[Something To Lose]

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Eugene O'Sullivan
view post Posted on 27/2/2016, 05:16





Era stata una notte rumorosa, carica di elettricità e Eugene, l'aveva passata altrettanto irrequieto. Grosse, fitte gocce, s'erano abbattute scrosciando contro i vetri della finestra della sua stanza, alternate al bagliore dei lampi e al fragore del tuono. Un sibilo si era levato ad onde al di sopra delle torri del castello e tra le intercapedini degli infissi, per ore ed ore, senza cedere mai del tutto. Qualsiasi posizione cercasse di mantenere sotto le coperte, gli risultava scomoda ed insostenibile per più di qualche minuto di seguito e allora, si girava e rigirava senza sollievo, riuscendo solo ad innervosirsi di più. Eppure era davvero stanco. Gli avvenimenti del giorno appena trascorso erano stati numerosi ed intensi. Aveva sinceramente bisogno di dormire, di metabolizzare i fatti: l'attesa, l'ansia, la sorpresa, il dolore, i batticuore folli e ancora, parole dette ed ascoltate dal significato chiaro ma dalle conseguenze incerte. Ad occhi chiusi riviveva i momenti trascorsi come fossero spezzoni di un film dalla trama confusionaria a cui mancavano chiaramente varie parti perché il tutto acquisisse senso: che fosse dipeso dall'ingestione d'alcol? Via...si disse, non era arrivato ad ubriacasi fino a quel punto...o si? Era bastata quella miseria a stenderlo? Pietoso certo, ma non ne era minimamente stupito in realtà.

Non poteva considerarsi granché in quelle cose sebbene negli anni, qualcuno ci avesse provato ad allenarlo, a fortificarlo un po'. Rannicchiato sotto le coperte, pensava e rimuginava: Se quel pomeriggio Gaubert fosse stato lì presente ad osservare la scena, avrebbe riso come un matto o avrebbe passato il tempo a lanciargli sguardi di disappunto, con quel suo modo di fare altezzoso ed irritante? Gli pareva di vederlo a braccia conserte in un angolo, scuotere la testa con viva rassegnazione nell'atto di chiedersi dove avesse sbagliato con lui e questo, lo imbarazzava anche di più della sua magra figura. Pazienza, pazienza...tanto non lo avrebbe mai saputo e in ogni caso ne era valsa la pena, concluse cambiando nuovamente lato del letto mentre un sorriso dall'aria compiaciuta riaffiorava sulle sue labbra assieme ad alcuni ricordi e al loro specifico sapore. Quello tornava anche troppo chiaro e gli pareva di avvertire ancora il tocco irruento di Horus su di sé, la sua lingua e le sue braccia stringerlo, le sue mani afferrarlo, i suoi denti affondargli nella carne. Non aveva bisogno di chiudere gli occhi per visualizzarlo, tanto ce l'aveva di fronte in ogni caso. Anche nel buio nero pece della stanza, in ogni angolo verso cui puntava lo sguardo trovava il suo bel viso ad attenderlo. E non gli spiaceva affatto. Senza rendersene conto, durante quegli ultimi istanti, aveva portato la mano alla spalla sinistra e su ciò che era rimasto dei segni a mezzaluna, sfiorandoli con i polpastrelli delle dita, avanti, indietro e ancora, in delicati movimenti circolari, indugiando e premendo maggiormente là dove la profondità dei solchi aumentava. Bruciavano un poco. Niente in confronto al momento in cui erano stati inferti, ma seppure si trattava di una sensazione decisamente sbiadita, lo aiutava a rivivere quegli istanti almeno in parte; era tutto ciò che aveva e se lo faceva bastare.

Di fuori continuava ad infuriare la tempesta, ma ciò che si agitava in fondo al suo animo non era di certo meno frenetico, con il rombo dei fulmini che si mescolava al batticuore martellante tra le costole e nelle tempie, al ritmo concitato del respiro e delle immagini che gli sfilavano dietro le palpebre, una appresso all'altra, senza tregua. Si chiese ad occhi chiusi, se la notte di quel ragazzo stesse trascorrendo simile alla sua. Se allo stesso modo, gli fosse impossibile riuscire a prendere sonno, a calmarsi, a trovare un po' di pace. O no? No...in fondo, perchè? Magari se ne stava a dormire come un ghiro, bello placido e tranquillo nel suo letto, senza fastidi e patemi d'animo. Poteva anche essere e lo considerava, ma non senza una buona dose di stizza. Forse sperava d'essere diventato importante per lui o forse gli faceva semplicemente piacere ingannarsi e fingere che così fosse; Che fosse stato possibile, anche di poco, riuscire ad insidiarsi nella sua mente, disturbare il suo riposo, costringerlo a rivolgere il pensiero alle sue ultime azioni, alle parole che aveva pronunciate. Se erano vere e poteva crederci, se poteva fidarsi; e più si concetrava su tali pensieri sperando di concretizzarli per magia, più i suoni reali dell'ambiente tutt'intorno si affievolivano, ovattati come al di sotto di una campana di vetro o distorti come se avesse immerso la testa al di sotto di acque immaginarie.

*Quel bacio...* pensò, avvertendo la voce che non gli apparteneva, scivolargli dentro: « Forse è stata la cosa più sincera che io abbia fatto o detto quest'oggi. » Horus gli aveva detto di tenerlo bene a mente. In verità, si trattava una raccomandazione superflua ed anzi, uno dei motivi per cui riusciva a non provare eccessivo imbarazzo riguardo a ciò che era capitato e alla figura patetica che aveva fatto, dipendeva proprio dall'essere riuscito a cavargli di bocca quella frase. In cuor suo, ringraziava e benediva ogni singola goccia di idromele che aveva ingurgitato e anche per una volta, il fisico debole e malaticcio che si ritrovava e che non gli aveva mai permesso di reggere la minima dose d'alcol senza andar giù secco come un sacco di patate. Ad aver saputo anticipatamente che in cambio di un po' di umiliazione (neppure così spiacevole ad essere onesti) avrebbe ottenuto in premio tutto quel ben di Dio, ci avrebbe probabilmente già provato tempo prima. Di sicuro senza aspettare l'ansiosa (e stancante) vigilia di una delle sue "gite", ma era stato il caso a decidere stavolta e non poteva farci niente.

Piegando la testa di lato sul cuscino, si ritrovò d'un tratto, a scavare con le unghie la superficie della pelle, a graffiarsi più a fondo e questo lo portò bruscamente alla realtà, sia per la fitta improvvisa sia per il leggero sentore di umidità sulla punta delle dita. Le allontanò dalla ferita fino al proprio petto, dove rimasero immobili mentre il suono della pioggia tornava ad invadere la stanza.


*


La luna era sorta presto quella sera. Prima ancora che il sole raggiungesse la linea dell'orizzonte, la sua sagoma percettibilmente tonda (ma non del tutto piena ancora, mancando di fatto diversi giorni al plenilunio) era spuntata improvvisamente pallida, smorta contro il cielo tinto di rosa. Soffiava una leggera brezza da nord; un alito che muoveva altalenante le fronde degli alberi, gli arbusti di Viburno ormai sfioriti, i fili d'erba e sparsi tra di essi, più o meno nascosti, alcuni Lathyrus Odoratus rinvigoriti dalle piogge. Normalmente si trattava di un ambiente piacevole, un paesaggio che poteva definirsi romantico quasi ma in quel momento, la via principale che attraversava Waterlow Park, era immersa nel caos: Ramoscelli spezzati e mucchi di foglie marce, ingiallite e non, disseminate ovunque; pattume vario e cartacce fuoriuscite da alcuni bidoni capovolti dalla tramontana durante la furia del temporale e che continuavano a rotolare via, sospinte dalla brezza verso destinazioni ignote.

