratello partire, che aveva apprezzato lo spegnimento delle stelle nello sguardo delle sue vittime. Quel Raven che amava la morte, poiché rendeva una vita giocosa. Quello che amava la guerra, perché la sofferenza – sì! vita anche questa! mischiata alla passione e alla virtù dei forti! - e la passione, rendevano quella strada valida per essere percorsa, le davano importanza, la accendevano, scacciando vie le enormi masse amorfe grigio-argentate, quelle della nebbia, che di tanto in tanto albergavano vicino alle strade.
Eh. Sospirò. Quando era soltano un alunno di Hogwarts, sognava di diventare grande per poter essere quel sasso che avrebbe cambiato la storia del mondo. Ora, invece, ben comprendeva che allunno, vecchio o un docente di volo a caso, avrebbe potuto fare il suo comunque. Bastava solo l'ispirazione necessaria, del resto. L'ispirazione divina.
Alle sue parole, dunque, scaldato nell'animo da quella scintilla, da quei pensieri, da quelle intenzioni, non abbassò un sopracciglio. Certo che era caldo. Era caldo come non mai. Era il fuoco infernale, quello mischiato allo zolfo, quello che esplodeva, di in tanto, rigettando la lava dei vulcani.
«No, miss Goodheart. Le mie mani non sono mai fredde.» – O quasi mai, volle aggiungere. Le sue mani erano come la sua bacchetta: sempre pronte, sempre elastiche, sempre scattanti. E dunque: sempre flessibili. Ogni fibra muscolare vibrava di quell'energia che il cuore e le intenzioni di Raven emanavano. Ogni corda gli era sottomessa; ogni movimento veniva assecondato dai suoi pensieri. Seppure in una notta fredda e gelida, ormai prossima all'Alba, era sempre quel fuoco. Era sempre il fuoco della sua nascita, della sua vita, dei duelli e delle partite, delle sconfitte, dei disastri, delle tragedie, dei scontri, dei combattimenti. Del Dolore! Sì, del Dolore! E della vendetta. E della morte... Era sempre quell'ariete che, testardo, puntava a sfondare ogni muro, buttare giù ogni ostacolo, per arrivare sino in cima, bruciando ogni cosa sul proprio cammino.
«Sì, mi preoccupo per la sua salute.» – Disse Raven, stringendole le mani ancor di più, quasi in una morsa, quasi come se non volesse staccare via, usando il proprio fuoco per riscaldarle, ma trovando una pretesa alquanto assurda per restarle vicino ancora un po'. Perché lo faceva? L'intuito non era razionale, e Raven, di certo, non aveva mai potuto dirsi un genio della razionalità. Lui era un poeta, e agiva così, da poeta, un giorno esclamando versi, e un altro, impeto di passione, falciando gente. Poteva gettare all'aria tutto, e cercare di rivivere quegli istanti una volta ancora. Poteva scrivere un libro, e quindi bruciarlo. Poteva andare nella Foresta Proibita, e farcisi la casa, senza uscirne mai, senza vedere nulla per anni. Sì, e in quei frangenti, senza un motivo, senza una causa che tutto muoveva, già espressa in precedenza, ma ora inutile, due anime incontravano la propria unione. Unione momentanea per i razionalisti, ma eterna per i poeti. Un quadro, no! Una tela. O una sinfonia? O forse una poesia? La sua mente si ispirò ancora, ora rivivendo quel fuoco che egli era con qualcuno, magari scaldando quel qualcuno in una notte d'inverno, magari illuminandogli la via, indipendentemente da quale fosse. O forse... Forse no. Forse soltanto l'eternità, una repentina caduta, o un'eterno volo nell'immensità sopra e sotto di loro.
Poi, staccatosi, ascoltò la sua replica, e non ebbe altro che rimanere gelido e impassibile, per poi ritrovare quell'unione precedentemente perduta, ridonandole il pathos, quella scintilla che gli mancava da troppo tempo per via della scomparsa repentina di Aryadne Cavendish: l'Amore, il sacrifico, e l'eterna dedizione per la vita, per la causa e per l'essere di qualcun altro.
«Sì, miss Goodheart.» – Sussurrò soltanto, quasi come se all'orecchio di lei. - «Il mio spirito ora non morirà.»
 
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view post Posted on 4/5/2015, 23:27
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«And the only solution was to stand and fight» Merlino ballerino!

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E mi stupisco se non è questo, quello che si chiama Amore.

