Thrills in the night, per Leopolis

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view post Posted on 22/12/2014, 01:16
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«And the only solution was to stand and fight» Merlino ballerino!

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Hogsmeade, a quell'ora, era praticamente deserta. Fatta eccezione per qualche raro passante, per le strade ancora illuminate non si vedeva anima viva. Faceva freddo, in quella tarda serata d'inverno, e le luci dei lampioni si riflettevano nelle sparse e sottili lastre di ghiaccio che iniziavano a formarsi sulla pavimentazione della via.In compenso, le luci dei negozi e dei locali erano tutte accese, e creavano una specie di calda atmosfera che contrastava con i ghiaccio e il freddo tagliente della serata. In quello strano luminoso silenzio, era perfettamente distinguibile il suono sordo di un paio di stivaletti di pelle che segnavano i passi di una persona.


Aquileia era avvolta dalla sua mantella nera, di lana pesante, il cappuccio calato sulla folta chioma riccia legata in una bassa coda dietro la nuca. Un riccio le scendeva lungo il viso, sfiorando il suo occhio marrone che, come l'altro azzurro, aveva un'espressione di assente malinconia.
Perchè era tornata lì?
Erano mesi che non rimetteva piede ad Hogsmeade. Di sera. Era strano. Di giorno, il villaggio la accoglieva con la sua calda atmosfera, brulicante di studenti, maghi e streghe, e quel vivo e trascinante viavai la conquistava ogni volta.
Ma la sera le sembrava un altro mondo, lontano anni luce. E talvolta, i ricordi facevano di nuovo capolino. I ricordi di una notte deserta, glaciale. E indelebile.
*Faceva così freddo quella notte?*.
Il rumore dei suoi passi lenti risuonava nelle sue orecchie e riecheggiava debolmente per la via. I lampioni proiettavano la sua ombra sinuosa sul marciapiede. Era strano come certe notti la luce di quei lampioni potesse sembrare così fredda.
*Perchè diamine sono tornata qui?*
Ma conosceva la risposta. Era testarda, certo, ma non era capace di seppellire i ricordi per troppo tempo. Quando si ripresentavano con più forza e insistenza, doveva semplicemente affrontarli ed esorcizzarli in qualche maniera. E lo faceva tornando nel luogo di quei ricordi. Hogsmeade. Di sera.
E quella era una di quelle volte.
Continuava a camminare. Arrivò vicino al chioschetto della burrobirra, ormai chiuso sicuramente dal almeno un'ora. Che ore erano? Probabilmente le undici e mezza, mezzanotte. Qualcosa le diceva che avrebbe faticato a prendere sonno, quella sera.
*Tantovale andare a prendersi qualcosa*. Sì, un buon whiskey era quello che ci voleva.
Girò a sinistra, attraversando la strada, e si avviò verso la Testa di Porco, poco distante. Spinse la pesante porta di legno ed entrò nel locale, abbassandosi il cappuccio metre la richiudeva. Il pub era discretamente pieno, e qua e là spuntavano le solite facce poco raccomandabili. Ma a lei non importava. A quell'ora almeno la metà degli avventori erano già ubriachi andanti, e quindi con riflessi sicuramente più lenti dei suoi.
*E se a Durmstrang ho domato Grifoni, state certi che tengo a bada anche voi* pensò, mentre si avviava verso un tavolo vuoto, guardandosi in giro discretamente e con indifferenza, e si accomodava su una delle sedie.
 
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view post Posted on 26/12/2014, 21:30
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Sorpreso, Raven guardò la clessidra, la cui sabbia stava quasi per finire, segnando così l'inizio di una lunga e noiosa notte. Quindi il suo sguardo passò dapprima alla colonna di compiti dei suoi allievi, posata sulla scrivania alla sinistra di Raven, leggermente illuminata dalla luce di una – e una sola! -, candela appesa nell'aria, e quindi alla stanza, del tutto spartana e povera, intorno alla figura del Docente; sì, - pensò il mangiamorte -, avrebbe dovuto chiedere alla Bennet una stanza migliore, una stanza nella torre. Una stanza meno spartana e più ricca? Lo Shinretsu scosse il capo, notando nel frattempo come la sabbia della clessidra finì tutt d'un tratto, depositandosi sul fondo della clessidra e dando avvio al tempo di riposo e del sonno; del lungo viaggio, e del suo termine, non appena il sole si fosse alzato, e i suoi raggi avessero bruciato, acceso, penetrato nella piccola stanza da letto del Docente. Ma ne valeva la pena? Ne valeva davvero la pena attende che fosse il sole a illuminare la sua vita, oppure sarebbe stato molto meglio accendersi, ed essere lui stesso il faro per la propria stanza, e, dopo la stanza, anche per la propria vita?
Dapprima il giapponese sbadigliò, quindi mise da parte l'ultimo compito che correggeva – era una pergamena un po' bruciata, corta, riempita con dell'inchiostro nero e una calligrafia bambinesca, di un primino tassorosso ignorante e ripieno di senso dell'umorismo -, e messosi un mantello caldo e soffice, con un schioppo delle dita spense la candela.
Buio. Habitat naturale.
Raven sorrise, quindi di fretta uscì dalla stanza. Dove si dirigeva? Non lo sapeva nessuno. Semplicemente andava, senza sapere dove lo avrebbero portato i piedi, dove sarebbe andato a parare, o dove si sarebbe fermato. Fuori la luna luna risplendeva argentea, nel riflesso delle nevi che circondavano il castello. Gli alunni – ricordandosi il passato, Raven non potè che alzare le spalle e trarre un profondo sospiro -, dormivano beati nelle torri e nei sotterranei; presto ci sarebbero state le feste, presto i loro sforzi sarebbero stati ricompensati.
Poi guardò il cielo; le stelle parlavano. Il fondo luminoso, costellato da milioni di puntini luminosi lo faceva sentire sicuro. Almeno qualcuno, in quel mondo dominato da una luce falsa e meschina, era in grado di correre incontro alle mille peripezie, a sconfiggere il ciclone, e di incominciare un'era nuova; almeno qualcuno era in grado di risplendere di vita propria. Almeno qualcuno era in grado di essere.
Di fretta attraversato il giardino, Raven dapprima pensò di inoltrarsi nella Foresta Proibita, - ov'era il luogo di mille avventure e di mille pericoli. Poi ci ripensò e cambiò direzione della camminata: sarebbe stato troppo il stereotipo di sé stesso, se fosse andato nella Foresta per la centesima volta nella propria vita. Sarebbe stato troppo... Sarebbe stato troppo sé stesso, qualora lo avesse fatto, e così pensò bene di passare quelle ore dedite al riposo in un'altra maniera. Non a ricordare, bensì a formare ricordi nuovi.
Trasse ancora un sospiro, rilasciando dalla propria bocca una nebbiolina, e tirando fuori la bacchetta, a passo veloce si diresse verso Hogsmead. Questa si presentò deserta e bellissima: i negozi, costruiti uno dopo l'altro in fila, con il tetto inclinato e le finestre, le cui luci erano spente, formavano un quadro di assoluta poesia. La luna, - persino quella! -, sembrava cantare, riflettendosi nei vetri delle finestre, nel ghiaccio, che danzava intorno, e persino in ogni singolo atomo di neve, acqua, che scendeva dal cielo.
Prendendo ancora un sospiro, Raven si fermò ad osservare.
Aspettare, osservare, pensare. Non era forse quello che diceva di saper fare Siddhartha, uno dei tanti babbani che del mondo e delle sue meccaniche ne avevano compreso qualcosa? Gli piacque l'atmosfera, e di colpo seppe, che l'atmosfera sarebbe piaciuta anche ai suoi genitori, qualora fossero stati ancora vivi, e al suo fratello, qualora non fosse stato più grigio e neutrale di un muro qualsiasi.
Il rumore dei suo passi fu addolcito dalla neve; il suo sospiro, i suoi attimi si persero nel freddo.
Hogwarts era bellissima d'inverno.
Arrivato sul lungo viale di Hogsmead, che di giorno era pieno di studenti, e di notte – di notturni pensatori, il professore parve di vedere un'ombra. Era l'ombra di un lampione? Era un mangiamorte, e Raven non era stato avvisato della feste che doveva iniziare a Hogwarts quella notte, oppure era altro?
Indossato il cappuccio, il professore si mosse in avanti, inseguendo quell'ombra, quel spettro sulla neve, che comparì nella visione di Raven, e che nella stessa maniera scomparve, lasciandosi dietro soltanto una striscia argentata.
Poi corse, girando subito l'angolo e ritrovandosi dinnanzi alla porta di un famoso locale di Hogsmead, in cui – così dicevano! -, ogni 2 ne capitavano 3 di guai. Ancora passi, poi appoggiandosi di peso alla porta, la spinse, ed ecco che passati pochi istanti, era già all'interno della Testa di Porco, i cui abitanti, ubriachi marci, non sembravano badare né all'ora, né al denaro.
Ripose la bacchetta.
Erano... marci.
Sì, erano marci.
Poi, con la coda dell'occhio, vide una donna sedersi dietro a un tavolo vuoto. Aveva intenzione di affogare i propri mali e i propri desideri nell'alcool? Bhe... Non che fosse una brutta idea, pensò Raven. Però...
E si mosse in avanti con passo sicuro e fare indifferente, avvicinandosi verso il tavolo.
«Non mi sembra un locale adatto alle signore.» – Disse il giapponese, con tono deciso. Poi guardò fuori.- «E non è adatta nemmeno l'ora, e nemmeno... il tempo atmosferico. »
Sospirò.
«Mi sento in dovere di proteggerla, e ricompagnarla in un posto sicuro.»
 
