Sabotage

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~ Nieve Rigos
view post Posted on 5/2/2024, 13:53 by: ~ Nieve Rigos
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entropia.

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Nieve Rigos
18 Anni
Mese di Dicembre, IV anno, bocciata dopo due anni di assenza da Hogwarts
Villa gentilizia in Scozia
Canzone d'ispirazione: Valentine (Aridaje!)
Trigger Warning: contenuti blasfemi



nieve rigos | lost in darkness | outfit

w5Lpd6X
«Cézanne… Cosa sussurrano?»
Ingenua. Sono stata ingenua ad accettare l’invito vergato su pergamena, giunto sulle ali di una civetta dagli occhi caldi come i suoi. Ingenua e incauta. Eppure, sorrido — i denti mandorle candide su un viso trasfigurato dalla perdizione. Ho ceduto: al mistero, al pericolo, alla promessa del più totale annullamento. A Cézanne, invece, non ancora. Le sue lusinghe scivolano con malizia sulla mia pelle. Lasciano tracce al loro passaggio, le carezze di una lingua che non riesco a sentire ma percepisco.
È difficile resistere, ammetto per la prima volta da quando ci siamo rivisti sulle rive del lago, a poca distanza da Villa dei Gigli.
So essere stupida. Lo accetto con rassegnazione, mentre avanzo dietro di lui, gli occhi fissi sulla nuca coperta dai lunghi capelli carbone. Umetto le labbra, sensibile all’idea di farlo mio. Tra le mura e i soffitti di questa villa gentilizia in penombra, le intenzioni che ho declamato allora perdono valore nella molle consistenza dello spazio.
Non sono completamente lucida. Ecco perché le pareti mi appaiono della stessa consistenza dei fantasmi e riesco a percepire il suono di ogni respiro, ogni bisbiglio, ogni risata, ogni gemito. Perfino il tocco leggero dei miei capelli sulle spalle nude strofina di lussuria la mia carne. Qui, tutti vogliono perdersi nell’atto ultimo del piacere, urlarlo senza inibizioni.
Cézanne mi mostra il profilo perfetto, continuando a camminare. La smorfia smaliziata sulle sue labbra rosse mi induce a velocizzare il passo, inconsapevolmente. «Te l’ho detto che sei famosa nei salotti dell’aristocrazia che conta.» Parla con la sicurezza che ha inchiodato la me ragazzina nel salone di Villa dei Gigli, togliendole il fiato. Mi piace la sua voce stasera. Non dovrebbe. «Hai un soprannome.»
“Io?” vorrei domandargli. Io che non sono mai stata niente più che un relitto. Io che esisto solo come corpo, senz’anima. Rido piano, sarcastica. Il timore del mio passato sbuca oltre l’orizzonte della coscienza, ma ne è rimasta così poca che non riesce ad aggrapparvisi. Potrei essere anche qui il mossro sulla bocca di tutti e non mi importerebbe, non stanotte. I salotti di cui parla Cézanne, quelli cui mi ha introdotta negli ultimi sei mesi, non giudicano. Perciò, ho smesso di farlo anch’io. Qui, posso essere chi voglio, smarrirmi nella promessa dell’ottundimento.
«E sarebbe?» chiedo, curiosa.
