F r i s s o n, ~ Horus Ra Sekhmeth

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~ Nieve Rigos
view post Posted on 21/4/2024, 12:55 by: ~ Nieve Rigos
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entropia.

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– Frisson –
18 yrs – Lust – Himiko's

«Vecchietto, dev’essere un po’ che non giochi a Quidditch, perché stai facendo confusione. Uno, sono gli occhialini a proteggerti da vento e moscerini. Due, l’elmetto non ha nessuna visiera. Va indossato, appunto, con gli occhialini.»
La mia arringa ha il suo fondamento. Non è passato troppo tempo dall’ultimo torneo di quidditch — dove i Grifondoro hanno misteriosamente perso ogni partita per tutta gioia degli avversari, dei rigori inesistenti ottenuti grazie alla benevolenza dell’arbitra e dei falli mai visti o segnalati. Perciò, la mia preparazione sugli accessori usati per il gioco più amato del mondo magico è ineccepibile. In realtà, lo sarebbe anche se il torneo non si fosse mai giocato. Sfrecciare nel cielo a bordo di una scopa è uno dei più grandi appagamenti cui la vita da strega mi abbia permesso l’accesso. Mi alleno perfino quando, di allenamenti, non ne ha pianificato nessuno.
Lascio cadere il discorso, assecondando Isabella nel passaggio a un altro argomento. Il suo plauso mi spinge a inclinare il capo in segno di gratitudine. È complicato non indugiare sul ricordo dell’attimo in cui le tue difese sono crollate sotto la spinta del mio attacco. Rivedo il tuo volto avvicinarsi al mio, le tue dita raccogliere una ciocca d’argento e l’accoramento dietro la tua richiesta — “E tu cosa vuoi che faccia questo automa?”. È complicato soprattutto ricacciare indietro la memoria della nostra frenesia, del modo in cui ci siamo posseduti nell’ingresso di casa tua.
Trattengo un sospiro, lo stesso che ha abbandonato le mie labbra quando, prima dell’interruzione di Isabella, la tua mano è scivolata sulla mia coscia, superando la protezione della gonna. Sono passati mesi, ma il tempo non è riuscito a diluire la bramosia che ci conduce sempre sull’orlo del baratro. È per questo che mi ostino a tornare. È per questo che mi attiri a te, dopo aver professato a lungo distanza.
Tu non aiuti, Umanoide. Lo sguardo che mi riservi, il richiamo alle tue maniere da drago muovono i carboni ardenti nel mio focolare. Una scintilla scappa alla presa del legno arso; si solleva una lingua di fuoco. Le torturerei, quelle labbra su cui lasci una carezza con il chiaro intento di provocarmi. Ci riesci, se vuoi saperlo. Le mie gambe, sotto il tavolo, subiscono uno spasmo; un’involontaria contrazione che reagisce all’esortazione del piacere. Odio questa distanza. Odio il tavolo che ci separa. Odio l’attesa logorante che vorrei sfidare, ora, nei bagni del locale o nel vicolo che fiancheggia questo edificio. Perfino lì, nel punto in cui stai seduto a recitare la parte dell’offeso. Saprei io come toglierti quell’espressione immusonita dalla faccia, trasformandola nelle fiamme dell’inferno con le quali accelero il battito del tuo cuore e la corsa frenetica del sangue nelle tue vene.
«Be’, non mi dispiacerebbe se mi dessi una lezione pratica. Sono sempre aperta al miglioramento.»
Parlo con Isa e le dedico un’espressione maliziosa, ammiccando. Abbiamo sempre precisato che il nostro rapporto non è esclusivo, Umanoide, no? Immagino che non sarebbe un problema condividere la tua amica con me. A fini esclusivamente scientifici, s’intende.
L’arrivo della cameriera getta acqua sulle mie voglie e, presto, subentra il panico. Il momento che ho a lungo temuto è giunto e io… io non sono pronta. Percorro con gli occhi il ristorante gremito, ne studio gli ospiti e conto mentalmente gli sguardi che potrebbero ricadere su di me. Il fiato si accorcia, ma non voglio che voi due lo vediate. Perciò, incrocio le braccia al petto e lascio vagare lo sguardo fino a raggiungere la finestra.
Ho bisogno di aiuto.
E tu me lo fornisci, Umanoide, distraendo Isabella con una solerzia di cui ti sono grata e che saprò ricompensare a tempo dedito. Ma adesso… adesso è il tormento a velare le iridi lunari, a rievocare le sensazioni che ho provato da bambina quando, china sulla strada, ho mangiato con voracità i rimasugli gettati nella spazzatura. Mi guardereste con lo stesso sdegno che ha impietrito e disgustato gli abitanti di Borgarbyggð, se avvicinassi alle labbra l’onigiri? Mi trovereste ripugnante?
«Arrivo subito» esclamo, mentre il suono delle vostre risate complici tenta di scacciare il martellare sordo del cuore nelle orecchie. «Mi sembra di aver visto una persona che conosco. Vado a salutarla un attimo, prima di perderla di vista.»
Mi alzo con uno scatto secco e non vi do occasione di replicare, di cogliere la mendacità della mia scusa. Rimanete seduti, felici di godere della vostra reciproca compagnia, e datemi il tempo di riprendere fiato ché ne ho perso il controllo.