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view post Posted on 28/12/2014, 00:34
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La Testa di Porco, come sempre, non smentiva di una sola virgola la sua reputazione. Qua e là i tavoli erano cosparsi di macchie di vino, whiskey e birra, e gli avventori erano ubriachi marci. Alcuni ridevano sguaiatamente, e parecchi iniziavano ad accasciarsi sui tavoli, storditi dalle enormi quantità di alcolici trangugiati. La ragazza guardò rapidamente in direzione di Aberforth, che si muoveva pigramente dietro al bancone, con lo sguardo sornione e scaltro di chi, anche quella sera, si era guadagnato buoni incassi. *Fra poco servirai un altro whiskey incendiario e arrotonderai la serata* pensò Aquileia.
Immediatamente si stupì di quel pensiero. Ubriacarsi? Sarebbe stato indubbiamente facile, e dannatamente efficace.
*Vuoi svuotarti la mente, no? cosa c'è di meglio dell'alcol, Leia?*. Oh sì, certi momenti erano veramente pericolosi, soprattutto quando l'unica cosa che poteva lenire il dolore, era la presenza di una persona impossibile da riavere.
Istintivamente, appoggiò le mani davati a sé, sul tavolo, e guardò il suo anello, passandoci sopra la punta dell'indice sinistro.
Un anno. Un dannatissimo anno era passato da quella notte, eppure i ricordi non si decidevano a morire finalmente del tutto.
*Perché proprio tu? Perché li hai seguiti?*.

<< Loro devono pagare. Non meritano di vivere, e io devo farmi giustizia. >>
<< Ci sono gli Auror per farsi giustizia, Brendan! Ti prego, dammi retta, stai andando a morire! >>

*Diosanto, perché non mi hai ascoltata?*.
Distolse lo sguardo e chiuse gli occhi, chiudendo la mano destra a pugno e portandosela alle labbra. Stava succedendo di nuovo. Le emozioni stavano di nuovo prendendo il sopravvento su di lei. Si distese, appoggiando la schiena alla sedia, lo sguardo basso, immersa nei suoi pensieri. Un dannatissimo anno, da quella notte in cui quell'assassino glielo aveva portato via. E ancora, l'Odio cercava di impadronirsi di lei. Respirò profondamente. Com'era difficile, a volte, lottare contro un istinto che, per natura e per le circostanze, si è portati ad assecondare.
Una voce mai sentita prima, decisa, la riscosse dai suoi pensieri. "Non mi sembra un locale adatto alle signore". Aquileia alzò la testa, poggiando la mano destra sul tavolo, e guardando nella direzione da cui proveniva la voce, le iridi chiaroscure puntate verso l'interlocutore con uno sguardo leggermente stupito, e con una punta di sarcasmo. Davanti a lei c'era un uomo, avvolto in una mantella e con ancora su il cappuccio, molto alto, e dagli occhi nerissimi, i lineamenti orientali che mostravano un'espressione insondabile.
*Giapponese* constatò. Doveva avere più o meno la sua età, e probabilmente era appena entrato anche lui nel locale, visto che aveva ancora su la mantella. "Mi sento in dovere di proteggerla, e ricompagnarla in un posto sicuro.".
La ragazza squadrò l'uomo da capo a piedi, con sguardo impassibile.
*Mi hai seguita?* pensò. Probabile, perché no? Aveva l'aria di essere appena entrato, e guardacaso si era rivolto proprio a lei, che era entrata da pochi minuti. Si sporse verso il tavolo, appoggiandovi sopra i gomiti e riportando lo sguardo verso il basso, mentre un mezzo sorriso tra il divertito e l'ironico si disegnava sul suo viso. "Non fidarti degli sconosciuti" le aveva sempre detto la mamma. E il suo lavoro non aveva fatto altro che accentuare questa naturale diffidenza. Certo, non si era infilata in uno dei locali più affidabili del mondo magico, c'era da dire. Ma d'altronde, se fosse stata il tipo di persona che si fa spaventare da qualche ubriacone sbavante, non si sarebbe nemmeno avvicinata al locale. Rialzando lo sguardo, si guardò intorno, e poi si rivolse all'uomo: "E' gentile. Ma credo che la gente qui intorno sia troppo interessata ai propri boccali, per pensare di darmi fastidio". I suoi occhi bicolore si fissarono sull'uomo, osservandone i gesti e l'espressione. "E in certi momenti, i posti apparentemente sbagliati possono essere gli unici giusti" disse, inarcando il sopracciglio del suo occhio marrone. Si appoggiò di nuovo allo schienale della sedia. "Mi ha seguita?" chiese. Magari l'uomo era sinceramente preoccupato per lei. Non aveva minimamente paura di sembrare sgarbata, non le interessava. Semplicemente, sapeva dove si trovava. E oltre alla sua deformazione professionale, voleva seguire il consiglio della mamma.
 
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view post Posted on 28/12/2014, 12:40
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«Dialoghi»

Sospeso, un po' sorpreso e un po' arrabbiato, Raven, anch'egli, inarcò una delle sopracciglie – la destra -, e alla domanda della donna rispose guardando nella finestra di quel locale sporco e sudicio, ove regnava il buio. Non lo sapeva nemmeno lui a cos'era dovuto quel gesto; forse... che stesse indicando qualcosa? Oppure... No. Raven scosse il capo. Lui non non l'aveva seguita; aveva semplicemente visto la sua figura, esile e del tutto indifesa, entrare in uno dei locali peggiori ci potessero essere in tutto il Regno Unito, e specialmente nella sua parte settentriontale.
«Sì, l'ho seguita.» – Rispose freddo. - «Ho visto il suo mantello,» – indicò il mantello con la mano – «e ho deciso di controllare. Non si vedono spesso persone così... » – Cos'è che intendeva con delle "persone così"? Se lo chiese istantaneamente; poi decise che si sarebbe affidato al suo istinto, che ormai ovunque vedeva morte, desolazione, dolore e pericolo, oltre all'odio, che come il fuoco, sempre bruciava nel suo cuore – «...da queste parti. Così vicino al castello!» – esclamò poi – «Sono un Docente, e mi sono sentito in dovere di controllare: fa troppo buio la fuori, e devo proteggere gli studenti del castello dai mangiamorte e dalla melma varia che circola nel mondo... di questi tempi.»
Poi si corresse, raddrizzò la postura e si guardò intorno.
«Le persone impegnate con i propri bicchieri, sono anche quelle più pericolose: chissà cosa può succedere nella loro mente da un momento all'altro. » – rispose. Poi guardò gli occhi della donna. Si sbagliava, o erano bicolore? Si sbagliava, o le persone con gli occhi dai colori diversi erano non solo degli abili maghi, ma anche delle rarità eccezionali?
Sorrise guardandoli; inutile dire che se avesse avuto degli occhi bicolore, li avrebbe voluti uno nero e uno rosso-fuoco. Perché? Forse non c'era nemmeno un motivo valido, o forse era soltanto il fascino dei colori rosso e nero combinati... Non lo sapeva.
«Capisco il suo punto di vista, signorina.» – Disse. - «E' solo che... stando alla probabilità del caso di far si che l'unico posto sbagliato sia invece quello giusto, è piuttosto improbabile che lei ora si trovi nel posto giusto, e ancora è più improbabile che sia giusto il tempo. » – Poi sorrise. - «Motivo per cui sarei ancora felice di riaccompagnarla lontano dai posti non-giusti, in un posto giusto e sicuro, e sfruttare l'occasione per chiederle chi è, e cosa ci fa nei pressi del castello a quest'ora tarda. Niente di eccezionale: domande di routine.» – Disse Raven, accendendosi della maledetta curiosità. Non sapeva se quella figura gli fosse interessante; in quei momenti doveva soltanto interpretale il proprio ruolo, doveva fingersi cordiale e buono, far finta che del castello e degli studenti glie ne importasse qualcosa, far finta che egli sia una pedina di Luce nelle mani buone.
Nient'altro.
 
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Ci aveva preso. Il giapponese aveva scrollato la testa, per poi contraddire immediatamente il gesto con le sue parole. *E così, Leia, stasera hai pure la scorta. Bene*. Lo guardò con espressione calma e impassibile, incrociando le braccia sul petto.
Delle "persone così"?
Guardò il proprio mantello nero, seguendo il gesto dell'uomo, per poi tornare a guardare in volto il giapponese, mentre lui continuava a parlare.
L'aveva forse scambiata per una mangiamorte?
Abbassò per un momento lo sguardo, sorridendo leggermente a quel pensiero. Quella sarebbe stata proprio bella: una mangiamorte. Lei.
Lei, che se solo ne fosse stata in grado, sarebbe andata di persona a prendere Musopiatto Riddle e compagnia bella, dovunque fossero, e li avrebbe condotti personalmente nella cella più buia e profonda di Azkaban, organizzando al suo interno un party esclusivo con i dissennatori come ospiti d'onore. Lei, che era da poco diventata una rappresentante delle forze del bene, proprio in virtù di ciò che le forze del male avevano combinato nella sua vita.
Un'espressione divertita e accomodante comparve sul suo viso, mentre si slacciava il mantello nero per riporlo sulla sedia accanto alla sua.