«La Dama Senz’Occhi» risponde, intanto che attraversiamo l’ampio corridoio nel cui sfarzo una coppia produce i suoi lamenti. Li guardo con curiosità. Scopano bene, penso e mi fermerei a guardare se Cézanne non avesse altri piani in serbo per me. La durezza con cui mi sono posta durante il nostro rincontro è scomparsa. Che sciocca a pensare di poterlo (volerlo) tenere distante. «Hai notato che alcuni distolgono lo sguardo?»
«Sì.»
«Temono che tu possa controllarli. Una volta scelta la preda, la Dama Senz’Occhi non lascia scampo. “Quegli occhi risucchiano” dicono con timorosa deferenza.»
Rido, di nuovo. È buffo come la percezione degli altri differisca da quella che abbiamo di noi. Ho fatto talmente l’abitudine a questi occhi, conoscendo la ragione dietro il loro ghiaccio, che ho smesso di curarmene. Sapere che siano diventati motivo di discussione nell’aristocrazia inglese — quella abietta, disposta a travalicare i limiti della morale — è ridicolo.
«Che stron-»
Cézanne mi interrompe, dandomi di nuovo il profilo senza smettere di procedere. Stiamo percorrendo una stanza immersa nell’oscurità, eccezion fatta per le fiamme argento che lambiscono le pareti di marmo di un camino.
D’improvviso s’arresta. La sua mossa è così inattesa che riesco a stento a non finirgli addosso. Questa nuova vicinanza, però, è pericolosa. Lo percepisco guardando i suoi occhi d’ambra, scendendo sulle sue labbra dipinte, trattenendo a stento il desiderio di toccarlo e di sentirmi toccare. È sbagliato, lo so, ma oggi non importa.
«Lo dicono i tuoi amanti, la scia che ti sei lasciata alle spalle.»
La noto, la durezza nelle sue parole. Sei geloso, Cézanne? L’angolo della mia bocca si arriccia. So bene che il sentimento che gli screzia gli occhi non ha nulla a che vedere con una taciuta forma di tenerezza. È che non sopporta l’idea che stia negando a lui quello che invece concedo ad altri. Mi domando se lo sappia, se lo senta e veda, che stasera non sono più tanto sicura di mantenere i miei propositi.
Schiudo le labbra. «Allora, dovrebbero avere più paura della mia bocca che dei miei occhi» commento, la voce carezzevole, gli occhi dardeggianti.
Cézanne scatta. Si avvicina, stringendo le mie braccia tra le dita gelide. Sobbalzo, un singulto trattenuto a stento in gola. Il suo respiro rarefatto accarezza il mio arco di Cupido. Non tenermi così, non guardarmi così.
«Ti fidi di me?»
La sua domanda mi spiazza. No che non mi fido. Non gli affiderei nulla di me, nulla che mi riguardi. L’inferno brucia nell’ambra dei suoi occhi. Li usa per trafiggermi da parte a parte, per inchiodarmi come ha fatto con la ragazzina spaurita di qualche anno fa. Allora perché annuisco?
Ghigna e io lo imito. Non dovremmo stare insieme, io e te. Eppure, attraversiamo l’arco vuoto di una porta. Rabbrividisco al contatto con il velo di magia che deve nascondere, suppongo, i suoi segreti. Poi, mi blocco: al mio cospetto, un altare simile a quello di una chiesa e una folla di occhi taglienti come i suoi. Dietro l’ara, sulla parete, lo scheletro bruciato di un quadro. C’era Cristo su quel po’ che rimane della tela, non è così? Dovrei andare via.
«Seguimi.»