Capire l’essenza di tutto. Ecco a cosa si potevano ricondurre i suoi pensieri di quella notte, le sue sensazioni lungo quella conversazione, i suoi sguardi verso di lui. Vederne l’essere, capirne la mente, scoprirne il cuore. Che cosa c’era, in quel cuore, che animava così le sue parole, i suoi occhi, la sua voce? Che cos’era, che gli faceva così chiaramente bramare un qualcosa di più, di più alto, di più grande, di più forte, di più intenso, di più profondo? Perché ne era certa, questo bramava, lui, con la sua voce morbida ma decisa, con quello sguardo ardente e proiettato verso il cielo, come in un volo, che così rapidamente e senza perdere la sua intensità si riportava verso le acque del lago, verso le sue sponde, e verso di lei. Per tutta la sera, per tutta la notte, si era trovata faccia a faccia con quella nuova e sorprendente sfida, e cos’era, a tenerla così ancorata ad essa? Cos’era che aveva preso il sopravvento dentro di lei, tanto da superare il suo istinto che, ne era sicura, da qualche parte là dentro le chiedeva a gran voce di andare via da lì? Cos’era, dietro quello sguardo, dietro quella voce, dietro i suoi movimenti studiati e precisi, dietro quell’espressione e dietro le sue parole, che la rapiva?
Cos’era, che aveva fatto breccia dentro di lei?
Era forse così che ci si sentiva, davanti all’ignoto?
Oltre a ciò che lei provava, oltre a ciò che lei dava a vedere davanti ad una sfida anche più grande di lei, cos’altro c’era? La domanda si parò davanti agli occhi della sua mente come un dardo infuocato scagliato in quella notte di luna. Cosa vedeva, lei, in Raven? Cosa percepiva, nell’inaspettata corrispondenza dei loro sguardi, nel caldo tocco delle sue mani sulla propria pelle, nella sua stretta forte e delicata al tempo stesso? Era un ignoto. Era un qualcosa che, da sempre, lei aveva temuto, come i tanti altri ignoti che aveva già fronteggiato. Addirittura come l’Ignoto principe e dominatore del Mondo, quello stesso Ignoto che inevitabilmente incrocia i destini di ogni essere vivente sulla terra, in un ultimo incontro; quello stesso Ignoto che nemmeno due anni prima era venuto a prendere il suo uomo, e aveva mancato per un pelo l’appuntamento con lei stessa. Quello stesso Ignoto che ti raggiunge quando nemmeno tu ti accorgeresti mai del fatto che, in realtà, è sempre stato lì, e per cui non c’è spiegazione, non c’è schema, non c’è teoria che non crolli davanti ad un solo breve momento in cui ci si perde in quell’abbraccio eterno. Si può non avere paura di un Ignoto così? Si può non avere paura dell’ignoto? Si è umani, certo, ma basta, la propria umanità, davanti all’ignoto? Bastano davvero, le proprie forze e le proprie capacità, davanti a quel drago? Per pochi attimi, sotto a quella Luna, pensando al canto struggente di Rusalka, davanti all’abisso che ritrovava nello sguardo nero di Raven, la tristezza che l’aveva attanagliata all’inizio della serata tornò a manifestarsi dentro di lei, catturandole il cuore con presa forte. Perché lei era lì? Perché non se n’era andata anche lei, in quella ormai lontana notte, via da quel mondo che in momenti come quello le sembrava così duro, spietato, crudele e invincibile? Perché le era stata negata la Possibilità? Da quale lontana nicchia dell’universo, il Dio che stava sopra le loro teste prendeva simili decisioni, costringendo le persone a guardare negli occhi le proprie paure?
Ma di Raven, invece, lei ora non aveva paura. Ed era così strano pensare alle parole che, invece, poco prima, quella paura gliel’avevano risvegliata. Era così strano pensare a quella morsa stringente che le aveva arpionato lo stomaco, mentre sedeva su quello spuntone di roccia poco lontano, quando le si era parata davanti agli occhi la prima consapevolezza del suo stato d’animo. Ma quella consapevolezza, stava diventando una certezza? Non lo capiva. Lo stupore che quello stato di cose le provocava dentro era chiaramente visibile nella sua espressione, come era percepibile nella decisione con cui ricambiava la stretta di lui sulle proprie mani. E anche quel gesto, era come involontario, guidato da qualcosa di diverso, di più profondo, del puro spirito della sfida. Capirne l’essenza. Ma era così che aveva immaginato la sua sfida, all’inizio della serata?