"Ho l'aspetto di una malintenzionata?", rispose. "Non lo sono, non si crucci" continuò, appoggiando la mano sinistra sul tavolo e scostandosi una ciocca di capelli dal viso. "Ma la capisco perfettamente: non si fanno begli incontri, ultimamente". Lo guardò intensamente in viso, ricambiando il suo sguardo, e lievemente, anche il suo sorriso. L'uomo doveva aver notato i suoi occhi, perché aveva un'espressione che sembrava stupita, mentre sorrideva. Un sorriso sottile e delicato, che formava uno strano contrasto con l'imponenza della sua corporatura, ma che ben si accordava con l'atteggiamento cordiale che mostrava. A quanto pareva, però, sulla questione di cambiare locale, sembrava parecchio insistente. Aquileia inclinò la testa da un lato, mentre il giovane professore finiva di parlare. Un sorrisetto furbo comparve sul suo viso. Avrebbe potuto fargli le stesse domande, constatò. In fondo, nemmeno lei sapeva chi aveva davanti, soprattutto in una circostanza del genere. Forse era il caso di seguire il consiglio della mamma, ma senza esagerare troppo. In fin dei conti, l'uomo si stava dimostrando gentile con lei. "Beh, da quel che ho capito, lei saprebbe come difendersi, altrimenti non avrebbe inseguito una potenziale mangiamorte, non crede? E per quanto mi riguarda, se avessi avuto paura, non sarei nemmeno entrata qui". Si guardò ancora intorno, gli occhi che sfrecciavano tra gli avventori ormai ubriachi persi, e riportò lo sguardo sul giovane professore. "E, a giudicare da quel che vedo, questi non hanno la forza nemmeno di sollevare la bacchetta". Si avvicinò di nuovo al tavolo. "Direi che non c'è niente da temere" disse. Poi gli fece un cenno con la testa, verso la sedia vuota di fronte a lei. "Se vuole può accomodarsi, signor...?" gli chiese, con un leggero tono scherzoso nella voce, mentre osservava con attenzione i suoi gesti, la sua espressione, e attendeva una sua reazione. Sembrava gentile, sì. Ma comunque, al primo accenno di minaccia, lei avrebbe saputo reagire di conseguenza.
 
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view post Posted on 28/12/2014, 22:50
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Le donne erano testarde, e questo Raven lo sapeva di già (in fondo tra testardi, paradossalmente, si andava d'accordo); quel che però non si aspettava, era che quella donna fosse così testarda. Quel che Raven non riusciva a capire guardando come si era seduta dietro al tavolo in un locale frequentato al più da alcolizzati, e quindi maniaci depressi, o da dei depressi maniaci, era il motivo per cui preferisse un tavolo caldo, e magari una bevuta alcolica, alla poesia innevata che stava la fuori, oltre la porta e le finestre. Per un attimo Raven si chiese il motivo per cui solo egli vedeva in ogni cosa una cosa bellissima, e in ogni gesto, una virtù divina. Possibile che solo nel suo cuore la poesia regnasse sovrana? Possibile che solo lui sentisse l'armonia dell'atmosfera circostante, cantare e suonare all'unisono con quelle che erano le note della sua anima, le note della sua virtù, dei suoi sforzi, ricordi, magari anche pensieri e emozioni? Per un attimo pensò di essere diverso; poi si ricordo che in effetti era diverso, e si guardò intorno, così, di colpo, come a voler confermare quelle sue parole.
Sì. Mentre tutti bevevano, cantavano, si ubriacavano ed erano felici e gioiosi della proria vita, Raven aveva un'ideale. Quell'ideale lo aveva sfornato, aveva lucidato i contorni della sua imperfezione, a delle volte gli aveva inflitto dolore, altre volte aveva inflitto dolore ad altri. Per quell'ideale aveva vissuto, per quell'ideale aveva sofferto. E, - cosa peggiore di tutte le altre -, per quell'ideale aveva dovuto vestire una maschera, e portarla, ancora e ancora, ogni santo giorno di quella stramaledetta vita.
E tutto questo soltanto perchè... Sì. Lui era diverso. Era diverso fino alle radici. Era sempre stato diverso, ancora a cominciare dall'orfanotrofio di Kyoto, ove egli pian-piano si scopriva in grado di fare cose diverse, fino a qui, a Hogwarts. Fino a divenire uno dei più fidati servitore dell'Oscuro Dio, nonché, forse, il più fidato tra essi.
«Signor Shinretsu, Raven Shinretsu.» – Quasi in automaticò disse l'ex Corvonero, l'ex cercatore, l'ex duellante, l'ex capocasa Serpeverde, l'ex figlio, l'ex amico, l'ex... ragazzo. Gli fu difficile mandare giù la saliva, ma non lo fece a vedere. Il suo viso rimase impavido e glaciale, freddo e senza emozione alcuna, come sempre. Poi si sedette, con un gesto concentrato, calmo e delicato. Ogni movimento, come sempre, ben ponderato, ogni azione pensata fino a 4-5 mosse dopo. Dopo tutti gli eventi della sua vita, non poteva fare altrimenti; gli veniva in automatico.
La sua giovane interlocutrice lo avrebbe notato? Non aveva niente da nascondere, a parte i suoi ideali.
Poi rispose.
«Ha tanto l'aspetto di una mangiamorte, quanto di una auror. Può avere tanto l'aspetto di un Ungaro Spinato, quanto di una puffola pigmea. Io non giudico dalle apparenze.» – Poi ordinò del succo di frutta all'arancia. Ma lo avevano del succo di frutta all'arancia? Altrimenti avrebbe anche fatto bene a bere un po' di latte fresco, che avrebbe sicuramente fatto molto meglio del whiskey, rom o quello che è. Dopo tutte le avventure che aveva avuto grazie all'alcool, era proprio arrivata l'ora di chiudere con quella roba; altrimenti i folletti congolesi gli avrebbero di nuovo fatto visita, ed egli difficilmente avrebbe capito se stesse sognando, o se invece si trovasse nella realtà.
«Già.» – Confermò Raven poco dopo, nel mentre gli servivano il suo succo d'arancia. - «Quei bastardi... i Mangia...» – Ah! Sospirò. Poi si corresse, accentuando la prima parola della frase. - «Loro, insomma, stanno girovagando un po' qua e la per il Regno Unito. Non ci si può fidare più di nessuno. Nemmeno qui, a Hogsmead. Nemmeno tra gli auror. Nemmeno tra i docenti della scuola.» – Aveva forse l'aria di un paranoico che vedeva il male ovunque? La ragazza avrebbe potuto pensare che egli stesse esagerano, ma la realtà dei fatti era diversa: il male esisteva. Ed entrambi in quell'occasione siedevano davanti al proprio Male. Eh sì, Raven il Male lo vedeva ovunque: nelle maschere dei purosangue, che non volevano essere purosangue per via di una qualche specie di Fede superiore; nelle maschere dei semplici maghi, costretti a dover, a tutti i costi, camminare insieme ai mezzosangue, pranzare insieme ai mezzosangue, giocare... in mezzo a loro; nei docenti, nel Ministro Pompadour, nella Preside Bennet, che, pur rivestendo ruoli di fondamentale importanza non muovevano un dito; nelle creature magiche, nate e fatte per obbedire a chi aveva potere, a chi regnava, senza una volontà propria, e una propria decisione, - schiavi; e infine, negli auror, che pur essendo maghi, spesso purosangue, si erano dimenticati di esserlo, e avevano deciso di servire un'Ideale errato, sbagliato, illogico sino alle radici.
Un'ideale che avrebbe portato i maghi ad estinguersi.
«Mi creda: so difendermi quanto basta per sopravvivere, ma non so difendermi abbastanza bene, per sconfiggere loro.» – Di nuovo fece una smorfia, come di dolore e preoccupazione, accentuando la parola "loro". Poi continuò. - «Ho paura.» – Disse mentendo. - «Ma se vedo qualcuno di sospetto avvicinarsi al castello, morirò pur di salvare i miei studenti, pur di portare in salvo più vite possibili, pur di fare qualcosa che sia essenzialmente giusto. E poi...» – continuò sorsseggiando il suo succo, - «non avevo minimamente dubbio del fatto, che lei avesse paura. Stavo solo cercando di dimostrare quanto sia pericoloso per una donna, fare capolino in un posto pieno sì, di ubriachi, ma in netta maggioranza numerica.» – Bevve ancora. - «E tutto questo, mentre la fuori la neve risplende riflettendo i raggi lunari, e l'atmosfera natalizia non fa altro che chiamare coloro che la sentono, donando loro la poesia.»
Bevve ancora.
«Le dispiace presentarsi, Miss...?» – Quindi, finendo quel bicchiere di succo, ne avrebbe ordinato un altro e avrebbe atteso. Chi era la persona che si trovava dinnanzi? Voleva scoprirla, leggerla, capire se fosse Buona e Raven avrebbe potuto unirla alla causa, in un futuro remoto, od era cattiva, e quindi, vada come vada, l'avrebbe rieducata alla vita in mondo migliore.
Poi scosse il capo, senza motivo alcuno e in automatico, come a voler ricacciare dei pensieri indesiderati: gli venne in mente che la donna potesse appartenere alla 3° categoria, la più viscida, quella della massa grigia che vive per vivere, mangia per diminuire la fame, e non per sentire ogni singola sfumatura di sapore che il mondo, e il suo cibo, aveva da offrire, e beve per assetarsi, e non per sentire il sapore.
Scosse il capo di nuovo.
No.
Sembrava una combattente.