Eugene le osservava allontanarsi con sguardo spento. A distanza di poche ore, i postumi della sbornia avevano cominciato a palesarsi prepotentemente e quel fischio acuto degli spifferi durante la notte, aveva finito con il trapassare cranio e timpani, ficcandosi nel suo cervello e rimanendo lì a mo di palo. Anche adesso a distanza di ore, mentre camminava silenziosamente al di sotto di un cielo color amaranto ormai terso, l'emicrania continuava ad opprimerlo. Sia pure in forma latente, leggera come un chiodo ormai allentato, non voleva decidersi a mollarlo. E perciò, anche se la luce del sole s'indeboliva a mano a mano che procedeva verso la meta, lui continuava a tenere la testa bassa, proteggendosi meglio che poteva al di sotto della cascata di riccioli, nel tentativo di scongiurare la comparsa di nuove fitte. Rivolto al terreno, ai propri anfibi, alle pozzanghere che si susseguivano torbide e numerose lungo il tragitto e che non si preoccupava minimamente di evitare.

Sempre avanzando, si ritrovò a piegare le braccia per portare i palmi intirizziti ad altezza della bocca e soffiarci contro il proprio fiato caldo. Una, due volte, socchiudendo gli occhi. Nonostante l' abbigliamento perfettamente consono (un trench coat nero, lungo fino a metà coscia e chiuso sul davanti da una zip ed una serie di bottoni metallici di colore argento. Un maglioncino grigio cenere a collo alto e dei jeans scuri a gamba dritta, abbastanza pesanti), sentiva freddo. Un gelo diffuso che gli dava la pelle d'oca. Non era del tutto certo che la causa fosse unicamente da imputare al cambiamento di clima e compiendo quel semplice gesto dunque, non si aspettava di sopire i brividi. Era più che altro una reazione meccanica, di abitudine.

Ad ogni modo, avrebbe potuto usare la magia per scaldarsi; ne era perfettamente in grado ed infatti più di una volta, s'era trovato ad agguantare il manico della bacchetta e ad estrarla dalla tasca interna del cappotto. E allo stesso modo, l'aveva poi riposta. A quell'ora, il parco era prossimo alla chiusura e quasi completamente deserto, ma non poteva essere sicuro di non venir notato da lontano da qualche passante ritardatario. Si sentiva troppo esposto, troppo allo scoperto e conseguentemente paranoico per riuscire a compiere quelle che in altri momenti, gli sarebbero parse banalità (quel che poi erano in effetti) e che ora lo costringevano ad una prudenza decisamente esagerata. Eppure non era di certo la prima volta. Stava soltanto ripetendo azioni già compiute, piani programmati e già svolti in precedenza e nella mente, aveva ben chiaro cosa fare: nel giro di pochi minuti sarebbe sbucato direttamente in Swain’s Lane e là avrebbe atteso l'estinguersi degli ultimi raggi di sole.

Il cancello dell'entrata nord, chiuso dal solito catenaccio non costituiva di certo un problema per lui e se ne sarebbe liberato in fretta non appena fosse stato certo di poter agire senza rischi. Era sempre andato tutto liscio in quella prima parte del piano e non si aspettava d'incontrare grossi intoppi, doveva solo mantenersi abbastanza lucido da attraversare l'intera ala del cimitero fino a quella precisa fossa nel settore est, senza perdersi e possibilmente senza metterci troppo. Ripassando mentalmente il da farsi, impulsivamente e per togliersi un dubbio improvviso, si tastò il cappotto in cerca di qualcosa: infilato nella tasca sul fianco destro, si trovava un biglietto; un frammento piegato in quattro di una pagina di quotidiano, dai bordi imprecisi poiché strappato alla buona da un giornale babbano un paio di giorni prima. Aveva atteso a lungo che capitasse un'occasione, un evento di cui approfittare e alla fine era successo: Un'incidente. Una vittima. Un nome. Ed era esattamente ciò che gli serviva.

Senza troppi indugi, aveva raccolto le informazioni che gli servivano da quell'articolo di cronaca e si era messo in moto acquistando il necessario. La maggior parte della strumentazione in suo possesso era difatti rimasta nella sua casa d' Edimburgo e non avrebbe avuto il tempo di recuperarla. Almeno, non se voleva evitare di lavorare su del materiale eccessivamente compromesso e (senza contare che la ricca umidità del terreno, stava sicuramente peggiorando le cose) già a quel punto erano probabilemente trascorse troppe ore dal momento dell'inumazione di quel tizio. Insomma, se voleva farlo, doveva darsi una mossa. Di tanto in tanto tuttavia, rallentava il passo; afferrava le cinghie della borsa a tracolla e le tirava a sé con insofferenza. Indeciso se sbuffare per la piaga da sfregamento sulla sua spalla o se per il mal di testa, stringeva le labbra storcendole di lato e trattenendo a lungo il fiato nei polmoni. Era teso, visibilmente a disagio. Il suono tintinnante di ferraglia, che ritmicamente colpiva il suo fianco, aumentava la sensazione sgradevole che il fischio acuto del vento gli aveva lasciato addosso dalla notte prima. Scandiva la sua marcia e gli annodava la bocca dello stomaco come avrebbero fatto delle unghie affilate su una lavagna.
"Sai dove stai andando? Lo sai?"
pareva gli dicesse stridendo "Te lo ricordo io".

Eppure per quanto fastidioso, quando quel fracasso come risucchiato da un vuoto d'aria, venne a mancare all'improvviso, Eugene si ritrovò ad impuntare i piedi vistosamente disorientato per alcuni secondi. Con occhi sbarrati, si guardò rapidamente attorno, stringendo entrambi i pugni sulla cinghia della borsa ed ancorandosi ad essa come se quella mossa potesse sul serio aiutarlo a mantenersi stabile a dispetto della mancanza di suoni. Nonostante il buon senso gli suggerisse che sarebbe stato meglio accucciarsi, sedersi alla svelta lì in terra prima di perdere l'equilibrio e dare una craniata sul selciato, stoicamente (o stupidamente a seconda dei punti di vista) non lo fece, muovendo ancora qualche passo incerto in avanti e volgendo lo sguardo alla sua sinistra una seconda volta. In quel preciso istante colto alla sprovvista, si sentì gelare il sangue nelle vene:


"Weirdo" Qualcuno lo chiamava. Un ragazzo di circa tredici anni con i capelli biondo cenere, corti ma talmente spettinati da somigliare ad un groviglio di stoppa, procedeva al suo fianco. Indossava delle scarpe sporche e dall'aria consunta (con la suola che cominciava a staccarsi) ma suoi passi non facevano alcun rumore e il suo corpo sembrava galleggiare o meglio, scivolare sul terreno come sul ghiaccio. "Ehi..." La voce era giunta alle sue orecchie, qualche secondo dopo il movimento delle labbra, flebile come il battito d'ala di una falena e malgrado l'evidente asincronia, riusciva comunque ad avvertirla.

