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| V La culla del male Lentamente, passo dopo passo, mi sembrava di scorgere nuove speranze. Da sempre celate ai miei occhi erano ora più chiare che mai. Mi chiavano, mi porgevano mani. Speranza, cos'era stata per me se non una vacua parola? I miei anni mi passavano dinnanzi agli occhi come monotone lamentele dei miei (pochi) successi. Conquiste che in pochissimo tempo si erano mutate in incubi: Hogwarts. L'essere scontata negli esempi mi conduce ora in nuovi angosciosi percorsi mentali: il mio passato era una corda sempre tesa. Immobile. La paura di un futuro ugualmente monotono come lo era stato il mio passato mi aveva obbligato a quel sì. Consenso che ora, ai miei occhi come a quelli di chiunque, ha perso di naturalezza e si è palesato per quel gesto innaturale che è stato. Anni di stallo, gabbie ovunque, una mente perennemente dolente sono state le cause di quel sì. Uno scontento che chiedeva di essere abbandonato, deposto e scordato. Era ora di abbandonarlo in quei cumuli di neve gelata. Una sacca di dolore che in più occasioni aveva tentato di ammazzarmi, abbandonandomi in profondissimi abissi. Essere toccata dal fuoco, questo volevo. Incendiarmi, ardere il mio passato, perdermi in quel rossore e nascere nuovamente. Vedermi sgozzare le mie membra deboli, abbeverarmi del mio sangue, spezzarmi le ossa per averne di nuove. Non chiedevo seconde occasioni, non chiedevo pace in Terra e nella mia mente, chiedevo un cervello nuovo, nuova forza, nuove apparenze. Da debole abete qual ero volevo spezzare le mie radici e da seme piantarmi nuovamente. Rompere il cerchio, sputare nei suoi spazi infernali e suggellare con quel gesto il mio addio. Sano e malato. Chi era cosa? Allontanarmi da me non poteva condurmi in una seconda me. Sarei stata lo specchio di me stessa? Avrei dovuto sapere cos'ero in quel momento, che donna era piantata in quella neve per comprendere chi sarei stata ma, ahimè, il tempo era scaduto. L'uomo dinnanzi a me imponeva un gesto, chiedeva conferme. Cercai di scorgere in quegli occhi il mio io, ma non v'era nulla. Il plumbeo di quella gabbia che sormontava me e lui e la dannata umana razza, aveva conquistato il suo sguardo. Occhi, mani, bocca, naso non dicevano niente di me. Ero sola più che mai in quell'istante sospeso. In quell'ombra una mano mi era stata tesa. Cosa farne? Mozzarne le vene con un abbandono? Aggrapparsi a quella? Dove mi avrebbero portato? Cosa avrebbero fatto di me? Nulla, perché un me non c'era più. La domanda che mi sarei dovuta porre allora è questa: come mi sarei modellata? C'erano nuove urgenze ora: segare il mio passato, cercare immagini di un futuro migliore. Un'istantanea sarebbe stata questa: mi abbandono alla sua mano. Una mano d'uomo, grande, consumata da un'impiego qualunque di uomo qualunque. La mia mano, piccola, delicata, mai sferzata da nessun sforzo ma solamente arrossata a causa di quel gelo pungente, nella sua. Un nuova linea era stata disegnata nel vuoto ed io, funambola, ero pronta a percorrerla. Mantenere l'equilibrio sarebbe stato arduo come arduo sarebbe stato abbandonare la confortante voce di una caduta indolore. Il tempo, forse, avrebbe svelata agli occhi del mondo la mia nuova forza, la nuova Shirley. Il tempo, ora, passava su quelle mani e le ignorava, passava dinnanzi ai miei occhi intelligenti ma annegati in acque da tempo sommesse e ignorava anche quelli. Io, invece, ero sveglia, pronta a dichiarare battaglia a quell'uomo che ora nelle sue mani non aveva solamente il mio futuro, aveva me.
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