La Pozione Polisucco

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view post Posted on 24/9/2010, 15:14
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Arwen si diresse con passo fermo e deciso verso l’ufficio del professor Peverell.

Il castello era silenzioso, immerso in una calma quasi innaturale. I muri stessi parevano assorbire ogni rumore, come una bestia ingorda che divorava vorace ogni suono lasciando attorno a sé solo vuoto silenzio. Fasci di luce si insinuavano prepotenti dalle finestre e disegnavano macchie di fuoco sulle pareti: e quando Arwen vi passava attraverso, per un attimo pareva accendersi di quello stesso fuoco, terribilmente divino, magnificamente infernale. Il calore del sole in quei momenti l’avvolgeva in un tenero ed irresistibile abbraccio facendole girare la testa verso la fonte di quell’amorevole tocco, come Clizia, mutata in girasole, al sorgere del desiderato Apollo; ripiegava poi la testa nell’ombra che seguiva: poichè
Wo viel Licht ist, ist auch viel Schatten. Sì, Goethe aveva ragione: così come non si poteva pensare di giungere all’alba senza prima superare le tenebre della notte. Era così in tutte le cose: persino alla conoscenza non si poteva giungere senza prima essere stati ignoranti. Il non sapere è la base di tutti i saperi: Έτσι, δεν γνωρίζω disse Socrate. E questa è l’unica consapevolezza per diventare sapienti.

Ma poteva Arwen aspirare alla conoscenza? Non si macchiava forse di quella stessa tracotanza di cui parlava il filosofo andando a chiedere lei, appena al primo anno, il permesso di apprendere cose sicuramente al di là della sua età? Non sarebbe stato meglio per lei, come tutti gli altri, dare tempo al tempo e aspettare che il lento volgersi dei mesi facesse maturare in lei quel sapere che forzosamente si affannava ad inseguire? Perché non accontentarsi di quel che spontaneamente si schiudeva a lei tra i fiori del sapere, non sapeva forse che cogliendoli tutti in una volta avrebbe ucciso la pianta lasciando solo arida sterpaglia?

No, non poteva essere così. Arwen ne era certa. Non c’è limite al sapere. Perché denigrare la sete di conoscenza, perché ricacciare l’abilità e il talento nella mediocrità lasciandoli morire senza aver dato loro la possibilità di esprimersi al culmine delle loro possibilità? Non sarebbe stato come lasciar appassire quest’altro fiore nell’incuria? Uno spreco, inutile e insensato. Non era forse obiettivo dell’uomo migliorarsi sempre, sviluppare le proprie capacità?

Arwen non poteva ammettere di non essere egoista: non si sfugge a se stessi. Era l’animo umano. Persino il più pio degli uomini al momento di diventare martire, nell’atto supremo, è alla propria gloriosa santità che rivolge il pensiero, poiché si è sempre soli quando si muore.
Sì, era egoista: sapeva di avere talento e non le importava dei filosofeggianti discorsi sulla ragion d’essere dell’ignoranza. Perché aspettare? Voleva ciò che era suo, che le spettava di diritto: dopotutto, aveva dimostrato di avere la maturità necessaria per avanzare di quel breve grande passo. Voleva confrontarsi con le cose più difficili. Non è anche questa una prova di coraggio, valore, bravura? Mettersi alla prova e scoprire i propri limiti: poteva forse essere biasimato un così nobile intento?

Era vero, il sapere andava maneggiato con cura: un’arma potente che poteva arrecare danno se usata nei tempi sbagliati, al momento sbagliato o con vuota, falsa, erronea saccenza. Ma Arwen era abile nell’intuire il labile confine tra verità e bugia, tra il vero e il falso sapere: non avrebbe adoperato impropriamente ciò che le sarebbe stato permesso di apprendere.

Così pensando, era già giunta alla porta dell’ufficio del professore.
Un respiro profondo. Quindi, bussò due volte.

 
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view post Posted on 27/9/2010, 21:33
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Uno sfondo bianco, sfumato, un poco ingiallito, un bianco sporco, eppure estremamente intrigante. Una patina di vecchiume, copriva quello sfondo stranamente bianco ingiallito, una serie di striscioline sovrapposte, di un materiale sospetto, ma così familiare. Un intenso profumo di fiori di pesco, nell’aria. Elementi netti, spigolosi, ed ondeggianti, punteggiavano con una certa mistica armonia l’ampia superficie. Interrompendo, e sporcando lo sfondo immacolato, tingendo il giallo di una punta di nero, e bronzo.
Un mare di luce bagnava e copriva ogni limbo dell’antico papiro, srotolato sull’ampio piano della scrivania, filtrava dalla parete dietro, ampie bifore e trifore, chiuse da vetri colorati alla maniera medievale, proiettando i blu ed i cremisi delle belle vetrate.
Un naso, pronunciato ma affilato, solcava come un veliero, a pochi pollici dalla superficie, passando di symbolon, in symbolon, in cerca di qualcosa. In un angolo, delicati occhialetti argentei, sfavillavano dei colori dell’arcobaleno, riflettendo l’intero spettro solare, dalle lenti cristalline.
Una mano, affaccendata come non mai, scriveva forsennata, sfrecciando su una pergamena al lato del prezioso papiro, l’altra teneva il segno, saltando di segno in segno, in cerca di qualcosa, sfiorando il delicato testo. Era una bella giornata, non troppo affollata, un silenzioso religioso avvolgeva ed ammantava la scena, la finestra socchiusa, un trespolo vuoto, un’unica piuma cremisi giaceva sul pavimento, quasi memoria di un lontano passato, restio a palesarsi. Il mago apatico, borbottava indispettito, riflettendo, dando sfogo a bislacche supposizioni, che andavano confermandosi e smentendosi con delicata grazia, ed affascinante velocità.
Qualcosa stava bollendo in pentola.
Il suono di un’arpa, ed un flauto, una lontana eco, quasi dal passato, rompeva il silenzio, quasi sulle ali di aliti di vento, che solinghi e romiti si spingevano sin lì, sfidando la sorte. Una melodia dolce e malinconica, angelica. Era stata sino ad allora un’ottima giornata, niente scocciature, niente perdite di tempo, salvo le furie crescenti che stava destando quell’analisi. In fondo erano state preventivate, lungamente, e previste in gran parte. Eppure quell’unica nota stonata, sembrava voler incrinare mesi di studi, e decenni di teorie, e supposizioni. Non l’aveva pagato cifre esorbitanti per il semplice profumo! Era così scontato, da essere quasi stupido a dirsi. Nascondeva un segreto, un qualche mistero, e lui l’avrebbe scoperto! Sedeva teso come una corda di violino, sul ciglio della comoda poltrona, in un’elegante veste da camera, blu cielo.
Un colpo.
Un secondo.
Silenzio.
Uno schizzo di nero, ed una lunga riga seppia solcò il foglio di pergamena, perdendosi tra gli svolazzi delle righe di appunti. Cos’era? Chi era? Rumore sordo del legno. Abbastanza distante. Ecco, ecco, la porta! Possibile che ci fosse sempre qualche problema? Era una sorta di maledizione. Ne era ormai ben conscio. Si schiarì la voce, smettendo di borbottare, per pochi attimi.

Avanti!

 
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view post Posted on 28/9/2010, 15:12
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Mentre aspettava immobile e silente nella semioscurità del corridoio, Arwen non poteva fare a meno di ripassare nella mente le sue ragioni, ciò che avrebbe dovuto esporre, le parole che con cura avrebbe pronunciato. Cosa avrebbe pensato il professore, il vecchio e il saggio, di lei e della sua richiesta? Avrebbe forse riso e avrebbe scherzato come si fa di fronte al capriccio di una bambina? Avrebbe capito quanto profonda e radicata era la sua sete di conoscenza, il suo spasmodico bisogno di sapere, la sua inamovibile necessità ti tendere a qualcosa di più di ciò che poteva normalmente avere? La verità era che aveva bisogno di un obiettivo: e un obiettivo è per definizione qualcosa di difficile da raggiungere per alcuni e al di là delle possibilità fisiche o psichiche per altri. No, non tutti sono in grado di avere un obiettivo: l'idea stessa di averlo è punto di forza per chi è saldo nelle sue scelte e motivo di disorientamento per chi sa nel proprio cuore di non sapere come raggiungerlo. Ma Arwen lo voleva: non era una bambina capricciosa, ma la prima pallida imitazione di ciò che lei stessa sarebbe potuta diventare a compimento del suo percorso. Avere quello che hanno gli altri, avere ciò che si deve avere per diritto o per norma o consuetudine, non porta alcun pregio: non vi è merito di conquista, nè di ricerca, nè di intelletto. Aspirare a qualcosa di più grande di noi, ecco la bravura, il coraggio, l'obiettivo che riempie una vita accrescendosi assieme all'uomo che lo sogna. L'obiettivo di Arwen poteva essere definito ambizioso: ma non era diverso da quello di uno studioso che cerca di decifrare un antico manoscritto, o di un cercatore che s'ingegna ad afferrare un boccino. Operazioni difficili, ma non impossibili per una mente o un'abilità straordinaria.

Per un istante, dopo aver bussato, la mano indugiò sul pesante legno, così caldo. Sfiorò quasi impercettibilmente i preziosi intarsi che l'adornavano e che l'ombrosa oscurità rendeva più imponenti, più veri. Storie di magia antica erano rappresentate in piccole fasce e risvegliavano l'immaginazione: Arwen non aveva mai visto niente di così bello e così triste. Un volto la colpì: una venatura del legno, sfuggita al controllo dell'artista, pareva la scia di una lacrima sul piccolo viso. Arwen non sapeva perchè in un simile momento dedicasse tanta attenzione a tutto questo: forse perchè l'aveva semplicemente davanti agli occhi, o forse perchè il suo animo agitato e ansioso le faceva scorgere cose cui altrimenti non avrebbe dato importanza.

La voce giunse appena attutita dalla porta. Come risvegliata all'improvviso da un sogno durato appena pochi attimi, Arwen abbassò la mano con gesto repentino, come se fosse stata scoperta a compiere qualcosa d'illecito.
Non doveva esitare. Non ora.
Entrò.

La luce ariosa proveniente dall'ampia finestra la investì accecandola. Subito, tuttavia, cominciarono a prendere forma la scrivania, le carte, il professore stesso. Un dolce profumo investì le sue narici per spandersi poi come balsamo fino ai polmoni. Il professore la osservava, ritto sulla sua sedia, sicuramente l'aveva disturbato. Il tavolo di fronte a lui era coperto di pergamene dall'aspetto fragile e antico. Per un folle istante, Arwen pensò di chiedere al professore cosa stesse studiando, quale fosse la preziosità del sapere che stava esaminando, persino di dividere con lei quelle ricchezze. Un lampo di invidia le corse negli occhi, ma era anche consapevole dei limiti di ciò che è lecito. Tutto ciò era ancora troppo oltre per lei: ma promise a se stessa che prima o poi avrebbe appreso anche lei i segreti più profondi della magia.


- Buongiorno Professore. Mi dolgo di aver interrotto le sue occupazioni ma farò il possibile per rubarle meno tempo possibile -

Il suo tono era fermo, pacato, cordiale. Arwen stessa si meravigliò di sè. Guardò negli occhi il suo interlocutore, e per un attimo gli occhi grigi incontrarono i verdi. Arwen sapeva di avere solo undici anni: ma mai come allora si era sentita forte, consapevole, ogni fibra del suo corpo tesa verso la figura in controluce.

- Sono qui perchè avrei bisogno di un permesso. Per il Reparto Proibito. -

Non aggiunse altro. Il desiderio di conoscere la reazione del professore consumava le sue energie, e il dubbio di quel che l'alta fronte dell'uomo nascondeva dilagava inesorabile divorandola dall'interno. Per un momento, si spaventò di se stessa: ci teneva davvero così tanto? Non importava: era lì ora. Lì e basta. Il mondo era concentrato in quella stanza. Il resto non contava. Il resto era Nulla.

 
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view post Posted on 28/9/2010, 23:14
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Silenzio, velocemente tornò ad espandersi, avvolgendo la scena. Una patina cristallina, una forza silenziosa ma inarrestabile, stava cristallizzando i tempi, le azioni. Ogni attimo stava diventando secolo, ogni istante si caricava di un’essenza unica, incredibile. Chi era? Ma aveva davvero importanza? Veniva attratto, come da un gorgo, quasi risucchiato all’interno del papiro, ne catturava l’attenzione, ne era attratto con forza. Lo sguardo scivolava lesto, apatico, distratto dal marrone della porta, verso un primo simbolo, ed un secondo, passando ad un terzo, ed un quarto. Come un magnete ne era stregato, quasi una droga, lo sguardo non riusciva a sottrarsi. Ricadeva ineludibilmente lì, stregato, e maledetto. Qualcuno aveva bussato, eppure tardava a palesarsi. Poi, incredibilmente, iniziò a scendere la maniglia, lentamente il meccanismo scattava, centellinato, stava per aprirsi. Questione di momenti. L’occhio insistente, cercava di carpire le ultime informazioni da quello strano codice, la prova definitiva, che tardava a palesarsi. Un ultimo sguardo, e la porta si aprì. Frenetica ma rilassata scattò la ricerca degli occhiali, dove erano finiti? La stanghetta, li aveva trovati! Ormai veder bene da lontano non era più così semplice. Invecchiare era inevitabile. Un mondo sfumato, improvvisamente prese forma e dimensione, i colori si erano spenti, ma tutto aveva un ordine, nuovo quasi inaspettato. Una giovane studentessa lo cercava. Una tassorosso. Sapeva chi era, ma non il perchè fosse lì.
Sorrise, in parte indispettito, abbandonandosi alla comoda poltrona, ne avrebbe sostenuto il peso, fedele compagna ormai da anni. Cosa voleva? Sotto quella luce inaspettata tutto sembrava acquisire un che di angelico, e fatato. Richiuse la porta, e si avvicinò. Solite parole di circostanza, forse almeno vere alla radice. I giovani avevano idee ed esigenze tutte particolari, lui faceva del suo meglio per adeguarsi, salvando il salvabile. Una politica non sempre molto simpatica da proporre. Eppure una bella studentessa aveva bussato alla sua porta.
Uno sguardo laconico, di congedo, e tornò a concentrarsi sulla nuova venuta.


