In quello studio tiepido del calore del fuoco, la danza degli scacchi lentamente aveva preso forma nelle parole leggere dei loro discorsi, in una musica manierata fatta di quiete e sorrisi. L’effluvio del fastidio appena provato penetrò le narici di Dorian, passando oltre la mucosa riarsa della sua gola: da lì si insinuò prepotente nelle profondità convesse della sua anima, risvegliandola dal sopore dell’oblio con il suo forte odore amaro. Quella notte, nel letto disfatto e umido di sudore, la sofferenza, tanto intesa da stordire, aveva trafitto il suo corpo come uno spillone rovente, ma ora che il calore si stava nuovamente dispiegando in ogni punto delle sue membra svestite, paradossalmente, la lucidità gelida dell’intelletto tornava a congelare in imponenti stalattiti le emozioni che la disperazione aveva liberato dal ghiaccio. Il flusso liquido della coscienza riportava velocemente l’ordine. Le parole dell’uomo non erano state leziose, anzi: come una carta da parati color corda avevano rivelato un singolare senso pratico e un elementare bisogno di rassicurazioni, eppure, proprio nel momento più accorato, quando il discorso si era fatto più incisivo, Reeve era ricorso ad una particolare espressione, unica nota stonata in quell’accordo privo di virtuosismi: tirare le cuoia. Una siepe rinsecchita dall’arsura, tira le cuoia. Un gatto investito da un’auto, tira le cuoia. Anche un criminale, nel momento in cui, prono, cade a terra folgorato dalla sedia elettrica, tira le cuoia. Mai una giovane donna che muore d’infarto, mai lei. Emma, come un cigno che aveva intonato il suo canto pur sapendo che nulla avrebbe mutato la sua condizione, aveva alzato gli occhi al cielo con forza, mentre la vita le sfuggiva dalle candide piume e, fragile, volava via per sempre. Chiunque fosse insensibile alla sfumatura dispregiativa di un tale fraseggio non doveva provare né stima, né affetto, né nostalgia nei suoi confronti. E lei aveva il dono straordinario di saper vedere dentro le persone; qualsiasi cosa condividesse con Reeve – se non ne aveva la certezza in quel momento se ne convinse – non poteva avere niente a che fare con loro due. Midnight adorava osservare il contrasto tra l’intenzione e la parola, e soprattutto si compiaceva di come quest’ultima quasi sempre non rispecchiasse l’altra, falsandola e deformandone i contorni netti, sbavandone grossolanamente le linee come polpastrelli con l’inchiostro. Da molto tempo ormai aveva smesso di irritarsi ogni qualvolta qualcuno si esprimesse in modo inadeguato, eppure non aveva perso la sua sensibilità, che fino ad allora gli era valsa solo inutili nervosismi. Non avere controllo su ciò che si diceva, aveva imparato a sue spese, serviva solo a svelare le intenzioni. E, come conseguenza logica, a correre il rischio di esporre il fianco. Senza lasciarsi sopraffare da vacue emozioni, si accigliò. «La sua morte è stata una tragedia. A quanto dicono, però, non si poteva fare nulla.» Il concetto era semplice. Controlla ciò che dici e controllerai ciò che sei. Ogni locuzione a cui ricorreva o pennellata sentimentale generava la pittura perfetta dell’immagine che voleva dare di sé; perfezionando questa tecnica ad arte aveva confezionato un ritratto senza macchie. E il vizio si era trasformato in un’ars così precisa che in certi momenti la sottile linea tra l’essere e l’apparire sfumava anche nella sua testa. «Non posso asserire con certezza di averla conosciuta del tutto, come non posso dirlo di alcuna persona, peccherei di superbia; di certo l’ho amata incondizionatamente.» Due terzi di verità… «Ammesso che ne sia mai stato capace.» … uno di menzogna. In quel momento Emma divenne questo: dettaglio e niente più. Lungo la discesa rapida di quella conversazione non c’era motivo di ammettere qualcosa di scomodo, sarebbe stato inutile e deleterio; nulla era peggiore che porgere la mano a chi in un secondo momento avrebbe potuto spingerti giù dalla scarpata. Vide Emma davanti a sé, con la pelle nuda e candida, le punte dei capelli, fili di rame, le solleticavano le spalle sottili. "Non ti darò in pasto a quest’uomo” – pensò. «Ho imparato con l’esperienza che per quanto un castello di sabbia possa essere bello, prima o poi arriva sempre l’onda a distruggerlo, trascinando via le macerie e le sue molli fondamenta.» Come un burattino di ceramica riprese a parlare.
Due terzi di verità, uno di menzogna.
«E ciò che ognuno di noi costruisce con un’altra persona è necessariamente fatto di sabbia – sorrise con amarezza – l’unica forma stabile di controllo che possiamo esercitare è quella che esercitiamo su noi stessi.» Piegò le labbra in una curva laconica. «Ritengo che non ci sia bisogno di rivolgersi ad alcuna autorità… Emma non ha nulla a che fare con questo.»
Due terzi di verità, uno di menzogna.
«Che vi creda o no, professore, mi sono sempre sentito una creatura vulnerabile; come marmo grezzo ho provato a modellarmi e plasmarmi nelle mani dei grandi – maghi, scienziati, scrittori, poco importa. Attraverso le loro parole mi hanno levigato rendendomi nitido, lucido, perfetto. Come un’opera d’arte. Ma non sono riuscito mai ad apprezzarmi per davvero. Nemmeno risvegliare un piacere quasi erotico negli altri, in quelli che mi guardano, mi contemplano e mi ascoltano, mi fa sentire più di un mero materiale di partenza, grezzo ed incolore.» Era sorprendente quanto in quel momento le luci acide della menzogna non nascondessero la verità profonda, definitiva delle sue parole. Eppure vi erano molti piani nel discorso, c'era qualcosa di dinamico in quella confessione fatta con voce imperturbabile. «Il marmo anche quando dà vita ad un’opera d’arte mediocre non sente dolore cedendo allo scalpello. La carne sì.» Tenne gli occhi fissi sul legno che si consumava nel fuoco. «Vuole la verità? Una spiegazione che eviti quel risvolto? – sorrise – Eccogliela. Ho fatto ciò che ho fatto perché cercavo l’anestesia dei sensi, un cloroformio per l’anima. Sono stufo di vivere sentendomi poco più che una macchia sulla parete dell’esistenza.»