“Non so se sia saggio esserne così sicuri, professore” rispose, seria, alle sue parole. Parlava con una voce diversa, ora, più scura, forse addirittura cupa. Un’ombra, un riflesso del suo tumulto interiore, che la portava a posare nuovamente lo sguardo sul thestral, mentre l’animale si faceva docilmente accarezzare dal giovane docente di volo. ”Io penso che più che la meta, sia importante ciò che si scopre durante il viaggio. A volte, gli schemi con cui partiamo… vengono completamente rivoluzionati mentre andiamo avanti proprio sulla strada che abbiamo scelto.”. Quella frase era la perfetta rappresentazione della sua vita, e ogni volta che aveva avuto occasione di metterla alla prova, si era mostrata vera, ma mai come in quella serata era stata così convinta di quelle parole. Mai come davanti a Raven Shinretsu, aveva creduto così fermamente a una simile affermazione, dopo aver sentito il proprio cuore fermarsi per le parole della sua poesia. Lo guardò ancora. Mai come in quell’uomo aveva riconosciuto una simile brama di conoscenza e di scoperta – o forse di dominio? -, la stessa che Dvorak raccontava nella sua Sinfonia del Mondo Nuovo, la stessa che i grandi artisti raccontavano nelle loro tele, la stessa che i sommi poeti come Dante e Petrarca celebravano nei loro versi immortali. Che fosse quello, ad affascinarla completamente, di quella sfida? Che fosse quello spirito, ad attrarla così, e a trasformare quella notte da un guardingo studiare uno sconosciuto, a un tanto incredibile quanto inaspettato incontrarsi, ritrovarsi… riconoscersi? Si fermò, per un momento, davanti alla *verità* presenza di quella parola. Riconoscerlo? Lei sentiva dentro di sé la stessa brama, la stessa foga, lo stesso ardore? Lei sentiva dentro di sé le vibrazioni di quel mondo nuovo di cui parlava Dvorak, il suo fuoco, la sua scintilla? Sì, le sentiva, ma forse non come le sentiva lui. Forse non con lo scopo della meta, ma con lo scopo della scoperta. Forse perché, mai come in quella notte, le era parso chiaro davanti agli occhi che le mete, a volte, sono obiettivi inconsistenti, nelle mutevoli mani del fato. Chi poteva mai dire che la direzione della sua vita avrebbe potuto prendere una piega così diversa da quel che si era immaginata? Scosse la testa, travolta da quel pensiero così in contrasto con uno dei cardini della sua morale. C’era davvero la possibilità di scegliere? Oppure ogni strada era in realtà una strada obbligata? Era stata una scelta obbligata, la sua, quella di schierarsi per la causa del Bene? Davanti alla Vendetta, davanti alla Lotta, alla Perdita, alla Disperazione e alla Morte, forse sì. Perché quella strada era l’unica che valeva la pena di percorrere. Alzò lo sguardo verso le stelle, i muscoli delle braccia che si tendevano impercettibilmente nel momento in cui quel fiero pensiero si impadroniva della sua mente. Sì, era l’unica strada che valesse la pena prendere. Era l’unica lotta che valesse la pena di combattere, per cui valesse la pena soffrire, e sì, anche morire. Forse era stata una scelta obbligata, o forse no, ma in ogni caso, era stata una scelta giusta. Ecco qual era, per lei, l’ardore, il fuoco, il significato, l’essenza che ritrovava in quella sinfonia, ecco cos’era per lei, il cardine di quell’Utopia di cui parlava Dvorak. Qualcosa per cui ne valesse la pena, qualcosa per cui anche l’autosacrificio sarebbe stato un prezzo mai troppo alto da pagare. E Raven, come lo interpretava quell’ardore? Così, come lo interpretava lei? Sì, non ne aveva dubbi, con la stessa passionalità, con lo stesso slancio, con lo stesso fuoco che gli bruciava dentro. Era forse questo che la affascinava così? Era solo questo?
”Non avevo dubbi” gli rispose semplicemente, quando sentì che la sua affermazione non lo aveva sorpreso. Un mezzo sorriso di disegnò sul suo viso, rivolto verso le acque del lago, e di nuovo si volse verso quella luna d’argento che sovrastava la terra, illuminando con il suo riflesso l’immensità della notte che ormai, da lì a poco, avrebbe lasciato spazio alla stella del mattino. *Luna, non andartene* pensò ancora. E perché, poi, la notte non sarebbe dovuta sparire? Era perché quel canto le riportava alla mente il suo passato? O perché quelle parole le rammentavano ciò che mai avrebbe voluto perdere, e le fornivano un appiglio per tenere strette a lei tutte le ombre dei suoi ricordi? Oppure per non dimenticarsi il significato di quei ricordi, e cosa rappresentavano? Le sue motivazioni, i suoi nuovi scopi, le sue nuove lotte, la causa che aveva deciso di abbracciare? Si portò di nuovo le mani verso le spalle, nel gesto involontario di un abbraccio, nel sentire tutta la sua fragilità affiorare in una volta sola, proprio nel momento in cui avrebbe dovuto tenerla dentro, lontana da ogni evidenza. E proprio in quel momento le giunse la voce di Raven, la risposta a quelle brevi, ma per lei intense, parole. Lo guardò, ancora, offrendo i suoi occhi vibranti a quelli neri di lui, e la sua risposta, in quei pochi istanti, bastò per provocarle dentro uno scompiglio, un palpito, che portava dentro di sé l’essenza di qualcosa che ormai da tanto tempo lei andava cercando: una rinascita. Era possibile? Era possibile, come diceva lui, poter pensare di accettare tutti gli avvenimenti che l’avevano portata ad essere ciò che lei ora, e fidarsi di ciò che poteva esserci dopo la Luna e la Notte? Poteva riuscirci? Eppure, sì, sì, in fondo lo sentiva, era quello, ciò di cui lei aveva bisogno. Al posto di quel thestral spaventoso, come diceva lui, al posto di quella neve immobile e fredda.