"... oggi non ce l'hai la guardia del corpo?" Il ragazzino teneva la bocca socchiusa per via di un palato decisamente prominente, mostrando gli incisivi superiori storti e forse a causa di questo, impiegava qualche istante di troppo a pronunciare ogni parola e non riuscendoci comunque senza dislalie. Anche i suoi abiti avevano qualcosa d'insolito: sembravano come ricoperti da una patina, una polvere finissima bianco-grigiastra e gli pareva di sentirne l'odore. Qualcosa di acre ma decisamente familiare.

"Nnh...n-non" *Non è davvero qui* Pensò Eugene rapido, tornando con lo sguardo fisso di fronte a sé. Cercava di concentrarsi all'orizzonte, su qualsiasi particolare utile a distrarlo e ad ignorare la presenza, ma era una battaglia persa fin dall'inizio e non solo perché senza occhiali indosso non riusciva a mettere a fuoco quasi niente, ma perché le immagini, la voce e ogni altra sensazione sgradevole era unicamente nella sua testa e quella non poteva eliminarla solo con della semplice volontà. Sapeva che l'importante, era continuare a rendersi conto di ciò che era reale e cosa no e per il momento gli riusciva ancora, per fortuna. *Diamine...che faccio?* Si chiese. Quello non era certamente il luogo né il momento adatto per permettersi contrattempi del genere ma la verità era che non aveva il minimo controllo sulla cosa e che si stava stancando ancor prima di cominciare il lavoro vero e proprio ed era effettivamente un problema.

"...sparisci" mormorò volgendosi di nuovo verso di lui ma senza adoperare un tono particolarmente autoritario. Era in verità assai più simile ad una richiesta, se non ad una supplica al suo cervello difettoso. Con una mano sul volto osservava tra le dita, il fantasma di quel pallido ricordo, con un'aria decisamente irritata e assolutamente indisposto ad offrire una partecipazione attiva a qualsiasi dialogo. Che senso avrebbe avuto in ogni caso? Sarebbe stato esattamente come parlare a sé stesso e poteva anche farne a meno.

Il ragazzo nel frattempo, non si era più mosso. I contorni di quei suoi lineamenti sgraziati da adolescente sbiadivano a tratti, ma lo sguardo era rimasto ancorato su Eugene, il quale si sorprese a domandarsi alcune cose. Ad esempio, se i resti del suo vecchio compagno si trovassero ancora dove li aveva lasciati tanti anni prima e anche, se qualcuno a parte lui e (forse) Gaubert, possedesse ancora il ricordo del suo nome. Era un pensiero amaro. Anche considerando che si stava parlando di quell'idiota, l'idea che una persona potesse sparire nel nulla, senza che il mondo ne fosse minimamente consapevole, poteva sembrare ingiusta e avvilente. Vista da una ottica comune, nessuno poteva meritarsi sul serio un destino simile; uomini e donne, innocenti e criminali, esseri umani e non. Eppure, per quanto fosse orribile il merito non centrava, non era un questione di colpa. La realtà era assai più cruda, molto meno attenta ai dettagli poetici, specie se di tipo così fine, ed aveva leggi proprie che mal si adattavano alla sensibilità umana. Accettarne il meccanismo e andare avanti senza comprenderlo davvero, rimaneva la soluzione più semplice ma lui, si trovava ben oltre quel livello già da un po' e forse arrivava anche a provare della vera e propria invidia per chi aveva ormai chiuso con l'esistenza, con il dolore e con tutto quello schifo che ad essa erano inevitabilmente legati. C'erano destini peggiori, continuava a ripetersi, mentre osservava la pelle di quel viso cambiare di continuo. Appariva di un bel rosa carne e perfettamente integro in alcuni momenti e annerito in altri, come un ciocco di legno consumato dal fuoco.

A quel punto, dovevano essere passati una ventina di secondi forse appena qualcosa di più, lo vide socchiudere la bocca di nuovo. Si aspettava di udire qualche altra frase nonsense, ma dalle sue labbra, non usciva più una voce, quanto piuttosto un vivace crepitio. Lo scoppiettare di rami in fiamme, d'apprima flebile come un sussurro e poi sempre più forte e così sinistramente simile al rumore secco di ossa spezzate. Riempiva il cranio e lo assordava. Forse non giungeva dal ragazzino, forse era proprio quello, che sovrastando qualsiasi altro rumore, gli impediva di udire la sua vera voce? Era insopportabile. Avvicinò rapidamente le mani alle orecchie curvandosi in avanti con la schiena e stringendo i denti, mentre il rumore dolorosamente si conficcava in entrambi i suoi timpani, sempre più in profondità. Tentava di isolarsi, ma niente di tutto ciò era reale e come poteva escludere qualcosa che nasceva proprio da dentro la sua testa? Esasperato, chiuse gli occhi, serrando le palpebre con forza ed attese il termine di quello strazio. Probabilmente il tempo trascorso era minore di quello che lui percepì alla fine, in ogni caso il rumore cessò all'improvviso e quando alzò nuovamente lo sguardo di fronte a sé, l'immagine era sparita. Al suo posto, immerso nella pace della sera si muoveva ad onde, il manto erboso sospinto dal vento.

Eugene per tutto il tempo non aveva fatto altro che borbottare. Un breve monologo sbiascicato sottovoce e indecifrabile, con il viso puntato a sinistra, il collo rigido, la mascella contratta e gli occhi che continuavano a muoversi in rapidi scatti, simili ad una sorta di tic, inseguendo le invisibili forme con il minimo batter di ciglia. Sebbene a lui fosse parso di non aver cambiato l'andatura ed il ritmo dei passi, in realtà aveva rallentato eccome, vacillando ed inciampando nei propri piedi e nelle irregolarità del terreno, fino a fermarsi del tutto. Ora si stava riprendendo ed ogni secondo che passava i suoi muscoli si distendevano nuovamente abbandonando ogni postura innaturale a poco a poco. Eppure, chiunque fosse rimasto ad osservare la scena dall'inizio avrebbe notato facilmente che era successo qualcosa strano, qualcosa di destabilizzante. Si sfilò la borsa di dosso in un moto di nervi, sollevando la cinghia al di sopra della testa e smollando tutto sul terreno con malagrazia. Il fracasso metallico improvviso fece volare via un paio di uccellini (dei merli, forse) dal ramo di un albero vicino. Si librarono a mezz'aria contro il cielo ormai tinto delle cupe tonalità violacee del tardo crepuscolo e lui li osservò per alcuni secondi in silenzio e con il collo piegato leggermente all'indietro, mentre s'allontanavano.

Quella notte, non stava iniziando bene.