Dorian si concentrò sulle sue stesse nocche, sulle rughe d’ombra che formava la pelle, provando anche a contarle partendo dalla sommità della falange, per non cedere al fastidio delle parole che uscivano – striscianti – dalla bocca di quell’uomo: uno, due, tre, quattro. Riusciva a vedere la maschera che gli copriva il volto, sembrava che si divertisse quasi a trattenere un sorriso beffardo che, tuttavia, non si manifestava mai, costringendolo a confinare le sue stesse percezioni nel cono d’ombra della mente in cui riposano i timori, le paranoie e la follia. Quella stanza, informe e senza colori, con il suo mobilio essenziale, aveva un che di inquietante e, pur essendo lontana dall’idea che egli si era fatto dei gironi infernali, ritenne che vi si dovesse avvicinare molto. La verità è che era ancora troppo giovane e debole per riuscire a non barcollare immancabilmente sul terreno instabile delle sue blande certezze; lasciava che l’odio e la disperazione stillassero lungo i suoi zigomi definiti, eppure, per quanto non lo ammettesse, era come un assetato giunto all’oasi tra le dune del deserto: avido di redenzione, di tregua, di possibilità. Taceva, senza muovere un muscolo, e il suo sguardo deciso non tentennava, ma internamente – oltre all’astio che cresceva in lui come un cancro dell’anima – sentiva un pruriginoso e irrazionale bisogno di credere alle parole di Reeve, un desiderio di abbandono che mai avrebbe ammesso di provare. Perché in fondo, nella picea oscurità della sua mente, oltre quel suo mostrarsi gelido e distante, desiderava ancora essere amato, avere una speranza. Respirava piano, al ritmo cadenzato della musica diabolica delle promesse; gli faceva vibrare la pelle, i nervi, le pareti delle vene. Pensandoci bene, l’Inferno era proprio quello. Il luogo in cui qualcuno ti fa sentire importante. Il luogo in cui il suo affetto bagnato è in realtà acido bollente sulla carne viva. E lo sai, ma ti affidi ugualmente, perché non ne hai la certezza e il desiderio si traduce in un atto di puro masochismo.
Midnight era esausto e nonostante avesse imparato a dissimulare la stanchezza, esercitandosi negli incantesimi fino allo sfinimento, prodigandosi mente e corpo nello studio, quella conversazione lo logorava sin dentro le viscere. Ormai il suo viso fiero, imperscrutabile – vitreo scudo – si stava trasformando in uno specchio delle brame relegate nei precordi della sua anima, inaccessibili, impenetrabili, ove dimoravano i desideri più profondi. «Come un padre» ripeté in un soffio, senza guardare il professore; la menzogna gli stuzzicò la gola riarsa, accentuando il bruciore. I fiumi narcotici della necessità inebriavano pian piano il suo cuore dilaniato e le sue pupille, colore del caramello sciolto, erano così irretite dallo spettacolo della possibilità che non si domandò nemmeno quali fossero le reali intenzioni di Reeve. Cosa volesse veramente. Si piegò soltanto. Ormai le sue conoscenze avevano raggiunto livelli inauditi di perfezione, sapeva di essere il non plus ultra. Così come era ben consapevole di valere meno di una macchia sulla tavolozza dell’universo, e di non aver potuto fare assolutamente nulla per Emma. Qualsiasi cosa volesse quell’uomo, lui gliela avrebbe data. Aveva bisogno di imparare di più, aveva bisogno che gli venisse concesso più tempo, ne era certo. Se glielo avesse chiesto, avrebbe schiuso il panneggio morbido della vestaglia che gli cingeva il corpo, gettandoselo alle spalle come un velo, e si sarebbe inginocchiato, offrendosi – gracile odalisca al suo sultano, puttana al suo re.
La rivoglio Voglio più tempo Voglio più potere Ti affido me stesso e lo faccio di mia spontanea volontà Affinché tu mi possa insegnare Dammi il potere Di vincere la morte Di distruggere la vita La mia anima, unico sacrificio.
Una supplica al Diavolo.
«Farò qualsiasi cosa». Alla fine, quella voce – la sua stessa voce – come una saetta di luce trafisse il telo sottile dei rimorsi e quello si liquefece a terra, riducendosi a puro silenzio. Dorian si limitò a deglutire e con il fastidioso nodo in gola che minacciava di soffocarlo, ingoiò anche l’ultima briciola della sua umanità.
Dori me, interimo Dori me Ameno Latire, latiremo Dori me
Dorian se ne stava seduto da solo, accomodato sul patio della grande villa che dava sul parco in fiore. Un’espressione tetra gli arricciava appena le sottili labbra pallide, le gambe penzolanti nel vuoto si muovevano lentamente, gli occhi arrossati gli rammentavano il tempo che aveva trascorso a leggere, chiuso nella biblioteca silenziosa di casa. Divorava un libro dopo l’altro, come se conficcandosi nel suo cervello innocente e senza colpa, le parole potessero diluire un po’ di quel rammarico che dentro lo stava logorando, neutralizzandolo. Eppure nei suoi occhi d’oro il solstizio d’estate continuava instancabilmente a specchiarsi, zampillando come una fontana di acquerelli colorati, caldi e vividi, mentre le orchidee e le dalie germogliavano in uno spettacolo infuocato di luci cangianti, una splendida fiamma allestita per appagare la sua curiosità infantile. La natura rigogliosa gli sorrideva, gli insegnava l’eleganza dei profumi della terra e dell’estate: le peonie splendenti e la salvia azzurra, gli agrumi e i glicini ancestrali lo inebriavano in un sogno di fiori; l’odore del tiglio lo accompagnava all’imbrunire, quello di miele puro della camomilla gli inumidiva le narici nelle prime ore della notte. Da qualche giorno non chiudeva più occhio e, dal suo grande letto in camera, si sporgeva di continuo per sincerarsi se il sole avesse finalmente fatto capolino tra le persiane sfregiando d’argento il blu oltremare del cielo; spesso, tuttavia, il buio si dimenticava l’esistenza dell’alba e come un ospite invadente rifiutava di levare le tende. Così, si ritrovava a rigirarsi nel letto senza poter mai prendere sonno, attendendo il giorno seguente: immaginava i doni che avrebbe ricevuto – i regali che sua madre gli avrebbe portato dai viaggi –, si chiedeva cosa avrebbero mangiato per pranzo e cosa papà avrebbe raccontato di New York e di Tokyo, di quelle persone che vivevano talmente lontano da aver assunto i connotati fiabeschi che solo la miccia della fantasia può innescare nella mente di un bambino. Odiava gli ospiti, eppure, anche se probabilmente la sua caparbietà gli avrebbe impedito di darlo a vedere, sarebbe stato lieto se fossero venuti in villa; era convinto che non vi fosse migliore occasione per celebrare il ritorno a casa dei suoi genitori. La fine della sua veglia solitaria.