Mia cara, quale piacere! Prego, si accomodi, non è certo un problema. Per i problemi troppo grossi non è certo momento, ma credo non sia il suo caso, sbaglio? Prego, prego, si accomodi, posso offrirle qualcosa? Non faccia complimenti, i problemi dei Tassorosso son anche problemi miei! Cosa posso fare per lei?

Ecco, domanda retorica. L’ennesimo permesso, per una volta richiesto da qualcuno senza doppi o tripli fini, richiesto, ma anche concesso? Doveva decidere, avevano una buona mezz’ora per chiudere la faccenda. Mezz’ora e sarebbe tornato al suo papiro. Mezz’ora sacrificata non nel peggiore dei modi, quanto meno.

Bene, la radice di tutti i Beni e tutti i Mali di questa Scuola, il nostro bel castello. Lei vuole andare nel reparto proibito, penso comprensibile, no? Ho visionato buona parte dei suoi ultimi compiti, non solo di Storia, e prendo atto della situazione. La domanda regina, immagino già la sapesse, è: perchè? Perchè proprio lì? Hogwarts è grande, e varia, eppure tutti volete andare lì. Del resto, le chiederò anche: a parer suo perchè i Fondatori proibirono l’accesso a determinate parti dei terreni della scuola? Tutto ruota sempre intorno ai perchè delle cose. Affascinante dico io, scontato dicono altri.

Sorrise allegro, sibillino e misterioso, con il suo solito tono argenteo, onirico. Le parole fluivano, quasi in metrica, con un ritmo calmo, ma martellante, con strani accenti, e sfumature di significati inaspettati. Le “R” liquide quasi a scomparire, ingoiate da vicini pretenziosi, e spavaldi. Sapeva di Magia, e lontano Nord, fresco e brillante, eppure con tracce di Normanno, che donavano aspetti imprevisti, paralleli alla pronuncia in perfetto anglosassone.

 
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view post Posted on 29/9/2010, 17:00
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Arwen notò che anche il professore pareva avere una doppia natura: le sue parole erano pacate, morbide, scorrevano con la leggera e sicura fermezza di un canto ritmato, accattivante, lento; eppure un animo irrequieto traspariva dietro quegli occhi vivi e guizzanti, pronti a scattare, attratti da una forza invisibile e inarrestabile, verso la pergamena da poco abbandonata: Arwen avvertiva, come qualcosa di tangibile, il suo inespresso desiderio di tornare il più presto possibile alla ricerca dei segreti che si celavano dietro quei segni. Si meravigliò di quanto simili fossero in quel momento: le tempeste nascoste nelle loro menti non affioravano all'esterno e lasciavano una superficie limpida e tranquilla: le parole disegnavano, in quello strano gioco di bilanciamento di forze, qualcosa di tremendamente vicino ad una danza o ad una lotta in cui ognuna delle due parti studiava le mosse dell'altro. Ognuno voleva scorgere i pensieri che attraversano la mente di colui che si trovava di fronte: il professore voleva capire la vera natura di Arwen, i suoi progetti, le sue motivazioni, i "perchè"; Arwen voleva sapere se sarebbe stata capita, se avrebbe ottenuto ciò che chiedeva, se le sue parole avrebbero colto nel segno, voleva le "risposte" che si aspettava.

- La ringrazio, professore, ma non prendo niente, sono a posto così -

Quanto parlare! Quante parole vuote che sarebbero state dimenticate di lì a dieci minuti! A cosa serviva pronunciare frasi di cui nessuno avrebbe serbato il ricordo? Svanita la loro eco, non ve ne sarebbe rimasta più alcuna traccia: avrebbero vissuto la loro breve e ingloriosa vita entro le mura di quella stanza senza poter viaggiare nei luoghi di più ampia cultura attraverso la mente di colui cui erano indirizzate. Quanta insensatezza! Non sarebbe stato forse più significativo il silenzio? Il loro unico merito e difetto era quello di confondere: è dal rimescolamento di parole vuote e parole sagge che sono nate le grandi opere di Demostene, Pericle, Isocrate, e dei grandi oratori del passato. Ma a cosa sarebbe servito adesso? Non sarebbe stato mille volte più rapido e onesto affrontare subito il cuore del problema? Quanto tempo sprecato! E pensare che i saggi s'ingegnavano nel condensare i principi del sapere filosofico e morale in brevi ma significativi aforismi, che i centauri centellinavano il loro sapere in poche frasi dal valore universale: a cosa si erano ridotti? Arwen sapeva che il professore, dietro le sue lenti iridescenti, la pensava allo stesso modo: ma se entrambi lo pensavano, perché continuare? Ci sono leggi, dettate dagli uomini, che vanno osservate: leggi di comportamento, morali, giuridiche, naturali. E Arwen in fondo sapeva che quella commedia andava portata a termine e forse alla fine avrebbe ricevuto i suoi applausi: entrambi avevano scelto l’eleganza e la sottigliezza dell’etichetta, così era uso: così avrebbero continuato.

- Non nego, professore, di aver immaginato le sue domande e di aver a lungo pensato a quale potesse essere una degna risposta. Potrei dirle, ora, che il mio obiettivo è l’apprendimento della Pozione Polisucco, e che il mio è un desiderio che nasce dalla pura curiosità, o dalla voglia di sentirmi “grande”, o per il semplice gusto del proibito. Ma sarebbe ben misera cosa, scialba, patetica, scontata, come direbbe lei. Non mi renderebbe onore né farebbe comprendere a pieno quel che realmente significa per me un simile passo. Voltaire disse che bisogna aver rinunciato al buon senso per non convenire che non conosciamo nulla se non attraverso l’esperienza. È dunque sperimentando che l’uomo può progredire nella sua ricerca del sapere: e sperimentando egli fa quello per cui è nato e che appartiene alla sua natura intrinseca. Io e lei non siamo diversi. Vedo delle pergamene sulla scrivania, cercava di decifrarle: e a furia di sperimentare arriverà ad una soluzione. Io credo di poter alzare di qualche centimetro l’asticella dei miei limiti: io credo che sperimentando a mia volta potrei essere in grado di aspirare a qualcosa di più complesso di ciò che mi si offre. Io penso di esserne capace e che il Reparto Proibito sia solo un mezzo per arrivare al mio obiettivo. Lei mi chiede perché proprio lì. Le parole di Yourcenar furono: “fondare biblioteche è un po' come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l'inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”. Il Reparto Proibito è solo una scatola nella scatola: un po’ come una matriosca, per intenderci. Ma proprio perché più piccola e più interna può custodire saperi più preziosi: a volte terribili, oscuri, ma preziosi. Io non pretendo di comprendere tutto quello che potrei trovarvi: ma posso promettere di fare del mio meglio, mettermi alla prova e custodire con saggezza ciò che potrei essere così fortunata da apprendere. Il Reparto Proibito costituisce quei centimetri in più che alzano la mia asticella. Io le chiedo di lasciare che io provi il mio salto. –

Arwen non era sicura di essersi espressa al meglio: ma se ci fosse stato bisogno di ulteriori spiegazioni avrebbe ritentato. Ancora.

- Riguardo alla sua ultima domanda, posso dire di comprendere i motivi per cui determinate parti dei luoghi della scuola siano state interdette alla maggior parte di noi. Ma il fatto che siano proibite, non implica che siano inaccessibili. Il divieto venne dalla premura di preservare gli inesperti, i più deboli, da verità e orrori che non sarebbero stati in grado di reggere: ma questo non toglie che chi sia in grado, invece, di misurarsi con tutto ciò, abbia il diritto di mettersi alla prova, qualora ne senta la necessità. Questo era a parer mio l’intento originario: Proteggere, non Rinchiudere. Poiché ciò non farebbe altro che creare un’invisibile gabbia per il genio e il coraggio così come lo si conosce in tutte le sue forme: il coraggio nell’agire e nello sperimentare, cosa che è alla base di ogni conoscenza, come ho precedentemente esposto. –

Arwen fremeva, gli occhi accesi di quella luce che solo il parlare delle proprie convinzioni può dare, e per questo ancora più belli. Si sentiva avvolgere in quello stesso fuoco che aveva attraversato lungo il corridoio: ma questa volta ne traeva forza, non languidi abbracci. Ritrovò di nuovo davanti a sé gli occhi verde brillante.

 
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view post Posted on 29/9/2010, 23:02
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Ecco, infine iniziava la grande recita. Lei avrebbe sparato esponenzialmente sempre più grosso, lui avrebbe annuito e sorriso per gran parte del tempo, sino ad un eventuale punto critico, con il ritorno al silenzio canonico. Ne aveva sentite così tante di buone scuse, chi per un motivo, chi per un altro, eppure tutti miravano solo e soltanto ad entrare in quell’angusto spazio. Era cominciata una danza, un gioco divertente, quanto inutile, eppure tutto era dovuto, e doveroso. Paradossalmente tutto il teatrino si reggeva su quelle pratiche, un minimo di imposizioni d’ufficio, che regolavano gli aspetti più delicati di quel mondo a parte, ed appartato, di Hogwarts. Il castello aveva una vita propria, gioiva e languiva insieme ai propri abitanti, di anno in anno, senza che nulla mai mutasse. Per ogni letto svuotato, ecco subito che giungeva un rimpiazzo. Ognuno dei molti, e dei tanti, reclamava la propria individualità, rapporti e comportamenti particolari, permessi e privilegi in ragion della propria genialità. I delusi urlavano allo scandalo, ed alla congiura, certi della propria incomprensione, cosa di più semplice? Stava proprio all’amministrazione riuscire ad inquadrare i più in precisi schemi, e ad agire di conseguenza. Cosa sarebbe successo altrimenti? Nuove procedure, e nuove decisioni per ogni studenti, sarebbe scappato in Asia in meno di due giorni. Una certezza matematica. Già così correva tutto il giorno, per diciotto ore, immaginarsi altrimenti! Ovviamente non prendeva nulla, quale novità. Ormai era diventata una mera scusante, per servirsi un The, in perfetta solitaria aria scozzese. Apparve poco lontano una serie di tazze, e ciotole, una fumante. Sorrise compiaciuto. Per una buona mezz’ora avrebbe accettato di buon grado quasi tutto, cosa non poteva il The?
Puntualmente annuì, confermando, sapeva già cosa doveva dire, e si era preparata una degna risposta in Dormitorio, ore se non giorni prima, era seguita una lunga elucubrazione, sino al fatidico momento. Aveva bussato alla porta, il punto di non ritorno. Era il nuovo orizzonte degli eventi, fatto quello, tutto si concentrava in parole concise, ma potenti, suasive, ma remissive, che spingessero la buon anima prescelta, a firmare con condiscendenza una benedetta quanto sudata pergamena. Fatto quello, grandi sorrisi, e sperticati complimenti sul più ed il meno, prima di sparire lesti ed agili come la notte. Ecco, Polisucco! Sicuramente meglio dei soliti incantesimi da quattro soldi, ma pur sempre una faccenda terribilmente pericolosa. Sorrise allegro, osservando assorto le spirali di vapore che si sprigionavano volutiformi dalla tazzina di The. Il cucchiaino ancora intatto, sul piattino, con una strana eleganza.


Capisco, intrigante metafora, immagino vi abbia riflettuto a lungo, no? Si lasci dire che son stato Studente anch’io, benchè possa sembrare strano, solo molto tempo fa, in parte capisco ancora le dinamiche che regolano queste faccende. Eppure da allora ho cambiato lato, una sottile quanto mai affascinante sottigliezza. Posso immaginare almeno in parte cosa stia pensando, senza dover ricorrere ad arti arcane, eppure siam qui, senza poi troppa fretta. Se fosse così semplice, credo non sarebbe nemmeno valsa la pena di venire, no? Detesto le banalità, se devo spendere del tempo per far qualcosa, è bene farla bene sin da subito, e togliersi quanto prima il pensiero.
Quindi, signorina Hariyn, lei è al I Anno, ed è una mia studentessa, almeno nella misura in cui è a Tassorosso, sbaglio? Avrebbe intenzione di dedicarsi con sana passione alla Pozione Polisucco, e sin qui, tutto a posto. Eppure, pur nel pieno della mia perfetta ignoranza, so dirle essere una pozione particolarmente lunga, e complessa, se non fosse anche solo per il ciclo lunare, no? In più la Polisucco ha il brutto vizio di portarsi dietro strascichi di sospetti, più o meno fondati, di volta in volta. Perchè la Polisucco? Domanda penso lecita. Come del resto è umano capire di non poter comprendere appieno anche solo il sapere di un singolo trattato, pensare poi al Reparto Proibito!
Ad ogni modo, si accomodi pure, ma attenzione alle pergamene, celano una meravigliosa Storia, preziosa quanto mai rara.


Cosa voleva farci una bambina, una giovane studentessa, delle parole di Voltaire, o Yourcenar? Cosa voleva fare della Pozione? Una faccenda interessante, quanto mai inaspettata. Tornò a sorridere, gaio, ed allegro, gli era sempre piaciuto ascoltare, anche meno che parlare. Era giovane, eppure molto andava osato. Sorseggiò un sorso di The, tornando a riappoggiare la tazzina, con maniacale precisione. Niente disastri!

Giusto, almeno questa è la linea ufficiale, ha ragione. Eppure credo non sia poi molto convincente, non trova? O almeno mi ha sempre dato quest’impressione. Non crede che dietro le apparenze si possano celare altri fatti? Altre considerazioni? I nostri Fondatori comprendevano incredibilmente bene i loro Discepoli, molto più che non noi oggi. Come del resto, le svelerò un’altra cosa, il reparto proibito viene spesso aggiornato nel corso del tempo, redatti nuovi elenchi, e nuove restrizioni. Quando io era ancora studente, moltissimi Libri ivi ora custoditi, erano nella sezione pubblica, e molti libri che erano lì allora presenti, sono ora stati trasferiti altrove. Temo con gran dispiacere dei Quattro Grandi.

Cosa ne avrebbe dedotto?
In quale modo avrebbe tratto le somme?
Le speculazioni sono il viatico dell’intelligenza.