Non rispose, limitandosi a guardare il viso di lui, davanti alla verità di quell’evidenza che in pochi istanti lui aveva saputo disegnarle davanti agli occhi, risvegliando una parte di lei che forse per troppo tempo aveva tenuto costretta, e sopita. «Questa neve non sarà così fredda, domani».
Forse, in realtà, era
quella notte che non voleva veder finire.
Un’altra presente evidenza, un’altra sicura verità. E a che valeva, ora, nasconderla? A che valeva, adesso, ripararsi dietro la sua diffidenza, dietro il suo spirito guardingo, dietro la spericolatezza del suo lato temerario, quando ormai era palese e chiaro che anch’essi non erano nient’altro che maschere? Nient’altro che meri travestimenti, per nascondere ciò che quell’uomo le stava provocando dentro, il modo in cui riusciva a toccare corde a cui nessuno più era riuscito ad arrivare, il modo in cui riusciva ad avvicinarsi a lei come nessun altro più aveva saputo fare? A che valeva nascondere ancora tutto questo? Ma lei, lei, come avrebbe dovuto comportarsi, davanti a questa evidenza? Cosa doveva fare? Per la prima volta in tutta la serata, si sentì completamente destabilizzata. Lei, che era così abituata a mantenere il controllo, che era così avvezza a mantenersi vigile, proprio lei, ora, si fermava, titubante, davanti a quello squarcio che si apriva nel suo cuore. Insicura, indecisa, da una parte le ombre del suo passato, e dall’altra quelle (ombre?) del presente. Sarebbero state oscure come quelle del passato? Forse la Sorte,stavolta, avrebbe smentito la sua reputazione di ironica giocoliera. O forse no, forse non l’avrebbe fatto, come non l’aveva fatto durante quella notte infernale, in quella sudicia stazione della metropolitana. Forse avrebbe continuato ad accompagnarla come aveva fatto sino a quella parte, mostrandosi con la faccia che più di ogni altra aveva potere su di lei: il senso di colpa. Ma d’altro canto, Raven aveva ragione. La tragedia vera è davvero quando tutta la vita è un errore. E la sua vita non lo sarebbe stata. Mai più.

”Sì, professore, ha ragione” rispose, la voce scura, ma sicura, ferma e determinata, come il suo sguardo verso quel cielo. “La vita è una possibilità, e chi la spreca per gli ideali sbagliati non è degno di questa grazia”. Era, anche quella, una sfida. Una grande sfida, forse la più grande che un uomo potesse immaginare di raccogliere, una Sfida alla pari di quelle provate, vissute, e dipinte nelle tele immortali dei grandi pittori. Picasso, Caravaggio, Modigliani, e tutti gli altri che, dentro di loro, avevano percepito quella spinta, quell’ardore, quello stesso fuoco che, ardente, traspariva dalle parole e dallo sguardo di Raven Shinretsu, e che così inaspettatamente le contagiava gli occhi e l’anima, dissolvendo completamente quella morsa estenuante e inquietante. No, aveva ragione: forse non doveva ringraziarlo sull’Arte e sui quadri. Forse, doveva ringraziarlo per qualcosa di ben più profondo, travolgente, incredibile, vero e presente; qualcosa che gli occhi del suo cuore, ancora, non avevano il coraggio di guardare, ma che in fondo, percepivano chiaramente.
”Beh, credo che una minima parte le sia dovuta, professore. I grandi artisti, come anche i poeti, e i compositori, continuano a vivere attraverso lo spirito di chi li ammira e li ama” gli rispose. Involontariamente, si morse il labbro. ”Ed è un onore prezioso” continuò, guardandolo di nuovo negli occhi per un istante, prima di voltarsi verso il thestral, avvicinandosi ancora verso di lui. Fuggiva? Sì. Ebbene sì. Aquileia Goodheart, l’esperta e abile domatrice di agguerriti grifoni, l’astuta soggiogatrice di sfingi e draghi, l’infallibile lanciatrice di coltelli, abituata al controllo, alla tensione, all’adrenalina, al rischio e alla sfida, con quel semplice distogliere lo sguardo e voltarsi, davvero: fuggiva. E fuggiva da una cosa così semplice, così lineare, così spontanea e naturale, che ai suoi occhi non le sembrava quasi reale. Non le sembrava possibile, non le sembrava plausibile. Eppure, lo era. Quella consapevolezza continuava a farsi strada dentro di lei, anche ora che accarezzava nuovamente la pelle coriacea dell’animale, lontano dal tocco di Raven; anche ora che la Luna cominciava ad abbassarsi, per lasciare posto alle ultime stelle, e poi, infine, ai primi bagliori del mattino; anche ora che (sì, adesso se ne rendeva conto) nella sua mente ritornavano le parole di Rusalka per la Luna, mentre desiderava che quella notte non finisse mai.