Per un attimo, soppesò seriamente l'idea di girare i tacchi e tornarsene al castello, ma aveva atteso così tanto e non trovava il senso di rimandare ancora, specialmente perché la situazione in futuro, sarebbe potuta soltanto peggiorare. Che male c'era se agiva finché ne era ancora in grado? Cosa doveva aspettare dopotutto? Era il caso di farsi venire degli scrupoli a quel punto? Ma se quelli, erano gli unici momenti in cui riusciva a non pensare a niente di spiacevole, perché doveva privarsene? Per questioni di etica? No, no. Banale e falso. Ormai quella scusa se l'era giocata da un pezzo. Ma poi, sinceramente...a chi poteva importare? Non rubava niente a nessuno. Non prendeva nulla di utile alla società. Solo...scarti...ecco. Si, scarti. Spazzatura che sarebbe andata persa in ogni caso e dunque, perché lasciare semplicemente che ciò accadesse quando lui poteva ancora...farne uso...? Non era mica lui che uccideva per prendere quello che gli interessava. E allora, che mai poteva esserci di sbagliato ad approfittarne? Forse era un maestro dell'autoconvincimento, ma non riusciva proprio a trovare un motivo valido per provare vergogna e rinunciare.

Alla fine, cacciò fuori un sospiro e agguantando la cinghia della tracolla la tirò nuovamente a sé, apparentemente deciso ad andare fino in fondo. In realtà, anche se aveva ripreso a camminare in direzione di Highgate e i suoi cancelli, qualcosa gli suggeriva ugualmente di lasciar perdere per quella volta. Come un sesto senso, un presentimento ed era proprio l'impossibilità di giustificare una simile impressione a lasciarlo profondamente inquieto.


 
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view post Posted on 15/6/2016, 18:53
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▲ Swain's Lane, London | mood: Relaxed | Weather: Sunset▼
Horus R. Sekhmeth

« Pix, eh? Ah. Beh, ma allora tu dagli retta, no? » Horus voltò appena il capo in direzione del ragazzino che si torceva le mani, nervoso. Un grosso bernoccolo si ergeva sulla sua fronte, spuntando in mezzo alla zazzera di capelli castani come un fungo fra l’erba autunnale. O come il corno di un unicorno.
« M-ma, m-ma signore, Pix mi ha tirato un gabinetto addosso! Non posso prendere la tavoletta, metterla per cappello e girare i corridoi per riavere il mio libro di Pozioni! » Pigolò il bimbetto, disperato: aveva gli occhi rossi di pianto e guardava Horus con fare implorante. In un’altra situazione, il suo Caposcuola lo avrebbe certamente aiutato in quattro e quattr’otto, ma il povero ragazzino non poteva certo immaginare che Horus non era minimamente in grado né di intendere, né di volere.
In un primo momento, quando egli aveva varcato la soglia del cancello e aveva avvertito il primo giramento di testa, Horus aveva dato la colpa all’alcool: infido e deleterio, infine aveva avvelenato le sue vene ed era giunto al cervello, dandogli le vertigini e una fastidiosa quanto scarsa concezione della realtà. Poi, però, quando lui e Eugene s’erano separati come se niente fosse, il suo subconscio aveva capito che l’alcool era sì, complice, ma non l’unico artefice. Era la confusione dei sentimenti che lo sferzavano come forti venti di tempesta a destabilizzarlo in quel modo; l’incapacità di far fronte alle proprie azioni, alle reazioni del suo corpo e della sua mente. Era questo, piuttosto, che lo aveva fregato. E forse era stato proprio quel bacio ad averlo inebriato ben più di un paio di boccali di idromele. Ciò che Horus aveva difficoltà ad ammettere e che lo lasciava così stordito e confuso era il fatto di aver capito che Eugene O’Sullivan gli interessava, gli interessava eccome e non era più solo una mera questione fisica. C’era dell altro che egli tentava disperatamente di negare, continuando ad affibbiare la colpa di tutto quello scombussolamento a dei bicchieri di troppo e al comportamento ambiguo dell’infermiere che, in fin dei conti, lo aveva sempre turbato.

« Ah… eh beh, ultimamente van di moda, le tavolette per cappello. Suvvia, perché non chiedi a Niahndra di darti una mano? » Stanco, Horus si portò una mano sugli occhi, massaggiandoli piano. Dei del cielo, come voleva andarsene a letto; perché quel nano non si toglieva dalle scatole?
« M-ma ho paura di miss Alist--- » Provò a dire il Tassino, quando Horus, al limite, sbottò. « Senti Agenore » « A-Argent, signore… » « Argent. Senti. La Alistine ti aiuterà sicuramente a recuperare il tuo libro. Gentilmente, ho bisogno disperatamente di dormire, ti spiace lasciarmi andare? O preferisci un altro cornino su quella bella fronte, così sei pronto per fare la renna per Natale? »
Nonostante il tono apparentemente pacato, gli occhi di Horus, arrossati dalla bevuta e dalla stanchezza, squadravano il ragazzino con un’intensità tale che, se avessero potuto, l’avrebbero incenerito. Questi, spaventato, squittì balzando sul posto e scappò via, inciampando sulla tunica troppo grande. Soddisfatto, Horus s’incamminò: probabilmente l’indomani —se gli rifosse capitato a tiro, s’intende— si sarebbe scusato, ma in quell’istante l’unica cosa che voleva fare era dimenticarsi dell’esistenza di altri esseri umani. Si trascinò quindi verso i dormitori, sperando che tutti i suoi compagni fossero occupati con la cena e, una volta in stanza, si buttò direttamente sotto la doccia ghiacciata.
Lì, rimase immobile sotto il getto fresco per interminabili minuti, le braccia lungo i fianchi ed il volto sollevato verso l’alto, riempiendosi le orecchie dello scrocio dell’acqua che scivolava sul suo corpo nudo, lavandolo da qualsiasi stanchezza ed impurità.
Eppure, nonostante il benessere del freddo, Horus continuava a sentire la sua pelle bollire come se avesse avuto la febbre e, titubante, le sue dita sfiorarono le sue labbra, cercando di ricordare la sensazione provata quando aveva toccato quelle di Eugene. In quel gesto, Horus scoprì che una parte di sé, scioccamente, sperava che l’acqua potesse cancellare i ricordi e tutto ciò che ne era conseguito. Con un sospiro, si premette le mani sul viso.


Per quanti anni potesse passare dentro quelle mura, Horus non si sarebbe mai abituato al fastidioso giallo senape delle tende dei baldacchini dei dormitori Tassorosso. Eppure quei pochi metri di stoffa tirati lungo tutto il perimetro del suo letto erano l’unica cosa che, in una stanza condivisa, gli potesse donare un po’ di intimità, l’illusione di essere solo, nonostante il forte russare di Aaron spezzasse la magia.
Era, ormai, mezzanotte passata e sebbene Horus si fosse ficcato sotto le coperte da cinque ore buone, per altrettante non era riuscito a prendere sonno, girandosi e rigirandosi come un’anima in pena. L’ impressione di esser stato colto da una febbre alta non l’aveva abbandonato neppure dopo la doccia fredda che, una volta fuori, l’aveva lasciato tremante e in preda ai brividi.