 
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Aquileia osservò con attenzione Raven sedersi davanti a lei, seguendo ogni suo movimento con lo sguardo. Si muoveva con una gesualità fluida ma misurata, quasi calcolata, le sarebbe venuto da dire, e il delicato sorriso che prima era disegnato sulle sue labbra, ora, aveva lasciato di nuovo il posto all'insondabile e fredda espressione che aveva notato prima. I suoi movimenti, che sembravano così studiati, formavano un abissale contrasto con il vociare sguaiato e la ressa confusionaria che li circondava.
La ragazza si guardò nuovamente intorno. Ce n'erano parecchie di persone alla Testa di Porco, quella sera. Non per niente, nonostante la sua pessima reputazione, era il locale in cui servivano i migliori alcolici di Hogsmeade, e soprattutto il whiskey incendiario. E per lo stesso motivo, non c'era da stupirsi che tutti, ma proprio tutti quelli che passavano da lì, finivano nel migliore dei casi per uscire barcollando dalla pesante porta di legno, magari dimenticandosi di lasciare il boccale e portandoselo a casa come souvenir. Oppure, se gli eventi si colorivano un po', ci scappava una bella rissa, e il San Mungo aveva qualche paziente bonus assicurato per il giorno dopo. L'aria era pesante, densa dei fumi dell'alcol e non solo di quelli. Aveva ragione l'uomo, quel locale era l'ultimo posto in cui una donna avrebbe dovuto entrare. Da ogni angolo, da ogni gesto, da ogni espressione delle persone sedute lì dentro, e anche nell'espressione furbastra di Aberforth, traspariva una sola, lampante, evidenza: l'animo umano poteva cadere in basso, con una facilità tale da stupire persino un bambino. Lì dentro c'era una delle tante forme in cui la meschinità si poteva impadronire di una persona, il degrado in cui ogni persona, anche la più inappuntabile, per un motivo o per l'altro, poteva cadere. E quello non era che l'inizio, perché Aquileia sapeva molto bene, che quella era la forma meno pericolosa, meno tagliente, meno assassina. Essere dei maniaci, essere dei depressi con tendenze violente, essere corrotti o essere dei ladri, era solo la punta dell'iceberg, o meglio, l'inizio della fossa. La discesa era lunga, e la ragazza sapeva bene, molto meglio di altre persone, che all'abisso oscuro che si può formare in una persona, non c'è mai fine. E' una profondità tanto infinita quanto spaventosa, che inghiotte tutti quelli che si lasciano trasportare dai propri istinti. E alla fine, l'unica ricompensa è l'Odio, quello vero, quello che ti consuma l'anima e che ti fornisce un biglietto di sola andata per il più buio degli inferni. La testa di Porco era l'esatta rappresentazione del primo gradino della fossa in cui lei stessa, per infinite volte, aveva rischiato di cadere. No, lei non era lì per cedere: lei era lì per RICORDARE. Per ricordare cosa avrebbe voluto dire cedere ai suoi istinti. Quello era il motivo che, sempre, realizzava di avere quando entrava lì.
Questo era ciò che pensava, ogni volta che entrava alla Testa di Porco, quando i ricordi si facevano talmente brucianti da toglierle il sonno. E lo pensava anche adesso, mentre il giovane professore prendeva posto davanti a lei. Ascoltandolo parlare, non poteva che dargli ragione: il male poteva essere dappertutto, e lui sembrava portare scritta addosso questa consapevolezza, proprio come la portava lei. Ad altri occhi, ad altre persone, un discorso come quello di Raven sarebbe potuto sembrare il mezzo delirio di un paranoico, forse. Ma non a lei, no.
"La diffidenza non è sempre un male, anzi, spesso è una delle armi più preziose per la propria sopravvivenza" commentò, pensierosa. *Anzi, è forse l'unica che ti permette di salvarti in tempo* pensò tra sé e sé, mentre Raven proseguiva a parlare. Senz'altro, sapeva essere gentile, e non poteva affatto dargli torto pensando alla bellissima atmosfera natalizia che regnava fuori. Anche lei se ne era accorta, ma era troppo assorbita dai suoi pensieri e dai suoi ricordi per assaporarla come avrebbe dovuto. Annuì con la testa: "Ora capisco perché voleva uscire" gli rispose, con un mezzo sorriso. Lo studiò nuovamente con attenzione. "E' ammirevole, ciò che dice, signor Shinretsu. Ha ragione, il male si può nascondere anche tra le persone a noi più vicine. E probabilmente lo fa talmente bene che nemmeno ce ne accorgiamo. Ma non è una cosa che fa stupire, a mio parere. Ognuno di noi, nel profondo del suo animo, possiede un lato oscuro. Semplicemente, a volte questo lato oscuro si manifesta, tutto qui" disse, imparziale. "Allo stesso modo in cui si manifesta la paura. Non è da codardi, provare paura, è da umani. Il problema non è che sensazione si prova, il problema è ciò che si sceglie di seguire. Un ideale sbagliato può portare alla rovina. E alla stessa maniera, lo può fare un ideale di per sé giusto, ma applicato secondo principi distorti". Lo guardò intensamente negli occhi. Probabilmente, i suoi studenti erano fieri di avere un professore così. Dalle sue parole, sembrava trasparire lo stesso sentimento da cui lei stessa era animata: la devozione per la giustizia. E non sembrava uno che temeva di guardare la propria umanità, perché non era da tutti ammettere di avere paura.
E allora cos'era quel piccolo, flebile, sottile senso di inquietudine che sentiva?
Cos'era quel lieve pizzichìo che sentiva nello stomaco, nel vedere quanto l'ardore delle sue parole contrastava invece con la fredda e impassibile espressione del suo volto e dei suoi occhi?
Forse era solo la sua diffidenza? Forse.
Ma se non fosse stato così?
Lo stava ancora guardando, le braccia rilassate sul tavolo, mentre finiva il suo discorso, e ripoggiava il bicchiere di succo appena finito. Lei non aveva ancora ordinato nulla, ma la sua diffidenza le diceva che sarebbe stato meglio restare lucida. Niente whiskey. Forse dopo, avrebbe preso anche lei un succo.
"Oh, certo. Mi chiamo Aquileia Goodheart" disse infine, "e lavoro come domatrice di creature magiche". Rispose seguendo il suo istinto. Tecnicamente non aveva mentito: i mangiamorte, e i maghi oscuri in generale, erano creature magiche, nella fattispecie creature umane magiche, e lei...beh, lei le riportava ad una condizione di giusta e dovuta obbedienza. In un certo senso, un Auror non era molto diverso da un domatore. Aveva solo fornito la sua personale versione della verità. Voleva studiare meglio quell'uomo, e capire cos'era che non la convinceva. E se si fosse sbagliata, poco male: si sarebbe passata una serata tranquilla in compagnia di una persona che sapeva apprezzare la bellezza del mondo.
 
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°Pensieri°
«Dialoghi»