Quella mattina venne assalito di nuovo dal miscuglio di dispiaceri che si erano aggrovigliati dentro di lui, vedendo che il cancello di ferro aggettante non si era dischiuso e che nessuna limousine aveva fatto il suo ingresso nel grande viale. Dorian stava arrivando in ritardo a comprendere che anche gli altri avevano delle vite. A livello intellettuale lo sapeva, chiaro – era un bambino straordinariamente sveglio – ma la cosa non lo aveva mai influenzato più di tanto. Le persone, nessuno escluso, erano sempre state interpreti secondarie di una rappresentazione di cui lui era protagonista, le loro vite soltanto lacerti di trame in calce alla sua. Sperimentare una consapevolezza tanto diversa – come se il copione fosse stato sconvolto e gli fosse finita in mano la parte sbagliata – lo stava distruggendo. Adesso era lui il tritagonista, l’attore che prende pochi applausi, mentre i suoi genitori, belli e acclamati dalle folle, giravano il mondo con i loro miliardi. Si rese conto che persino i membri della servitù – imbalsamati feticci de La Belle et la Bête in vendita ad un mercatino delle pulci – lo consideravano alla stregua di un complemento d’arredo: gli preparavano i vestiti e gli spolveravano il capo come ad una graziosa bambolina di ceramica.
Fu proprio quel giorno, a sei anni, che la magia si manifestò per la prima volta in lui. Precoce e con un aspetto davvero insolito. Non aveva il dono appariscente di saper generare le fiamme dal nulla, o la capacità di far piangere al cielo le sue lacrime. Non sapeva comunicare con gli animali, né trasmetteva alle cose la sua rabbia, mandandole in frantumi. Il suo talento era come una brezza che scorreva sul prato, ma più sottile e molto più sinistro.
Gli uccellini avevano cominciato ad inaugurare quella giornata di Luglio con i loro cinguettii monotoni mentre lui scivolava tra la coscienza e l’incoscienza, tra un sonno leggerissimo e una veglia dolorosamente all’erta, sull’orlo di essere turbata anche dal minimo scalpiccio sul pavimento fuori dalla sua stanza. Alla fine, avvertendo il rumore di molte voci – alcune profonde e baritonali, altre accompagnate da urletti di giubilo – decise di alzarsi, col cuore umido di speranza. Schiuse la porta della stanza, facendo scattare adagio la chiave, scese le scale silenziosamente, col sorriso stampato in fronte, vagò a lungo per la casa... e solo allora si rese conto che nessuno stava parlando. Sicché si era ritrovato a fare colazione senza essere degnato neanche di uno sguardo dai domestici, neppure di traverso, e a scoprire che avevano paura di lui. Adesso gli bastava un’occhiata per capire cosa pensassero le frivole cameriere in gonnella, per sapere che il giardiniere aveva appena fornicato con la lavandaia, che il maggiordomo aveva sottratto uno dei preziosi sigari alla collezione di suo padre. Era come sentirli parlare ad alta voce. Era come sentirli urlare, piccoli sotto i suoi occhi.
Sollevò le gambe sul gradino davanti casa, circondandole con le braccia e stringendosele al petto con fare pensoso. Avrebbe tanto voluto che sua madre lo avesse svegliato con un bacio sulla fronte, sussurrandogli che un nuovo cavallino, bianco come l’aurora, lo aspettava nelle stalle. Avrebbe tanto voluto che suo padre per un istante, un solo unico istante, si fosse sciolto in quell’abbraccio di tenerezza che, fin da quando aveva memoria, non gli aveva mai concesso. Ancora una volta, invece, qualcun altro gli aveva rubato l’affetto e la vicinanza dei suoi genitori, qualcosa più importante di lui. Ma soprattutto, Dorian avrebbe voluto che almeno qualcuno in quella casa fosse contento della sua presenza: qualcuno che fosse degno di accettare l’amore che il suo piccolo cuore scalpitante nella gabbia toracica era in grado di contenere, qualcuno che fosse in grado di ricambiarlo. Invece, un dio crudele lo aveva punito con quel dono, regalandogli la certezza assoluta, definitiva – dolorosa – che a nessuno importava di lui.
Allora avrebbero pagato. Tutti avrebbero sofferto.