 
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view post Posted on 1/10/2010, 01:40
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Arwen sedette, con deliberata lentezza, rivolgendo un cenno di ringraziamento al professore. Nessun gesto scomposto, nessun rumore. Di fatto, nessun vero cambiamento. Eppure, quell’atto aveva tutto un valore particolare per lei. Era come se il professore l’avesse invitata al suo simposio: le pergamene che ricoprivano il tavolo erano il banchetto delle loro menti, mentre essi stessi, in qualità di convitati, si esibivano in skòlia sulla bontà del sapere e in danze ancora prive del furore dionisiaco. Arwen coglieva in quella gentilezza, la volontà di porre la conversazione su di uno stesso livello, sì che la parola sarebbe stata l’unica vera protagonista, al di là del loro ruolo come professore e studentessa, al di là della forma stessa, prigione del significato. Ora erano seduti, l’uno di fronte all’altra, avvinti in un gioco d’astuzia e d’intelligenza.

Arwen sapeva che il professore si stava ancora chiedendo se stesse valendo la pena di perdere quella mezz’ora in sua compagnia: ma in fondo, poteva forse biasimarlo? Chissà quanti studenti prima di lei avevano tentato quella strada, tutti convinti, al di là di ogni ragionevole dubbio, di essere i primi, di essere speciali, di poter pretendere ciò che a malapena riuscivano a fermare come concetto nella mente. Come poteva azzardarsi lei a rivendicare una unicità che non poteva essere provata? Eppure non era importante: di certo Arwen non era lì per proclamare la sua genialità negandola agli altri. Chissà quanti errori, quanti permessi negati a chi li meritava e quanti concessi a chi pur proclamandosi pronto non lo era per niente! Tutto si riduceva alla dimostrazione del proprio grado di razionalità: poiché tutto ciò che non è razionale non è oggettivo, e ciò che non è oggettivo non è valutabile; e l’impossibilità di valutare correttamente ingenera errori che spesso portano ad un punto di non ritorno. Arwen aveva fiducia nella propria logica e in una valutazione positiva e corretta: non chiedeva di infrangere regole, ma di apprendere; non chiedeva privilegi, ma supporto per il suo percorso, che è personale per ogni studente; non chiedeva che le fosse riconosciuto, alla fine di quell’esame, un suo particolare e superiore genio, ma che le fosse permesso di provare a costruirlo a partire da ciò che la natura le aveva concesso. Cosa importava degli altri? Era lei ad essere lì, adesso: e il Reparto Proibito aveva quel significato solo per lei. Era il suo cuore, frenetico e palpitante, a tuonare nel suo petto. Nessun cuore, per quanto simile, in quel momento era uguale al suo. Così come non esistono due persone identiche. O con gli stessi obiettivi.

I pensieri di Arwen si rincorrevano veloci. Ad una prima impressione, il professore pareva chiedere molto. La stava mettendo alla prova. Indagava, con l’aria di chi si trova per caso ad intervenire in un discorso già avviato, gli occhi vivi dietro le lenti che contrastavano con la molle posa della mano, delicatamente avvolta, con finta noncuranza, attorno alla tazzina del The: un’eleganza quasi scomposta che invitava alla pacatezza e alla riflessione. Il vapore saliva dissolvendosi in enigmatici disegni e spandendo ovunque il suo delicato aroma, sì che la figura del vecchio pareva ancora più lontana dalla realtà, celata da una cortina opaca, non più che una proiezione della coscienza di Arwen stessa, la fastidiosa indesiderabile vocina interiore che le indicava gli ostacoli dove credeva che non ci fossero. Era terribilmente irritante: le pareva di essere finita in un racconto di Collodi. Solo che nel suo caso il Grillo Parlante e la Fata Turchina, colei che poteva realizzare il suo desiderio, erano la stessa persona: il professore. E non poteva neppure rivoltarsi contro il primo, perché di conseguenza avrebbe perso i benefici della seconda. Lui era tutto. Inizio e Fine. Alfa e Omega. Era insopportabilmente frustrante non poter decidere per sé autonomamente. Arwen avrebbe voluto scacciarlo, come una mosca molesta e inopportuna. Perché doveva essere così tranquillo, solare, calmo e… pungente? Non che questo trasparisse dalle sue parole: ma c’era qualcosa nelle sue domande che sfiorava a tratti la derisione.

Mentre il professore parlava, Arwen osservava un punto indefinito sulla scrivania, più o meno in corrispondenza della tazzina del The. Al termine del discorso, levò lo sguardo. Vide quella figura, alta, bianca, agile… e non riuscì ad arrabbiarsi. C’era qualcosa in quegli occhi brillanti che si conficcava come spina nell’anima: poteva essere lo sguardo di un bimbo, troppo piccolo per capire, ma che cercava disperatamente di comprendere quel che gli si andava dicendo. Sì, avrebbe capito, alla fine.


- Professore, comprendo perfettamente le sue ragioni nel chiedermi quale sia il mio proposito nell’imparare una Pozione complessa e pericolosa come la Polisucco. Immagino che questo valga per qualsiasi potente Incanto o Infuso. Di fatto l’unica motivazione che mi ha spinto verso di questa piuttosto che verso un’altra, a parte il fatto che i suoi tempi lunghi metteranno positivamente alla prova la mia determinazione, è l’idea che un’anima possa mutare il suo involucro senza subire alcun danno. Che magia straordinaria poter cambiare la forma ma non la sostanza! Eppure mi domando: si riuscirebbero a pensare le stesse cose una volta immersi nel punto di vista di un altro? Una cosa del genere costituisce un vantaggio o un ostacolo all’empatia? Cosa possiamo imparare dall’essere qualcun altro? Ogni Magia nelle mani sbagliate può divenire Oscura: ma se usata a fin di Bene e per amore della conoscenza, è più spesso uno strumento prezioso nelle mani appropriate. –

Un momento di pausa. Un respiro profondo. Quindi riprese.

- Riguardo al Reparto Proibito, io credo di comprendere in parte le paure che sono legate a quel luogo. Il timore che sorgano nuovi Signori Oscuri ha sempre costituito un deterrente verso l’apertura di tali spazi agli studenti, specie quelli più giovani la cui mente è spesso facilmente suggestionabile e suscettibile al fascino del Potere. Persino un libro, con le sue lusinghe e promesse, può erigersi a Demiurgo e plasmare la mente di chi lo legge e che si rende nudo e vulnerabile di fronte ad esso. È così facile abbandonarsi ai piaceri di una lettura che riempie la mente di storie di ricchezza e invincibilità: chi non ha sognato almeno una volta la gloria e l’invulnerabilità? I libri vengono spostati in base a ciò che, col passare del tempo, viene di volta in volta considerato “pericoloso”. Nulla lo è per sua natura: certo alcuni incantesimi sono più terribili di altri e hanno effetti devastanti; ma come ho già detto prima, non c’è Magia che non possa trovare il suo posto in una mente saggia ed equilibrata, anche se questa può scegliere poi di non farne mai uso. Tutto si riduce alla comprensione della vera natura di colui che si accinge ad imparare l’Incanto: è un po’ la storia dell’epica lotta tra il Bene e il Male. L’uno o l’altro? Spesso convivono nello stesso individuo: sta a quest’ultimo scegliere cosa seguire e che uso fare di quanto appreso. Lei, ora, potrebbe frugare dentro di me e cercare di carpire il mio essere più profondo per decidere se accordarmi o meno il permesso: ma non dimentichi che la mia anima potrebbe essere la sua, nessuno ha la certezza di cosa, anche dopo un certo numero di anni, essa potrebbe portarci a fare. Io credo che a volte, in questi casi, la Fiducia sia la migliore medicina: poiché quando si da Fiducia a qualcuno, quel qualcuno viene legato da un vincolo di coscienza che presto o tardi tornerà a farsi sentire. Mi dia Fiducia, Professore. –

Ora il suo sguardo brillava e le guance erano accese di un leggero rossore.

 
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Sorrise divertito prima osservando la giovane studentessa, poi sentendola parlare. C’era qualcosa di piacevole ed inquietante nell’ascoltarla, che avesse trovato una nuova letterata dopo tanto tempo? Tutto era possibile, tutto poteva accadere, eppure anche in quei tempi così tormentati, insicuri, ed infelici, qualcosa covava sotto la cenere, la Vita tornava a farsi sentire. Un urlo nella notte, un lamento, per richiamare l’attenzione del Mondo anche sulle piccolezze che ormai erano trascurate sempre più, in favore di inutilità ammantate di malfatta importanza. L’individualità di pochi reclamava la sua giusta attenzione, nella convinzione che in fondo non fossero tutti uguali. Chi aveva seminato la grande menzogna? Cosa si celava dietro quella costruzione della psiche, che rispondeva solo a se stessa? Erano tutti uguali, eppure non c’erano prove. Avevano tutti gli stessi diritti, ma di fatto pochi eletti continuavano a fare quello che volevano. La conoscenza era di tutti, eppure custodita da solo pochi. Se le contraddizioni non esistono, allora, qualcosa non quadrava. C’era un errore di fondo, un terribile errore, coperto da pochi, ignoto ai molti. Abbassò lo sguardo, pensieroso, afflitto improvvisamente dal peso di misteriosi pensieri, in fondo era solo un uomo, anche lui. Eppure era chiamato a far molto. Che in fondo avessero ragione Michelangelo, e Leonardo? Possibile che i Grandi del ‘500, l’avessero capita così in profondità? Avevano svelato uno dei Misteri del Mondo della Vita, improvvisamente l’illuminazione, che anche quel papiro stesse celando la stessa grande storia? Era quello che si celava tra i geroglifici, vecchi di migliaia di anni? Non poteva scoprirlo, almeno non subito. Eppure si era illuminato d’immenso, cercò il conforto della compagna di sempre, non lo trovò. Cercò allora il medaglione, incassato in profondità nel legno di una delle travi del soffitto. I sette raggi di un Sole pagano sembravano custodire l’armonia della stanza. La musica si fece più tormentata, stridente, un violino si era aggiunto, stava arrivando ad una, nella maniera più inaspettata. La giovane proseguiva il suo discorso, ignara come lui sino a pochi istanti prima di tutto un Mondo che gli si era improvvisamente svelato. La tazzina giaceva dimenticata, le dita strette intorno, spossate.

Ah, mia cara, questione interessante, affascinante, per quei pochi adepti che si pongono queste domande. Spesso è la domanda ad essere sostanziale, esistenziale se vuole, più che non la risposta. Un tempo le chiamavano Querelle, ormai son solo un ricordo. Immagino che le mie risposte non sarebbero sufficienti, sentirsi raccontare qualcosa, è decine di migliaia di volte meno utile che non provarlo. Spesso così nascono anche grandi delusioni, ma se non si facessero temo non sarebbe comunque una gran soluzione. Certo, si può vivere di mediocrità, una via abbracciata da molti, ma non sta a me giudicare, o decidere. Eppure un errore, comune, ma che potrebbe fare la differenza prima della fine, la Magia mia cara. La Magia è tutto, e niente, può essere uno strumento, nelle mani del più grande Stregone della Storia, ma sarà sempre lui a scegliere. Bene e Male sono intessuti di Magia, la forza palpitante, che senti scorrere, eppure la Magia non è nè l’uno, nè l’altro! La Magia è come l’ossigeno, la Vita, l’Eros, è una forza della Natura, è forse la Natura stessa, possiamo dire possa divenire malvagia, o benigna? Oscura o Chiara? La Magia è ben lungi dalla corruzione umana, almeno nel senso comune del termine. Ma è meglio evitare di entrare in merito alla cosa, esistono teorie, molto pericolose. Faccia conto che questo permesso non sia poi così rilevante, le speculazioni sono il sale dell’esistenza!

Parlava con pacatezza, mentre le parole facevano tutto il resto, pervase da quella forza palpitante, e misteriosa. Burrascose, irruente, potenti, inaspettate. Cosa avrebbe detto? Misterioso e sibillino si divertiva, giocando con il potere ora di questa, ora di quella parola. Era un gioco d’ingegni, nulla era lasciato al caso, nulla all’improvvisazione. Tutto era possibile, stava all’intelletto discernere quali fossero le speculazioni più vincenti, e quali meno. Non c’era mai niente di facile, e lo sapevano. Cosa avevano voluto dire i Fondatori? In quel loro linguaggio metaforico, ed aforismatico, che tanto avevano amato. Cosa si celava in bella vista, oltre qualsiasi lecito sospetto? Gli occhi si muovevano vivaci, in maniera controllata, fiammeggianti di ardore, e passione, mondata da un’incredibile aura inglese. Traspariva poco, quasi nulla. Lei lo sapeva? Poteva quanto meno immaginarlo. Un tempo quell’ufficio era stato occupato da altri, ivi si ripetevano ciclicamente scene simili. Hogwarts sapeva.

Bene, solo per il piacere di farlo, una volta tanto, speculiamo! Come penso saprà i nostri Quattro Maghi appartenevano alla loro epoca, in maniera perfetta, non erano troppo stravaganti, ne erano i maggiori esponenti. Capirà subito, quindi, che un’epoca come il Medioevo non potesse certo permettersi di lasciare molto al caso, no? Pensi ad una qualunque opera, artistica o letteraria, e le sarà subito chiaro che nel Medioevo tutto avesse un senso, più o meno preciso, più o meno esplicito. Hanno seminato indizi, lasciato un grande messaggio ai posteri, che ormai giace sotto il naso di tutti, dimenticato. La Magia è un’Arte delle più nobili, e pericolose, meno di quanto non lo fosse un tempo, più di molte altre ancora oggi. Solo i più meritevoli venivano scelti, personalmente dal loro Maestro, ed ammessi agli studi. E solo i più meritevoli dei meritevoli ne uscivano. Un Maestro poteva avere una dozzina di Apprendisti nel corso di una Vita, eppure uno solo di questi era degno di prender il posto del Maestro. Hogwarts è un castello, ma non solo, Sette Anni di insegnamento, non trova incredibilmente interessante questo numero? Sette. Hogwarts è un castello, certo, ma solo un Castello? È anche una Scuola, una Casa, una Fortezza, un Rifugio, un Inizio, se vuole un’Alfa, in previsione di un’Omega. Nulla è lasciato al caso. Non trova? Inizia a comprendere? Abbiamo una foresta, che già nel nome, è Proibita, perchè tenerla? Potremmo raderla al suolo, e costruirci una sala da The, magari. Abbiamo una Biblioteca, di cui una parte è appunto proibita, un caso? Si proteggono determinati saperi, nascondendoli, o sono gli altri ad essere difesi da questi saperi? Cosa volevano dirci davvero i Quattro?
Tutto è un cerchio, tutto ha inizio, ed una fine, eppure, siamo ad Hogwarts, non crede possa essere una differenza terribilmente rilevante? Io do fiducia a tutti, non ha di che preoccuparsi, chiunque ha diritto ad una Chance, e ad una seconda, forse ad una terza, ma son pur sempre io a decidere, come e perchè.
Son vecchio, mi piace pianificare, ho i miei pallini.
L’avrà già intuito.