Aquileia Goodheart, dunque. Domatrice di creature magiche, che siedeva dinnanzi a Raven in bella vista, guardandolo con due occhi dal colore diverso l'uno dall'altro, e – con tutta probabilità del caso -, riflettendo su chi fosse Raven e sul perché l'avesse inseguita. Certo, se Raven fosse stato in un ambiente babbano, avrebbero già pensato che egli fosse un maniaco che aveva seguito e rincorso una donna, colmo di intenzioni e pensieri sporchi. Invece lei, Aquileia Goodheart, per come si era presentata, siedeva dinnanzi a lui, tranquilla e probabilmente rilassata, rispondendogli, donandogli informazioni su di sé stesse, e, forse, nemmeno sospettando che si trovava dinnanzi a un uomo pieno di oscure ambizioni e di oscuri ideali. In fin dei conti, doveva ammettere Raven, le maschere non sempre facevano del male: spesso, esse donavano un viso al di fuori del proprio di viso; esse gli permettevano di fare in modo che nessuno vedesse il suo "Io", unico e vero, troppo prezioso ed oscuro per poter essere scrutato e osservato da occhi esterni, spesso impreparati per farlo.
Semplicemente sorrise.
«Creature magiche, dice?» – Poi si fermò. - «Sarei curioso di chiederle quali creature magiche, anche se immagino siano draghi, thestral o su per giù quella roba la.» – Quindi si fermò di nuovo, riflettendo sul cognome della miss Goodheart. Cuore buono? Un pessimo cognome; un cognome... Raven pensò per qualche attimo di fare una smorfia: non esistevano cuori buoni. Esistevano solo quelli che fingevano di essere buoni, e quelli che avevano scelto di non fingere. Le terze categorie, quelle dei cuori puri e buoni, erano assenti.
«Bhe.» – Sospirò Raven. - «Io insegno ai miei allievi a volare.» – Disse con voce fredda e inespressiva. - «Immagino dunque che il suo lavoro sia ben più interessante del mio: domare i draghi era la mia passione quand'ero un bambino.» – Sospirò sincero. Sì, i draghi gli mettevano sempre addosso un incredibile fascino: mettere giù delle creature simili, domarli, fare in modo che obbedissero ai suoi ordini, che facessero come dice, ritrovarli piegati sul palmo della propria mano, disposti a tutto, pur di aiutare il loro padrone nella sua scalata verso il potere, verso la conquista del Mondo e dei cuori delle persone. Prima o poi avrebbe chiesto a quella donna, se non se la fosse dimenticata il giorno dopo, di permettergli di domare un drago. Chissà se avrebbe acconsentito...
«Mi permetta però di dissentire con lei, gentile signora:» – disse, mettendo da parte il bicchiere vuoto dopo il succo d'arancia, e tornando a fissare entrambi gli occhi della giovane domatrice – «la miglior arma per la propria sopravvivenza è l'intelligenza; la diffidenza né è solo un frutto.»
Capiva il motivo per cui Raven volesse uscire? Il Docente la guardò meglio. Sembrava forse preoccupata? Triste? Forse era soltanto uno di quei profondi istinti che di tanto in tanto facevano capolino nella mente di Raven, suggerendogli questo o quello, o ancora quell'altro. Ogni tanto quell'istinto azzeccava la risposta esatta, confermando quel che Raven sapeva di suo: gli istinti battevano spesso la logica e la razionalit; loro non avevano limiti, mentre l'uomo razionale se li prefiggeva da solo.
«Lei conosce un modo per distinguere gli ideali distorti e i principi distori, da quelli sani?» – Chiese curioso. Poi proseguì: - «Le persone non hanno un modo per distinguere il vero dal falso; non hanno un modo per dividere, non hanno un modo per capire. E' quello che li trasforma in persone cattive.»
Il lato oscuro che si manifesta... No, pensò Raven. Esso non si manifesta; esso torna alla ribalta, risorgendo dalle profondità dell'anima umana, e colpisce dritto, facendo centro e andando a segno. Però non rispose. Non voleva attirarsi altri sguardi curiosi, non voleva mettere in pericolo la sua reputazione; Shinretsu Raven voleva continuare ad apparire nelle vesti di un'abile docente, che odia i mangiamorte, ama gli auror, e vuole far sì che il mondo risorga dalle sue ceneri.
Era quella la sua priorità.


 
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Se c'era una cosa che Aquileia adorava, in situazioni del genere, era la possibilità di spacciarsi per qualcun'altra senza sentirsi in dovere di provare rimorsi per aver mentito. Lei non era una persona che amava mentire: se lo faceva, era per pura necessità o per diffidenza, mai per inganno. "Non dire mai bugie, perché non è onesto" recitava il vecchio adagio. Ma in questo caso non c'era stato bisogno di mentire: non solo l'essere domatrice era una similitudine con il suo lavoro attuale, ma era anche ciò che lei effettivamente era, visto che aveva studiato per quello. E d'altronde, lo stesso adagio continuava: "non dire sempre tutta la verità, perché non è necessario". *E a quanto pare, il bel professore qui se l'è bevuta* pensò, mentre lo ascoltava, appoggiando la schiena alla sedia. Quando Raven nominò i thestral, Aquileia abbassò lo sguardo per un istante, per celare la tristezza. *Sì, anche i thestral*. Attese un momento, prima di riportare lo sguardo sul giovane professore di volo. Una breve pausa, per ricacciare indietro quello sconforto che provava, lo stesso che si era impadronito di lei quando, un anno prima, si era resa conto di poterli vedere, e aveva desiderato, disperata, che quel momento non fosse mai arrivato.
"Sì, immagina bene" rispose, rialzando gli occhi e riportando lo sguardo su di lui. "Cavalli alati, Grifoni e Sfingi sono la mia specialità" proseguì, portandosi le mani dietro la nuca e iniziando a sciogliersi i capelli. "Ma mi è capitato qualche Drago, ogni tanto" aggiunse, sistemandosi i lunghi ricci sulle spalle, e ripoggiando i gomiti sul tavolo, avvicinandosi verso il giovane professore. "Oh, ogni lavoro ha i suoi lati interessanti. Il suo implica una grande responsabilità verso i giovani studenti, soprattutto per la materia che insegna. Non deve essere facile vederli rischiare di cadere tutte le volte dalle loro scope" rispose, inclinando la testa verso destra. Ancora quella voce fredda e senza espressione, ancora quello sguardo assente, quel contrasto così accentuato che l'aveva fatta insospettire. Forse il professore era semplicemente insoddisfatto del proprio lavoro. Oppure no?
"Domava draghi da bambino?". Aquileia sgranò gli occhi e sollevò entrambe le sopracciglia, accennando un sorriso conciliante. *Però. O non mi crede e vuole mettermi alla prova, oppure non sa ciò di cui sta parlando* pensò. Era semplicemente impossibile che un bambino sapesse domare un drago, se non altro per l'enorme resistenza fisica richiesta da un compito del genere. << Ma alle creature magiche bisogna dare corda, Leia. Avvicinati a loro e fatti avvicinare. Devono arrivare a fidarsi di te >> le diceva sempre Hazel, la sua istruttrice, a Durmstrang. Così, gli diede corda: "Docente di volo, ex-domatore di draghi, solerte sentinella della notte. Sembra che lei sappia fare diverse cose" gli rispose, con sguardo compiaciuto, mentre lui la guardava, apparentemente assorto nei suoi pensieri. Se voleva studiarlo, doveva avvicinarsi a lui. *Proprio come con i Grifoni*.
"Beh, indubbiamente l'intelligenza lo è. Credo che il peso che si dà all'una o all'altra cosa dipenda molto dal tipo di situazione e dalle proprie esperienze" rispose semplicemente alla prima affermazione di Raven. Alla luce di quelle parole, l'impressione di un uomo calcolatore, che aveva avuto prima mentre osservava i suoi movimenti, si rafforzò un poco. Ma insieme a quell'impressione, si rafforzò anche la sensazione che quell'essere calcolatore non fosse per prudenza. Lo scrutò con interesse, nel sentire la sua ultima affermazione, mentre si portava la mano destra al mento. Non doveva essere uno che aveva molta fiducia nelle persone. Ma era semplice pessimismo...o era disprezzo?
"Tutti lo conosciamo, signor Shinretsu. E' la nostra dignità" gli rispose, guardandolo intensamente in volto. "Non esiste persona più debole e meschina di chi sacrifica la propria dignità, o quella di qualcun altro, per inseguire un ideale. E qualunque ideale o principio che chieda di sacrificare la dignità personale, è un ideale o un principio sbagliato". Riportò la mano sul tavolo, senza smettere di guardarlo negli occhi. "Perché, altrimenti, lei avrebbe detto di essere disposto a morire per salvare i suoi studenti, per fare qualcosa di essenzialmente giusto?". Si fermò, e senza rendersene conto, si sfiorò il suo anello. E le tornò in mente quella notte, quando si era rialzata dal corpo senza vita di lui, aveva brandito la bacchetta verso la notte, folle di odio e di dolore, e dentro di lei erano esplose per un momento quelle due terrificanti parole: *Avada Kedavra*. Ma aveva scelto di non lasciarle uscire. Aveva scelto di non lasciarsi vincere, e sapeva di avere scelto bene. Sapeva di non essere scesa nell'abisso da cui provenivano quegli assassini. Era questo che l'aveva resa forte: la consapevolezza di essere padrona di se stessa.
Continuò a scrutarlo in viso, mentre le sorgeva una domanda. Aquileia non sapeva fare giri di parole: se voleva sapere una cosa, semplicemente, la chiedeva. Poteva essere una domanda rischiosa: avrebbe potuto smentire le sue impressioni, ma d'altro canto, avrebbe invece potuto confermarle. Senza esitazioni, infine, la fece.
"E il suo criterio, invece, qual è, professor Shinretsu?".
 
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«Dialoghi»