***
«Ho sentito parlare di quest’arte» rispose, perdendosi nell’oceano profondo dei ricordi. «Ad Hogwarts non ci è permesso studiarla, sfortunatamente». Aveva distolto lo sguardo dal vuoto, volgendolo nella stessa direzione del professore. «Gli occhi che si trasformano in una lingua umida e carezzevole pronta ad esplorare con tenerezza la mente di un altro… il ritmo del suo cuore che accelera mentre rivive il passato…» sulla sua bocca pulsò un sorriso; alla fine aveva compreso in che direzione andasse il discorso di Reeve. L’ idea aveva attraversato le sue labbra gonfie e dischiuse, fino a tradursi in un impulso quasi erotico di gioia elettrica per il cervello. «E’ considerato sbagliato». Soppesò il pensiero, incantato. Era davvero una proposta allettante. «La mente deve essere rispettata…» E quell’uomo conosceva il modo per permettere a Dorian di prendersi dagli altri ciò che gli spettava. Rise e lo guardò negli occhi. «Se qualcuno ha il potere per profanarla, non vedo perché non debba sentirsi legittimato a farlo». La sua coscienza si era dileguata nell’oscurità, solo un ghigno gli risuonava nella testa. Non si autocensurava nemmeno più. Non aveva di che temere. Il rosso della gioia davanti agli occhi. Avrebbe estratto il ricordo di Emma dalla mente degli altri, salvandola dalle erbacce.
Poco tempo lo separava dal momento. Il momento in cui sarebbe divenuto davvero spietato.
Il fiore era sbocciato. Ora sarebbe divenuto velenoso.
Puoi descrivere col prossimo post sia l’abbandono dello studio sia il giorno in cui — se così dovessi decidere — Dorian si reca all’appuntamento con Reeve.
«Lo so»sussurrò Dorian e infilò le braccia nelle maniche morbide della vestaglia, argentea nei soffusi bagliori della luna. Le ciglia gli disegnarono una delicata ombreggiatura sul viso pallido, un sorriso vuoto gli riempì la bocca e lo yukata tornò a coprire le sue membra stanche. A sentir menzionare Emma, serrò le labbra impassibili, sopprimendo con forza il nodo in gola che minacciava di sciogliersi in pianto da un momento all’altro; i suoi occhi – neri come ossidiana alla luce del fuoco – brillavano nella penombra. L’amore era diventato egoismo e il bisogno di impellente di rivederla, godere del calore della sua pelle e della sua voce, della sua risata imbarazzata e appagata, fu sufficiente a convincerlo che non esistessero menti troppo fragili da meritare pietà o rispetto. «Nam cetera cernet omnia; de me uno sentiet ipse nihil». Replicò, parlando più a se stesso – le gambe snelle e pallide, incrociate, si intravedevano oltre la stoffa; i palmi delle mani giunti in una profonda meditazione. «Infatti vedrà ogni cosa, di me non potrà sapere nulla». Una folata d’aria, carica del profumo dolce di lei, giunse d’improvviso alle narici della sua memoria, portandosi via un sospiro affranto. La ricordava come se non fosse passato un giorno, fin troppo vividamente. Ogni attimo in cui la pensava lo pervadeva un dolore struggente: la vecchia ferita dell’anima continuava ad intossicarlo, ad annichilirlo completamente. Ma quella sarebbe stata l’ultima volta. Con un cipiglio neutro, strinse le dita intorno al volume che l’uomo gli porgeva e lo dischiuse – la vista in quegli anni iniziava a fargli difetto, ma riuscì comunque a distinguere le parole sulla pagina preziosa –; scoccò un’occhiata interessata ai paragrafi. «Conosco l’autore. Il tempo che ci separa dal prossimo lunedì è fin troppo», soggiunse come se fosse scontato. Quando Reeve gliela porse, istintivamente si portò la bacchetta al petto e la ripose nella tasca interna a sinistra, dove era abituato a conservarla scrupolosamente. Una coltre impalpabile di silenzio colmò l’atmosfera dello studio; Dorian si alzò e si ricompose lentamente, allacciandosi la vestaglia intorno alla vita. «A lunedì, allora» sussurrò alla fine, con fredda gratitudine. E andò via, senza dire altro.
Attraverso le vetrate antiche e le arcate a volta larga, la luna giungeva rifratta in una miriade di raggi bianchi che andavano a illuminare le armature, gli scaffali e i vetusti androni del castello. Alla fine si posò anche su di lui, vestendolo di bianco. Una cerva su di un altare.
Quando rientrò in sala comune il pendolo dell’orologio sembrava immobile oltre il vetro della cassa, come immortalato in una fotografia d’altri tempi nella notte profonda e silente. Segnava le tre.
Dorian riposava a torso nudo, le braccia allacciate ai cuscini di seta nera dietro la testa. Respirava piano, rimirando quieto i meravigliosi affreschi sul soffitto. Si voltò un po’ di lato, solo per indugiare con lo sguardo sulla figura addormentata, distesa al suo fianco. Nella calma accogliente di quel lunedì mattina, le forme compatte del corpo di Caleb si intravedevano appena, come abbozzate da un acquerello. I suoi capelli erano fiamme ramate nella notte delle federe; un piacevole effluvio di muschio e di cedro effondeva dal suo torace svestito, dalla pelle abbronzata come quella di un mandriano, simile al miele bruno, denso e dolce del castagno. Mentre lo guardava riusciva quasi a sentirlo sulla lingua, quel sapore. La prima volta che l’aveva assaggiato, qualche giorno prima, era stata la prima volta dopo la morte di Emma che si era lasciato andare, godendosi la ritrovata perfezione di due corpi nudi e uniti. Il fuoco aveva incontrato la neve, e le piante delle serre erano state bruciate dalla salsedine della lussuria. Era bello Caleb Evans. Aveva un paio di occhi verdi profondi come valli, i capelli scarmigliati sulla nuca che il vento, mentre volava sulla scopa, continuava a scompigliare; labbra carnose e scure, su cui il piacere scottava come il sole di agosto. Il suo corpo era tonico, agile, forte. Un ragazzo diventato improvvisamente uomo senza avere il tempo di rendersene conto. Lo comprendeva, Dorian, ammirando la compattezza delle sue braccia rilassate, nascoste appena dalle lenzuola. Coglieva alla perfezione ogni segnale di quella giovane virilità sbocciata all’improvviso nel suo torace ampio, nel suo ventre asciutto e definito, nelle cosce muscolose leggermente schiuse e avviluppate alle sue.
Il primo a cui far esperire il dolore.