Sorrise, solare, tornando a sorseggiare il The, quel dono del divino.
Cosa avrebbe raggiunto?
Dove sarebbe arrivata?

 
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view post Posted on 3/10/2010, 16:52
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Arwen sedeva, immobile, eppure era tesa da una forza misteriosa e irresistibile che la spingeva avanti, verso sviluppi ignoti e risposte in divenire: pareva protendersi, ancora cieca e inconsapevole, spoglia e ignorante come fosse appena venuta al mondo, verso un precipizio inesplorato. Chi avrebbe potuto dire se quel baratro era colmo e dunque innocuo, o vuoto e letale? Chi se era pieno di autentico, sicuro, salvifico sapere o della misera, avvizzita, dura vacuità dell’ignoranza travestita da conoscenza? A cosa l’avrebbe portata il salto che si accingeva a compiere, o il discorso che si accingeva ad intraprendere?

Arwen non riusciva a liberarsi della sensazione che ogni sua parola celasse una contraddizione rispetto alle parole del professore: come arrivare alla verità? Bisognava dunque credere nell’uguaglianza o nella diversità? Chi aveva ragione? Ma in fondo, c’era chi aveva ragione? Dopotutto, lo stesso Popper negò la validità del Principio di Non-Contraddizione aristotelico che stava alla base di tutti i nostri procedimenti razionali: "principio secondo il quale due asserzioni contradditorie non possono essere entrambe vere, ovvero un'asserzione consistente nella congiunzione di due asserzioni contradditorie, deve sempre essere respinta come falsa sul piano puramente logico". Popper concordava con i dialettici sul fatto che le contraddizioni fossero molto importanti per lo sviluppo del pensiero umano, poiché "senza le contraddizioni, senza la critica, non vi sarebbe alcun motivo razionale per cambiare le nostre teorie". Secondo il filosofo austriaco, infatti, non esistevano contraddizioni nel mondo reale, bensì soltanto nelle rappresentazioni che l'uomo si fa di esso. Proprio nel disconoscimento della fondamentale differenza esistente tra i contrasti e i conflitti che caratterizzano la realtà e le contraddizioni rilevabili nelle elaborazioni del pensiero umano starebbe, secondo Popper, l'errore fondamentale dei sostenitori del metodo dialettico. Lo stesso Hegel, a differenza di Cusano che poneva la contraddizione ad un livello mistico e trascendente, affermò invece che la contraddizione appartiene alla realtà in cui viviamo, ed è propria della dimensione razionale (non di quella intuitiva). Secondo Hegel, le contraddizioni che riscontriamo nel mondo troverebbero conciliazione nella Ragione Dialettica, attraverso i tre momenti della tesi, dell'antitesi e della sintesi. Non ci sarebbe quindi bisogno di rifarsi a un principio trascendente: bianco e nero, ad esempio, non scaturiscono da una superiore e comune Idea di Colore, ma scaturirebbero l'uno dall'altro. Perché dunque affannarsi nella pretesa di una verità dovuta, laddove tutti i punti di vista, per il fatto stesso di essere umani e non assoluti in quanto scaturiti da una mente terrena, avevano una loro ragion d’essere e una loro supposta attendibilità? Non poteva essere che avessero entrambi ragione, il professore con le sue idee di uguaglianza e la studentessa con le sue idee di diversità? Forse che l’Uomo non è allo stesso tempo diverso e uguale al suo simile? Non v’era una risposta certa ma infinite possibili: la Storia ci ha insegnato quanto ogni pensiero potesse infine risultare fallace. È per questo che l’Uomo si è dato delle Leggi e ha eretto a Giudice Supremo uno o più dei: ma la verità è che alla fine è sempre l’Uomo a decidere. L’Uomo, unico Giudice, Difensore e Accusatore di se stesso. Era per questo che spettava al professore decidere, colui che era stato innalzato a ruolo di guida dalle regole della scuola, ma che, alla fine, avrebbe dovuto tener conto non di un volere divino ma della sua imperscrutabile e imprescindibile coscienza. E c’era una certo disegno in tutto questo, una sottile bellezza nel modo in cui il destino dell’Uomo era stato riportato nelle sue mani dopo essere stato cacciato dall’Eden per la sete di conoscenza. Già il Peccato Originale divenne simbolo della disubbidienza dell’Uomo verso Dio nel voler decidere da solo cosa fosse Bene e cosa fosse Male. Bene e Male. Sempre la stessa questione che tornava , martellante, incalzante, riempiva la mente e non trovava soluzione. Anche questa era una finta contraddizione creata dal pensiero? Esistevano davvero il Bene e il Male? Convivevano o bisognava scegliere?

Il professore parlava: proponeva una nuova sintesi tra Bene e Male, un’origine comune, la Magia. L’idea era affascinante, inaspettata, semplice perfino. Ma poteva essere vera per tutti?


- Non le sembra, professore, di aver dimenticato l’ “altra” parte della società? Quel che lei dice della Magia ha radici profonde e veritiere, e io concordo pienamente col significato che attribuisce a questa forza arcana e primaria. Ma può la Magia assurgere a valore universale? Sicuramente non è in essa che la popolazione non-magica riporrebbe l’origine del Bene e del Male: preferirebbe piuttosto affidarsi alla Tuke o ad un dio supremo e invisibile. Certo potremmo identificare anche in questi un che di “magico” nella misura in cui sono entrambi qualcosa che va oltre la razionalità degli stessi Babbani. Ma ad ogni modo non avrebbero lo stesso significato che noi attribuiamo alla parola Magia, e se non hanno lo stesso significato allora sono cose diverse e distinte. La Magia è ossigeno, Vita, Eros… per noi: noi, maghi e streghe di ogni tempo, la rendiamo malvagia o benigna, oscura o chiara. Ma cosa importa di questo a chi non sa neppure dell’esistenza della Magia? Come può essere la forza palpitante di cui sono intessuti il Bene e il Male se Bene e Male sono concetti universalmente noti mentre la Magia non lo è? Non sarebbe una pretesa egocentrica e “menefreghista”? Forse non è compito dell’Uomo parlare di ciò che è Bene e ciò che è Male, forse non sta a lui dare loro una definizione. Ha ragione professore, la Magia è tutto… e niente. Tutto per noi, niente per gli altri. –

La discussione si faceva difficile, complessa. Le parole scorrevano dotate di una forza propria, perfino indipendente da chi le pronunciava. Il vortice ingigantiva, e loro stessi rischiavano di essere risucchiati da questioni più grandi di loro.

- Lei pone domande interessanti, professore. Ma il fatto che lo siano, non implica che ad ognuna vi sia risposta, o quanto meno, che io l’abbia.
Naturalmente il numero sette ha da sempre avuto significati molteplici e particolari: sette sono le classi di simmetria dei sistemi cristallini; sette sono il numero di bande di frequenza in cui viene convenzionalmente suddiviso lo spettro visibile; sette sono le grandezze fisiche di base; sette sono i cieli dell’antichità, ciascuno corrispondente ad un pianeta; sette sono i mari secondo l’antica suddivisione dei Greci; sette sono i continenti; sette sono le vertebre cervicali; sette è il primo numero per cui non si può dividere in parti esatte la base del sistema di numerazione; sette sono le virtù, i peccati capitali e i doni dello Spirito Santo nel Cristianesimo; sette sono le piaghe d’Egitto, i Sacramenti e i Sigilli la cui rottura annuncerà la fine del mondo; sette sono i saggi filosofi greci, gli storici Re di Roma, le Meraviglie del mondo antico; sette sono i metalli simbolici del percorso di trasmutazione alchemica; sette sono le arti liberali; sette sono i giorni della settimana e i mesi di trentuno giorni; sette sono le chiavi e le note musicali. E ancora si potrebbe continuare pressoché all’infinito. Tutto ciò naturalmente ha finito col conferire una grande valenza magica a questo numero: quale miglior modo di suggellare lunghi anni di faticoso insegnamento? Un insegnamento che trova la sua perfezione finale nel luogo stesso in cui ha avuto inizio: Hogwarts. Potrebbe essere definito un cerchio, come l’ha chiamato lei. E anche questo assumerebbe un significato di equilibrio e perfezione. Ma io credo che entrambi questi pregi derivino appunto dal perfetto connubio che i Quattro Fondatori riuscirono a stabilire tra Male e Bene all’interno del castello: Hogwarts è “equilibrata e perfetta” perché è pericolo e rifugio allo stesso tempo, e nessuna delle due parti prevarica sull’altra. E questo è fondamentale. Perché se così non fosse gli studenti conoscerebbero durante la loro formazione solo il Male o solo il Bene. Ci si potrebbe chiedere perché non lasciare che conoscano solo ed esclusivamente il Bene, eliminando la Foresta Proibita e il Reparto Proibito che potrebbero ingenerare confusione nelle menti. La risposta è nel fatto che l’uno non può esistere senza l’altro, il Male senza il Bene e viceversa. Se non ci fosse il concetto di Male, infatti, come si potrebbe capire cos’è il Bene? Tutto perderebbe valore e la confusione regnerebbe sovrana. Ogni studente deve compiere il suo percorso e le sue esperienze, nel Bene e nel Male. Sta ai professori e alle menti già salde e formate nelle proprie convinzioni indirizzare poi le scoperte dell’allievo verso una maggiore consapevolezza di sé, degli altri, di ciò che lo circonda, nel rispetto e nell’ideale di un mondo migliore. Non è in un mondo ovattato che si scopre e si affronta la realtà. –


Arwen era sicura delle sue parole. Ma cosa avrebbe risposto il professore?



Edited by Ârwen - 3/10/2010, 18:10
 
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view post Posted on 4/10/2010, 22:32
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Sorrise, in fondo si aspettava una replica di tal fatta, e portata, nulla di strano. I Babbani, come potevano pensarla a riguardo? Cos’era la Magia? E per i Babbani? Differenze sottili, eppure che facevano la differenza sostanziale, tra il tutto ed il niente. Giochi di parole? C’era un qualche senso? Doveva esserci un senso, un filo conduttore. La Magia era un valore universale? O solo una parola? Molti ne ignoravano l’esistenza, una gran bella differenza. Eppure c’era un piccolo dettaglio, che si annidava nei meandri del discorso, un verme solitario, che banchettava in pace, ridendosela allegro. Tutto era relativo, non v’era dubbio, come poteva un essere qualunque ed imperfetto, ergersi a Giudice di Tutto? Non poteva semplicemente, era abbastanza scontato. Eppure, c’era sempre un ma, la Magia era tutto quello, solo per loro? E non c’era forse qualcosa che travalicava tutto, ergendosi sì a valore assoluto? Stava divagando. Appoggiò tranquillo la tazza, al centro del suo piattino, attento alle carte, discutere era bene, ma anche evitare i disastri non guastava. Il suo bel papiro richiedeva languidamente attenzione, ma era stato dimenticato. La Magia era tutto e niente, cosa rappresentasse era una scelta, una libera e consapevole scelta.
Scelta che era anche per sua stessa natura valore universale, comun denominatore di tutte le razze, e di ogni essere umano. Magia, e Scelta. Si intrecciavano indissolubilmente alla Dicotomia regina, fortificandola, donandole nuovi significati, celati sino ad allora. Senza scelta, c’erano Bene e Male? Idealmente probabilmente sì, materialmente forse no. Era davvero una pretesa menefreghista? Si stava giocando uno scontro di menti, in barba al più comune buon senso. Era davvero importante che lo fosse o meno? Ci doveva essere una ragione, logica, perchè l’ignoto lo si elevava sempre al grado di divino? Era forse la sua inspiegabilità ad affascinare? La Magia poteva essere tutto quello, dov’era il problema? Comprendevano davvero la Magia?


Interessante punto, stiamo speculando, potrei sempre avere torto, non me ne stupirei in fondo. Come del resto potrebbe tranquillamente sbagliare lei. Il bello di discutere senza pregiudizi è proprio questo, ho le stesse probabilità teoriche di sbagliare, di lei. O se vuole, anche il contrario, poco importa. Beh, vede, a mio dire, temo sia stata dimenticata una componente essenziale dell’intera faccenda, l’architrave se vuole, immagino possa indovinare anche lei, quale e perchè.
Temo allora che la domanda più corretta sia: cos’è la Magia? Io le ho risposto, in tutta tranquillità, cosa credo sia, io, lei potrebbe tranquillamente obbiettare, dicendo che sia Forza Mentale? O magari il prodotto di altre forze? La derivata di una qualche congiunzione astrale? Il bello della Magia è che anche il più abile e potente dei Maghi pur sapendone infinitamente più di noi due, finirebbe con il saperne in proporzione meno di qualche decimo in più, che proporzionalmente sarebbe comunque un’infinità rispetto alle mie capacità attuali, ma meno che zero assolutamente. Comprende? Quando lei sostiene quanto sostiene, lo fa nella piena consapevolezza di parlare di qualcosa che non conosce, io, pur conoscendo qualcosa di più, son altresì consapevole di aver forse indagato, senza neanche aver compreso, meno di un centesimo del Campo Magia. Del resto, non posso certo farvi molto, ho fatto del mio meglio per tutto il tempo che ho avuto a disposizione, ma la mia ignoranza aumenta esponenzialmente con l’andare degli anni. Viene quindi spontaneo chiedersi cosa sappiano i Babbani, rispetto alla Magia, più di noi. Molto semplicemente sappiamo che esiste, mentre loro non lo danno del tutto per scontato. Certo, può anche essere vero, eppure, sa meglio di me che se anche non conosco una cosa, non è detto che essa non esista. Penso sia da assumere come pacifico, no? Appurato ciò, non abbiamo ancora detto molto. Potrebbe essere egocentrismo, anche menefreghismo, è vero, eppure sarebbe tale solo nel momento in cui decidessi di imporre il mio punto di vista, ad altri. Potrebbe anche darsi che diamo più nomi, a cose che sono per loro natura identiche. Solo che non siamo consci di tale uguaglianza. Che A sia sempre uguale ad A, non bisogna essere geniali per scoprirlo, no? Eppure se non sappiamo che è sempre A di cui si parla, la nostra assunzione perde di rilevanza.
La Magia è tutto e niente, e non è un gioco di parole, bensì un’asserzione di un certo peso.
La Scelta si aggira famelica per la stanza, siamo chiamati continuamente a scegliere, e non sempre lo facciamo. Scegliamo in continuazione, dalle cose più futili, alle più importanti, siam liberi di scegliere, in autonomia. Eppure eticamente le nostre scelte hanno un peso. Molti Babbani scelgono di credere alla Magia, magari leggendo un libro, nella sola speranza che sia vero, è forse Male? Se decidessi di credere che il Logos sia origine di tutto, la Magia potrebbe essere tranquillamente parte di questo tutto, e quindi anche permeare Bene e Male. Posso anche dire che la Magia non esista, e che il Male sia solo una privazione di Bene. Eppure siamo chiamati a scegliere, appunto, tra ciò che è giusto, e ciò che è facile, e badi bene, non sbagliato! Ed è qui tutta la differenza, io posso sapere che uscire da quella porta sia giusto, ma molto più facile uscire dalla finestra, evitando magari un pazzo armato d’ascia, che fare? Il giusto, o il facile? Nessuna delle due sarebbe sbagliata, la scelta apre la possibilità di più futuri, che si creano e distruggono continuamente. Lei è venuta da me, per accedere al reparto proibito, io le sto semplicemente dando i mezzi per comprendere a fondo la sua scelta. Ho deciso tra cosa è giusto, e cosa è facile. Non trova sarebbe stato più facile firmare, e licenziarla in pochi istanti felice, e contenta?


