Sabotage

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~ Nieve Rigos
view post Posted on 24/3/2024, 22:06 by: ~ Nieve Rigos
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entropia.

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Nieve Rigos
18 anni
Dicembre-Gennaio
Parigi
Ambientazione: dopo Control
Canzone di ispirazione: P l a y


Me voilà même si mise à nue j'ai peur, oui

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«Bienvenue, mademoiselle.»
«Come facevi a sapere che sarei venuta?»
«Non hai nessuno con cui passare le feste.»

Sorrido e il sapore della sua insinuazione, scivolata nella fessura tra le mie labbra schiuse, ha un lascito amaro sul fondo le lingua. Cézanne non va mai per il sottile. Non mi risparmia perché sa che non ne ho bisogno. Riesce a scorgere la mia forza dietro la fragilità che il mio aspetto vuole suggerire. Una volta mi ha detto che posseggo la bellezza delicata di un giglio ma le radici inestirpabili di una quercia che stia sullo stesso terreno da secoli. L’ho preso come un complimento, il primo uscito dalla sua bocca stucchevole, perché ho compreso — solo allora. Non è per le gambe affusolate, per i fianchi curvilinei, per le cosce accoglienti che mi desidera. È per la forza vitale che m’invidia, la stessa cui ha rinunciato.
«Vogliamo andare? Paris est gentil avec le lys.»
Mi porge la mano, il palmo rivolto verso l’alto. Indugio sul ricciolo che adorna la sua bocca inaffidabile. Infine gli concedo la mia.

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La lingua di freddo che penetra attraverso le imposte accostate mi accarezza i polpacci nudi. In lontananza, scorgo la candela di lucine gialle che vigila su Parigi — quell’accozzaglia di ferro per cui i turisti tanto si entusiasmano.
Porto la sigaretta alle labbra. La camera è quieta; odora di sesso. Le mie stesse carni ne portano i segni nei brividi che ancora non riesco a frenare. Non è solo piacere quello che provo con Cézanne. È paura. So cosa potrebbe farmi. Forse, voglio che lo faccia; che si nutra di me e mi lasci andare nel modo più dolce in cui si possa morire. Lo desidero tutte le volte che nomina Roth, torturandomi per accrescere la furia con cui mi abbatto su di lui la notte; lo fa perché ha dimenticato come si faccia a provare emozioni umane, perché riesce ad annusare il dolore che rilascia il mio corpo e lo affascina la sua essenza. Vuole coglierla, ricordarla.
So cos’è. Non me l’ha mai detto né l’ho fatto io. Non ce n’è bisogno. Ha lasciato abbastanza indizi da permettermi di arrivare alla giusta conclusione come si giunge a un banchetto la cui portata principale stia disposta al centro del tavolo su un vassoio d’argento. Certo che ho temuto la scoperta. Certo che mi spaventa ancora adesso stare insieme a lui. Ma Cézanne ha ragione: sono sola come lo è lui.
Thalia ha la sua famiglia, Isabella i suoi cari. Gli stralci smembrati di affetti abbandonati alle mie spalle dopo la morte di Roth potrebbero avermi dimenticata; per non dire che non ho il coraggio di tornare sui miei passi temendone il livore, il rifiuto. Mi affaccio all’alba di un nuovo anno nella città più romantica del mondo alla stessa maniera in cui sono nata: in un fagotto di vagiti inascoltati. Le braccia di Cézanne non sono quelle di Ỳma. Lui non mi ama e, per questo, non può colmare il vuoto scavato dentro dalle unghie affilate del senso di colpa. Ci facciamo compagnia e, insieme a noi, le nostre perversioni.
«Parigi non è una città fatta per pensare.» La sua voce è un tocco leggero sulle palpebre chiuse. Qui, in Francia, il suo accento s’intensifica e i suoi occhi d’ambra brillante quasi emanano calore; solo quasi. «Parigi è fatta per essere vissuta.»
Lo guardo in silenzio, intensamente, a lungo. Non è con te, che di vita non ne sai più nulla, che vorrei godermela, penso. Una voluta sottile di fumo lascia le mie labbra. Porto l’attenzione sul paesaggio oltre il vetro della finestra. Uno strato candido di neve imbianchisce i lati delle strade, i tetti, i piccoli o grandi monumenti lasciati qui e lì negli angoli più sorprendenti. Le palpebre calano piano, raccolgono i ricordi. Li scaccio via con una boccata di belladonna e psilocibina.
«Esci di qui. Devo vestirmi.»
È contraddittorio. È da me.