Si sarebbe spinto dentro la sua mente. L’avrebbe fatto urlare, fischiettando un motivetto allegro. Così come aveva accarezzato la sua pelle vellutata e abbronzata, avrebbe violato il lindore della sua testa. Sarebbe stato facile come sfogliare una margherita, davvero una gran sciocchezza. Era quello il valore della vita altrui. Dopotutto, c’è gente capricciosa in giro. Soffocò una cupa risata.
Non lo udì l’agnus Dei, che sognava l’amore.
Alle nove in punto, Dorian era davanti allo studio di Reeve. Il libro, ormai stampato a fuoco nella memoria, stretto nella destra. Si alzò il sipario, fremettero gli Inferi, rullarono i tamburi.
Rieccoci, dopo una lunga pausa! È mia premura chiederti di mantenere lo stesso ritmo che abbiamo tenuto prima che si aprisse questa parentesi: trovo sia importante per entrambi, ai fini della buona riuscita del percorso che stiamo intraprendendo, evitare di spezzare troppo il ritmo. Ti invito, quindi, a considerare questo aspetto adesso che ci stiamo approcciando alla fase di vero e proprio apprendimento della Vocazione.
Come sempre, se dovessi avere perplessità di sorta, non esitare a scrivermi. Per il resto, ti auguro ancora una volta buon gioco!
Ascolta. Ascolta, Dorian. Senti anche tu il gong sepolcrale dei tamburi rullanti? Lo senti? E allora lascia che a cullarti sia il suono ipnotico di questo fragile incanto. E’ il crudele vagito della tua rinascita nel sangue. Che si alzi pure, adesso, il sipario delle tenebre: che il cielo arda del fuoco divino; e le stelle, cadendo, macchino di sangue il nero di questa mezzanotte. Sul palcoscenico del peccato va in scena l’epilogo; ed è squisita goduria assistere a questa tragedia.
Corre lenta la scia della musica; si solleva sinuosa, disegnando ipnotiche iperboli nell’aria, ancora satura della stucchevole fragranza del sangue rappreso. Traccia improbabili geometrie, impalpabili linee che si spezzano, solo per ricomporsi, costruendo astratti gradini verso le stelle.
Se ti svelo il mio potere riuscirai a scappare, adesso? Conosco infiniti trucchi, ragazzo. Migliori dei tuoi, senz’altro. Pericolosi, letali. Chiedi e ti sarà dato. Uccidi la coscienza, lascia che risorga e uccidila ancora. Lasciamo stare le carte, stavolta; giochiamo coi dadi. In palio c’è la tua anima.
Nel momento in cui si accorse dell'altro studente, un sorriso mellifluo si dipinse sulle labbra piene di Dorian stirandone gli angoli; era un tocco di classe a macchiare di tenebra il volto elegante, un acquerello nero a tingere d’oscura bramosia i tratti aristocratici. Le sue dita affusolate oscillavano con singolare maestria, come a scandire una musica segreta; dondolava l’argento del crocifisso nel vuoto, sospeso alla catena che si muoveva incessante al suo collo, pendolo di un orologio guasto che rintoccava una mezzanotte eterna. All’estremità, sospesa nel vuoto, ardeva l’effigie. Era nello sguardo affilato che divampa l’ardente tenacia di non soccombere a vaghe, ingannevoli lusinghe e nel cuore che, intrepido, continuava a scalpitare nel petto.
Urla di nuovo. Mi piace la tua voce, bambino. Mi piacciono le tue preghiere. Se ti strappo il cuore, me lo regali? Se provo a baciarti, piangi di nuovo?
Erano più buone di tutte le labbra di Dorian, tremavano sotto l’assalto improvviso dell’estasi che continuava imperterrita a divorarle, corrompendone ogni reticente purezza. La lingua le percorse avida, assaporandone i tagli e i graffi, insinuandosi tra esse per emergere trasformandosi in voce, spezzata dal desiderio. «Ovunque ci troviamo è un luogo gradevole.»
Le dita s’intricavano alle lunghe ciocche dei capelli; sembravano fatti di oro rosso. Con una morsa impietosa li costrinse alla resa, raccogliendoli in una spira fragile come il gambo di una calendula. Aveva da fare.
Ragazze, uomini, fanciulli. Mai ho assaggiato labbra più dolci delle tue. Ti piace, piccolo? Mi piace… Mi piaci. Non respiri? Vuoi aria? Vuoi conoscere il Piacere che si prova, soffocando tra le mie braccia? Potrei ucciderti adesso, rubarti il cuore. Semplicemente senza smettere di baciarti. Se allargo le mani, smettendo di toccarti, potrei consumare la tua vita in un fragile battito d’ali nere di farfalle rapaci. Se mi fermo, me lo chiederai? O preferisci perderti ancora in questo gioco fatale? Se ti prendo, mi guarderai ancora negli occhi senza temermi? E allora gioca, piccolo.
Le mani, sapienti ed esperte, scivolarono lungo i fianchi compatti, sfiorando le linee morbide dell'abito da sera. Dorian respirò piano. «Allora mi insegni, professore.» La sua voce era caramelle e aghi danzanti nel buio, venata da una sfumatura d’ineffabile malizia. Il suo respiro ormai non era che un filo d’aria trasparente e velenosa.
Peccato che è il tuo cuore, cui manca un pezzo. E sanguina, sanguina fino a che il sipario non toccherà terra. Solo allora partiranno gli applausi. E quando verrà l’alba di te non resterà che il ricordo. Fino ad allora, fa’ un buon sogno… Piccolo.
Questo è un racconto di Morte e Passione. E’ la storia di come il diavolo, senza saperlo, s’innamorò del suo Signore.