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Cézanne avanza. Non mi prende per mano, non mi guida con l’attenzione di un padre che non voglia perdere la figlia. Non è questo che vuole essere per me, del resto.
Lo seguo come ho già fatto, ignorando il tremore che scuote i residui del mio spirito di credente. Sto rinnegando me stessa, aggrappandomi a una rinuncia che non ho mai saputo onorare dal giorno in cui ho scoperto che Lei era morta. Patetica.
O Dio, che cosa ho fatto?
Non merito salvezza. Non merito te.
Devo lasciarti andare prima che sia troppo tardi.
È per il tuo bene, lo giuro.
Non tornerò mai più, ma ti ho amato.
Sinceramente, con ogni fibra del mio essere, anche nella confusione, ti ho amato. Ed è proprio per amore che ti libero dalla mia presenza — hai già sofferto abbastanza.
Non vegliarmi più.
Non perdonarmi più.
Non aspettarmi più.
Non tornerò da te.
È troppo tardi per me. Lo è sempre stato.
Qualcun altro mi attende.

[Skyfall]

È per questo che sono qui, lo sai? Per Lei.
Non sono riuscita a scrollarmi di dosso la disperazione della notte nella Foresta Proibita, il giorno del mio compleanno. Il mio equilibrio mentale è così precario, ora che la sola persona capace di divorare me e i miei demoni è lontana. E io sono debole, così debole da vergognarmene. Il freddo della pioggia, l’eco delle mie grida, il rosso del fuoco stanno ancora aggrappati alla mia pelle, al mio cuore.
Ecco perché ti seguo, Cézanne. Tu sei perdizione e io ho bisogno di smarrirmi.
Scosto un lembo di tessuto della coscia per scavalcare il corpo nudo di un amasio corrotto dal godimento. I suoi occhi sono vacui, vittime della disgregazione che segue l’orgasmo — lo invidio. Mi faccio spazio tra le anime sfinite stese sul pavimento, tra gli sguardi penetranti che scorrono sul mio corpo, indugiano sulla scollatura, annusano l’aria al mio passaggio. Mi fermo solo quando raggiungiamo l’altare e Cézanne torna a guardarmi. La malvagità che gli trasfigura il viso mi mette in allerta, ma è troppo tardi. È troppo tardi da un po’.
«Bevi» mi intima, porgendomi una coppa d’oro. Le sue dita di neve spiccano tra i rubini di cui è adorna. «Supera il confine della tua morale.» È pericolosa, la mossa che vuole farmi compiere. Lo è di più il vuoto che sento dentro e che ho bisogno di colmare, fosse solo per il coccio di un secondo. «Bevi, Dama Senz’Occhi» ripete.
Prendo la coppa, lo sguardo testardamente puntato nel suo. Sa perché sono qui, ora lo comprendo. Riesce a fiutare l’angoscia che mi ha condotta da lui. L’ha vista nei miei occhi, nel mio viso smunto, nella brama con la quale ho aspirato la polvere di fata prima e bevuto la fiala di Psilocibina poi. Per questo, non fingo più. Per questo, ignoro i simboli religiosi distrutti, profanati presenti nella stanza.
«Salute» ironizzo, poi porto il calice alle labbra.
La sostanza che valica la barriera dei denti e raggiunge la lingua è viscosa, densa più dell’acqua. Capisco subito cos’è, dunque mi fermo e lo guardo.
Non temi che io possa fermarmi, vero? Sai quanto sia disperata, divorata dai sensi di colpa. Riconosci nel quarzo delle mie iridi l’assenza che mi tormenta. È un gioco per te, me ne rendo conto. Vuoi soggiogarmi e assicurarti che sia io a scegliere di sottomettermi a te.
Bevo, di nuovo. Mando giù un boccone più abbondante del primo, infine deposito la coppa sull’altare — o quello che ne è rimasto. Arriccio le labbra, stavolta per il disgusto, non per il divertimento. I suoi occhi saettano in direzione delle mie labbra e così fa la sua mano. Col pollice, accarezza quello inferiore.
Prima di te, un altro ha compiuto lo stesso gesto, ma lui non ha mai voluto farmi questo.
Al suo tocco, il sangue che bagna la mia bocca si fa strada sulla pelle. La tinge, ne deturpa il candore. È finita anche se è appena iniziata, non è così?

Accolgo il tuo bacio urgente con identico slancio. Ti concedo di stringermi i fianchi, di depositarmi sull’ara. Rabbrividisco ad ogni centimetro conquistato dalle tue mani. Sei freddo più della pietra sotto le mie cosce. Non li accarezzo, i tuoi capelli. Li strattono con una violenza feroce. Voglio farti male… oltre il limite della morale. Il tuo collo assume un arco quasi innaturale ad ogni oncia di forza che uso per tirarteli, ma tu ridi. Ridi così forte da scuotere le pareti della mia coscienza, da abbatterle. Non sei l’unico a ridere. Insieme a te, gli esseri traviati dall’immoralità fanno lo stesso. Io sospiro, assecondo i movimenti bruschi del tuo corpo che si distende insieme al mio — sopra il mio — su ciò che fu dell’altare.
Hai smesso, però, di condurre i giochi, di attaccare la carne delle mie spalle, dei miei seni, del mio collo. Ringhi ogni volta che vi accosti il viso, incapace di trattenere un suono cavernoso che sa di furia e di sofferenza. Non mi importa, come a te non importa di me. Voglio dominarti. Voglio sancire la scelta che ho preso stanotte, sentire il vuoto venire divorato dalle fiamme.
Fottiti, Dio! Io fotterò sul piano dei tuoi sacrifici. Stasera non ti amo. Ti odio perché impazzisco all’idea che Lei sia con te e non con me.
Scosto il tessuto della gonna, sovrastandoti. Lo lascio frusciare contro la tua pelle e la mia. Poi ti prendo, mugugno e getto il capo all’indietro. I capelli ricadono sulla schiena. Un sorriso sale alle mie labbra e rido anch’io — insieme a voi. Tienili, i miei fianchi, e illuditi di potermi imporre il ritmo che desideri. Io, invece, ti punisco ad ogni colpo di reni, ad ogni impatto della mia carne sulla tua, le mani a strattonare la giacca disfatta che cade ai lati del tuo sterno snudato dalla mia frenesia. Non ti bacio più. Nella tua bocca non trovo nulla se non desolazione. Sei una notte che porta gelo e morte con sé.
È tutto giusto. È tutto sbagliato. Sono dove devo stare.

Valentine, my d e c l i n e is so much better with you



Edited by ~ Nieve Rigos - 14/4/2024, 21:07
 
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