| Inventario ∆ Bacchetta - Legno di Ciliegio, Lacrima di Veela,10 pollici, semi rigida (legata in vita) ∆ Borsa a tracolla ∆ Anello Gemello (anulare sx)
∆ Anello Difensivo (indice dx)
∆ Mantello della Disillusione (nella borsa)
Megan Milford-Haven Determinazione, incoscienza, abbandono. Se solo avesse compreso cosa la stava spingendo verso quella direzione, verso Axel in quel modo, avrebbe frenato molte cose. Correva il rischio di finire in guai molto più grandi di lei, lo sapeva, eppure non le importava affatto. Guardava gli occhi del ragazzo con sfida, lo invitava a farsi avanti e palesava la forza d’animo e il coraggio di poterlo affrontare. Dentro, però, il cuore batteva forte, la paura l’accarezzava con pressione, poggiandosi sulla schiena, spingendo con forza, ora che la distanza di sicurezza era del tutto svanita. Poi d’improvviso gli occhi mutarono in un’espressione di totale sorpresa, lasciandosi invadere dal piacere: Axel sembrava sapere bene come prenderla e questo riusciva piano a calmarla contro ogni volontà. Strinse le palpebre e serrò le labbra mentre, lento, il corpo si rilassava. Successivamente, non appena il ragazzo si allontanò, Megan allentò la presa dalla bacchetta fino a perdere completamente il contatto. Era nervosa, non le piaceva sentirsi dire cosa doveva fare e come farlo ma sapeva di non avere scelta. Lo vide avvicinare la sedia e posizionarla davanti a quella da cui si era appena alzata e per la prima volta non fece alcuna obiezione alla richiesta che Axel le fece. Si sedette ed entrambe le mani andarono a raccogliere le ciocche che erano cadute morbide sul viso, coprendolo in parte, portandole dietro alle orecchie. Aveva distolto lo sguardo quando lui le aveva sorriso e lo fece per evitare di ricambiarlo, era troppo per lei cedere con così tanta facilità ed evidenza. Dopo aver contato una, due, tre, quattro mattonelle sul pavimento, fece un profondo respiro e alzò la testa. Di nuovo i suoi occhi, il viso gentile e la voce calma la invasero e l’agitazione tornò con forza; se solo Axel avesse tentato di sfiorarla poteva sentirla tremare. Ora si lasciava semplicemente guidare, nessuna lamentela, nessuno sguardo colmo di rabbia. Chiuse gli occhi proprio come Prowse le aveva detto, profondi respiri accompagnavano quel momento mentre le linee guida dettate dalla voce calda, lenta e suadente le riempivano la mente. Un muro, replicò silenziosa poi il tocco della bacchetta sulla propria tempia la fece sussultare e gli occhi si aprirono di scatto. Udì la formula e il panico per qualche attimo le tolse il respiro; era rimasta immobile preda dell’incognito, tra la voglia di proseguire e quella di scappare via. Poi d’improvviso qualcosa mutò dentro di lei e i pensieri del presente furono calpestati da quelli passato, gli stessi che la tormentavano e allo stesso modo la rendevano viva. *** «Meggy! Meggy!», il ragazzino dai capelli dorati e gli occhioni color dell’erba era in piedi su un ramo «Fammi vedere quanto sei coraggiosa!», gridava facendo cenno con le dita alla piccola Megan che l’osservava dal basso con la mano sulla fronte a riparare dal sole. Paul Harris, abitava a qualche metro di distanza dalla casa dei Milford-Haven e insieme a Megan era solito intrattenersi nei pomeriggi quando la ragazzina non era impegnata con la musica o con gli allenamenti. Avevano davvero un bellissimo rapporto fino a che d’improvviso non fu costretto a trasferirsi per il lavoro dei genitori e Megan non aveva più avuto modo di rivederlo. «Oh, vuoi vedere? Arrivo anche più in alto!», sentenziò coraggiosa mentre le mani si infilavano nei fori della corteccia dura della pianta facendo leva al corpo minuto e leggero. Un passo alla volta, lentamente.