Quell’anno, nella grande cattedrale, c’era un nuovo prete: i suoi capelli erano sottili anelli di oro preziosissimo, i suoi occhi zaffiri lucenti. Padre Adam era molto amato. “Anche se è così giovane la sua devozione non conosce cedimenti – notavano i parrocchiani, tutti insolitamente abnegati – per quanto sia sconvenientemente bello” aggiungevano prontamente, perché non stava bene complimentarsi neppure con i paladini della chiesa. “Perché non assomigli a fratello Adam?” domandavano le madri ai loro figli, che erano soliti pregare poco. “Alla tua età non si sognava neppure di andare a letto senza aver ringraziato il buon Dio.” A dire il vero, padre Adam non si alzava dal letto, né si vestiva, né desinava senza aver reso grazie al Signore. Da quell'onest'uomo che era, si opponeva costantemente ad ogni tipo di sopruso e rifuggiva ogni tentativo di corruzione, preferendo al denaro la miseria e la preghiera, e continuava a dire predica esortando i parrocchiani a compiere coraggiosamente il loro dovere, invitandoli a non ricorrere mai alla violenza né a cedere alla tentazione. Un giorno, il diavolo, infastidito da cotanta santità, decise di fargli visita e metterlo alla prova. Così, sotto mentite spoglie, si recò alla funzione del mezzogiorno e appuntò i suoi occhi pungenti, verdi e belli come quelli di un gatto, sul suo viso efebico.
«Mhm…» Quando il bimbo si ridestò, le labbra di Dorian s’incurvarono e gli angoli della bocca si incresparono in un sorriso inappagato. Era una bocca che ammaliava, oscillava e sussurrava mordace: sorrideva beffarda, livida si dischiudeva e soffiava narcotica polvere di desideri proibiti. Lo scrutò avido, affilando lo sguardo sui tratti armoniosi del suo corpo esile, infinitamente allettante, squisito. La lingua lambì lentamente il labbro inferiore e, voluttuosa, una scia brillante di saliva lo umettò, esacerbandone il pallore, coprendolo con il suo velo viscoso. Il fruscio appena percettibile del leggero yukata color avorio accompagnò il gesto della mano mentre si appropinquava verso di lui. «Molto lieto» aggiunse infine con dolcezza, reclinando il capo in segno di profonda deferenza. I lunghi capelli gli ricaddero sul volto, adombrandone l’espressione d’insolita e vorace cupidigia. «E’ mio desiderio esserti amico. Il tuo aiuto è quanto di più mi stia a cuore…» sibilò. Le dita adunche e affusolate si strinsero attorno alla mano del piccolo* e i suoi occhi, come due opali superbi, brillarono di luce rossa, sferzando la penombra. Così, l’Incantatore di Serpenti sorrise e la sua bocca perversa, esangue e diafana riprese la danza. Lesinava ipnosi e gioie artificiali; lesinava veleno.
Solo lo scroscio lento dell’acqua infrangeva il silenzio… durava pochi attimi, poi tutto taceva di nuovo; Oceano ritirava le sue onde, azzurri bisbigli brillanti come gioielli, e su ogni cosa calava un silenzio di fiaba. La luna, stanca, tingeva con l’argento i seni profumati d’arancia delle colline e la brezza si trascinava dietro nuvole di sabbia e residui di salsedine, code di stelle cadenti simili a lunghi orecchini. La pelle del prete era calda, umida per il vapore dell’acqua e intrisa del profumo degli oli essenziali che si era spalmato – vanità esiziale – sulle cosce magre, sul ventre compatto e sui capelli biondi. La lunga tonaca, riversa sul bagnasciuga, oscillava come un cadavere ai piedi del patibolo e il colletto bianco, candido osso, sprofondava pian piano negli abissi della polvere. “Adam” Una voce maschile, grave e vellutata, arrocchita in modo sensuale dal fumo di chissà quale sostanza turbò la quiete notturna; sui lunghi steli degli asfodeli si zittirono le cicale insonni. Era quasi nostalgico il tono, eppure bastava quel semplice richiamo, mentre la superficie dell’acqua si increspava al ritmo languido di una coscia, ad alimentare nel sacerdote il fuoco della lussuria. Le fiamme tremule delle candele continuavano ad ardere silenziose sulla sabbia e le gocce di cera, come lacrime di bambole, colavano e si solidificavano in strie lattiginose. “Vieni, Adam” Gli occhi color del lapislazzuli del novizio fremettero di godimento e il pensiero, inadatto come la neve all’inferno, si fece strada nei vortici della sua mente: il diavolo stringeva il suo cuore giovane e pulsante tra le dita. Lui, il Piacere, sapeva come manipolare qualsiasi cosa, acqua, rocce, aria e anche uomini, donne, fanciulle e fanciulli: ogni elemento del Creato gli obbediva. E il Piacere amava avvicinare ciò che era pio, abnegato, incontaminato. Gli aveva strappato ogni residuo di innocenza ignorando le sue salmodie singhiozzanti, e una notte, mentre le lacrime si seccavano sulle gote e il sangue sulle labbra morse, gli aveva estratto quasi per sbaglio dalla mente l’immagine di quel Dio tanto indifferente alle sorti degli esseri umani, vivida come un l’istantanea di una polaroid. Il diavolo, d’improvviso, non aveva più badato ai gemiti gutturali e sazi del giovane. Era un ragazzino senza importanza e la sua purezza scialacquata gli offriva ben misero banchetto se confrontata con le gioie del Paradiso; era insapore come secchi aghi di pino. Così, anche quella sera, mentre il novizio smanioso si chinava e i capelli biondi gli ricadevano morbidi sul viso, egli sbadigliava sonnolento, col suo fiato regolare, cadenzato, flemmatico. Soltanto quando l’altro fosse ricaduto esausto e spossato sulla sabbia umida, avrebbe potuto prendersi il suo godimento, tempesta di cenere e lapilli infuocati, guardando il volto del Signore attraverso gli occhi di un altro.
Secondo la leggenda il primo legilimens fu proprio Lucifero. Per questo, ancora oggi, essa è ritenuta da taluni una pratica abietta.