Ma di cosa stavano parlando? Il valore etico della scelta, dalla Pozione Polisucco. I percorsi mentali di una qualunque parola erano infiniti, come i possibili futuri. Vivevano davvero nel migliore dei mondi? O solo in quello che si erano scelti? E pur scelto che fosse, non era il risultato delle scelte di molti? Pertanto era davvero il migliore dei mondi, o solo il frutto dell’ennesimo compromesso? Del resto, era una mera questione di punti di vista. Non era più facile prendere una strada, piuttosto che un’altra, ma prendere comunque l’altra per un senso etico profondo e radicato nell’animo umano? Qualcosa di celava. Qualcosa di incomprensibile, folle. Ed Hogwarts era il centro di tutto. Hogwarts era sempre il centro. La giovane fanciulla aveva infine colto l’invito, aveva intrapreso il sentiero della comprensione, o almeno della ponderazione, il che era la differenza sostanziale, tra vivere attivamente, e passivamente il poco tempo concesso.
Sorrise, sollevato, raggiante. Le soddisfazioni prima o poi giungevano, com’era naturale, tutta una questione di tempistica, ed attesa. Nonchè di scelta.


Ecco, vede? Ha capito cosa volevo dirle, o meglio farle dire, lei ha appunto scelto di credere per pochi minuti a cosa volevo mostrarle, ha aperto una porta sul futuro, se vuole. Questa può essere la verità più bella ed assoluta, come la più placida delle menzogne, sta a noi scegliere che farne. Lei ha immagino dieci, undici Anni, è una giovane fanciulla, piena di aspettative, e progetti, sarà qui per i prossimi Sette Anni, ed è ben conscia del significato di questo numero. Sa anche cosa può rappresentare Hogwarts, dove Bene e Male si intrecciano, a più livelli di complessità, rivelandosi nella propria singolarità a più singoli. Il castello insegna a vivere, prepara al Mondo nel senso più alto del termine, non solo ad agitare inconvulsamente la Bacchetta, nella speranza che succeda qualcosa di più o meno previsto. Ad Hogwarts il cerchio si apre, e si chiude, chi in un modo, chi per un altro. Eppure, anche questa è una scelta, nella misura in cui lei è qui perchè qualcuno ha scelto per lei, nella misura anche in cui è frutto della scelta di Quattro Maghi, che avevano capito sin troppo bene la Magia, ed i meccanismi che la regolano. La Foresta, il Reparto, il Coprifuoco, Hogsmeade, sono tentazioni, studiate ad Arte, per insegnarvi qualcosa. Non crede? Come del resto anche in tutto questo c’è quanto le dicevo, ciò che è giusto, e ciò che è facile, non crede? Hogwarts può insegnare molto, noi facciamo la nostra parte, voi dovreste fare la vostra, è un patto, un’altra scelta. Anche qui tra ciò che è facile, e ciò che è giusto, pur restando tutto ben lungi dallo sbagliato.

Tornò a riafferrare il The, era tempo di concedersi un altro sorso. Parlare gli metteva sete, ed il The sembrava fare al caso suo.
Dove si sarebbe spinta ora?

 
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view post Posted on 5/10/2010, 14:29
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Il professore si stava spingendo lontano. Con la disinvoltura donatagli dall’esperienza, aveva portato il discorso sino ai limiti della conoscenza oltre i quali anche l’uomo più saggio, ma pur sempre uomo, perde il senso di ciò che è reale e ciò che non lo è. Eccola, la vera unica domanda: cos’era la Magia? Vita, Eros, Natura o Pura Forza Mentale? Un qualcosa di empirico o di astratto? Un Universo concreto o un’Idea metafisica? Era tangibile, comprovabile o una sfuggente essenza speculativa? Troppi dubbi, troppe alternative: ma la cosa peggiore era che qualunque cosa avessero detto non avrebbero mai potuto avere la certezza di essere nel giusto, poiché il significato primo della Magia stessa era a loro ignoto. Forse che avrebbero mai potuto pretendere di essere messi a parte di tutti i segreti che la compongono? L‘essenziale è invisibile agli occhi, aveva letto una volta. Persino di ciò che quotidianamente ci circonda non conosciamo spesso la legge che lo governa: quanto si è dovuto penare, e aspettare, prima che alla fine del diciassettesimo secolo Newton stabilisse la Legge di Gravitazione Universale responsabile sia della forza di caduta dei gravi sia della forza di attrazione tra pianeti! O prima che Einstein, con la teoria della relatività generale, stabilisse la connessione tra campo gravitazionale e struttura dello spazio-tempo! E ancora vi sono incognite, verità negate al semplice intelletto umano che è esso stesso frutto della Natura e della sua evoluzione: come può l’Uomo comprendere il Tutto se è esso stesso parte del Tutto? Il fatto che la nostra Γαλαξίας non sia per l’osservatore nulla più che la debole banda luminosa biancastra e dall’aspetto lattiginoso che attraversa diagonalmente la sfera celeste, non vuol dire che essa non sia in realtà un qualcosa di più grande e inaspettato, tanto da inglobare noi stessi come infinitesima parte di sé: di fatto la verità ci è solo parzialmente visibile e quasi del tutto invisibile perché il nostro punto di vista, per il fatto stesso di essere ciò che siamo, è limitato e fallace. Ma allora come pretendere di dare una definizione alla Magia se non siamo in grado di definire neppure noi stessi? Aveva ragione il professore quando retoricamente chiedeva se fossero in grado di comprenderla davvero? Anche se la Magia fosse stata realmente ciò che il professore aveva definito, non l’avrebbero ugualmente saputo: ma allora perché affannarsi a definirla? L’Uomo ha da sempre sentito il fascino di ciò che andava al di là della sua sfera di sapere: ha indagato, faticato, venduto la sua anima per questo, come immaginariamente ma significativamente aveva fatto Faust il quale, nella sua continua ricerca di conoscenze avanzate o proibite delle cose materiali, aveva invocato il diavolo (rappresentato da Mefistofele), che si offrì di servirlo per un periodo di tempo, in tutto ventiquattro anni, e che al prezzo della sua anima gli avrebbe consentito la conoscenza assoluta. Follia, ecco cos’era. Il fascino dell’ignoto, che assumeva nella mente l’irresistibile forma di un sapere universale grazie al quale tutto è possibile, era un virus letale che intaccava gli organi vitali, impossessandosi del cervello e sostituendosi al cuore: "Knowledge is power, not mere argument or ornament", disse Bacone. Ma perché l’Uomo è attratto da ciò che, essendo molto più grande di lui, può finire con lo schiacciarlo? Strano è il circolo vizioso che lega questa effimera creatura al suo destino, e il suo destino all’indagine della Natura, e la Natura all’Uomo. La Magia dunque poteva essere tutto…e niente. Ma non potevano saperlo. Si trattava di una Scelta, come il professore aveva detto. Credere che fosse l’uno o l’altro. E nessuno poteva essere certo che la propria scelta sarebbe stata migliore, o diversa: se non c’era verità poteva forse esserci l’errore? Così come prima aveva professato che senza Male non potesse esserci Bene? E se non c’era la certezza di cosa fosse il Tutto e cosa il Niente, poteva forse essere considerata concreta la diversità tra le due scelte? Non fu Shakespeare a dire "What's in a name? That which we call a rose / By any other name would smell as sweet."?
Dunque tutto alla fine poteva e non poteva essere?
Sicuramente affermare una cosa del genere era un enorme rischio: poiché se ogni certezza fosse decaduta sarebbero rimaste solo confusione e distruzione. Il problema era che non sempre scegliere di credere o di non credere erano scelte giuste o facili. Chi poteva dire che una cosa facile non potesse essere anche giusta? Non è forse vero che spesso è nella semplicità che si nasconde la scelta migliore? Non che questo fosse sempre valido: l’esempio del professore lo dimostrava. Ma perché dividere per assunto il giusto dal facile? Nulla è sbagliato, perché tutto viene compiuto secondo un criterio che è personale e agli altri oscuro. Ma se tutto dunque ha una sua ragion d’essere, non sarebbe stato più corretto riporre il Facile e il Non- Facile, come corrette alternative, entrambe nella più ampia categoria del Giusto? In tal modo, la sua stessa scelta di discutere col professore prima di stringere nella mano il permesso richiesto sarebbe stata considerata come una Scelta Giusta ma Non-Facile. Anche la scelta di credere nella Magia sarebbe stata una Scelta ad ogni modo Giusta, Non-Facile per alcuni, Facile per altri. Se non vi fosse stato alcun pazzo armato d’ascia dietro la porta, la scelta di uscire da lì sarebbe stata Giusta e Facile.
La cosa importante, è che ogni Scelta è sempre dell’Uomo, unico Limite di se stesso.


- Le sue parole, professore, nascondono molteplici significati: quel che più mi colpisce, tuttavia, è la grande relatività di cui parla, la questione della “scelta”. Concordo con lei nell’impossibilità di dare una definizione che possa anche solo lontanamente avvicinarsi alla verità di ciò che effettivamente è la Magia, entità ignota e per gran parte negata all’intelletto umano. E lo stesso vale per ogni altra cosa, se è vero che il nostro sapere è sempre limitato, per quanto vasto, in ogni campo. Ma ora mi chiedo: se ciò è vero, in cosa possiamo riporre le nostre certezze? Se l’Uomo allo stesso tempo ha e non ha potere, nella scelta come in qualsiasi altra cosa, a cosa deve credere infine? Dire che qualcosa è tutto e niente, come lei ha detto, non costituisce una violenza alla nostra stessa razionalità? Cartesio avrebbe detto che “Dubium sapientiae initium”, e dalla distruzione provocata dal genio maligno avrebbe ricavato il suo “Cogito ergo sum”; ma come i suoi successivi critici avrebbero ricordato, può anche solo questo costituire una certezza? E se non lo fosse, che rimarrebbe del nostro mondo? Né un’idea di Male, né di Bene, né di Giusto, né di Facile, né di Magia. Lei crede che la ragione sia di tutti e di nessuno: io posso capire questo; ma è tremendamente rischioso, non trova? Io non so se questo è il migliore dei mondi possibili: ma tutto potrebbe diventare un ironico paradosso come nel Candide di Voltaire. L’equilibrio su cui si regge è sottile e instabile, le nostre speculazioni lo dimostrano.
E poi c’è la questione della Scelta: Giusta, Facile… Cosa significa? Perché dividere? Non sono in contrapposizione: sarebbe più corretto scindere il Facile dal Non-Facile partendo dal presupposto che tutto sia Giusto perché niente è almeno in principio Sbagliato. Così è per la Magia, così è per la nostra discussione, così è per la scelta ipotizzata dal suo esempio. –


In quel momento Arwen era puro pensiero: l’universo si spalancava nella sua mente con infinite possibilità. Se era vero che gli occhi erano lo specchio dell’anima, ci si sarebbe ora potuti perdere nelle profondità del suo sguardo.
Il professore aveva sorriso e il suo discorso aveva gratificato i suoi sforzi. Sì, aveva capito.


- Sono contenta di essere riuscita a comprendere almeno in parte le sue parole, o a creare i collegamenti verso i quali mi spingeva. Sì, Hogwarts è tutto questo, e sicuramente molto di più. È la palestra dell’individuo, come corpo e come mente. È così…o possiamo credere che sia così: dopotutto, abbiamo visto che in fondo non fa poi molta differenza visto e considerato che alla fine è sempre l’Uomo a decidere per sé. La Scelta di un Patto…è Giusta e Non-Facile. Ma a prescindere dalla speculazione, io credo che sia fondamentale: alla fine di tutto, infatti, la Forza dell’Uomo è proprio nella sua capacità di creare relazioni e di accrescersi grazie allo scambio. Egli è Animale Sociale e allo stesso tempo Egoista: un altro fragile equilibrio.-

E ora?