«Certo.» – Rispose Raven alla domanda della giovane domatrice. - «Ho domato due Longhorn rumeni, tre neri delle ibridi, un ungaro spinato, e, se non sbaglio, anche un petardo cinese... Però di quest'ultimo, in effetti, non mi ricordo tutte le particolarità.» – Poi sospirò. - «La cosa avveniva soltanto nella mia testa, ma perché allora non potrebbe essere reale?» – Chiese, riferendosi al lavoro che aveva sognato, e che, se non fosse per quella sua maledetta scopa e i suoi stramaledetti successi su un campo di Quidditch, avrebbe sicuramente svolto. Del resto, se era riuscito a domarli quei draghi nella propria fantasia, e a fantasticare su come lo avrebbe fatto da adulto, sarebbe sicuramente riuscito a farlo anche nella realtà. Poi, bhe, poco importava se nella realtà non aveva mai visto un drago vero con i propri occhi e si era limitato a sentire storie varie, a leggere su di essi, e fantasticare su di sé stesso, con una spada di luce nella mano, a cavalcare un drago. Non era forse fantastica? Era sublime.
E così, aveva dinnanzi una domatrice di sfingi, cavalli alati, e grifoni. Bhe, tralasciando i grifoni – quelli Raven li amava domare da sé durante i duelli nel castello -, le altre due creature lo incuriosivano alquanto: i cavalli alati li avrebbe domati quando avrebbe raccolto il proprio esercito alla volta della conquista di Hogwarts e del mondo magico intero; le sfingi, bhe, se ne avrebbe fatto il suo corpo speciale, la sua arma preferita. Se fosse riuscito a piegare la volontà delle creature magiche, chi più lo avrebbe sconfitto? La magia stessa si sarebbe posta al suo comando, e lui l'avrebbe usata nel metodo che più gli si addiceva: per riportare l'ordine delle cose nel mondo.
«Al più, » – rispose Raven, - «il mio implica di dover correggere montagne noiose di compiti e ogni tanto andare al campo di volo, per vedere come dei primini si impegnano cercando di indirizzare il proprio manico di scopa nel punto giusto. Una noia totale, mi creda.» – "Avrei preferito domare i draghi. O anche i cavalli alati. O persino le puffole pigmee... Anche solo dentro la mia mente, oppure al di fuori di essa" – «Tuttavia, mi pagano bene, quindi non mi lamento affatto.»- Aggiunse Raven. Poi continuò: - «E più che sentinella, mi direi piuttosto un'anima in pena che non ha voglia di dormire, e vuole semplicemente osservare il mondo per com'è veramente: meraviglioso e splendido.» – Il suo sguardo si rivolse di nuovo fuori, oltre la finestra, ove i fiocchi di neve continuavano a scendere giù lentamente, e ove la luce della una veniva riflessa, formando quel che Raven amava, forse troppo frettolosamente, definire "poesia".
Poi sorrise, lievementre allargando gli angoli delle labbra.
"Dignità". - Pensò. La cosa gli sviluppò dentro un intenso vortice di emozioni, più che altro, positive. La dignità... Quindi, uccidere per i propri ideali non era dignitoso? E, sempre per i propri ideali, mandare gente ad Azkaban, ove si uccideva torturava, si privava la persona della propria anima, dei propri ricordi felici, e di tutto ciò che di positivo vi poteva essere? Volle sorridere ancora, ancora, ancora e ancora, ma non lo fece, facendolo solo nella propria anima e nei pensieri, piuttosto conservando quella sua espressione fredda e glaciale, come la neve fuori. Per altro, sapeva tenere il controllo della situazione: le sue dita, ognuna di esse controllare, seguite dalla propria mente, continuavano a tamburellare lentamente sul massiccio tavolo dinnanzi al quale l'ex Corvonero era seduto. Dignità... Punto di vista, quindi. Un concetto astratto, allora. Uno di quelli che non si avvicinava alla comprensione delle cose, né le abbracciava, né le capiva. La dignità...
Non serviva altro per capire che la persona dinnanzi alla quale Raven si trovava, faceva parte della schiera opposta d'anime. La dignità, per come la maggior parte dei maghi e streghe la intendevano, era soltanto un concetto sacrificabile per un scopo più grande. Quel che contava era altro, specialmente, quando il mondo magico intero era in pericolo per colpa di concetti ed idee astratte; per colpa, quindi, di menti che non comprendevano la reale portatà delle cose, che mettevano in dubbio e in rischio millenni di esistenza.
Doveva fermarli.
Poi abbassò il capo.
"Non esistono cose essenzialmente giuste". - Pensò.
«Non esistono cose essenzialmente giuste.» – Disse, esplicando i suoi pensieri. - «E nemmeno cose essenzialmente sbagliate. E' tutto relativo.» – Rispose. - «Per me, ogni morte, che sia magica o babbana, che sia di auror o di mangiamorte, che sia persino di un drago o di un unicorno, è una grande tragedia, al di fuori di tutti i discorsi sul gusto/sbagliato, sul bene/male che se ne possono fare.» – Rispose, in parte mentendo, in parte dicendo cose vere. Non gli importava nulla né delle creature magiche, mentre molto di più gli importava degli auror. Mentre le creature erano nate inferiori e quindi per via di un ordine naturale delle cose dovevano sottostare alla legge magica e ai maghi in generale, gli auror avevano scelto, per via della propria indole, ad ergersi alla difesa di ciò che essi consideravano il Bene. I primi li avrebbe sottomessi, i secondi – rieducati, con il dolore e con la sua filosofia, la filosofia del dolore, a vedere le cose senza il prosciutto sugli occhi: vedere le cose, per come realmente erano. Ci sarebbe voluto del sangue e del tempo, ma alla fine delle cose, Raven sarebbe riuscito nella propria intenzione.
«Questo è il mio criterio: la morte.» – Aggiunse.
Quindi, con voce calma, fredda, quasi atona, chiese:
«Invece, mandare gente ad Azkaban...» – "ma saprà cos'è l'Azkaban?" - «E' essenzialmente giusto, o essenzialmente sbagliato? Mandare delle persone, dei maghi, nelle braccia dell'infelicità totale, della morte dell'anima, ma anche della pazzia, è giusto? Fare in modo che essi perdano la propria dignità, e se l'hanno già persa, permettergli di rimanere senza di essa per sempre, è giusto? E' giusto ergersi a paladini della giustizia, dicendo di rispecchiare il pensiero di tutti, in contempo rispecchiando soltanto il proprio, soggettivo, punto di vista?»
Poi si fermò.
«E' per questo che non amo particolarmente né gli uni, né gli altri.» – Aggiunse infine. - «Perché né gli uni, né gli altri riescono a vedere le cose al di fuori del proprio odio. Né gli uni, né gli altri riescono a capirsi a vicenda. Nè gli auror, né i mangia... ehm...» – Si fermò, tossendo. - «...riescono a vedere la cosa nella propria completezza: piuttosto di sedersi dinnanzi al tavolo delle trattative, continuano a uccidersi; le persone continuano a morire e il sangue a bagnare il terreno. Dopo la morte di un auror, muore un mangiamorte. Dopo la morte di un mangiamorte, morirà un auror.» – Disse, gelido. - «E' un cerchio. E un cerchio, come lei ben sa, non ha né fine, né inizio; esso continua per l'eternità.»
"E così continuerà" – Pensò il Docente, continuando i propri pensieri. - «A meno che una delle due fazioni non trionferà sull'altra, dopo una battaglia e un alto numero di morti. Solo dopo ci potrà essere la Pace.»
"Pace. Che solo io sarò in grado di ergere a difesa del sangue magico".





 
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La ragazza accentuò il suo sorriso conciliante, nel sentire Raven che srotolava l'elenco di draghi da lui domati, accompagnandolo con uno sguardo ostentatamente compiaciuto. Il professore di volo doveva essere uno un po' narcisista, evidentemente, ai limiti del surreale. *Ma pensa. Ben sette draghi, ha domato, il professore*. La ragazza non riuscì a trattenere un "Però!", mentre nel suo sorriso cominciava a spuntare il primo accenno di sarcasmo. Ma subito dopo, il suo sorriso cambiò sfumatura, lasciando spazio al divertimento sincero. "Giusto. Almeno i sogni bisogna farli in grande" convenne. Anche lei, del resto, da bambina, si era immaginata infinite volte a cavallo di quegli animali magnifici, volando con la fantasia anche grazie alle storie che le raccontava suo papà. Allo stesso modo Raven doveva essere un sognatore. E a quanto pareva, non era andata tanto lontano pensando che non era completamente soddisfatto del suo lavoro. "Mi sa che ogni lavoro ha la sua parte noiosa. Anche io in certi momenti ho un mucchio di scartoffie da compilare. Noiosa burocrazia che però, purtroppo, è necessaria" rispose, con un vago gesto della mano. Beh, al posto dei permessi e dei moduli di rilascio delle patenti per animali feroci, ora compilava verbali e rapporti dei pattugliamenti... ma il vecchio adagio aveva sempre ragione. "Beh, sì, anche se i soldi non sono la cosa più importante, bisogna riconoscere che sono un ottimo incentivo per tenersi il lavoro, noie comprese" gli rispose, annuendo con la testa. Lo sguardo della ragazza seguì poi quello di Raven, verso la finestra, oltre la quale si vedeva il manto di neve ricoprire i tetti delle case e la strada, mentre i fiocchi delicati continuavano a cadere con la loro dolce e algida calma. "Già. E' veramente molto bello là fuori" disse, quasi sussurrando, mentre contemplava quella morbida atmosfera invernale. Solo ora se ne accorgeva, osservando fuori con più calma, di quanto anche quel piccolo villaggio, che di notte la turbava tanto, potesse essere così bello.
Riportò il suo sguardo sul giovane professore, mentre lui ricominciava a parlare. E mentre lo ascoltava, la sua epressione si faceva di nuovo poco convinta. Ma come? Per lui non esistevano cose giuste o sbagliate, quando solo poco prima aveva parlato di "qualcosa di essenzialmente giusto"? Lo guardò ancora, le iridi chiaroscure piantate negli occhi nerissimi di lui. Era tutto relativo, diceva. Ma prima sembrava aver preso una posizione chiara. Ancora conraddizioni. C'era qualcosa che non le piaceva, nel suo discorso: sembrava che dietro ci fosse qualcosa, qualcosa di più radicato delle semplici opinioni su eventi generici. E quando finì di parlare, la sensazione di inquietudine che aveva provato all'inizio, vedendolo, si acuì all'improvviso. I muscoli di Aquileia iniziarono a tendersi, quando lo sentì pronunciare la frase: "Questo è il mio criterio: la morte". Rizzò lentamente la schiena. Nei suoi occhi passò un lampo di consapevolezza. Le contraddizioni, le sue parole ardite ma la sua voce fredda e il suo sguardo glaciale. Possibile? Possibile che lui fosse...? No. Non poteva essere. Era tardi, erano nel pub più malfamato di tutta la contea, e lei era troppo condizionata dai suoi ricordi, che quella sera non l'avevano lasciata in pace. Sì, sì, forse la ragazza era un po' troppo diffidente, anche per una situazione come quella.