Appena Reeve portò a termine il suo incantesimo, Dorian si lasciò sfuggire un flebile sospiro: l’eccitazione vorticò colorando di porpora e amaranto le sue gote. Nell’ombra, lo spettatore fremeva, batteva i tacchi, tremava di desiderio e meraviglia come un bambino davanti alla fanfara di un’orchestra; eppure la sua soddisfazione non aveva volto, si celava dietro una macabra maschera di velluto. Infine, dopo aver atteso quell’agognato invito, si fece avanti. I morsi della fame erano ormai insopportabili. Si sentiva il più bello e incantevole degli uomini: la stella più luminosa. Le sue movenze, come quelle di un ballerino, erano perfette, eteree. Sfilò la bacchetta dalla manica ed essa proiettò sul pavimento un’ombra allungata all’infinito. Era pronto a replicare le movenze del Maestro. La indirizzò alla tempia sinistra del piccolo e le sue iridi sulfuree baluginarono commosse nelle tenebre. Era orgoglioso di essere stato iniziato a quei misteri, per nulla al mondo avrebbe voluto deludere il suo pubblico. Il suo corpo divenne semplice involucro, la volontà ardeva più fervida del sangue che gli scorreva nelle vene. Come per incanto, d’improvviso, gli occhi di Dorian si trasformarono in un’enorme, profonda bocca; le ciglia, lunghe ali di una libellula, vibrarono come labbra che succhiano la pelle. Le sue pupille incontrarono quelle di Philip e in esse, infine, affondarono come denti spietati.
L’appetito raggiunse la sua acme. Gli parve quasi di sentire il sapore dell’altro sulla lingua: mandorle caramellate e zucchero filato.
«Legilimens.» La musica della formula sancì l’estremo peccato di gola. Finalmente si preparò a divorarlo, con struggente passione.
Il raggio di luce bluastra della candela esaltava le forme armoniose del suo corpo: i suoi occhi compivano acrobazie impazzite sulle pagine scritte fittamente. Danzava sulle righe d’inchiostro. Danzava… e d’un tratto si fermava. Gli occhi arrossati trafiggevano il vuoto, cercavano di cavare luce dall’ombra, ma ormai era tardi. Dorian non chiuse mai per davvero il libro di Vorobyov, né mai dimenticò il suo infernale racconto.
Il diavolo si leccò le labbra: ed infine lo baciò. Un bacio umido, vorace. Con la sua lingua acida gli sottrasse per sempre il sapore di Emma.
De radice enim colubri egredietur regulus, et semen eius draco volans.
Ti chiedo nuovamente scusa per il ritardo, ma in questi mesi ho avuto davvero poco tempo a disposizione per scrivere e non mi andava di abbozzare una risposta insignificante o scialba stilisticamente. Perdonami! L'asterisco sottende, ovviamente, un'azione potenziale. (Il condizionale, che è pure tanto bello come modo del pensiero, rovina ogni poesia ).
Una frizzante folata del vento di marzo scosse lievemente il fogliame degli abeti ai margini del lago, catturandone l’effluvio silvestre ed effondendolo nella fresca aria di stagione. Dalle bancarelle di dolci e zucchero filato, allestite giù alla fiera di Hogsmeade, il profumo fragrante del caramello si sollevava in sbuffi di vapore tiepido, mescolandosi all’odore della neve ancora fresca sulle montagne che arrivava a saturare l’atmosfera rarefatta del Ponte Coperto. «Che villaggetto detestabile…» Le labbra corrucciate di Dorian vibrarono appena in un brontolio infastidito, quasi un sibilo tra i denti stretti. I suoi piedi martoriati, ormai vessati da quel misero passeggiare senza meta, mossero ancora pochi passi in avanti, scanditi dal suono a malapena percettibile dei tacchi in vernice sul pavimento di legno, prima di arrestarsi completamente. Nonostante il sole allo zenit inondasse di luce aranciata la volta ombrosa del ponte, in un gioco riposante di chiaroscuri e sprazzi cromatici d'ambra e d’amaranto, il giovane non riuscì a reprimere il lungo tremito che scosse le sue membra infreddolite. Si cinse le spalle con le braccia, constatando seccato quanto la primavera fosse ancora lontana. «Contenta?» domandò, voltandosi verso Emma. Un nontiscordardimé color blu assoluto tra le dita. «Dovevamo restare nel bagno dei prefetti, come ti dicevo!» Il sussurro che sfuggì alle sue labbra acquisì ben presto una tonalità più roca, maliziosa. «Per tua fortuna possiamo rimediare subito…» Con le braccia coperte dal maglioncino grigio la avvolse in un stretta impellente, poi, in una carezza quasi dolce – subito tradita da un guizzo di desiderio nelle iridi – le posò il fiore a cavallo dell’orecchio sinistro. Emma rispose leccandogli piano le labbra, lo baciò a lungo e scoppiò a ridere contro la sua bocca. «Non posso, stupido. Ho un appuntamento.» Non. Posso. Stupido. Ho. Un. Appuntamento. Ogni parola sottratta a quella risposta lo sbalordiva; erano così poderose, nell’insieme, da smorzargli il respiro già corto per l’eccitazione. «Spero non sia di natura galante… – azzardò, con un filo di sottile arroganza, quasi avesse voluto invitarla a riformulare la frase – come potrebbe qualcuno reggere il confronto?» Emma prese il nontiscordardimé e lo cullò tra le dita; sollevandolo, reclinò leggermente il capo, come fa chi vuole osservare il cielo. «Non tutto gira sempre intorno a te, Midnight».
Corre in curiosi arabeschi il flusso opalescente dei ricordi, si avvita e si snoda in piroette impalpabili, inconsistenti, simili ad aloni di pioggia su un vetro, liso come un vestito più volte smesso e ancora indossato; brucia, continua a bruciare e, maledetto, arde, quando, a distanza di tempo, si arricchisce di un nuovo tassello.
Cosa resta nel momento in cui la terra sotto i piedi d’un tratto viene a mancare? Non devi guardarti le scarpe, non fissare in basso il fuoco che ti sputa addosso. Non guardare, anche le stelle non cadono se non le vedi. Alla fine quel che resta, quando la morte ci taglia la gola, è solo il nero.