 
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view post Posted on 5/10/2010, 21:53
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Osservava divertito la giovane studentessa riflettere, prima di rigettarsi nella calca dell’arena, tutto era così bello, ma instabile. Una giovane fanciullini, angelica, che rifletteva su quanto lentamente stava emergendo, in maniera del tutto insperata, ed inaspettata. A cosa sarebbero giunti? Probabilmente a non molto, ma era solo un dettaglio, cosa poteva importare? Con ogni probabilità le lezioni più importanti si apprendevano non a lezione, ironia della sorte, ma così andavano le cose. Un destino ineluttabile, tutto era imprevedibile, andava fuori anche dalle più accurate previsioni, faceva sballare i conti, portando una ventata di instabilità, terribilmente pericolosa, ma fertile. L’inaspettato sconvolgeva quanto incontrava. Che fare? Uccidere la Tuke? Senza Tuke che vita sarebbe stata? Ed il problema era proprio lì, cos’era la Vita? Cosa le dava senso e colore? Tutto e niente. Il più grande degli accadimenti poteva anche non essere nemmeno lontanamente rilevante a livello personale che non la più idiota delle considerazioni. Il livello logico, ed emozionale entravano di continuo in conflitto, costante, inscindibile, eppure la logica veniva costantemente umiliata, calpestata. Che fare? Era inevitabile per certi versi. Eppure la Scelta non per quello perdeva di senso, o importanza. Tutto stava nella scelta, ma come funzione della Vita stessa, una Scelta senza peso non era una scelta, cos’era? Un gioco logico, privo di senso, privo di significato. Una mera speculazione. Tutto veniva ridotto semplicemente all’orizzonte degli eventi del singolo individuo, il resto era troppo lontano e distante per essere anche solo calcolato. Qualcosa di sfuggevole, ed astratto. In tutto quello, in cosa credere? In quale certezza? Una gran bella domanda, se tutto era relativo, cosa restava di certo? Nulla. Credere nel nulla era una soluzione? Altra faccenda terribilmente pericolosa. Eppure anche qui c’era la Scelta, con la sua rilevanza. La razionalità era gabbata, provocata per sbottonarsi, far emergere i problemi, e trovare una sorta di morale provvisoria magari? Cartesio aveva le sue idee, eppure era stato tranquillamente confutato in pochi anni. Che soluzione era se non durava neanche una generazione? Infiacchita, ed indebolita era infine morta per stanchezza, e stenti. Quanto fosse rischioso tutto quello neanche lui lo comprendeva appieno. Perchè poi dividere la scelta, giusta e facile, perchè facile? Se non era ingiusta per assunto, poteva essere giusta e difficile? Ma il giusto non era il più delle volte anche difficile? Sorrise, perplesso, ma divertito. Lo divertivano quei discorsi, chi gliel’aveva mandata? Quale Divinità sconosciuta, ed orbata? Quale disegno si celava dietro quella visita? Che il cielo gli stesse dicendo qualcosa, che non capiva?

Ah, mia cara, domande affascinanti, un gran peccato sarebbe trovare le risposte, ma fortunatamente siam ben lungi dal farlo. Lei dice relatività. Ed ha ragione, il relativismo è un gran problema, il cancro del sapere di ogni tempo, gente migliore di me ci è cascata in pieno, e non ne è più uscita. Se non so niente, di cosa vivo? Di cosa mi fido? Cosa faccio?
Un gran bel problema, che parrebbe non avere grandi soluzioni. Il nostro caro Renato ha tentato di bypassare il problema, ma temo i risultati non siano stati dei migliori, non trova? È un problema un po’ troppo grosso, per essere anche solo momentaneamente accantonato. Prima o poi son chiamato a decidere, a scegliere se vuole, e mi consente.
Che fare?
Ed è proprio qui il nocciolo fondamentale del valore etico che possa assumere la Scelta, capisce? Se non scelgo, non vivo, se non vivo, tutto non ha senso. Presto o tardi son chiamato ad operare la mia scelta, e non posso mentire a me stesso, altra essenzialità del problema. In un dato momento, mi trovo al bivio esistenziale, che fare? Come avrà già capito la mia scelta ricadrà sistematicamente tra Bene e Male. Origine stessa del Mondo della Vita, il cerchio si chiude mia cara. Io non so, ma devo scegliere. E l’eticità della mia Scelta sta proprio tra cosa scelgo, tra ciò che è facile, e ciò che è giusto. Ma facile e giusto, tutto il resto è solo provocazione alla nostra razionalità, per spingerci a scegliere. Del resto non vorrà neanche farmi credere che scegliamo con raziocinio, no? Se così fosse, non esisterebbe neanche la Vita, in quanto il Male non esisterebbe. Io decido, in base a quanto so, a quanto decido di voler credere, è una decisione arbitraria, siamo noi elevati a giudici di noi stessi. Gli altri non contano nulla, io devo scegliere, io scelgo. Volente o nolente, in un modo o nell’altro scelgo, e fine. Avrà anche capito che ciò che è giusto, è Bene, e ciò che è facile, è Male, la Storia lo dimostra, ma ha importanza? Eticamente la mia decisione è capitale, di fatto non lo è, a chi ne rispondo, se non a me stesso? Nulla è sbagliato, ne è proprio certa? Assumere questo è ancora più pericoloso che non credere in un sapere relativistico.
Pensi alle implicazioni!
Nulla è sbagliato, posso tutto.
Ed è giusto?
Io posso assumere quello che voglio, è vero, devo risponderne a me stesso. E credo, in tutta onestà, che i primi a cercare di spiegare tutto, forse siano stati anche i più brillanti, nel trovare una qualche soluzione. Platonicamente assumo che esista un’idea immutabile di ciò in cui credo, e quindi di Bene o Male, e di conseguenza del suo opposto, Aristotelicamente assumo che vi sia un Logos demiurgo, e quindi credendo in lui, posso anche credere nelle sue parti. Non crede forse in Dante? Dante è una risposta alla sua domanda, molto semplicemente. Capisce?


Dante, stranamente Dante poteva essere la risposta a tutto, ma era poi così strano? Dante era Dante, bastava pensare all’Ulisse, il filo dell’opera, Ulisse ed il suo rapporto con il mondo. E se tutto era così importante, se l’eticità insita nella Scelta era così importante, perchè non tutti sceglievano bene? Era giusto scegliere il giusto, ma anche bene? L’Uomo, la grande pietra dello scandalo, era sempre l’uomo, c’era soluzione? Si viveva di equilibri, precari, instabili, tra Socialismo, ed Egoismo, era l’animale sociale per eccellenza, ma anche il più egoista degli animali, incoerenza? Poteva anche darsi. O forse più semplicemente natural indole.

Hogwarts, un cerchio più interno all’altro, una serie di cerchi concentrici, tutto converge, i conti tornano. Eppure vivere non è certo facile, non c’è mai nulla di facile, una triste verità. La nostra scelta oscilla tra questi due valori se vuole, posso decidere di non vivere, e scegliere ciò che è facile, ma anche ciò che è giusto, e reclamare interamente i miei diritti nei confronti del Mondo della Vita. Nulla è scontato. Pur scegliendo ciò che è giusto, son sempre estremamente riconoscente anche a chi sceglie il facile, pensi senza di loro! Se tutti scegliessero il Bene, senza il Male, esisterebbe la Vita? E del resto, caso vuole, che stessi proprio leggendo di questo, pensi un po’, ironia della sorte! Un gran sacerdote di Amon, discute allegramente del valore che possa assumere la Scelta. Potrebbe voler dire tutto, e niente, anche questo. Del resto l’uomo nella sua incoerenza, conserva una certa coerenza di fondo.

Coerente, ma incoerente.
Cosa avrebbe scelto?
Quando sarebbe arrivato il momento?

 
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view post Posted on 7/10/2010, 16:43
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- Non pretendo, professore, di saper scegliere con raziocinio. Sarebbe una pretesa assurda dal momento che io per prima non posso scindermi dalla mia soggettività o estraniarmi dal mio corpo: e per il fatto stesso che ciò non è possibile, per il fatto stesso che la mia razionalità convive con la mia soggettività irrazionale, non posso vantare un’oggettività o una capacità di giudizio imperscrutabile. Di fatto, qualsiasi decisione io prenda, essa è sempre il frutto di una conclusione personale, istintiva per così dire: alla fine decidiamo sempre in base a ciò che sentiamo o che vogliamo o che gli altri si aspettano da noi. L’idea può essere maturata spontaneamente o essere stata condizionata da agenti esterni: una parola, un gesto, una situazione; ma qualunque sia la sua origine, è sempre la mente di colui che la possiede ad elaborarla e a renderla propria fino a permetterle di concretizzarsi o meno. È qui che subentra la Scelta, ancora una volta. E pur tuttavia ognuno al momento di scegliere è solo con se stesso. Con ciò non intendo dire che non possa esistere una qualche forma di razionalità: ma è la nostra stessa natura di Uomini che ci impedisce di farne un uso oggettivo e concreto. La verità è che non sappiamo cosa sia la Pura Razionalità perché noi non siamo Puro Intelletto ma anche Corpo.
Io credo che il problema principale sia proprio nella questione dell’Eticità: non sono d’accordo, professore, quando associa il Giusto al Bene e il Facile al Male. E neppure ho detto che “nulla è sbagliato”: io ho espresso l’opinione che tutto sia paradossalmente Giusto perché “niente è almeno in principio Sbagliato”. Nessuno infatti può mai essere convinto di agire in errore: e se anche ne fosse consapevole, nel suo cuore porrebbe innanzi le ragioni che considera giuste, sì che gli risulti moralmente corretto portare a compimento quel che sta facendo, fosse anche in visione di un bene superiore: l’importante è mettere a tacere la coscienza. Forse che lei pensa di essere esente da peccato o difetto? Lei agisce come crede, nel migliore dei modi possibili e, se vogliamo, per creare il migliore dei mondi possibili: eppure qualcun altro considererà tremendamente sconveniente e fallace il suo punto di vista, semplicemente perché non è lei, non pensa le stesse cose, non ripercorre gli stessi luoghi, non vede le stesse situazioni né compie le stesse azioni. Se io le dicessi che per me tutto quel che dice è falso, nulla più che un terribile errore? Potrebbe contraddirmi, forse anche convincermi, ma nel profondo continuerei a coltivare la mia idea, mia soltanto, e con il silenzio e la tranquillità donate dal tempo forse essa rinvigorirebbe e tornerebbe, alla fine, fortificata dagli anni, come sequoia millenaria; oppure rimarrebbe sepolta, silente, ma pur sempre pericolosamente presente. Non si può estirpare un’idea: essa rimarrà, nell’inconscio, dove la razionalità non può raggiungerla, dove è protetta dal senso di onnipotenza che in fondo ciascuno nutre dentro di sé. Tutto è possibile? Quel che per un uomo è follia, per un altro è certezza: forse che non chiamarono visionari i grandi conquistatori del passato, Cesare o Alessandro che passò alla storia come Magno? Forse che non dissero che mai l’Uomo avrebbe volato come uccello o solcato gli abissi come pesce? La domanda non è se tutto questo sia Giusto: la domanda è se sia Bene. E se stessimo forzando la nostra evoluzione o i motivi della nostra creazione? Ne abbiamo davvero il Diritto? Giusto e Sbagliato non esistono: da chi sarò giudicata se non da un altro misero e fallace mortale? Esiste davvero un Dio che mi fulminerà e mi consegnerà all’Inferno se dovessi peccare? Esistono invece Bene e Male anche se non sempre è lecito comprenderli: esistono nella misura in cui siamo in grado di attribuire loro un valore che va al di la della nostra finitezza e di cui siamo in grado di percepire la costante presenza. Bene e Male sono le Idee per eccellenza, oltre la soggettività umana. Se facessi parte di una setta atta a combattere i Mangiamorte, penserei di essere nel Giusto; ma se facessi parte dei Mangiamorte, penserei ugualmente di essere nel Giusto. È forse possibile? La questione non è se tutto lo possa essere. La questione è nell’individuare la contraddizione che è alla base di ciò: e il fatto stesso che vi sia contraddizione implica che sia probabile, seppur non matematicamente certo, che una delle due parti sia nel Bene e l’altra nel Male. Ma possiamo noi sapere quale? Ripeto, Giusto e Sbagliato non esistono, perché sono percezioni meramente umane: a ognuno la sua scelta appare Giusta; Male e Bene invece esistono nella misura in cui sappiamo della loro esistenza per via delle contraddizioni: su di loro, tuttavia, non è possibile alcuna conoscenza certa. In cosa sta dunque la nostra Eticità? L’Etica viene normalmente definita come quella branca della filosofia che studia i fondamenti oggettivi e razionali che permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status deontico ovvero distinguerli in buoni, giusti, o moralmente leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti cattivi o moralmente inappropriati. Da notare come in tale definizione rientrino le locuzioni “moralmente leciti” e “comportamenti ritenuti cattivi o moralmente inappropriati”: è sempre l’Uomo a decidere. L’Uomo decide cosa è Giusto e cosa è Sbagliato in base a leggi di cui talvolta neppure si ricorda l’origine: l’Uomo pretende di sapere persino cosa universalmente è Bene e Male e punisce il suo simile in base a un concetto di cui non può neppure sapere la Verità. L’Etica umana è nata solo per porre ordine in un mondo che altrimenti non avrebbe saputo governare: una scusa atta a giustificare le azioni dei più o a condannare quelle degli altri. Chi ha dato le Leggi che governano l’Etica se non l’Uomo stesso? E non è forse vero che queste sono state modificate nel corso del tempo per venire incontro ai suoi stessi bisogni? Poteva davvero essere violata in tal modo una cosa così Sacra, forse che si possono modificare a proprio piacimento le fondamenta su cui poggiano valori universali quali quelli del Bene e del Male che sono al di là dell’Uomo stesso? No, l’Uomo non sa veramente cosa siano Male e Bene: conosce solo ciò che egli stesso ha classificato come Giusto e Sbagliato, senza neppure rendersi conto che ognuno agisce sempre credendo di aver ragione, cosa che di fatto nega il concetto di Sbagliato. La Scelta è sempre una questione umana… eppure anche questa può essere considerata per certi versi un’illusione: in fondo, viste le cose come stanno, a cosa si riduce la nostra Scelta? E nonostante tutto, non nego che essa abbia un significato profondo per l’Uomo, quasi assurgesse a simbolo della sua Libertà. Grazie ad essa la sua vita acquista un Senso là dove egli non era in grado di trovarlo. Di fatto l’Uomo colma in questo modo l’impossibilità di saper discernere il Bene dal Male illudendosi di poter ancora optare per uno dei due. Egli compie continue Scelte e ogni bivio si riduce alla domanda primaria.
Ma è poi così importante la conoscenza? Dante condanna Ulisse, simbolo della ricerca del sapere, all’Inferno nell’ottava bolgia, tra i consiglieri fraudolenti, ma quello che emerge con maggior forza nel canto XXVI è il racconto dell’ultima, estrema impresa di Ulisse: il “folle volo” oltre le Colonne d’Ercole. Per il poeta medievale l’impresa di Ulisse rappresenta di fatto la violazione delle leggi divine, lui che si è spinto in quella parte del mondo negata ai viventi dove l’unica terra emersa è la montagna del Purgatorio. Di certo Dante, allora, non poteva supporre che non molti anni dopo la sua morte l’Oceano al di là delle Colonne d’Ercole sarebbe stato navigato. Eppure già quella era una condanna sofferta: egli sente quel che di grandioso vi può essere nell’impresa di Ulisse ma è costretto comunque a condannarlo: la Sapienza, se non è rivolta a Dio, è stoltezza, è superbia; e per questo Ulisse non si trova tra coloro che seguirono le giuste vie della Sapienza. Dunque, “ieri” Ulisse era un empio e un folle, “oggi” è l’eroe, il simbolo, colui che instancabilmente cerca nuove strade e sposta in continuazione i traguardi di quel suo inarrestabile e metaforico viaggio verso ciò che è ancora sconosciuto. Chi ha ragione? Dov’è il Male? Dove il Bene? Dante divise Inferno e Paradiso e vi pose perfino una via di mezzo, il Purgatorio: egli diede una visione del dualismo fondamentale facendo affondare le sue radici nell’identificazione del Bene con Dio. Per contrapposizione, Lucifero, l’angelo caduto, è immerso in un lago ghiacciato come segno di morte e chiusura assoluta a Dio, nelle tenebre a simbolo di ottusità e irrazionalità, inerte e pesante a simbolo del suo “non essere” opposto alla leggerezza dello spirito e dell’intelligenza. Lucifero è il Male, dunque. Ma può essere che l’Uomo creda in questi esseri divini eppure razionalmente leggendari? Che tutto sia così semplice? Forse mi sta dicendo di credere in un ordine superiore? Non capisco, dov’è la mia risposta, professore? –