*** Sorrise a quel ricordo nonostante la tristezza di quel piccolo trauma mai superato che ancora viveva in una parte del cuore, quello da bambina di soli dieci anni. Il periodo che susseguì all’addio mai dato fu indubbiamente triste, tutte le volte che tornava a casa durante le vacanze guardava la dimora degli Harris vuota. Si chiedeva spesso dove fosse quel ragazzino speciale, se stesse bene e se si ricordasse ancora di lei. Paul era stato il suo migliore amico d’infanzia, poi divenuto una mancanza che non avrebbe colmato nessuno in alcun modo. *** Inspirava e buttava fuori l’aria cercando il controllo su ciò che stava facendo. Le mani le dolevano ma non abbastanza da farle arrestare la scalata che mano a mano la vedeva sempre più vicina alla cima. «Dai! Ci sei quasi! Voglio farti vedere una cosa», continuava Paul mentre stendeva il braccio pronto ad accogliere la mano di Megan. «Spero sia interessante! Non voglio più vedere una base militare per vermi» rise con in viso un’espressione tra il disgusto e il divertimento, poi la mano si tese e afferrò quella del ragazzino. Ora era seduta sul ramo dell’albero nel suo giardino affianco a Paul e guardava la grigia città da un angolazione diversa. I tetti colorati davano vita a un tappeto di mattoni sospeso nell’aria, immaginava di poterci camminare sopra, sospesa nel cielo: era tutto più bello da lì, perfino il suo Paul. «Allora? Cosa volevi farmi vedere?» chiese con voce impaziente, poi vide il biondino alzarsi e come un trapezista attraversare quel lungo ramo spesso senza alcuna difficoltà. «Dove vai? Ti fai male!», aveva aggiunto preoccupata mentre l’amico le faceva segno di tacere. «Avvicinati, guarda cosa c’è qui!», Megan lentamente si fece avanti fino a raggiungerlo. Gli occhi seguirono l’indicazione di Paul e incontrarono un nido. «Oh … wow!» esclamò portando una mano davanti alla bocca, con l’altra si manteneva in equilibrio afferrando i rami sopra alla sua testa. Paul si voltò e le sorrise facendole notare le uova al suo interno, poi protese la mano verso la piccola casa di rametti e Megan lo guardò con curiosità. Da lì estrasse una piuma colorata, il blu e il verde sfumavano fra loro, formando una scala cromatica senza alcun difetto. Ne rimase affascinata e quando Paul gliela diede sorrise semplicemente. «Meggy questa è per te, ha il colore dei tuoi occhi», ricambiò il sorriso «e dei miei!» concluse mentre il rosso sulle gote di Megan si faceva sempre più acceso.*** Il colore della pelle era mutato anche nel presente, solo il ricordo di quel momento la metteva in imbarazzo. Quella piuma la custodiva gelosamente in uno dei suoi libri preferiti e amava ancora immaginare attraverso di essa il bambino biondo che l’aveva accompagnata in alcuni momenti della sua vita. Le mancava, una parte di sé lo avvertiva, ma era una mancanza che non le procurava tristezza, solamente nostalgia: sorrideva ogni volta che ci pensava. *** «Megan! Dove sei?», le grida di Carl interruppero quel momento e Megan fu costretta a voltarsi in direzione della voce. Un passo e dovette reggersi per la fretta di tornare giù, sbilanciandosi e rischiando di cadere. «Attenta!», aveva gridato Paul. «Dobbiamo muoverci, se ci vede qua su è la fine!» raggiunse il grande tronco e con velocità scese scivolando sulla corteccia liscia. «Avanti Paul, avanti!», incitava il ragazzino a fare più veloce mentre il secondo richiamo non tardò ad arrivare. «Devo andare!», disse non appena Paul mise i piedi a terra, un cenno della mano ad accompagnare il saluto e con passo svelto, infilando la piuma fra i capelli raccolti, raggiunse Carl. «Papà, eccomi!», aveva affermato quando ancora non vedeva la figura del padre che era in attesa davanti al grande portone. «Meg, vieni dobbiamo farti sentire una cosa!», Carl allungò il braccio e con la mano afferrò quella di sua figlia sorridendole. «Bella piuma!» le fece l’occhiolino e Megan capì senza aver bisogno di dire nulla.