*Maledetto te, Eugene.* Sbuffò irato, tirandosi a sedere e prendendo a pugni il cuscino nella speranza di renderlo più comodo. Esausto, giacque prono, il viso semi-nascosto nella stoffa della federa profumata di pulito. Anche lui, si disse, profumava di qualcosa di simile; più salato, certo, e c’era qualche nota di disinfettante, eppure era piacevole e gli aveva invaso le narici quando lui s’era avvicinato a lui fin dalla prima volta. All’inizio —e come poteva dimenticarlo?— lo aveva nauseato, non riuscendo a distinguere nulla in quell’odore, al di fuori dell’impersonale asetticità di un maledettissimo infermiere, un carnefice opportunista sotto un camice bianco. L’aveva persino odiato, quell’odore, e aveva imparato a riconoscerlo e ad identificarlo con Eugene, disgustando quell’atteggiamento lascivo e languido che il ragazzo assumeva ogni volta che lo incontrava. Poi Eugene ed il suo odore erano spariti per lungo tempo ed Horus l’aveva dimenticato, fino a quel giorno in cui, tornato in Infermeria, era tornato ad avvolgerlo quando Eugene era ricomparso, effimero e delicato, nella luce tiepida e polverosa della sala ingombra di letti e medicinali.
Benché Horus ignorasse praticamente tutto di Eugene e della sua vita, quel giorno aveva sentito una nota diversa, nel suo odore, qualcosa di personale, e aveva subito capito che in Eugene era cambiato qualcosa, che era diventato qualcos’altro, assumendo un’altra forma. D’improvviso quella fastidiosa creatura serpentina, era diventata più fragile, più innocua e soprattutto più sincera. Dopo quella volta passando per il Secondo Piano, Horus si era ritrovato ad indugiare per qualche secondo all’imboccare del corridoio che conduceva all’Infermeria, mentre il suo subconscio cercava di trovare una scusa che lo spingesse ad oltrepassare la soglia e chiamare il suo nome.
Ma non lo fece mai.
La Vita, infine, lo aveva travolto con tutto ciò che ne derivava: la fine della storia con Mya, l’attrazione per Emily, Dulwich e la scoperta di tutto quello che Ainsel gli aveva taciuto, i Mangiamorte, l’omicidio e la salvezza di un motivo per cui vivere senza sensi di colpa, Camille e la sua promessa: un intero caleidoscopio di eventi che l’avevano coinvolto e avevano sospinto Eugene in fondo al suo cuore, come un petalo scacciato dal vento e sommerso da decine di foglie.
Ma in quella sera, così innocua all’apparenza, Horus s’era accorto che in realtà Eugene non se n’era mai andato dalla sua testa: la curiosità per la sua vita, per la sua storia e la sua persona avevano in parte celato la vera attrazione che infine era sfociata nella scusa più plausibile: l’attrazione fisica.
Ora, chiudendo gli occhi, il Tassino riviveva quei momenti ambigui che si erano susseguiti dal loro primo incontro, risentiva sulla pelle le labbra di Eugene, sentiva sulle dita la sua lingua, quel giorno in cui le labbra di lui s’erano chiuse su di loro e, a quei pensieri, il sangue si fece così caldo da ustionarlo, ribollendo feroce dentro di lui, mentre il cuore accelerava il battito, turbando ancor di più il ragazzo.
*Che diamine. Datti un contegno.* Si impose, mentre l’ennesimo brivido gli scorreva lungo la schiena e le gambe. Fuori dalla finestra, un lampo squarciò la cupa notte ed un roboante tuono preannunciò l’arrivo di una tempesta. Di lì a poco, con un’intensità sempre maggiore, la pioggia cominciò a rimbombare nel silenzio notturno.
Quanto a lungo poteva continuare a mentire a se stesso? L’alcol, ormai, non c’entrava più nulla ed era indubbio che non era stato quello, a farlo sentire così, ma Eugene.
Horus non era mai stato attratto dagli uomini e probabilmente non lo sarebbe mai stato: un corpo femminile, aveva sempre pensato, spesso senza alcuna malizia, era perfetto. Eppure Eugene era stato capace di attirarlo come il fuoco con una falena e sebbene ciò che Horus provava per lui era ben diverso da quello che aveva provato per Mya e che ora cominciava a provare per Emily, sapeva che trascendeva qualsiasi sesso, qualsiasi imposizione, qualsiasi dogma e qualsiasi forma. Quella consapevolezza, l’accettazione di quell’interesse e del piacere che, inevitabilmente, aveva provato baciandolo e che continuava a provare ripensando all’accaduto, bastò a convincerlo.
Eugene gli piaceva, in un qualche strano modo, punto e basta: questo non implicava null’altro.
E di fronte quella semplice e disarmante constatazione, Horus sorrise, chiedendosi perché diamine non fosse giunto prima ad una risposta tanto semplice; non riusciva neanche a capire perché era stato così difficile ammetterlo.
Con l’unico pensiero di essere straordinariamente bravo a complicarsi la vita con un nonnulla e con l’ultima benedizione dell’alcool rimastogli ancora in corpo, infine, s’addormentò mentre fuori infuriava la tempesta.


»Londra, h. 5.45 p.m.