Mi accosto a un passante, sfiorandogli la spalla non appena l’aria tiepida mi accoglie e il frastuono del traffico si fa più intenso, non più attutito dalla musica giapponese. «Ciao! Scusa il disturbo, ma devo chiederti un favore.» Non me lo deve. Non può capire. Infatti, aggrotta la fronte e schiude le labbra per ribattere, ma ha bisogno di un attimo per riprendersi dalla sorpresa. Io colgo l’occasione per proseguire. «Ho bisogno che tu finga di conoscermi. Vedi la finestra alla tua sinistra? I miei amici sono seduti lì e io sto avendo un attacco di panico. Mi serve un secondo per riprendermi senza che loro se ne accorgano.»
Tituba. E come potrebbe essere altrimenti? Non capita tutti i giorni di essere fermati per strada da una perfetta sconosciuta alla ricerca di aiuto. Eppure, la sua espressione si ammorbidisce e mi rivolge un cenno del capo. Io sospiro di sollievo e gli sorrido, riconoscente.
«Ti va di muovere qualche passo in direzione di quel vicolo? Così posso nascondermi un attimo…»
«Sei in pericolo?» mi domanda e la preoccupazione sul suo volto mi intenerisce.
«No, davvero. È solo difficile spiegare agli altri qualcosa che non sai spiegare nemmeno a te stessa.»
«Lo capisco» dice, al che passa un braccio sotto il mio e mi sorride con più leggerezza. Dev’essere un mio coetaneo, infuso di una leggerezza che mi è comoda in questo momento
La recita è appena iniziata e lui ha mosso i primi passi verso la viuzza, mia meta. Lo ringrazio accoratamente, mentre fingiamo di chiacchierare del più e del meno. In realtà, mi sta chiedendo se sto bene, se può fare qualcosa per me. Io lo rassicuro. Starò meglio, posso giurarglielo.
Lascio il suo braccio quando siamo a ridosso dell’angolo della strada e mi insinuo rapidamente nella protezione che mi offre. «Non sai quanto ti sia... boh, debitrice, tipo?» sussurro, poi sospiro. «Mi hai salvato da un’ondata di preoccupazione che non avrei potuto reggere.»
In realtà, non credo che sarebbe andata così, anche se avessi avuto davvero un attacco di panico. Non posso rivelargli che la mia è una scusa per ottenere un supporto del quale, sì, non posso fare a meno. Se ne va, infine, non senza avermi offerto un’assistenza che non ti aspetteresti da un estraneo; non senza aver voltato il capo nella mia direzione un’ultima volta.
«Tilly!»
Tengo stretto tra le dita il cimelio della famiglia Morgenstern che mi permette di richiamare la mia elfa domestica ogni qualvolta senta il bisogno della sua presenza. Mi trovo a metà del vicolo, nascosta da un cassonetto dell’immondizia più grande di me. Uno schiocco annuncia l’arrivo della mia salvatrice.
«Tilly, ho bisogno di una fiala.» Parlo senza darle il tempo di chiedere. Non voglio destare sospetti. Non voglio correre il rischio di essere beccata. Desidero soltanto trovare il conforto che le sostanze a me care possono darmi. Tilly si rabbuia. «Subito» aggiungo.
Non è il tempo dell’assennatezza — con me, non lo è mai. Per questo, cogliendo la perentorietà nel mio tono, la piccola si limita ad annuire e a scomparire. Io, nell’attesa del suo ritorno, mi guardo intorno per assicurarmi di essere ancora da sola: nessuno affacciato alle finestre, nessuno interessato a indagare la semioscurità del vicolo chiuso in cui mi trovo.
Un terzo schiocco conferma il suo ritorno. La fialetta che stringe tra le dita rachitiche solletica il mio sollievo. Neppure mi avvedo del sorriso che poggia sulle mie labbra solo alla prospettiva del suo consumo.
La sensazione inebriante mi raggiunge non appena il liquido sfiora la mia bocca e discende lungo la gola. Allora, la zavorra piazzata sul mio petto si alleggerisce e, piano piano, si sfoca. Le pupille si allargano, costringendo l’iride all’angolo dell’occhio.
Ringrazio l’elfa. Le mie dita tracciano una carezza gentile sul suo viso, allorché la congedo. Non è tranquilla. Non ama sapermi da sola in preda all’effetto degli intrugli cui devo la sopravvivenza. Non sa, però, che non sono sola stavolta e che è proprio la compagnia — che tutti, lei compresa, ritengono un rimedio ai miei affanni — a sollecitare i miei demoni.
Torno sui miei passi, senza fretta, ora più tranquilla. Quando rimetto piede nel locale e, da ultimo, riprendo posto al tavolo, non do spiegazioni. Mi limito a prendere il calice che sta di fronte al mio piatto e a farlo scivolare verso di te, Umanoide.
«Ti dispiacerebbe condividere?»
Mi riferisco allo Chardonnay, il rinforzo di cui ho bisogno per affrontare questo stupido onigiri.
Ti prego, dicono i miei occhi. Ne ho bisogno.

–Oh, you're in my veins and I cannot get you out
Oh, you're all I taste at night inside of my mouth–

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