Dorian chiuse gli occhi. Buio dietro le palpebre, merletti di cupa organza davanti alla luna. Cornici di tenebra immortalarono la risposta ad un eterno dubbio fotografato in seppia. Quel moccioso era l’appuntamento. L’aveva capito dal modo in cui Emma aveva sorriso. Gli era bastato un unico, singolo, istante. Meritava di morire. E invece, la testa di Philip venne scaldata dal tepore di un’eterea guancia, piuma posata tra i suoi riccioli morbidi. Beato lo accarezzò, la pelle di luna baciata dalla gemella di cera. Scese con la mano sulle clavicole sporgenti, risalì sul grazioso bouquet di riccioli. «Era te che incontrava, allora» sospirò sovrappensiero.
L’odio concede salvezza alle anime, ma infila un ago di piombo nelle loro tenebre e ne cuce le ali bianche. Sintesi di farfalle albine, volo spiccato verso la grazia, divengono ragni mostruosi, repleti di veleno. Nel momento in cui Reeve lo chiamò a sé, si chinò un’ultima volta per affondare il viso nei capelli del ragazzino, posandogli un casto bacio sulla pelle morbida del collo – le labbra calde ed umide, impregnate di morte. Non si scompose, ad udire la sua domanda, ma fu come se d’improvviso qualcuno lo avesse afferrato per i capelli e gli avesse sbattuto furiosamente la testa su delle pietre, facendone zampillare fuori la materia celebrale. Soffrì, vedendola, e ricordando perse un altro pezzo del cuore.
Il letto era ampio: sfatto. Le lenzuola bianche sbuffi di nuvole e la luce dell’alba, rosea, le lambiva illuminandone le volute scomposte. Tra di esse, il corpo sinuoso e svestito di Emma si muoveva appena e il materasso cigolava, impercettibile quanto il fremito delle sue ciglia tremule. La cercò, nell’angolo di letto tra sé e il muro bianco. La trovò. Nel languore del primo mattino, dalla penombra che inondava la stanza, Dorian la ammirava con gli occhi ancora velati dal sonno, del tutto perso nella contemplazione: le sopracciglia distese in un’espressione indifesa, la piccola bocca rossa per i baci, le palpebre chiuse come mani giunte in preghiera. Le accarezzò il fianco scoperto: la sua pelle era neve fresca in una mattinata di fine inverno. Affondò il naso nei suoi capelli spettinati, inspirando l’odore dolce del sapone misto a quello più acre del sesso.
«Naturalmente» rispose atono e ascoltò in silenzio. In quel momento Midnight apprese come tra dolore e piacere ben presto si dissolvessero i confini labili della perversione e realizzò quanto il sesso non fosse altro che un gioco sapiente in cui il predatore somministrava alla vittima un godimento controllato, pronto ad inalare l’odore muschiato del coito e il profumo – ancor più eccitante – della sottomissione dell'amante che si consegnava al controllo dell’altro. Non esisteva reciprocità, non esisteva passione, non esisteva sentimento. C’era spazio solo per il potere: il potere sul prossimo, il potere sul mondo. Smise di fare l’amore e imparò ad essere spietato. Un monarca con le sue puttane.
«Ne vuoi ancora?» «Sì, ti prego».
Imparò a godere. Godere e fottere chi disprezzava. Pensando a sé. Soltanto a se stesso. Che allievo meraviglioso! Si leccava le labbra e spingeva. Spingeva facendo gemere la sua vittima più forte, oltraggiando il suo corpo, imbrattando la sua anima, virgineo sacrificio al dio dell’Ego.
Di colpo, i suoi occhi si tramutarono in mani, innumerevoli, sporche mani che tenevano fermo il corpo tremante di Philip: salde, viziose, corrotte, leccavano la pelle vellutata e chiara, beandosi della sua morbidezza, violandone il lindore. Si stringevano impietose, arpionandosi alle sue esili braccia, al collo niveo, agli occhi arrossati: lo sfavillio rossastro del fuoco si riflesse fugace nelle orbite di Dorian, vuote e nere come le tenebre.
…Allora raccontami una di quelle fiabe che mi piacciono tanto, raccontami cosa ti confidava!
Non c’era più alcuna passione in lui, nessuna bellezza nelle spire diaboliche dei suoi occhi. La sua anima era dura e fredda come un sepolcro. Su di un altare, l’aveva ormai sacrificata all’Inferno.
Calò la bacchetta che trapassò l’aria diretta alla tempia sinistra della vittima. Un’ombra gli oscurò il viso. «Legilimens!» Un ordine.
E’ il potere ciò che vuoi, non è vero, Dorian? E allora adesso godi. Godi e calpesta il mondo.
Verrà il giorno in cui sfiderai il Maestro e lo sconfiggerai. Fino ad allora continua a spingere. A profanare. A godere.
Immagino ti sia chiaro cosa implichi la richiesta finale di Reeve: se Dorian dovesse sollevare lo sguardo, Edward userebbe la Legilimanzia su di lui. A tal proposito, voglio dirti che sei libero di scegliere come meglio credi. Ti è data la libertà di accondiscendere e ti è data la libertà di rifiutare, a seconda di ciò che trovi sia più coerente per il tuo personaggio e, soprattutto, per il suo background. È mio dovere informarti, però, che la tua decisione avrà delle conseguenze sullo svolgimento della trama. Quindi, quella che ti sto dando non è una possibilità di scelta come un'altra, ininfluente ai fini del prosieguo del percorso. Reeve reagirà diversamente in base a quello che farà Dorian.
Nel caso in cui dovessi optare per alzare lo sguardo e sottoporre Dorian allo scrutinio mentale di Edward, ti dico sin d'ora cos'è che mi aspetto: voglio tre episodi che coinvolgano Emma e Dorian, due dei quali possono anche essere accennati in forma sommaria e riguardare interazioni di poco conto (una battuta tra i corridoi, uno sguardo in Sala Grande o a lezione, uno scambio qualsiasi). Uno, però, voglio che sia nodale nella relazione Emma-Dorian, soprattutto per quanto riguarda l'emotività del tuo PG, e che venga trattato per esteso e con una certa dovizia di particolari. In ossequio all'indole del Maestro che ho tratteggiato finora, capirai anche il perché — Reeve non va mai per il sottile.
Per chiarimento o altro, rimango sempre disponibile via MP.