*...No, non lo faccio per te...*
E, forte di quella consapevolezza, proseguì, strusciando, nell'oscurità. Provò una stranissima sensazione di deja vù nel gattonare in quel cunicolo, quel buco terroso, fortemente inclinato e fetente di umidità, appiattendosi nel tentativo di non urtare il soffitto, scrutando nel buio alla ricerca di pericoli, se mai ve ne fossero stati. Era una lucertola. Quante volte l'aveva già fatto? Strisciare era la sua specialità. Non che ne andasse fiero, ma era nella sua Natura, un istinto innegabile, dal quale non poteva scappare: i pesci del mare nuotavano, gli uccelli del cielo volavano. Lui si nascondeva, infimo, scappava. Gli venne una terribile voglia di sibilare, per tracciare le scie chimiche nell'aria, invisibili particelle, che soltanto lui poteva percepire. Ma non era il momento. Continuò a strisciare. Battè la testa, un unghia gli si spezzò malamente, le ginocchia e la schiena presero a dolere. Ma continuò. E, quando vide la luce, non potè che tirare un mentale sospiro di sollievo, che non concesse però al corpo; il pericolo incombeva ancora, ne era conscio, eppure quella luce aveva un che di rassicurante, faceva credere che fossero già liberi...
Mentre invece, erano ancora schiavi. Schiavi della paura, di quella situazione. Pensò a cosa avrebbe potuto fare se fosse stato fuori pericolo, altrove, senza preoccupazioni. Pensò a come avrebbe potuto perdere tutto questo. Gli sarebbe dispiaciuto, se non altro. Era davvero il momento di aprire la bocca, lasciare scappare la Vita?
*Sempre così positivo, un ragazzo così simpatico...*
Ma era oramai alla fine del cunicolo, era tempo di lasciare i caldi mari dei pensieri, e sbarcare sulla fredda spiaggia della Realtà. Gattonò fino all'estremità del tunnel, si fece passare le gambe davanti, malgrado il poco spazio a disposizione, e sbucò all'aperto. Ci mise un attimo a capire dove era, era stato in quella scuola abbastanza tempo da conoscerne, se non i passaggi segreti, quantomeno i luoghi più comuni. Non aveva mai sospettato dell'esistenza di quel cunicolo proprio lì, nel pianoterra della Torre dell'Orologio.
Si trattava di una costruzione immensa, un grandissimo torrione a più piani, molto simile a una chiesa d'altri tempi, che prendeva il suo nome dal grande orologio bianco, che da secoli scandiva il tempo lì a Hogwarts. Alla sua destra riconobbe le scale che portavano ai piani superiori della torre, un intrico di passerelle di legno piccole e pericolanti, luogo perfetto per le coppiette in amore nei primi mesi di primavera, o per i primini intenti in pratiche fantasticamente illegali e proibite, almeno ai loro occhi. Per i primi due anni era stato spesso in quel posto. Gli piaceva guardare gli altri dall'alto, esplorare con lo sguardo i territori limitrofi ad Hogwarts, ascoltare l'assordante battito dell'orologio, simile ad un enorme cuore, che scandiva il Tempo di quel castello.
Pensò che, se ci fosse stato un dopo, avrebbe dovuto passarci più tempo.
Quel pensiero lo rattristì.
A riportarlo al presente fu una stretta, uno strattone improvviso da quella che con stupore riconobbe come Mya, appena ripresosi dalle sue malinconie. Aveva voglia di sorridere vagamente a quel gesto, ma non lo fece. Capiva come la situazione non lo permettesse. A buon ragione. Perché un attimo dopo, un singolo attimo dopo, il mondo venne stravolto. Un attimo che più avrebbe dimenticato. Un fragore di vetri rotti l'unico avviso prima dell'atroce spettacolo. Si volse, atterrito, la mano corse a cercare la bacchetta, improvvisamente goffa. E prima che potesse prendere la preziosa arma, e modificare il Fato conformandolo al suo volere, quel che doveva succedere successe. Un ragazzino, nient'altro che un ragazzino. Random vide la Paura, la Folle Paura nei suoi occhi, un attimo prima che venisse trascinato fuori dalla finestra tra le urla e i pianti. Un secondo, un solo secondo, e il suo corpo sparì dietro la finestra, nel cortile di fronte. Le urla provenienti da fuori cessarono.
Per lui non ci sarebbe stato un domani.
E non era che il primo.
Sentì il terrore impadronirsi del suo corpo. Morto, era morto. La mano di Mya si irrigidì nella sua, mentre l'alone della Morte incombente scendeva su tutti loro, terribile presagio. Fino ad un secondo prima parlava con loro, camminava tra loro, faceva i compiti e si comportava, magari, bene. Aspettava di tornare a casa, di raccontare a mamma e papà quanto fosse bella Hogwarts, e di quegli strani uomini che erano venuti a prenderli. Avevano detto loro di non preoccuparsi, avevano detto. La settimana prima aveva preso un "Eccellente" al compito di Storia della Magia. Aveva conosciuto una ragazza, era carina. La sera la guardava di nascosto, dal tavolo dei Corvonero. Lei era una Serpeverde. Ma non era cattiva come si diceva di loro.
Giaceva.
Straziato.
Immobile.
Gli occhi.
I suoi occhi.
Aperti.
Vuoti.
Morti.
"No..."
E il suo corpo fu quello di suo zio, anni prima, straziato da un banale coltellaccio da cucina. E l'aveva ucciso lui. E poi quello di una bestia, un'enorme animale simile ad una tigre, trafitta da una misteriosa spada lucente. E l'aveva uccisa lui.
"No..."
Si mosse, come un automa, le parole di Mya che gli rimbombavano nel cervello, sorde. Non le sentiva. Trascinò un piede, poi l'altro, abbandonò la mano della ragazza. E il mondo fu più freddo. Freddo come la pelle. La pelle di un Morto. Un passo, un altro passo, più veloce, fino a raggiungere l'apertura che dava sul cortile.
E li vide.
Mostruosi, inumani, famelici. Proseguivano, avanzavano, puntavano a loro. Avevano fame.
Fame di Vita.
La bacchetta si alzò senza che ricordasse di averla presa, di averla estratta. E improvvisamente puntava a uno di loro, a uno di quei mostri. Dovevano andare via. Pensò questo. Pensò che non c'era ragione perché fossero in quel posto. In quel momento. Un ultimo sguardo agli occhi del ragazzino, e capì. Era morto. Anche lui, dentro, era morto. E allora non c'era ragione. Non c'era ragione perché continuassero.
"Avada Kedavra."
Le due parole di morte uscirono quasi spontanee. Parole che da bambino pronunciava, anche se storpiate, ridendo. Un gioco, uno scherzo, la più banale formula babbana, il rimedio per ogni cosa, la felicità. Morte. La Morte era il rimedio? Era la felicità?
No.
La morte era il silenzio. Il silenzio imposto di chi non voleva sentire, non voleva vedere. E lui non voleva. Non voleva vedere quegli occhi, più penetranti ora che in vita, che gli scrutavano l'anima. Non voleva vedere le guance pallide, il sangue sul volto, per terra, dappertutto. Dovevano sparire. Dovevano andarsene.
Dovevano Morire.