Ma a che sarebbe servito, fuggire? Era forse questo, che la vita le aveva insegnato a fare? Era forse così che sapeva fronteggiare ogni vicissitudine? La ragazza incontrò gli occhi vitrei e bianchi dell’animale, alzando il capo con un mezzo sorriso. No, non era questo. Altrimenti, perché non fuggire anche da quel thestral, da quella creatura che incarnava qualcosa di ben più profondo, più radicato, più crudele e determinante, per lei? Anche quella era la Realtà, era la
sua realtà. Esattamente come ora lo era quella notte. Addomesticarne una, e non avere il coraggio di fronteggiare l’altra?
Riabbassò il capo, voltandosi nuovamente verso Raven.

”Credo che nemmeno io l’avrei mai detto. Ma è così” gli rispose, ricominciando a muoversi verso di lui. No. Nessuno mai le avrebbe portato via la certezza del proprio cuore, la certezza del proprio essere, e nemmeno la certezza dei suoi limiti e delle sue paure. Era questo, che ci si portava, davanti a un grifone, un attimo prima che lui ti carichi per ucciderti. Era questo, che serviva, davanti ad un drago, per non rimanere vittima del suo attacco mortale. *E’ questo, che da quella notte in poi, ha fatto in modo che nessun legilimens riuscisse mai più a raggiungere i miei ricordi*. Era questo, il vero controllo; era questo, e solo questo, il motivo che l’aveva mossa verso la direzione definitiva che aveva preso la sua vita. ”Sì, professor Shinretsu. E’ un onore. Morire per qualcosa in cui si crede, per cui si vive, e in cui si ha Fede. E’ una morte degna di uomini che hanno vissuto davvero, ed è una delle poche desiderabili, se non l’unica.”. Alludeva ai suoi nemici, con quel dire “morte desiderabile”? Sì. Alludeva a loro, ai servi di Voldemort. E perché no? Loro credevano, nella loro causa. Credevano fortemente, e fermamente, in Voldemort, e in ciò che egli rappresentava, come avrebbero creduto ad ognuno di quei folli e infernali angeli vendicatori che stavano proprio un gradino sotto di lui. Anche per loro, la morte in combattimento sarebbe stata un onore, un onore che sarebbero stati pronti a ricevere ed assaporare. Un’espressione di malcelato disprezzo comparve sulle labbra della ragazza. Peccato che non l’avrebbero mai sperimentata. Peccato, che i loro giorni sarebbero stati spesi a marcire ad Azkaban. Perché la gloria di una morte in combattimento bisognava meritarsela. E loro no, loro non se la meritavano.
Tacque, guardando di nuovo Raven in viso, ritornando sui suoi pensieri di pochi istanti prima. Ritornando a pensare a quella certezza. Sì, ora lo sapeva. Quella certezza; era quello, il motivo, che la dissuadeva dal fuggire da lui, e che anzi la faceva tornare davanti ai suoi occhi, e alla portata delle sue mani. Ed oltre il suo disprezzo, oltre la sua fatica, oltre il suo senso di colpa, oltre le tante facce di quell’odio che sentiva dentro di lei e oltre a tutte le insicurezze di quella notte, era lui, il motivo per cui, nel suo cuore, ora sentiva ardere quel fuoco nuovo. Quel fuoco che era il figlio, o il fratello, del fuoco che ardeva nelle sue stesse parole. Un fuoco che le faceva sostenere lo sguardo in quello di lui, e che la lasciava libera di farsi avvicinare, di farsi avvolgere dalle sue parole, dai suoi occhi, dalla sua voce morbida e sottile, che la sfiorava come una carezza in quella gelida tarda notte. Il fuoco che ritrovò nel tocco delle sue labbra; un fuoco che squarciava i battenti, arrivando a percepire ogni sensazione, a raggiungere ogni pensiero, e a conoscere e manifestare il più profondo impulso dell’anima, raggiungendo l’intimo del cuore e liberando il suo ultimo essere, e che racchiudeva dentro di sé l’ignoto, annullava le paure, e che come quel sole che stava per sorgere, ardeva di un’unica fiamma: la rinascita.



Edited by Aquileia Goodheart - 5/5/2015, 01:49
 
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view post Posted on 13/6/2015, 16:19
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"Tutta l'umanità è passione; senza passione, la religione, la storia, i romanzi, l'arte sarebbero inefficaci."