Arwen parlava, parlava, non riusciva a smettere. E più parlava, più sentiva in lei crescere l’avidità del sapere. Che ironia che stesse discutendo proprio del fatto se ciò fosse giusto o meno! Non era in fondo diversa dagli altri Uomini: ma neppure pretendeva di esserlo. Quante contraddizioni! Esplodevano nella mente risvegliando a catena nuovi inafferrabili concetti. E tutto si sommava, domanda su domanda, mentre l’agonia per una risposta si faceva più acuta. Perché non smettere? Ora, subito? Prima o poi qualcun altro avrebbe tirato fuori i loro stessi discorsi e chissà, sarebbe arrivato a nuove soluzioni, o alle stesse. Perché preoccuparsene?
Il professore ascoltava, osservava, rifletteva: ad Arwen pareva quasi di sentire la sua mente lavorare operosa, agile, vigile, dietro l’alta fronte. Che fragile visione! Cosa sarebbe rimasto di tutto quello alla loro morte? Scomparsi loro, sarebbe svanito di quelle parole e di quei pensieri anche il ricordo.


- Interessante davvero il suo scritto, professore. Ora mi spiego la premura nei suoi confronti. Io non so se posso, ma dal momento che lei ne ha parlato… posso chiederle qual è la definizione che il sacerdote da alla Scelta? –

Forse si era spinta troppo in là: ma prepotente le tornò il pensiero che aveva avuto entrando. Condividere quei segreti…eppure, senza volerlo, ne stavano già parlando.
Per un momento le tornò in mente anche un’altra immagine: un volto sfigurato da una lacrima provocata da una venatura del legno. E il dolore? Come classificare il dolore? Un Bene o un Male? Era una Scelta subirlo o provocarlo. Ma aveva una natura così indefinita, il dolore!
Quante, quante questioni…!

 
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view post Posted on 9/10/2010, 14:55
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Ecco che ricominciava, una risposta che aveva anche l’aria di essere più spinosa, e meditata del solito. Stava riprendendo irruenza, forza, carica, qualcosa di inatteso, un vigore mascolino, maturo, intellettuale. Chi era quella giovane fanciulla? Da dove veniva? Possibile che in realtà fosse solo la Magia del papiro? Che si fosse attivato qualche insperato meccanismo? L’imprevisto imprevedibile! Poteva avere del resto undici anni? Era semplicemente ridicolo, all’età di sessant’anni discuteva amabilmente di Magia ed etica con una giovane studentessa del I Anno. O stava diventando più sui generis del solito, o qualcosa non poteva quadrare. Cosa non andava, e cosa fare? Che destino, o papiro gli stessero parlando? C’era qualcosa dietro l’intera faccenda? Taceva, ascoltando la giovane mente all’opera, irruente, cosa era giusto? Cosa era facile? Ma perchè giusto e facile, era un mistero. Nulla era almeno in origine sbagliato, ma non stavano parlando del piano ideale, o forse sì? Chi aveva ragione, e chi torto? Ma qualcuno aveva ragione? Come convivere senza impazzire tanto a lungo con quei dubbi? Scegliere di pura ragione, era impossibile, sin lì non poteva che pioverci, ma poi tutto si complicava, speculazioni complesse, come ne sarebbe uscito? Qualcosa doveva esserci dietro, la falla c’era in ogni piano, pur perfetto che fosse. Del resto i meccanismi di difesa e discolpa erano noti ormai da almeno due secoli, il cervello automaticamente attivava difese psicologiche potenti, distorcendo la realtà dei fatti, dai piccoli dettagli, ai fatti più rilevanti. Eticamente, forse stava proprio lì il punto, si voleva fare dell’etica qualcosa che non era per sua volontà. Era l’etica oggettivamente accettabile? O forse era solo il risultato elaborato dall’uomo? Eticamente si potevano fare molte cose, realmente molte di più, ma quante erano giuste, e quante sbagliate? L’etica per prima rompeva l’equilibrio, bandendo molti, ed accettando pochi. Eppure era vero, la mente e le proprie idee erano l’ultimo dei santuari, forse il più sacro ed inviolabile. Era difficile far cambiare idea a qualcuno. Lo sapeva sin troppo bene, ma aveva una discreta esperienza al riguardo. Il Bene superiore era sempre stato una gran scusa, che obbiettare? Ecco, cosa era Bene? Cosa era Male? Avevano il diritto di fare quello che facevano, era legittimo farlo? Eticamente era tutto accettabile? Bene, e Male, Ordine e DE, chi aveva ragione? Chi era il Bene, e chi il Male? Anche lì era solo punto di vista? L’etica umana era frutto dell’uomo, come tutto il resto, eppure era pur sempre una ricerca deontica, avendo fede nell’eticità di un’azione, l’uomo ne era trascinato fuori, spettatore di uno spettacolo inaspettato. Come poteva elevarsi a Dio? La scelta dava senso ad una vita che andava vissuta. Poteva anche essere vero, Dante condannava Ulisse perchè il suo tempo lo imponeva. Ulisse da folle, era stato elevato ad eroe, era Bene? Dove sarebbero finiti? La domanda quindi si riassumeva semplicemente in cosa credere? Cosa era razionalmente accettabile, e credibile? Dov’era la risposta? Una domanda che rimbombava tra gli eoni del tempo, rinforzandosi, risucchiando forza e vigore a quanto la circondava. Un urlo disperato, dell’uomo di ogni tempo. Dove stava la Verità? Esisteva? Sorrise, quanto di meglio, e più sincero si potesse permettere. Non era forse così che si mostravano gli Dei all’imperfezione umana? Gli dei sorridevano, nella migliore delle tradizioni, l’omerica. Il sorriso era qualcosa di divino, apriva nuovi livelli di comprensione. Era una “Glee” romantica, vestigia di qualcosa ormai perduto.

Mia cara, quanti problemi! Quante domande! Mi meraviglio che riesca ad arrivare a sera. Che dire? Una bella faccenda, ma io non possiedo tutte le risposte. Penso una delle affermazioni più oneste e sincere di sessant’anni di vita, mi creda. Non possiedo tutte le risposte. Lei, mia cara, si sta avventurando per pensieri oscuri e complessi della deontica antica, e moderna, e cerca una risposta, unica e chiara. Chissà. Un gran bel mistero, esiste una risposta? Esiste questa risposta? Vede, lei inquadra giustamente il problema, i molteplici problemi, le molteplici contraddizioni che ci andiamo trascinando da qualche migliaio di anni, eppure temo sbagli nel fare le somme. Ovviamente, e purtroppo, è solo un mio punto di vista. Del resto, potrebbe benissimo anche domandarmi, con che diritto io sostenga delle lezioni di Storia, ne avrebbe tutto il diritto, ed io non avrei molto da rispondere. Vede, il problema sta proprio nel cercare di comprendere il Mondo, tutto, partendo da un sistema razionalmente puro, ed astratto, coniugandolo al resto. Perchè fare così? È naturale potrebbe dirmi. Eppure c’è un problema, perchè lei pensa e dubita così?
Noi non siamo altro che il frutto della nostra educazione, giusta o sbagliata che sia.
Il resto conta poco. Si dice spesso che le nostre scelte determinino cosa siamo veramente, giustissimo, ma in quale misura l’educazione incide su queste scelte? In quale misura gli altri ci influenzano inconsciamente? Le contraddizioni sono i punti di saldatura tra un sistema e l’altro, tra un metro e l’altro, che non possiamo eliminare. Capisce? Partiamo armati della sola logica, della nostra razionalità, esploriamo il mondo, ma nella ricerca ci imbattiamo in tutto il resto, abbracciamo l’etica, e poi la filosofia, e quanto altro? Poi, facendo le somme, i conti non tornando. Perchè?
Razionalmente non c’è nulla di sbagliato in principio, giustissimo, eppure anche lei sa benissimo cosa sia o non sia giusto, no? La sua educazione le impone queste conoscenze, salvo poi non rispettarle. Ha anche ragione nel continuare il suo discorso, dove sta la certezza? L’Uomo fa propri concetti che non capisce intimamente, solo per il gusto di farlo? O forse anche per dare senso alla propria vita, se partissimo dicendo che nulla è sbagliato, non crede cadremmo in Anarchia? Noi sposiamo più o meno giustamente l’etica, e dall’etica, il diritto. Il diritto è mero prodotto dell’uomo, nulla di più, eppure pensi alle premesse. Si presuppone che l’uomo X conosca tutte le leggi del Mondo, e venga punito per ogni infrazione. Se venissero assolti tutti coloro hanno infranto, non sapendo, cosa crede potrebbe capitare? È una soluzione necessaria. Tutti conoscono la legge, e devono rispettarla. Fine della Storia. I Mangiamorte son certi di essere nel giusto in quello che fanno, ne so qualcosa, del resto anche le forze della Luce son certe di essere nel giusto, è possibile? Del resto io non posso neanche costringerla a pensarla in un certo modo, anche questo è vero, posso farci poco, lei ha le idee, e rimangono tali. Come dice giustamente è molto probabile che gli uni siano Bene, e gli altri Male, ma è solo un calcolo della probabilità, dove sta la certezza? Lei dice che giusto e sbagliato non esistano, potrebbe darsi, ma Bene e Male sì, ma non li comprendiamo. Per evitare problemi, potremmo suicidarci raggiunta la maggior età, e risolvere malamente il problema, sbaglio? Del resto, è legittimo che facciamo quanto facciamo? È legittimo volare? O magari leggere, speculare, inventare, o credere. È legittimo? È Bene o Male? O forse questi due termini, due concetti, soffrono l’inflazione, come i nostri mercati? È forse Male copiare un compito? Come se il Male si scomodasse per un compito copiato, è verosimile? Il Male assoluto è Lucifero, Male è anche Voldemort, e Male è anche copiare. Non è forse un discorso asimmetrico? Come sostiene lei l’etica è il prodotto dell’uomo, per alcuni dell’Uomo di ogni tempo, per altri anche meno, prodotto del proprio tempo, e del proprio pensiero. Era eticamente sbagliato condannare a morte qualcuno? Sì, no, forse. Non c’è la certezza. Scegliamo ma non scegliamo, sappiamo ma non sappiamo, tutto e niente. Tutto e Niente. Tutto sembra riportare a questo. Pensi un po’, qualche tempo fa, il mondo era radicalmente diverso, avevo due genitori, un po’ come tutti, l’uno era fedele al Bene, l’altro al Male, un’apparente contraddizione, come conviverci? Ma anche, partiamo sempre dal presupposto di aver ragione, no? Lei ha bussato alla mia porta, certa di aver ragione nel chiedere il permesso, certa di meritarlo, no? Eppure ha dovuto rimettersi alla mia potestà, il tutto fa parte di un patto, no? I cittadini, liberi e democratici, rinunciano a buona parte della propria libertà, in favore di un ente superiore, lo Stato, che faccia gli interessi di tutti. È giusto? L’uomo conosce quanto crede di conoscere, e quanto decide di conoscere. Relativo, giustamente, posso sapere tutto di qualcosa? Se anche decidessi di sapere tutto di inchiostri, potrei studiare una vita, senza mai riuscire nella mia impresa. Sarebbe impossibile, così per tutto il resto. Ma dovrebbe essere forse una ragione per far nulla? Se anche so che non riuscirò mai a conoscere ogni pollice di una foresta, è forse una buona ragione per non mettervi mai piede? Se bramassi il consenso di tutti per ogni mia decisione, o scelta, crede che riuscirei mai anche solo a fare una sola cosa? Se anche decidessi di mangiare sella di capriolo, domani a cena, e scrivessi per un consulto dieci diverse lettere, crede che i miei dieci amici mi consiglierebbero tutti la stessa cosa? Quante probabilità avrei? Quindi, secondo il suo ragionamento, potrei anche morire di fame. Sbaglio? Manipolo idee e concetti per far quadrare il mio ragionamento, posso dire che sia eticamente giusto uccidere chiunque porti gli occhiali, ed abbia i capelli bianchi, sarebbe giusto? Forse sbagliato? Sarei chiamato a scegliere. Tu cosa voteresti? Faccio parte del Wizengamot, sarei chiamato ad esprimermi, che fare? Fuggire? Non lo troverei giusto, in primis perchè io stesso sarei condannato, in secundis perchè in fondo saprei essere sbagliato, o almeno ingiusto. Avrei fatto la mia scelta, in base a cosa? A quanto sono oggi, magari in quel preciso istante, sarebbe giusto?
Magari, forse sicuramente, ha ragione anche lei, la scelta è la finzione che ci imponiamo di poter ancora discernere tra Bene e Male, possiamo scegliere, pur sapendo essere falso. Scelte disperate, e folli, obbligate, son ricorrenti, dov’è la nostra libertà? Morta? Svanita?
Quanto è importante la conoscenza? Me lo dica lei. Qual è la differenza tra sapere, e non sapere? Cambia qualcosa?
Dante condanna Ulisse, ma ne siamo davvero certi? Se anche lo fossimo, diremmo che Dante è figlio del suo tempo, e fu una scelta obbligata, inizia a capire? Quanto sarebbe rilevante? Sarebbe comunque la Scelta, appunto, di Dante, non crede? Ieri Ulisse era l’Empio, oggi è l’Eroe, non è forse pericoloso anche questo? Che fare? Ulisse quindi è empio, o eroe? Qual è il valore assoluto di Ulisse uomo? Eroe del Bene, o del Male? Del resto, è proprio certa che Dante condanni Ulisse? Deve leggere tra ed oltre le righe, se anche scrivessi in una mia relazione che l’alunno X è colpevole di questo o quello, lo condannerei? O forse conterebbe più il resto? Come anche, non crede che potremmo definire anche il Purgatorio Bene, e quindi tutto tornerebbe ad essere dicotomico? Può l’Uomo credere? O forse deve credere? Allora le chiedo, cos’è il Bene?