*** Era bello vederlo ancora, percepire il tocco della mano calda sulla pelle e udire la voce gentile come fosse a solo un passo da lei. Il suo papà, la sua roccia che era stata spezzata e spazzata via; quanto le mancava. Gli occhi si colmarono di lacrime ancora una volta, scivolarono sul volto lentamente finendo a terra. Poteva sentirne il tintinnio assordante in quella stanza così silenziosa. Un battito di ciglia ed era di nuovo lì, attraversava la soglia di quella casa che non aveva più rivisto, dove non aveva avuto il coraggio di tornare. *** L’atrio si apriva facendo spazio a un arco a tutto sesto che dava sul grande salone. Quattro scalini anticipavano l’entrata nella stanza che, illuminata dai grandi finestroni, poteva vantare della propria bellezza. Al centro un grande tappeto circolare spezzava il bianco candido del pavimento in marmo pregiato. Era beige come lo erano i divani e le poltrone, e su di esso un pianoforte della “Steinway&Son” a coda perlato. «Siediti accanto a me», disse Eloise fronte allo strumento, «voglio sapere cosa ne pensi» sorrise. Megan l’aveva già raggiunta affiancandola, premendo le dita sulla tastiera alternando qualche nota di suo gusto nell'ottava corta di cui disponeva in quel momento. Sul leggio numerosi fogli di carta scritti a mano, colmati da infinite note musicali, solleticarono la sua curiosità e non le fu difficile riconoscere la scrittura di sua madre. «Cos'è?», chiese mentre leggeva infinite note, legati, pause e sincopi. «Hai scritto una canzone? Hai composto qualcosa?» continuò visibilmente emozionata. Eloise le sorrise, felice di vedere quanta gioia v'era negli occhi di sua figlia, «Esatto bambina mia, è una bozza per la candidatura in un teatro molto importante e voglio che tu l'ascolti. Sono mesi che ci lavoro sopra e il Direttore Artistico mi ha detto che è entusiasta di quanto ho scritto fino ad ora e...», un abbraccio colmo di felicità avvolse la donna interrompendo il discorso. Megan era così orgogliosa di sua madre, sapeva l'importanza che aveva tutto quello che stava facendo e non riuscì a gestire alcuna emozione. «Hai scritto una canzone? Hai composto qualcosa?» si staccò guardandola negli occhi, le fossette mettevano in risalto un’espressione stupita. «Una canzone? Questa è una parte dell’opera!» replicò Eloise divertita, «Vuoi che la suoni?» chiese subito dopo. Megan annuì silenziosa mentre il blu delle iridi cristalline si posavano sulla lunga tastiera d’avorio e sulle mani affusolate di sua madre che leggiadre iniziarono a muoversi sullo strumento.*** Sentirsi sola in quel momento era necessario, libera di poter ascoltare ciò che percepiva: la musica che lontana le accarezzava i pensieri. Eppure se fino a quel momento aveva lasciato la mente pescare ricordi senza fermarne la corsa, ora qualcosa la tratteneva nell’andare avanti. Fu come svegliarsi da uno stato di trance, prendere coscienza e realizzare che non era sola. Tutto ciò che stava vivendo lo viveva insieme ad Axel e da quella consapevolezza venne investita violentemente. Doveva essere un muro, doveva essere una dannata struttura di cemento armato pronta a non farsi buttare giù da niente e nessuno, pronta a difendersi da qualsiasi nemico, solida e impenetrabile. Doveva esserlo e invece? Strinse i pugni e un “No” sussurrato uscì dalle labbra. Esci, esci subito « Esci dalla mia testa!» gridò, mentre gli occhi si strinsero e le braccia si allungarono verso il ragazzo con l’intenzione di spingerlo via. Avrebbe voluto afferrargli il collo, le spalle, qualsiasi cosa per farlo allontanare. Quello che covava dentro, la solitudine, la sofferenza, appartenevano solo a lei. Nessuno poteva sapere e vedere cosa nascondeva dietro la perfetta maschera che indossava. Nessuno, men che meno uno sconosciuto quale era Axel, non doveva permetterglielo. Era vulnerabile ma doveva dimostrare altro, così come aveva fatto fino a quel giorno. La paura tornò improvvisa, con essa la rabbia e la voglia di vendicarsi per ogni cosa che le era stata fatta e il ragazzo di quello stato d'animo ne era la vittima. Tuttavia, cercava di fare resistenza ma Prowse sarebbe stato in grado di spogliarla, lo avrebbe fatto, vedendo realmente chi era. Megan non poteva far altro che essere spettatrice di se stessa, cercando di trovare un modo per fuggire via. PS: 156 | PM: 102 | PC: 95 | EXP: 12,5 code © Thalia, image by © Esse | harrypotter.it
Edited by Megan M. Haven - 16/11/2019, 15:57
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