Saggio o non saggio, ma a chi importava della saggezza? Lei era sempre li, sempre pronta a sgridare, a mettere al proprio posto, a dire cosa fosse giusto e cosa no... Ma della saggezza a nessuno glie ne importava niente. Qualora tutti avessero pensato a essere saggi, anziché semplicemente essere, a quell'ora non ci sarebbe stata Hogwarts, non ci sarebbe stato il lago, la luna calante e ormai la prossima alba. Per vivere bisognava sentire, percepire; bisognava camminare, sempre, in avanti, alcune volte girandosi per vedere cosa vi era rimasto indietro, quasi a lasciarsi cadere dalle spalle un peso notevole, altre volte invece camminando senza voltarsi, quasi come se ciò che vi era rimasto sparso per i granelli di sabbia dietro alla schiena delle persone fosse soltanto un brutto ricordo, un peso che doveva venire per forza non solo riposto, ma anche dimenticato. E dunque così continuava la storia, tra una misera disfatta e un'altra, tra l'iniziare a credere in qualcosa che sia realmente qualcosa, e riporre ogni possibile credulità in vecchi cassonetti con scritto "Storia" e continuare a guardare in avanti quasi a volerci vedere un qualcosa che possa essere realmente importante. Folli!, quali erano per davvero tutti quelli che gli giravano intorno, immischiati, impressi nella routine, quasi come se vivessero in gabbie, come gli animali, come delle istruzioni sul vivere e da vivere.
Certo! Il viaggio! Tutta la vita era quel dannato viaggio a cui ognuno doveva prestare conto e attenzione, quasi come se la vita, - tiranna! -estral , fosse fatta per incutere timore ad altri. Non si poteva vivere perché si aveva paura della vita non si poteva muovere un passo perché il viaggio incuteva ansia; non ci si poteva spostare perché, consci del pericolo, si poteva lasciare via quel mondo pieno di Nulla e andare altrove, ove il mondo sarebbe stato leggermente più colmo di cose che realmente potevano vantarsi di avere un senso: un altro mondo, ove l'amore non sarebbe stata una parola ormai priva di un profondo significato; ove l'amicizia non sarebbe stata soltanto un miraggio, e ove l'onore, anch'esso, non sarebbe stato solo un complesso vuoto di altrettanto vuote sillabe, da lasciare al suo destino.
D'altro canto,quel mondo, quell'Utopia, la si poteva costruire li, donandosi, sforzandosi, mettendosi in gioco e dando via la propria anima in sacrificio estremo a ciò che era l'Ideale. Il suo Ideale? Quasi volle scuotere la testa un'altra volta, ma poi si mantenne, lasciandosi andare a un breve sospiro immerso nella notte. Forse quel Thestral lo aveva sentito quel sospiro, o forse no... Ma non importava. Non importava davvero nulla, sopratutto osservando che a delle volte avrebbe voluto essere quel Thestral stesso. Libero dalle stronzate che gli umani si erano inventati nel corso della storia, ma in contempo legato a quegli istinti animaleschi di cui si facevano portatori le aquile o i lupi. E invece no. Invece era obbligato a stare li, a portarsi avanti la propria pesante croce facendo finta di niente, facendo finta che tutto andava bene, che l'inesistenza delle varie virtù era una cosa nobile e giusta, che tutto procedeva così come doveva, che quella società non doveva essere curata, salvata, perché, ahimé, pensava di essere sana.
«Sì, miss Goodheart. Per alcuni è così, per altri un po' meno. C'è chi nasce con delle certezze, e chi quelle certezze le trova durante la vita. C'è chi tradisce i propri ideali per acquisirne di nuovi, e chi li trova. Del resto tutto ciò è solamente una macchina, fortuna, la ruota che gira... Niente di personale. Nient'altro.»
L'essere professori di Volo non implicava di poter essere professori di vita, ma dall'alto della sua piccola vita, delle sue esperienze nei settori dell'amore, vita e morte, poteva dirsi sicuro di quel che diceva. La sua via, la sua strada, i suoi ideali, del resto, li aveva già trovati e non era disposto ad abbandonarli. Li avrebbe seguiti, perseguitati, quasi con una maniacalità malata, un po' cantando un po' sognando, finché non avrebbe visto il sistema cadere, finché tutti coloro che lo sopportavano, che lo tenevano sulle proprie spalle, non sarebbero caduti anch'essi, complici dei propri mali, dei propri vuoti interiori, poiché...
"Niente muore a meno che non si già morente"- si ripetè Raven, nel mentre osservava il sole alzarsi pian-piano. I suo raggi rossi cadevano sul thestral, toccavano le punte degli alberi e poi scendevano, rapidi, verso l'orizzonte. Era illuminato di un colore rosa sfiaccato, quasi fucsia bellissimo, considerando che le stelle, la sopra le loro teste così come negli occhi della giovane donna iniziavano a spegnersi.
Erano stanchi.
Entrambi.