Un Babbano in bicicletta gli sfrecciò di fianco, sfiorandolo per un pelo e trovando persino il coraggio di inveirgli addosso. Horus, che si era salvato solo grazie ai riflessi pronti che gli avevano permesso di balzare di lato, inchiodò lungo la strada, osservando l’uomo e il suo bislacco mezzo venir inghiottiti dall’oscurità.
« Fanculo pure a te, amico! » Gli gridò dietro, ricordandosi solo dopo un attimo di sbigottimento dell’insulto subito. Assurdo, pensò incamminandosi di nuovo, i Babbani erano davvero un branco di matti: giravano su quei cosi a due ruote come se fossero i padroni indiscussi delle strade, senza curarsi minimamente né di chi era a piedi, né di chi era dentro le loro macchine. Semplicemente si atteggiavano a signori della strada e quando avevano torto pretendevano anche di avere ragione. Per di più in una strada ampia come quella, quello stupido ciclista era andato a incrociare proprio il cammino di Horus che era l’unico pedone. *Ammasso di imbecilli.*
Era, ormai, tardo pomeriggio e gran parte delle persone stava tornando a casa dagli uffici: Oakeshott Avenue era straordinariamente tranquilla, con le sue casette ordinate e silenziose, i tigli che accompagnavano la lunghezza dei viali e il dolce stormire delle foglie carezzate dal venticello fresco. Due bambini giocavano nel giardino della loro abitazione, quando Horus passò loro davanti, perfettamente vestito come un Babbano qualsiasi. Nessuno di loro gli prestò attenzione, troppo presi dai loro giochi ed il ragazzo passò avanti, scoccando loro un’occhiata invidiosa. Nonostante si trovasse in una zona residenziale tipicamente Babbana, Horus —ciclisti a parte— si trovava a suo agio. Quell’atmosfera di piacevole sospensione fra la fine del giorno e l’inizio della notte, l’aria frizzante della sera, il cielo che s’imbruniva e la luna che, splendente, sorgeva con Venere che ammiccava nel cobalto, allietavano e accompagnavano il ragazzo nel suo cammino.
Nella tasca dei jeans ardesia v’era ripiegato un bigliettino con l’indirizzo dell’abitazione di un uomo, un Babbano con cui Lysander di tanto in tanto faceva affari. A quanto sembrava, però, l’ultima trattativa non era andata tutta rose e fiori e alla fine il Babbano aveva liquidato Lysander con l’augurio di rivederlo nella tomba.
Mi raccomando ragazzo, fatti vendere quell’anfora! Il vecchio Banes è astuto come una faina, ma tu lo sei di più. Fagli una lagna, digli che studi archeologia, sviolinalo come hai sviolinato me con il Vaso Canopo e ottienilo. E offfrigli il minimo, non si merita neanche un centesimo, quell’inglese dei miei stivali.” aveva detto, con non poca enfasi, l’anziano quando aveva incastrato Horus quella mattina al lavoro. Le lamentele del Tassino su quanto fosse poco pratico con i soldi Babbani erano state inutili ed alla fine, era stato incastrato a suon di “meno bancone gli dai meglio è”. Lysander sapeva essere irremovibile.
Giunto alla fine della strada, Horus alzò lo sguardo sul cartello, identificandola come Swain’s Lane; per un istante fu tentato di tirare fuori la bacchetta e di castare un Incanto Quattro Punti, ma anche per quello Lysander era stato chiaro: guai a lui se avesse usato la Magia. Quella zona pullulava di Babbani, ci mancava solo un richiamo ufficiale del Ministero; e sebbene Lysander avesse tentato di spacciare la proprio preoccupazione per il futuro del ragazzo ad Hogwarts, in realtà Horus sapeva bene che egli temeva solo un controllo da parte delle istituzioni. Quanti altarini nascondeva quell’uomo, Horus non avrebbe potuto saperlo neanche in cent’anni di vita al suo fianco.
*E chissene frega, non ci tengo neanche a scoprirli.*
Preso da quei pensieri, Horus non fece troppo caso Swain’s Lane, che differiva ben poco da Oakshott Avenue. Quelle strade si somigliavano tutte terribilmente ed Horus si sarebbe perso se non fosse stato per la provvidenziale indicazione di una vecchietta incontrata un centinaio di metri prima. Con suo sommo piacere, comunque, Horus si ritrovò da solo per la via e s’incamminò con più lentezza, prendendosi tutto il tempo del mondo. Lysander gli aveva detto che l’uomo, un professore, rincasava sempre verso le sette passate e questo permetteva al Tassino di godersi la tranquillità della sera. In un primo momento, avrebbe voluto rifiutare, ma quando infine si era ritrovato in quel tranquillo e placido quartiere, Horus era stato grato a Lysander per quell’incarico. La notte precedente si era addormentato tardi e sogni fatti avevano reso il suo sonno inquieto. Fin da quando s’era svegliato, poi, il ricordo sfocato del pomeriggio precedente lo avevano assillato con i numerosi flash dei momenti vissuti. Era stata una liberazione ed una benedizione poter camminare così lontano da Hogwarts, così lontano da chiunque conoscesse. Eppure, stolto piccolo umano, Horus non poteva sapere quanto il Fato sapesse essere beffardo.
In una città grande come Londra, con decine di migliaia di migliaia di persone, strade, viuzze, vicoli e quartieri, quante probabilità c’erano che Horus e Eugene si sarebbero potuti incontrare, quando per mesi, all’interno delle stesse mura della Scuola, non si erano mai incrociati?
In un primo momento, distante poco più di un centinaio di metri, il ragazzo non se n’era accorto. Perso nei propri pensieri, le mani infilate nella giacca nera, i suoi occhi non avevano ancora riconosciuto quella capigliatura così inconfondibile. D’un tratto, distratto dal verso stridulo di un merlo, Horus si volse automaticamente verso la fonte del rumore e lì, lo vide.
Gli abiti che indossava erano ben diversi da quelli con cui era abituato a vederlo, eppure, nonostante la fioca luce dei lampioni che via via andavano accendendosi, nonostante la distanza, Horus seppe di non sbagliarsi: quello immobile poco distante dai cancelli di Highgate era Eugene O’Sullivan.
Il primo pensiero del Tassino, che s’era arrestato di scatto ed era balzato dietro un pioppo lì vicino, fu un’imprecazione. Amon benedetto, pensò, com’era possibile che il Destino glielo facesse ritrovare davanti proprio in quel momento,
così presto? Sorpreso, Horus si portò una mano al petto, nel tentativo di calmare il battito del suo cuore che era improvvisamente aumentato alla vista del giovane.
*Ed ora, che faccio? Me ne vado? Lo fermo? No, neanche per sogno, non ci penso neanche. No, aspetto qui che entri nel cimitero e poi continuo per la mia strada* Pensò risoluto, poggiando le spalle sul tronco dell’albero. Tuttavia, nonostante l’iniziale risolutezza, Horus si morse un labbro, sentendo l’indecisione far vacillare i suoi buoni propositi.
Ma come, gli disse una vocina nella sua testa, non volevi sapere di più di Eugene? Quale occasione migliore di questa?
*Sta andando al cimitero, magari va a trovare una persona cara. Non dovrei approfittarmi di un momento d’intimità…*
Sì, si disse, sarebbe stato alquanto sconveniente intromettersi così negli affari di Eugene. Però, continuò la vocina, lui era così riservato, così chiuso, che c’era di male a saperne un po’ di più? Non avrebbe mai avuto occasione di vederlo in un contesto diverso dalla Scuola, da ciò a cui erano abituati. Del resto, non aveva accettato solo la sera prima la consapevolezza di quell’interesse? Se davvero Eugene gli piaceva, beh, allora doveva almeno saperne un po’ di più, che diamine.
Titubante, Horus si sporse appena, controllando la figura dell’infermiere e prestando attenzione a non farsi vedere. Lui era ancora lì: sembrava incerto sul da farsi tanto quanto il Tassino, ma d’un tratto si mosse in direzione dei grandi cancelli, deciso, a quanto sembrava, a varcarli. Rapido, tornando a ripararsi dietro il tronco, Horus tirò fuori la bacchetta senza pensare ad altra conseguenza che non fosse il venir scoperto da Eugene e la puntò verso di sé.
*Séocculto* Pensò con intensità durante il movimento, sentendo la sensazione di un uovo rotto sulla testa pochi istanti dopo. Horus non sapeva se Eugene fosse stato o meno in grado di vederlo, ma decise che la prudenza non era mai troppa. Sicuro che il suo incanto era quantomeno andato a buon fine, uscì con lentezza dal nascondiglio e si incamminò a debita distanza da Eugene, facendo in modo di sfruttare qualsiasi pianta o rientranza per nascondersi, senza perder di vista il suo bell’obiettivo. Si sentiva assurdamente eccitato da quella prospettiva, da quell’avventata azione mai tentata prima di quel momento e se nei giorni a seguire si sarebbe pentito, ora l’unica cosa che gli interessava era scoprire qualcosa di Eugene, un lato di lui che altrimenti non avrebbe mai conosciuto.