Cos’era il bene? E quindi, logicamente, cosa derivava essere il Male? Era così importante? E Dante cosa voleva in realtà dire? Domande che trascinavano altre domande, un’infinita successione di questioni, e domande. E come la pensava lo Scriba? Ancora non lo sapeva, ma era importante?

Ah! Beata gioventù, interessante, pur non avendolo visto, e come la pensa il mio Scriba? Interessante domanda. Son proprio curioso di capirlo, non lo so ancora. Ma c’è da chiedersi se sia poi così importante, l’unicità della testimonianza è: come la pensa, o già semplicemente che uno Scriba di 4000 anni fa già si chiedesse questo? Il potere della Scelta, la rilevanza dell’etica, il ruolo del singolo, Bene e Male magari?

 
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view post Posted on 10/10/2010, 11:47
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Lui sorrideva. Come padre amorevole e comprensivo che, notando i progressi del figlio, lo incoraggi e guidi allo stesso tempo. Era lo stesso legame che univa Dio all’Uomo: la stessa profonda consapevolezza mista a tenerezza che legava il Creatore alla sua Creatura o il Maestro all’Allievo. Arwen ascoltava, e come in uno specchio vedeva le sue parole tornare prepotenti verso di lei, riprese dalla bocca del professore, riflesse sulle sue labbra: le poteva osservare, per la prima volta dall’esterno, sì che poteva esserne investita in prima persona, scorgerne nuovi inaspettati significati, cambiarne l’angolazione. Il professore riprendeva i suoi concetti arricchendoli di un nuovo valore. Eccolo lì, un altra se stessa, le parole balzavano dall’uno all’altra in un gioco di specularità rimandata, uguali e diverse: quanti significati poteva avere una sola parola? Quante volte sarebbe andata avanti e indietro, da una bocca all’altra, come in un perverso gioco di patata bollente, prima di esaurire ogni possibile senso? Male, Bene, Bene, Male. Ne avrebbero forse parlato all’infinito? Poteva esserci una fine se non c’era inizio né soluzione? Tutto questo li avrebbe infine portati alla pazzia, era certo: forse non subito, forse dopo anni e anni di logorio intellettuale, finché anche l’ultimo baluardo di saggezza non fosse svanito dalla mente ormai ottenebrata, stanca, avvizzita dallo sforzo e dai rimpianti, invecchiata anzitempo, sopraffatta da se stessa. Che triste fine sarebbe stata! In quest’ottica anche quel sorriso non era altro che una beffa del destino, non più che un ironico e laconico addio alla vita e all’intelletto, la malinconica consapevolezza di non essere vicini alla verità o ad una qualunque altra risposta più di quanto non lo fosse uno scriba di 4000 anni prima. Nessuno di loro poteva cogliere quei saperi e dunque essi erano perduti per sempre. Perduti… ma come potevano perdere ciò che non era mai stato in loro possesso? Come potevano sentire la mancanza di un qualcosa che non c’era mai stato - quantomeno per loro? Che sottile inganno! Forse che si può soffrire per il Nulla? Eccola, l’ultima grande Illusione dell’Uomo: parrebbe non saper vivere d’altro, se non d’illusioni. Può forse dire egli di vivere nella Realtà? Ogni cosa è distorta dal suo sentire, dal suo pensiero, da ciò che è o che è diventato, dalla sua Educazione, per usare le parole del professore: la Realtà è quella che lui stesso ha creato per sé. L’Uomo crea da solo la gabbia invisibile che lo allontana dalla sapienza: pregiudizi, paure, sensazioni. L’Uomo crede a ciò a cui vuole credere, anche quando ne è consapevole. Finzione? Cecità? Obbligo?

- Il Bene… -

Poteva forse esistere una definizione di Bene? Non dopo tutto quel che aveva detto. Secondo Platone, i beni sono di due specie: umani e divini. Detto altrimenti, vi sono almeno due modi principali di interpretare il Bene: la modalità meramente "umana", consistente nel ridurre il Bene a ciò che è utile e vantaggioso per gli uomini (ottenendo così una concezione relativistica, utilitaristica ed antropocentrica del Bene stesso); e la modalità “divina”, costituente il Bene in quanto tale, il Bene che trascende perfino l'essenza e che ha una configurazione ben più ampia, anzi illimitata, sottraendosi ai condizionamenti umani: per questo ha carattere divino, ed è per lo più considerato il Primo Dio. Secondo Aristotele, invece, il Bene non può essere un'idea trascendente nel mondo dove l'uomo vive ed opera, il Bene è ciò che l'uomo mette in atto nel suo comportamento concreto. Nell'ambito del soggettivismo si trova al contrario quella dottrina filosofica del relativismo che, negando alla radice la capacità umana di stabilire criteri di giudizio oggettivamente validi riferibili alla maggior parte degli atti conoscitivi umani, nega implicitamente anche le basi su cui si fonda la morale tradizionale. Secondo il relativismo, l'unico "organismo" in grado di esprimere un giudizio di valore sul grado di "bontà" di un certo comportamento umano è l'intera comunità di cui i singoli individui fanno parte. In questa logica, quanto maggiore sarà il consenso riscosso, tanto più giusto (cioè "buono") un individuo (o un comportamento) saranno "legittimamente" considerati. Le cosiddette leggi morali non potrebbero, quindi, essere valide in senso assoluto, ma dovrebbero, al pari di tutte le altre leggi, trovare la propria convalida nell'approvazione dell'intero corpo sociale, o quantomeno di una sua qualificata maggioranza. Forse era a questo che si riferiva il professore quando aveva detto che “i cittadini, liberi e democratici, rinunciano a buona parte della propria libertà in favore di un ente superiore, lo Stato, che faccia gli interessi di tutti”? Era un discorso che andava troppo in profondità, toccava il Contratto Sociale di Rousseau, il Trattato sul Governo di Locke, il Patto di Unione di Hobbes, e molto altro ancora.

- Non saprei, professore. Non credo esista un’unica definizione per il Bene. Come direbbe lei, potrebbe non esserci o essercene un’infinità. Io di certo non sono in grado di definirlo, né mi assumo una tale responsabilità. Cose troppo più grandi di noi potrebbero finire col sopraffarci… Ad ogni modo, lei pone una serie di questioni interessanti: l’Educazione, l’Anarchia, perfino la Legittimità del Vivere. Lei chiede se l’impossibilità di ottenere una piena conoscenza costituisca una valida ragione per non far più nulla o se l’impossibilità di giungere alla verità sia un giusto motivo per lasciarsi morire mentre si è bloccati nel limbo dell’indecisione. Ovviamente io non credo, come lei, che queste siano soluzioni. Né tantomeno le ho mai auspicate. Il fatto che l’Uomo non sia in grado di comprendere e dunque distinguere la vera natura del Bene e del Male non implica che egli non abbia cercato metodi alternativi che gli permettessero di non precipitare ogni volta verso l’Anarchia o di procurare Senso alla propria vita. È a questo che servono le Leggi Etiche, Morali e Giuridiche di cui parlavo prima. Ed esse permettono loro di discernere il Giusto dallo Sbagliato, sul piano umano, seppur non idealmente il Bene dal Male. Quando ho detto che Giusto e Sbagliato non esistevano, intendevo sul piano ideale, nel momento in cui abbiamo cercato di assumere una prospettiva oggettiva che si astraesse dall’Uomo e dalla sua Realtà. Ciò non toglie che esse siano invece reali sul piano puramente umano, in quanto creazioni degli Uomini in conseguenza dell’applicazione delle leggi stesse. Giusto e Sbagliato non esistono, dunque, sul piano delle Idee, né come concetto universale. In principio nulla è sbagliato perché ogni cosa parte da una convinzione personale che è ancora ignota alla comunità e di cui il soggetto è convinto: ma con lo svilupparsi di quel concetto e il palesarsi della sua natura ai più, sono le leggi a stabilire ciò che è da ritenersi corretto e ciò che non lo è. L’ Uomo deve agire perché se non lo facesse non vivrebbe né sarebbe Uomo: così fu per Ulisse, che non rinnegò la sua natura; il fatto che tutto poi possa essere il frutto di un’illusione umana, non può che rimanere a livello ipotetico. Dopotutto, come lei ha detto, stiamo speculando. In fondo, non è neppure corretto dire che possiamo scegliere di credere o non credere in tutto questo: essendo Uomini, essendo all’interno di questo sistema, non possiamo far altro che credere per cause di forza maggiore, altrimenti negando la nostra Realtà giungeremmo a negare noi stessi. Anche quella è una scelta che possiamo fare solo sul piano ideale, per puro piacere filosofico: se così non fosse, il suicidio potrebbe davvero essere una soluzione al nostro mal di vivere e alla nostra illegittimità di essere. Quel che poi facciamo all’interno della Realtà di cui siamo parte e che ci siamo costruiti, è frutto dei condizionamenti reciproci, tutti umani: dell’educazione che ci ha plasmato e della logica che ci ha imposto determinate scelte. La Conoscenza è importante nella misura in cui ci spinge a migliorarci nella nostra Realtà: ma prevaricare la Realtà per raggiungere una Conoscenza superiore come quella sul Male e sul Bene è pura follia, o condurrebbe alla follia. Non potendo, infatti, la mente umana raggiungere un tale tipo di Conoscenza, finirebbe infine col logorarsi e avvizzire dietro un desiderio irraggiungibile: un po’ come se si perdesse per sempre nei meandri dello Specchio delle Brame. Io so cosa è Giusto e cosa è Sbagliato… in questa Realtà. E qui è la mia Certezza, o la mia Illusione. Ciò che mi impedisce di cadere nella pazzia. Solo andando oltre l’Uomo posso dire che in effetti nulla di ciò che ho è certo poiché è frutto dell’Uomo stesso e pertanto soggettivo e relativo. D’altra parte, avremmo la Verità solo se fossimo Dei. –

Che concetti meravigliosi! Essere Dei… Che potere straordinario e terribile! Una briciola di quel potere sarebbe stata mille volta più grande del loro sapere umano accumulato in una vita.
Arwen fremeva, impaziente, pareva che il mondo esterno non esistesse più. La tazzina del the giaceva, dimenticata. Il tempo si era fermato.


- Credo anch’io, professore, che quella di Dante fosse una condanna sofferta, come le avevo accennato. Sì, Dante è figlio del suo tempo… eppure figlio “ribelle”. Di fronte alla grandezza d'un personaggio del genere, osannato da tutta la letteratura greca e latina, Dante si sente piccolo e avverte di dover fare molta attenzione a misurarsi con lui. Anzi, temendo troppo il confronto con un personaggio del genere, il poeta non s'arrischia neppure d'interrogarlo e lascia che al suo posto lo faccia Virgilio. Siccome ha deciso di metterlo all'Inferno, deve poter dimostrare questa sua scelta in maniera "oggettiva" o, se vogliamo, "etica", senza indulgere troppo nell'artificio letterario e senza lasciarsi dominare dalla passione politica. Ulisse viene messo all'Inferno per delle colpe che costituirono tra gli intellettuali, i politici, i militari... dell'antichità un motivo di vanto o comunque una necessità del tutto scusabile, specie se in condizioni di guerra o di pericolo; per delle colpe che forse avrebbero dovuto essere controbilanciate dai suoi meriti personali in quanto Ulisse in fondo era simbolo del coraggio, della ragione, dell'astuzia, della ricerca, della curiosità, della esplorazione e così via; per delle colpe che per un eroe "pagano" erano tali sino a un certo punto e forse per le quali avrebbe meritato il Purgatorio. Dante sa bene d'aver subito in gioventù il fascino della personalità dell'eroe omerico, esattamente come tutti gli intellettuali che l'avevano preceduto, da Orazio a Seneca, a Cicerone, che avevano sottolineato di Ulisse il patrimonio di conoscenze e di saggezza conquistato nel suo avventuroso viaggio e ne avevano fatto il simbolo della virtù (humanitas) intesa come profondo ed insaziabile desiderio dell'Uomo della conoscenza, anche se per questo egli deve ritardare il nostos, cioè il ritorno in patria. Il motivo di fondo per cui Dante mette Ulisse all'Inferno non è semplicemente per il suo ateismo o per il fatto che avesse una concezione del tutto formale della religiosità, ma per il fatto che nel proprio ateismo egli non tenesse in alcuna considerazione gli umani sentimenti. Ulisse è una specie di specchio negativo di Dante. Dal punto di vista della conoscenza, entrambi sono degli eroi, degli scopritori. Tuttavia Dante è, per così dire, un esploratore approvato da dio, mentre Ulisse è un ribelle, un temerario che osa imporre la propria volontà agli dèi. La presunzione umana rappresenta un inconcepibile sovvertimento dell'ordine dell'universo, e come tale è una forma di "follia". Tutto si riduce a questo alla fine: l’Uomo non è né può essere Dio, e neppure può aspirare a quel genere di Conoscenza assoluta.-

Ecco la vera scissione, infine: Dio e Uomo. Una scissione del tutto diversa da quella tra Bene e Male. Padre e Figlio, Creatore e Creatura, Maestro e Allievo. Avremmo la Verità solo se fossimo Dei. L’Uomo non è né può essere Dio. E la Libertà? La Scelta? Bisogna saper convivere con la propria natura.

 
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