Poi volle sbadigliare, ma si trattenne. Era davvero stanco. Le ore passavano, i minuti anche. Erano solo rimasti li per tutta la notte in mezzo a una landa innevata a parlare, parlare, parlare e poi parlare di nuovo. Sempre. Quasi come se il parlare fosse la loro occupazione preferita, quasi come se fosse il sintomo di una conoscenza più profonda, come se si fossero già conosciuti altrove, in un'altra vita, nel al di la, come molti dicevano. Ma che pensieri stupidi erano quelli? Scosse il capo, poi ascoltò i suoi stessi pensieri pronunciati con le labbra di un'altra persona. Possibilità? Sì, lo era, e sì, non la si doveva sprecare quella possibilità. Data la vita, ci si doveva prendere il resto. Con le unghi i denti, lo sforzo... Non si aveva talento? Lo si creava. I duro lavoro sopperiva sempre alla mancanza di talento. Il cuore e non i pregiudizi, il coraggio, non l'intelligenza, ecco quali erano le caratteristiche che facevano di un uomo un condottiero vero. Sempre gettarsi nella mischia, sempre correre incontro alle ripide salite, senza retrocedere mai, sempre come se fosse l'ultima volta, come se ogni cosa, - il vento, il sole, le radure, - fossero amici, compagni di battaglia. Vivere, come se ogni attimo era l'ultimo, come se la fine fosse sempre vicina; come se il sospiro della morte fosse sempre presente, sempre pronto a rigettare il caldo fiato contro la sua nuca.
La guardò. Era lei, la luna? No. Era semplicemente una donna. Una sognatrice, forse, o forse no, ma questo dettaglio era certamente secondario rispetto a tutte le altre questioni che ora gli sorgevano in testa. L'ideale o l'amore, il piacere o il dolore... Chi era lui per giurare fedeltà a una sconosciuta? Quasi volle tirarsi indietro, muoversi, retrocedere, ritirarsi in fuga nel castello lontano dai... Sentimenti? Non aveva sentimenti, e non poteva averne. La Provvidenza divina non aveva sentimenti. Un Dio sì, un Dio! Cos'era quelle emozioni delicate e fastidiose che egli percepiva? Cos'era l'Amore? Si girò di scatto verso il lago, quasi a volerci vedere quel che davvero desiderava vedere: un bagno di sangue!
"Che orrore!" - sospirò una vocina nella sua testa.
"Quella sarebbe poesia." - rispose Raven.
"No," - continuò la vocina. - "La poesia è bella, affascinante, amorevole, delicata".
"No" – questa volta fu Raven protestare. - "E' bello ciò che esplode, è bello ciò che non si vede tutti i giorni. E' bella la maschera di desolazione e tristezza sui volti morenti, è bello l'Odio, è bello il sangue, è piacevole lo scambio di incantesimi mortali. E quando un uomo cade a terra privo di vita, non si vede forse l'essenza della poesia più pura nei suoi occhi? Non si scorge, forse, quel brivido che ti percorre la schiena quando leggi delle righe piacevoli?"
"Orrore!" - continuò a protestare l'altra voce. - "Orrore!" - ripeté essa. - "La poesia è un brillare di mondi..."
-"...di dolore..."
-"...di Amore..."
-"La guerra è la vera Poesia! Lo scontro, il combattimento, il sangue, la Morte! Dimmi... non è forse tutto questo che permette di gridarti "Sono vivo!, sono vivo pià che mai!". Non le stelle del mattino, non il fruscio dell'erba o delel foglie secche, ma il Fuoco! Non l'Amore, ma la Spada!"
-"Non c'è niente di più poetico della luce di stelle..."
-"Una testa mozzata, sul cui volto permane un espressione di rabbia mista a tristezza, di sangue misto a lacrime, è decisamente meglio!" - Rispose l'altra, più bassa, più rauca, voce.
-"Sì," - pensò Raven, mettendo a tacere l'altra voce. - "La Guerra è decisamente migliore di qualsiasi altra foma poetica. La Guerra è ciò che fa vivere. La guerra è ciò che permette di comprendere ogni attimo, di capire l'essenza profonda della vita. La guerra è esistita, esiste ed esitera. La guerra, - Krieg! -, è ciò che esisteva ancor prima che l'uomo, magico o babbano facesse i suoi primi passi sulla terra. Il Conflitto! Ecco il vero Dio dell'Universo... Ecco ciò che è Onnipresente, Onnisciente e Onnipotente! Krieg!"
-"Idiota!" - protestò la più acuta tra le voci, nel mentre Raven si portava una mano alla testa, quasi come a volersi aggiustare i capelli. - "La guerra è la Morte della Poesia! La guerra è la morte di... Tutto!"
-"No," - calmo rispose Raven ancora guardando il lago dinnanzi a sé. - "Non è solola guerra. E' anche la guerra. Ma è sopratutto la Fine. E' la fine che è poetica! E' la Morte, ecco cosa è Vita! Il Sangue è vita! Ipocrita!" - urlò egli, mettendo di nuovo a tacere la più acuta tra le voci. - "L'ultima scintilla di vita sgorgante nelle iridi chiaroscure di un mago che muore per un'ideale, è Arte pura. Un'esplosione, arti che volano, teste mozzate, budella sul manto erboso ricoperto dalla pioggia nottura! Copri senza vita, genitori che non vedranno i suoi figli, bambini che crescono nell'odio, nella rabbia, nella disperazione... Sono questi i bambini che, per vendetta o per altro, un giorno diventeranno artisti. Sono loro che un giorno inizieranno a splendere, a combattere, a entrare nel circolo eterno del Conflitto!"