« I wanna hide the truth, I wanna shelter you, but with the beast inside there’s nowhere we can hide. »

CODICE ROLE SCHEME © dominionpf
 
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Eugene O'Sullivan
view post Posted on 18/6/2016, 17:26





La luce filtrava fredda attraverso i rami delle querce che numerose, fiancheggiavano entrambi i lati del viale. Vi scivolava attraverso in silenzio, riuscendo ad evitare senza troppe difficoltà le radici che spuntavano di tanto in tanto tra le pietre rossastre del selciato e respirando nel mentre, l'aria umida, le tracce profumate del muschio, del Laurotino (che avvertiva ma non riusciva ad individuare con la vista) e della terra smossa di fresco. Alla sua destra, i tronchi si ergevano più radi e permettevano di spaziare con lo sguardo verso il campo e le lapidi, le quali inghiottite dal buio e dagli arbusti che disordinatamente vi crescevano spontanei, si scorgevano a malapena. Soltanto alcune, più alte riuscivano a raggiungere i raggi di luna già rarefatti dall'abbondante vegetazione, specchiandosi in essi ed emanando a loro volta deboli bagliori. In quella pace irreale, alcuni angeli di pietra dormivano all'ombra dei sempreverdi mentre altri, rivolgevano lo sguardo al cielo limpido con espressione a volte estatica a volte affranta ma più spesso ancora, suggerivano la malinconia di un' attesa immobile ed eterna. Lieve la foschia si levava dal basso sollevando il fogliame ed i fili d'erba che ondeggiavano contro le basi di granito bocciardato e più su ancora, sfiorava le vesti dei messaggeri alati sapientemente scolpiti in elaborati drappeggi.

Quelle figure snelle protese allo zodiaco lontano, parevano custodire preghiere silenziose e sebbene del tutto inerti apparivano tormentate da emozioni reali a tal punto, da spingere l'immaginazione a percepepirle nello stesso modo; non fosse stato per i tralci d'edera rampicante che le avvolgevano strette ancorandole alla terra e alla pietra, forse avrebbero abbandonato ogni indugio e agitando le ali se ne sarebbero finalmente tornate a casa tra le stelle. Eugene si era attardato ad osservarle attraversando quei luoghi le prime volte e a dispetto della costante inquietudine e della fretta provata s'era permesso anche di ammirarle. In quel momento tuttavia, non riusciva a prestare attenzione a cose da cui normalmente si sarebbe lasciato coinvolgere, ad ogni piccola bellezza che quel luogo - per quanto lugubre - indubbiamente offriva. Procedeva assorto a testa bassa mentre, con la mano libera infilata nella tasca del cappotto, giocherellava ancora con il ritaglio di giornale.

Da quando aveva chiuso il cancello d'ingresso, scorreva le dita lungo i bordi imprecisi della carta e nel contempo ripeteva mentalmente con una certa ossessività, il nome che vi si trovava scritto: *James D. Ward* 22 anni. Aveva lasciato la vita e l'impronta sanguinolenta della sua faccia sull'asfalto della M25. Doveva ringraziare l'ingegnosità babbana ed i loro primitivi trabiccoli a due ruote? O era un pensiero un po' troppo cinico? Ci sarà stato probabilmente chi aveva pianto per la morte di quel ragazzo, eppure era una consapevolezza da cui non si sentiva minimamente coinvolto. Qualcuno piangeva e Eugene ringraziava; esprimere verbalmente un concetto del genere implicava la capacità di metabolizzare sentimenti che a lui mancava, un'empatia che non aveva. Nessuna tristezza, nessun senso di colpa per ciò che stava per compiere. Neppure si preoccupava di fingere con sé stesso il contrario, anzi, come si fosse trattato di raccogliere manna dal cielo dopo un lungo digiuno, si sentiva esaltato dalla prospettiva di ciò che avrebbe potuto fare, di come approfittarne, di come togliersi finalmente quella smania che lo esasperava ormai da settimane. Indugiando su quest'ultimo pensiero, si ritrovò d'un tratto a stringere il manico della bacchetta con più forza del necessario in una sorta di contrazione muscolare involontaria, irrigidendo il braccio senza allontanarlo dal proprio fianco, dalla borsa e dal suo contenuto tintinnante.

Non arrestò il passo ma alzò invece lo sguardo in cerca della luna, osservandola scorrere oltre i rami di quercia; a letto, solo poche ore prima ancora immerso nel fragore del temporale, la sua testa aveva traboccato di pensieri chiassosi, di immagini, di congetture. In quel momento invece, ciò che riusciva a formulare, echeggiava nel profondo del suo cervello come immerso in un vuoto troppo profondo e cupo. Non solo l'ansia che lo aveva accompagnato nella pianificazione del suo progetto, pareva ora affievolirsi via via che si avvicinava alla meta (sostituita da un sentimento più simile all'impazienza) ma persino gli eventi del giorno prima assumevano toni decisamente meno vividi e quanto accaduto sembrava sbiadire anche d'importanza. Se non ci fosse stato quel segno sulla sua spalla ed i segnali fastidiosi che lanciava di tanto in tanto al di sotto della cinghia a mantenere saldo il legame con il tempo e la realtà, gli sarebbe parso davvero solo un sogno. In quello stato alterato della coscienza (prendendosi a tutti gli effetti una pausa dalle proprie emozioni) e mentre aspettava al di fuori dei cancelli l'approssimarsi della notte, non aveva pensato né ad Horus né ai momenti trascorsi in sua compagnia, né al bacio né alle parole che aveva pronunciato. Mai, neppure per un momento.

*


I suoi passi lasciavano impronte nette, affondando nel fango. Un fango denso e scuro, che gli imbrattava le scarpe e l'orlo dei jeans e gelava le caviglie. Sarebbe stato di certo fastidioso in altri momenti ma in quel frangente non ci faceva assolutamente caso. Piuttosto, avvicinandosi alla cassa che spuntava dal terreno già per metà, indirizzava fisso lo sguardo al coperchio lucido di legno di frassino con una certa soddisfazione. Non era stato difficile individuare la giusta lapide e anche senza le informazioni in suo possesso, probabilmente se ne sarebbe accorto passandoci davanti, dato che spiccava su ogni altra lì intorno per la mancanza di erbacce, per la pietra ben pulita dai rampicanti e per il terreno che ricopriva la zona ancora nudo e soffice. Le piogge avevano ammorbidito ulteriormente quest'ultimo proprio come Eugene si aspettava e nel giro di un quarto d'ora con l'ausilio della magia (al defodio per l'esattezza) era riuscito a scavare una fossa abbastanza profonda da potercisi calare dentro. Da lì, aveva proseguito il suo lavoro tentando di estrarla interamente anche se non senza difficoltà, perché ogni zolla che sollevava portava a galla pozze che inevitabilmente finivano con l'affondare ancora di più la cassa in una sorta di torbido acquitrino. Non era un'operazione silenziosa ma a quel punto il rumore era un problema secondario; i cancelli erano lontani, l'orario di chiusura era passato da un pezzo e difficilmente qualcuno sarebbe riuscito ad udirlo dall'esterno. Semmai lo preoccupavano i bagliori che si sprigionavano ogniqualvolta castava gli incantesimi i quali era certo potessero essere notati attraverso l'oscurità ad una distanza ben maggiore di quella raggiunta dalle onde sonore. Ricorreva perciò alla magia solo quando strettamente necessario lasciando ai suoi muscoli il resto del lavoro e proprio questo voleva dire perdere un bel po' di tempo.