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«Io l’ho conosciuto: Shakespeare.» Cézanne pronuncia queste parole al piano superiore della Shakespeare and Company, dando un’occhiata in giro con un’espressione sul viso che ricorda alla lontana la nostalgia. «Eppure, ci credi che gli esseri umani sono così sciocchi da mettere in discussione pure l’ovvio? “Forse non è esistito”.»
Ride piano in quel modo che ho imparato a riconoscere come estrinsecazione di alterigia. Adesso che colgo le sfumature dietro l’accurata elaborazione delle sue frasi — “gli esseri umani sono”, non “siamo” —, non mi interrogo più. Lo interrogo, invece, curiosa.
«Com’era?»
«Sognatore, romantico.»
«Uguale a te.»

La mia provocazione lo diverte. Mi scocca un’occhiata ardente. Gli piace che, nonostante abbia capito cosa sia, non lo tema; o, comunque, non abbastanza da non dargli filo da torcere quando le circostanze lo richiedono. Sfilo un libro dalla scaffalatura davanti a me. Poco più in là, c’è un divano (o un letto improvvisato tale) circondato da specchi. Sopra il tessuto che lo ricopre, un gatto a striature grigie guarda Cézanne, torvo. Apro la copertina, sfoglio le pagine. Non conosco il francese. Non potrei mai capire.
Il mio accompagnatore sembra leggermi nel pensiero. «Posso insegnarti» sussurra al mio orecchio. «Sono bravo con le lingue.»
L’insinuazione parla così chiaro che non ha bisogno di essere sottolineata. Io trattengo a stento il sobbalzo cui il mio corpo vorrebbe lasciarsi andare. È così freddo. Riesco a percepire l’inumanità della sua temperatura perfino se non mi tocca. Non gli darò la soddisfazione di sentirmi tremare per lui.
Chiudo il libro di scatto e lo ripongo al suo posto. Mi volto lentamente, consapevole della sua vicinanza. Non dovrei essere qui. Non dovrei essere con lui. Ma con chi altro potrei trovarmi senza sentire il peso della mia ridicolezza? Cézanne ha un grande pregio: non giudica e non compiange. Non prova pietà per me. Voleva che venissi a Parigi, da lui. Qualunque motivo mi ci abbia portato non è di suo interesse.
«Dovrò esercitarmi parecchio.»

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Il sesso con lui non mi soddisfa. O, meglio, soddisfa il mio corpo. Lascia, però, inappagata quella parte di me che ha ripreso a lampeggiare da poco meno di un anno nell’abbraccio delle tenebre. Lei ha bisogno di calore e Cézanne non può dargliene.
«Ordina qualcosa da mangiare o non avrai forze» flauta, tuttavia non è la mia salute che ha a cuore. Sono le mie performance, il gioco che rappresento ai suoi occhi.
«Tu non puoi scegliere il servizio in camera, immagino.»
Sogghigna di nuovo, riallacciando piano i bottoni della camicia inamidata di fresco. Dovrebbe importarmi, lo so. Dovrei farmi delle domande sulle sue vittime, su quali atrocità commetta senza rimorso perché sono le stesse che potrebbe agire su di me. È che, quando sono in sua compagnia, la mia morale perde la bussola e semplicemente non m’interessa — delle mie sorti, di quelle degli altri, dei peccati di cui mi macchio. La sola cosa che mi spinga verso di lui è l’assenza di confini che allontana la prorompenza dei miei problemi. Le feste sono un brutto periodo da passare da soli con i propri mostri. Tra loro e la bestia che incarna Cézanne, preferisco la seconda.
«Potrei, ma sarebbe… complicato.»
La Nieve ironica vorrebbe augurargli una buona cena, ma è di cattivo gusto perfino per lei.

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«Questo chapeau ti dona. La Francia è un vestito che ti sta d’incanto.»
«Hai finito con queste cazzate svenevoli?»