-"Krieg!" - Aggiunse l'altra voce.
-"Krieg." - Sospirò Raven
-"Non era forsedi questo, che parlava Dvorak? Non era forse il Coflitto, al centro delle opere di Walter Scott? Non era forse grazie alla Krieg, che nascevano dame e cavalieri?!"
-"No," - rassegnata, sospirò l'altra voce. - "Credere che ua testa mozzata sia in qualche modo artistica, è una follia! Voi, signori, siete una follia!"
-"..."
-"L'Arte è Follia!" - protestò Raven avvicinandosi al Lago Nero.
-"No", - per l'ennesima volta sospirò la voce. - "L'arte è la bellezza concentrata, ma che bellezza vi può essere in un corpo morto? Che bella vi è nella disperazione, nel dolore, nella tristezza? Che bellezza stai cercando, Raven, se per Arte intendi migliaia di corpi senza vita stesi su un manto erboso? Non vi è bellezza nella morte..."
"Ah no?" - rispose Raven. - "Eppure quanti quadri, quante storie sci sono state dedicate? Quante musiche, quante marcie funebri, quanti quadri... La Poesia del Dolore e la Poesia dell'Amore vanno di pari passo. Che sia un bel nature mort, o che sia una landa costellata da migliaa di volti morti, la portanza artistica è la stessa". - Osservò Raven, girandosi quindi verso miss Goodheart.
«Vivere attraverso le proprie opere, dice? Sì.» – rispose, mettendo le voci nella sua testa a tacere per qualche attimo, ma scoprendo, con piacere, che in realtà il loro dibattito continuava imperterrito più che mai. "Bhe, poco male" – pensò Raven, conscio del fatto che vi era nato qualcosa in lui; che quel qualcosa si ea sviluppato, dandogli modo di comprendere appieno anche l'altro lato della medaglia: l'Arte non era solo l'Inizio, era sopratutto la Fine di un percorso. L'Arte era sia la morte del cigno, sia la nascita di una Fenice. Era sia la morte gloriosa, che quella da traditori. Per i cuori aperti ogni cosa aveva dell'artistico... Tutto l'universo aveva dell'artistico. Tutto l'universo era pronto a dipingersi in colori più vari e disparati, qualora un cuore aperto l'avese voluto.
Poi sorrise allegramente.
«Morire per qualcosa è un onore, sì. Ma credo che anche uccidere per qualcosa lo sia. » – Raven mantenne il suo sorriso. - «Quindi le chiederei, miss Goodheart, di non morire in nome di quel in cui crede, ma di continuare a vivere nel suo nome.» – Poi vide il segno di disprezzo disegnatosi sulle sue labbra.
-"Quella donna nasconde qualcosa." - Commentò la voce più bassa. - "Lei non è chi dice di essere".
-"Non importa chi è" – sospirò Raven. - "Basta che io sia quel che sono".
-"Un poeta?" - Chse la voce più acuta.
-"Un Soldato-Poeta. Uno di quelli che il Bello lo trova sia nella rosa, sia nella spada".
Posizionandosi dinnanzi alla giovane donna, assaporò di nuovo il gusto delle sue labbra. Una voce gli disse di continuare quel momento, l'altra gli sospirò di mordere quel labbro, di gettare quella donna nella neve li, seduta stante, e consumare quell'atto di persuasione artistica li, seduta stante, nella neve mischiata con le emozioni forti.
Tuttavia, Raven non diede ascolto né all'una, né all'altra. Fece quanto necessario, per il tempo che fu necessario. E poi si stacco, osservando gli altri raggi del giovane sole colpire il thestral.
«Mi sembra che sia l'ora, miss Goodheart.» – "E' l'laba di un giorno nuovo, Raven! Un giorno nuovo! Un giorno artistico all'insegna della Morte e dell'Amore, della delicatezza e dei piaceri estremi, all'insegna del Matrimonio e della Guerra, Raven! Avanti! Un giorno nuovo!"
«Tuttavia, sono piuttosto sicuro del fatto che ci reincontreremo, di nuovo.»
-"Certo, che ti reincontrerari con lei" – sorrise la voce più acuta. - "E' la tua Primavera, è la luce di stelle, è l'Alba di un sogno estivo, è lo splendore della rugiada mattutina!"
«Sì.» – Quasi come a voler cercare certezze, disse Raven, rispondendo sia a sé stesso, sia alla voce. Poi rimase in silenzio.
-"E se la prossima volta la dovessi incontrare in Krieg?"
-"Allora assaporerò il suo sangue, le mangerò il cuore, annuserò il profumo di paura, le fisserò le iridi, e godrò nel vedere il panico in esse" – freddamente rispose il Docente, poi si girò, pian-piano andandosene via da li.
«Ci vedremo ancora.» – disse senza voltarsi.
«Ci vedremo ancora.» – Ripeté, e a passo lento sparì dalla scena.
 
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