*O no?*.
Era tutto relativo? Davvero? Era relativo decidere della vita di qualcuno, sulla base di criteri puramente soggettivi? Chi era, a dare questo potere alle persone, ai maghi? Chi si poteva permettere di autoeleggersi a tal punto paladino della comunità magica? Eccola, la trappola. Un'altra trappola, in cui lei aveva rischiato di cadere: la relatività degli eventi. Certe cose erano talmente terribili che sarebbe stato facile addurre qualunque tipo di giustificazione. Troppo, troppo facile. "No. Non credo alla relatività delle cose. Non a tutte, per lo meno" rispose, senza commentare altrimenti.
"Azkaban non è un luogo in cui si trova l'infelicità" proseguì poi. "Azkaban è una prigione, e in quanto tale, serve per far scontare delle pene. Di certo la sorte che attende gli assassini detenuti là dentro è terrorizzante. I dissennatori non guardano in faccia nessuno, non conoscono il perdono, e a differenza degli uomini, non sanno scegliere. Non hanno sentimenti, e non concendono grazie né sconti.". Aquileia fissò Raven negli occhi, e inarcò un sopracciglio "Ma questo, i criminali, lo sanno. Sanno perfettamente che là dentro, ad Azkaban, non c'è alcuna pietà, per loro. E allo stesso modo, sanno perfettamente che la reclusione ad Azkaban è la punizione che la legge prescrive per un assassinio, o per l'utilizzo di una maledizione senza perdono. E' nella definizione stessa, d'altronde: senza perdono". Raccolse le mani davanti a sé. "La pazzia, la morte dell'anima, sono terribili, certo. Ma sono semplici conseguenze delle loro scelte. Non è ad Azkaban che perdono la dignità: la perdono portando via la vita di qualcuno per pura crudeltà. Quando ci arrivano, la loro dignità l'hanno già persa. E per scelta loro." Stavolta fu la sua voce, ad assumere una sfumatura gelida. "Non esiste redenzione, per una strada del genere".
Poi si fermò, riflettendo sulle ultime parole di Raven. Ancora quella sensazione, ancora più acuta, quel pizzichìo nello stomaco, che si faceva sempre più intenso. I muscoli ancora tesi, lo sguardo ancora fisso negli occhi di lui. Un leggero fremito le percorse le braccia, quasi impercettibile. Lei sapeva cos'era: era l'Odio. L'Odio che lei teneva imprigionato dentro di lei, che ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo, tentava in continuazione di domare. I draghi, le manticore, i basilischi, non erano niente. Era l'Odio, la vera bestia feroce, l'unica, da domare definitivamente. Tesa, all'erta, ma controllata, misurando il tono di voce, rispose: "Ma sono d'accordo con lei. Un cerchio del genere non si chiuderà tanto facilmente, ed è inevitabile che una fazione debba dominare sull'altra. E a volte, l'unica strada è combattere". Ci credeva? Oh, certo che ci credeva. Con tutta se stessa, tanto che si era messa al completo servizio delle forze del bene, tanto che aveva messo a repentaglio la sua stessa vita, per il Bene Comune. E mai, per nessuna ragiona al mondo, si sarebbe separata da quella causa.
 
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Quasi dovette dirsi contento di come stava procedendo la cosa. Glaciale, misterioso, a tratti incomprensibile, a tratti intuibile; era l'esempio perfetto di un essere che amorfo, un essere che non nessuno avrebbe mai compreso, senza scavare a fondo della sua storia, senza entrare, di forza, nella sua testa. Ascoltando le parole della giovane domatrice, non diede alcuna risposta, né alcun segno si mostrò sul suo volto. Rimase seduto, fermo, completamente immobile, lo sguardo, non senza alcune note dell'oscuro, puntanto in avanti, verso le linee gentili della donna dinnanzi e verso i suoi bicromatici.
Poi scosse il capo, come a voler dire un "No".
«Sì.» – Disse. - «Ha ragione: l'unica strada è combattere. L'unica strada è odiare. La morte, a quanto pare anche secondo lei, è l'unico criterio, seppure con l'aggiunta del dolore che prova la controparte, poiché, e mi creda, più grande è il dolore che si prova per via di un incantesimo, più grande è la soddisfazione di chi quell'incantesimo ha lanciato. In pratica, la sua scelta, la sua via d'uscita è la guerra, la violenza, un alto numero di morti e di feriti, e una devastazione totale. Il Caos.»
In altre occasioni avrebbe voluto sorridere, ma si tenne rigido, inespressivo, e la sua voce, che fino a quel momento aveva un pizzico di vitalità, tutto d'un tratto divenne freddamente atona; vi era il buio, il freddo, la notte, e il ghiaccio, in quella voce. Vi era la totale assenza di felicità, o di una qualsiasi altra cosa che gli umani, babbani o maghi, identificavano come "emozione positiva". Poteva amare soltanto per l'egoismo del volerlo fare, ma in contempo, ascoltando i discorsi della giovane domatrice di draghi, non poteva che provare tristezza per lei, e per chiunque la pensasse come lei. Combattere, quindi. Strano, perché probabilmente non sapeva quel che diceva: i mangiamorte, e Raven come uno di essi, non avevano volto, carattere, nome. Essi potevano essere ovunque, potevano essere chiunque. Essi potevano spuntare da sotto il tavolo, oppure pugnalartii alle spalle nel mentre fai la fila per comprarti qualcosa. Era un esercito di maghi, devoti, maghi purosangue, maghi abili, che agiva nascosto da un velo di nebbia, che agiva con l'oscurità, ma che altrettanto abilmente poteva colpirti di giorno. Lei questo lo sapeva?
Raven non sapeva chi fosse la ragazza, né intuiva il motivo per cui lei, una semplice passante, una semplice domatrice di draghi avesse scelto proprio quella via, la via peggiore di tutte. Probabilmente schierandosi quindi con le forze del cosìdetto "Bene" – non che al Docente dispiacesse di essere dalla parte del "Male", giacché il Male, il torto, quindi, era l'unica Via Vera rimasta -, avrebbe lottato, combattuto, graffiato, il tutto per essere caduta vittima di una propaganda falsa e meschina; una propaganda perbenista e illogica.
Ognuno fa i suoi errori...
Tutto d'un tratto volle rispondergli qualcosa, magari alzarsi, gridarle contro e uscirne. Però si tenne seduto, rigido e tranquillo, come prima. C'era, del resto, da aspettarselo.
"Per pura crudeltà... Tsk." - Pensò.
«Non so cosa conoscono i "criminali".» – Disse serio. - «So però di certo,» – continuò scuotendo lievemente il capo a destra e a sinistra, - «che nessuno fa niente a nessuno per pura crudeltà. Penso debba capirlo anche lei, altrimenti potrei dire che lei, per pura crudeltà, si diverte a domare cavalli alati, spezzando le loro ali, e privando della gioia di volare.»
"Non vanno ad Azkaban, a soffrire pene infernali, per colpa della propria crudeltà. Vanno ad Azkaban per colpa dei propri punti di vista." - Gli venne da dire. - "Per colpa del sistema che avete creato. Per colpa delle maschere volanti. Loro sono dei combattenti per la la libertà del mondo magico. Loro sono degli eroi, il cui nome dev'essere scolpito nelle statue di bronze ad honorem. Chi siete voi per infliggere delle pene? Chi siete voi per condannare un mago o una strega a una vita senza vedere la luce del sole? State tagliando da soli il ramo su cui state seduti." - Pensò, non dando modo alla ragazza né di capire quel che pensava, né di intuirlo; il suo viso, - una maschera tranquilla e calma, come l'acqua, - non lasciava trasparire nulla, lo sguardo del Docente continuava a studiare le iridi bricolore della giovane domatrice di draghi.
«Non esiste la redenzione, dice...» – Disse Raven. Voce atona come prima. - «Non si ricorda mica il famoso aforisma, secondo il quale il miglior guerriero è colui che riesce a trasformare il proprio nemico in amico?»
"Decisamente più intelligente che schierarsi contro a delle forze, la cui potenza a noi rimane sconosciuta. Delle forze grandi, oscure, che di tanto in tanto escono dalla tomba, e solcano i cieli. Vuole combattere contro qualcose che ufficialmente nemmeno esiste... Un po' come cercare l'ago in un pagliaio nel mentre prendendosi a cappocciate da soli."
Gli auror non avevano speranza di vincere contro un esercito fantasma che compariva dove volveva, colpiva a tradimento, faceva imboscate ed era invisibile, figurarsi quindi una semplice domatrice di draghi. Non che Raven nutrisse dei dubbi sulla sua bravura nell'addomesticare gli animali, è semplicemente che al posto degli animali si potevano addomesticare i babbani, o gli auror... Il risultato sarebbe stato decisamente più soddisfaccente, e avrebbe anche fatto del Bene al mondo!
Quindi, nei suoi pensieri, dovette correggersi: gli auror avevano già perso la loro guerra. Raven, il portatore della Runa, l'allievo preferito dell'Oscuro Dio, era li, nel castello, libero accanto alla Preside. Libero di colpire. Dov'erano le spie degli auror? Perché non lo avevano scoperto?
«Però.» – Disse. - «Devo ammettere che è una personalità al di fuori del comune lei. Domatrice di bestie, difenditrice del punto di vista del Bene, colei che vuole la Giustizia, e che, relativamente al proprio punto di vista giustifica i metodi barbari dell'Azkaban... Beh, non che non condivida il suo punto di vista. E' che vorrei evitare una guerra infinita e usare la diplomazia, ma sono una pedina al di fuori della scacchiera, quindi meglio che rimanga in silenzio. »
Poi si alzò, come per andarsene.
«Non le va una passeggiata, miss Goodheart?» – Sorrise lievemente, mettendosi il cappello. - «C'è una notte splendida e magica la fuori. Capita raramente da queste parti. Inoltre, » – disse – «le farò vedere il castello e i dintorni. Oggi sembra che siano splendidi anch'essi.»
E preparatosi per uscire, scosse il capo, come a voler dire un altro "No". Ormai gli veniva in automatico quel gesto, chissà se la ragazza lo avrebbe capito.
 