Mi affaccio sulla Senna. Il parapetto di Pont d’Arcole accoglie le mie braccia e lascia che vi scarichi parte del peso. Il cappotto che indosso — nero come gli occhi miei quando perdo il controllo — mi protegge a stento dal freddo. Il berretto bordeaux casca all’indietro sui capelli bianchi. Lo indossavano i pittori negli anni Settanta del 1800, mi ha spiegato Cézanne. Probabilmente anche prima e sicuramente dopo, ha aggiunto. Il punto è che l’impronta del loro passaggio è rimasta in Francia in tanti piccoli dettagli cui nessuno presta più attenzione.
«Ti piace, non è così?»
La sua domanda suona più come una constatazione. Si riferisce a Parigi, all’aria che si respira qui, alla sensazione di libertà che mi infonde. Qui, potrei iniziare tutto daccapo. Sa che lo sto pensando, che non ho smesso di domandarmi se questa potrebbe essere la mia nuova casa. Mi costa ammetterlo, ma è riuscito a tentarmi. È entrato nel mio petto, ha grattato le croste che Isabella e l’Umanoide hanno fatto tanto per creare con l’intenzione di proteggere le mie ferite. Cézanne ne ha rimosse alcune. Vuole che s’infettino ancora.
«Sì, molto» confesso. Non avrebbe senso mentire. Capirebbe ugualmente. «Profuma di sconfinato.»
Lo sento ridere. «Anni fa, nessuno avrebbe mai detto che Parigi profumasse.»
Mi insegna tante cose. Giorno per giorno, colma parte delle mie lacune. Lo fa non con l’attitudine dello studioso. Lo fa perché, le cose di cui mi parla, le ha vissute davvero. E mentirei se dicessi che non lo trovi affascinante: la dinamica dietro la sua natura, i punti oscuri dei quali vorrei sapere di più, la naturale eleganza con cui la incarna. Non domando mai, però. Sarebbe come compiere un passo oltre il confine tra ombra e luce; dargli un vantaggio per tirarmi a sé.
«Dove mi porti a cena?»

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Montmartre brilla di luce propria. So che è un modo di dire non troppo originale, che chissà quanti devono aver usato per descriverla, ma è così. Per questo motivo, è tanto diffuso, suppongo. O, magari, il mio vocabolario è troppo povero per elaborare un pensiero meno comune.
Seduta a un tavolino ai margini delle stradine ricoperte di un sottile strato di ghiaccio, sorseggio un bicchiere di vin brulé. Non è stagione di cene all’aperto e, infatti, è all’interno che abbiamo ho mangiato. Un tipo qualunque ha preso posto al pianoforte del locale per suonare una melodia a me sconosciuta. Poco dopo, una donna si è alzata e ha cominciato a cantare. La disperata confusione portata dalle sue parole, a me incomprensibili, mi ha vista stringermi nelle spalle. Mi sono chiesta se stesse raccontando della sua sofferenza, se le nostre fossero simili, se mi comprendesse anche senza conoscermi. Non mi sono accorta di aver pianto finché la falange gelata di Cézanne non ha raccolto una lacrima dal mio viso e se l’è portata alla bocca.
Mi assaggia. Lo fa di continuo. «Voilà» gli ho detto.
«Voilà» mi ha risposto. «Resta» chiede, invece, adesso.
I miei occhi fissano i suoi. Mesi addietro, ho rivolto la stessa supplica a qualcuno che non è lui. La differenza è che io non ho mai voluto imprigionare né corrompere la persona cui sto pensando adesso. Cézanne, di contro, vuole attirarmi nelle sue spire e stringermi. Vorrebbe che lasciassi la scuola, Villa dei Gigli, quel po’ che mi aspetta a Londra. Vorrebbe che rinunciassi alla mia vita.
Il fatto è che la sto soppesando, la sua richiesta. Un’esistenza di raffinate dissennatezze è una tentazione imperiosa per un animo come il mio. Assecondarlo significherebbe spegnere la luce, vagabondare nelle tenebre insieme a lui, mano nella mano. Mi esibirebbe nei salotti francesi come fa in quelli inglesi. Sarei il gioiello rubizzo di vita in una corona di morti inverecondi. La solitudine sarebbe soltanto quella dell’anima, finché non decidesse di togliermi anche quella. Ma, abbandonata, non lo sarei mai con Cézanne.
«N’est pa possible» gli faccio eco con una delle poche frasi apprese in questo viaggio
«Tout est possible.»
Forse ha ragione. O, forse, ce l’ho io.

Regardez moi, ou du moins ce qu'il en reste
Regardez moi, avant que je me déteste


Edited by ~ Nieve Rigos - 25/3/2024, 12:41
 
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