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view post Posted on 5/1/2015, 19:40
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«And the only solution was to stand and fight» Merlino ballerino!

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La ragazza ascoltò la risposta di Raven. La morte per lei era l'unico criterio? Sì, forse in certi momenti poteva esserlo. In certi momenti, la bestia dell'Odio era così forte, che la ragazza non poteva fare a meno di pensare a quanto le sarebbe piaciuto vedere tutti loro, uno per uno, morire atrocemente tra le braccia di centinaia di dissennatori, o chissà in quale altro modo, urlando, chiedendo pietà, supplicando, versando fino all'ultima goccia di sangue o fino all'ultimo barlume di ragione, mentre lei sarebbe rimasta lì a guardare e a sorridere. Sì. C'erano dei momenti in cui l'Odio sapeva bene come impadronirsi di lei. Ma c'era una cosa che, più di ogni altra, proteggeva la sua anima dal perdersi e dal cadere. Una cosa che, paradossalmente, avrebbe potuto renderla debole oltre ogni misura e speranza, e invece era per lei lo scudo più tenace e inattaccabile: la Paura. Lei aveva visto l'Odio, lo sentiva dentro di lei, lo percepiva fisicamente in tutte le fibre del suo corpo, e quella era l'unica cosa al mondo che le metteva paura. Era la Paura di provare Odio, che bloccava l'Odio dentro di lei, proprio perché conosceva ciò che l'Odio poteva causare. E lei aveva imparato a servirsi della Paura, per trovare il Coraggio di lottare. Aveva imparato a sfruttarla per dominarsi. La Paura era la frusta che domava la bestia dell'Odio dentro di lei. E in questo stato di cose, la Morte non poteva essere il suo criterio. Lei non era un'assassina: lei era un'Auror, lei combatteva per la Giustizia, e Giustizia voleva dire difendersi, catturare i criminali, e assicurarli alla legge. Nient'altro. Era un compito che trascendeva dall'umanità della persona, per cui ogni sentimento, ogni parzialità, dovevano essere messi da parte.
Mentre ascoltava il giovane professore parlare, un sorriso le si disegnò sul volto, mentre si preparava a rispondergli. Ma ad un certo punto, la sua espressione cambiò. Indietreggiò con il busto, lentamente, gli occhi sbarrati, le labbra che si schiudevano in un'espressione di repentina sorpresa, nel vedere un lampo di ferocia -ma l'aveva visto davvero?- negli occhi di Raven, e nel sentire la sua voce diventare non solo atona, ma addirittura buia, fredda, glaciale, nel pronunciare una frase.
"..mi creda, più grande è il dolore che si prova per via di un incantesimo, più grande è la soddisfazione di chi quell'incantesimo l'ha lanciato.".
Quel pizzichìo allo stomaco si trasformò in una morsa, forte, quasi stritolante.
Soddisfazione? Soddisfazione di chi lancia un incantesimo per causare dolore? Che cosa ne sapeva? E poi, quel "mi creda", che cosa voleva dire?
Una profonda consapevolezza si fece strada dentro di lei. Non poteva averne l'assoluta certezza, non aveva prove, solo sensazioni soggettive e del tutto personali, ma quella frase, quel "mi creda", quella voce, e soprattutto quel lampo nei suoi occhi, se veramente l'aveva visto, le fecero realizzare di trovarsi davanti a qualcuno che celava dentro di lui molto più di quanto non facesse vedere. Per un attimo, Aquileia pensò di trovarsi davanti ad uno di quegli assassini.
Ma poteva esserne certa? D'altronde, non aveva detto nulla che lo bollasse chiaramente come assassino, o addirittura come mangiamorte. Erano semplicemente ad un tavolo, che discutevano sulle loro opinioni -
*o no?* -, che evidentemente erano diverse. Era un reato questo? Sicuramente no. No, la tattica giusta era calmare le acque. Anche lei, d'altronde, non si era fatta scoprire, non aveva fatto capire di essere un'Auror; i suoi discorsi potevano essere quelli di chiunque altro, nessuno avrebbe mai potuto pensare che lei combatteva realmente per la causa che sosteneva, meno che mai avrebbero potuto pensarlo di una giovane donna, che se ne andava tutta sola alla Testa di Porco. Riprese quindi il controllo dei suoi gesti, si appoggiò allo schienale della sedia, e con voce neutra rispose semplicemente: "No, signor Shinretsu. Il mio criterio non è la Morte, né tantomeno la mia strada è l'Odio". *Anche se lo sento dentro di me*. "Credo semplicemente che sia necessario combattere, per difendersi. Anche con certe creature magiche, a volte, è necessario. E poi, non lo fa anche lei, per difendere chi ama, o chi le sta a cuore? Lo ha detto prima" gli disse. Poi proseguì: "E questo non implica necessariamente uccidere". Iniziò a raccogliersi nuovamente i capelli. "Ma è interessante l'aforisma che ha citato. Nietzsche, se non ricordo male. Trasformare il proprio nemico in amico può essere davvero un'ottima strategia...". Lo guardò intensamente. "...a patto di essere disposti ad accettare compromessi". *Cosa che personalmente, non condivido affatto* avrebbe voluto continuare. E non c'era cosa più vera: mai lei sarebbe scesa a compromessi con la fazione del Male, in nessuno caso e in nessuna occasione. Per lei, sarebbe stato come vendersi. Non voleva avere niente da spartire in nessun modo, con nessuno di loro. Soprattutto nel suo lavoro. Un Auror non scendeva a compromessi, con niente e con nessuno. Questa era una delle cose che li differenziava dai Mangiamorte. Era vero, forse ancora molte battaglie dovevano succedersi prima che gli Auror domassero definitivamente le forze del Male. Ma lo avrebbero fatto.
Comunque, non era il caso di esternare completamente le sue opinioni, soprattutto se davvero le sue intuizioni erano giuste. Doveva continuare a parlare come se nulla fosse, semplicemente portando avanti il discorso.
"Non giustifico i metodi barbari di Azkaban. Dico semplicemente che sono notoriamente tali, e che potrebbero essere un ottimo motivo per cercare di non finirci dentro, pensandoci prima. Non credo che godrei nel vedere qualcuno morire per il bacio di un dissennatore. Piuttosto, proverei pena per lui" disse. "Ma sono d'accordo. Io sono una semplice domatrice, e come lei sono solo una spettatrice. Non abbiamo gran voce in capitolo, solo le nostre opinioni". Poi lo osservò bene, per memorizzare ogni suo tratto. Le iridi chiaroscure studiarono il suo viso delicato e glaciale, e lentamente si mossero lungo il suo corpo alto e muscoloso. E si accorse, in quel momento, di una cicatrice vicino all'occhio sinistro di lui, non molto grande, ma visibile in quella particolare angolazione di luce, e di un simbolo tatuato sulla sua mano destra, che di primo acchito sembrava runico. Come gli occhi bicolore tradivano lei, quei due segni particolari rendevano subito riconoscibile lui. *Bene. Se ho intuito giusto, in questo saremo alla pari*.
Ma erano davvero veritiere le sue sensazioni? Aveva intuito giusto? Non poteva saperlo. Sarebbe stato utile scoprirlo? Probabilmente sì. Sarebbe stato pericoloso? Quasi sicuramente, sì. Anche gli Ippogrifi, tra le creature grandi più innocue, se paragonate a Grifoni e Draghi, potevano essere mortali. Così, rifletté un momento sull'invito di Raven, sostenendo il suo sguardo su di lui. Si accorse ancora di quel gesto, quello scuotere la testa, che poco prima l'aveva fatta riflettere. *Chi sei, Raven?*. Guardò fuori dalla finestra, nella notte innevata. << Bisogna dare corda alle creature magiche, Leia. Devi permettere loro di fidarsi di te >>. *Va bene, Hazel. Diamogli ancora corda*.
"Perché no?" rispose, dunque. "E' molto che non torno nei pressi del castello. E di sicuro l'atmosfera là fuori è molto più conciliante di quella che c'è qui dentro" continuò, sorridendo lievemente al pari di lui. Riprese quindi il suo mantello nero, si alzò e lo seguì verso la porta.
 
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