Sospinse la borsa in avanti in cerca della maschera chirurgica e dei guanti. Infilò la prima, posizionandola a dovere sul viso poi attese di aver riposto la bacchetta nella tasca del cappotto, prima di indossare i secondi ed incominciare ad agire sulla controcassa di zinco. L'obiettivo era quello di allentare le due grosse viti che tenevano sigillato il coperchio e anche se la sensazione del lattice sulla pelle e quel suo odore così familiare rappresentavano una fonte di distrazione notevole, riusciva comunque a mantenere la calma. Almeno, per la maggior parte del lavoro, fino a quando, in un moto d'impazienza nel tentativo di far saltare via il secondo chiodo commise un errore a dir poco da principiante (anche se efficace) e dopo un calciò ben assestato riuscì a spalancarla di botto.

Dall'apertura si sprigionò intensa, l'esalazione inconfondibile del metano e dell'idrogeno solforato, potente e caustica. Malgrado la protezione della maschera, la testa gli vorticò furiosamente per alcuni secondi e vacillando all'idietro fu costretto a poggiarsi di schiena al margine della fossa, frastornato e in preda ad una risatina convulsa. Che fossero stati i suoi nervi a cedere di colpo per l'improvvisa sovrabbondanza di stimoli era fin troppo evidente e allo stesso modo era innegabile la fatica che impiegava per tentare di calmarsi, per riprendere il controllo del respiro. Socchiudeva gli occhi umidi ed irritati dai miasmi, boccheggiante ma intimamente euforico, nell'attesa che l'universo smettesse di girargli intorno come una trottola impazzita. A quel punto, dopo aver reclinato leggermente il capo all'indietro ed essersi riempito i polmoni a dovere, si costrinse ad abbandonare l'appiglio per avvicinarsi con passo malfermo nuovamente alla cassa (di cui non aveva avuto modo di osservare il contenuto fino a quel momento). La scrutava dall'alto in basso trattenendo il fiato e la prima cosa che notò, furono i folti capelli biondo miele del ragazzo disteso nella bara. Era chiaramente la persona giusta anche se, somigliava solo vagamente alla fotografia riportata sul giornale: il corpo era in stato di decomposizione piuttosto avanzato, presentava un notevole rigonfiamento dei tessuti (dell'addome in particolare) e cominciava seriamente a starci stretto nell'abito elegante in cui l'avevano infilato.

A causa di ciò e dei lineamenti alterati, se Eugene non avesse appreso in precedenza la sua età dall'articolo di cronaca non avrebbe saputo attribuirgliene una per conto proprio. Un vero peccato ne convenne, perché nonostante quel grottesco involucro di carne marciscente e maleodorante fosse tutto ciò che restava di lui, intuiva che doveva essere stato un bel giovane una volta e a dire la verità, possedeva ancora un certo fascino (anche se per altre ragioni che per quanto discutibili e contorte, non poteva negare). Non sapeva spiegarsi esattamente quale fosse il motivo ma si ritrovò a sorridere nervosamente al di sotto della maschera.

Le sue gambe tremavano ancora costringendolo a stringere il bordo della cassa per aiutarsi a mantenere l'equilibrio e ciononostante, gli occhi azzurri attirati come da una calamita, continuavano ad osservare avidamente ogni cosa, soffermandosi con maggiore attenzione sulla ferita alla tempia sinistra. Era semi-nascosta dai capelli, ma se ne intuiva ugualmente la gravità ed era probabile che fosse proprio quella, la causa del decesso. Anche perché il cranio non sembrava integro lì sotto; facendo forza sulle gambe e vincendo l'instabilità abbandonò la presa con la mano destra e l'avvicinò al volto del ragazzo per accertarsene.

Mentre i polpastrelli affondavano nella zona molliccia della frattura, il suo cuore cominciò a battere più forte e per riflesso deglutì subito, avvertendo distintamente ogni sussulto del muscolo risuonargli in gola. La pressione che esercitava sulla pelle tuttavia, fece muovere leggermente l'occhio sinistro del ragazzo sotto la palpebra chiusa in piccoli, brevi scatti, come se non fosse davvero esanime ma semplicemente addormentato: quella visione, invece di galvanizzarlo lo disturbò alquanto, portandolo a ritrarre velocemente la mano. Con una smorfia, trafficò all'interno della tracolla e dopo averla alzata ed essersela sfilata di dosso gliela depose di fianco, all'interno della bara.

Un rapido slancio e issandosi a sua volta, si ritrovò a cavalcioni sul suo corpo, ad altezza dello stomaco circa ma cauto, senza poggiarsi di peso (scaricato invece interamente ai lati su entrambe le ginocchia) per evitare che cedesse. A prima vista, teneva in mano una sorta di scalpello, ma ad osservarla meglio ci si accorgeva che si trattava piuttosto di una sgorbia da intaglio con il manico di legno ed una lama ricurva, i cui angoli erano stati opportunamente affilati. Senza rimuginare troppo, provò a spingerla nella palpebra inferiore del ragazzo; al primo tentativo, senza andare troppo in profondità e al secondo, poggiando il palmo destro sulla ghiera e dosando meglio la forza (ne bastava davvero poca) riuscendo in questo modo a recidere i nervi senza problemi.

L'occhio si sollevò, rimanendo collegato all'interno dell'orbita solo da un sottile filamento: la sclera era ormai diafana e la cornea che si stava chiaramente sfaldando, era ricoperta da uno strato biancastro simile ad una sottile ragnatela, eppure il pigmento verde dell'iride era ancora piuttosto nitido. Eugene lo osservava con fastidio: era disgustoso e avrebbe preferito non toccarlo, eppure ugualmente lo afferrò con delicatezza tra pollice, indice e medio e tirando, anche quell'ultimo filo finì con staccarsi.

Eliminandoli, si sarebbe potuto dedicare in pace a ciò che davvero gli interessava ed era il pensiero che sbrigando quell'incomodo in fretta avrebbe ottenuto prima ciò che desiderava a permettergli di maneggiare una simile schifezza senza perdere il controllo del suo stomaco. Per fortuna, (dettaglio utile su cui concentrarsi) indossava ancora i guanti.

"...sorry, James"mormorò placido, aggiungendo poi solo mentalmente *tanto a te, non servono più...no?* mentre ripeteva da principio la medesima azione dalla parte opposta. Dunque tese il braccio fuori dalla cassa e lasciò cadere entrambi gli occhi nel fango, ruotando il polso. Non si udì alcun rumore.

Di fatto, fu come togliersi una spina fastiosa da un dito; A quel punto, scivolò più indietro di una ventina di centimetri piegando ulteriormente le ginocchia e sedendosi stavolta ad altezza dell'inguine dove era sicuro, che i tessuti e l'ossatura del bacino avrebbero retto bene il suo peso. Curvando leggermente la schiena in avanti dopo avergli aperto la giacca con entrambe le mani, incominciò a slacciare uno ad uno i bottoni della camicia partendo dal basso. Le sue dita tremavano per l'eccitazione ed era difficoltoso riuscire a coordinare i movimenti, eppure non gli spiaceva più di tanto. Anzi, scoprire porzioni di pelle a poco a poco, percepire l'odore della putrefazione aumentare lentamente mentre procedeva, lo eccitava anche di più. Sembrava tutto perfetto. Sembrava...

Solo, non riusciva ad eliminare del tutto la sensazione d'essere osservato. Nonostante ciò che aveva appena fatto per scongiurarlo, provava una strana sensazione di disagio e si sentiva costretto a lanciare occhiate di sbieco al viso del ragazzo e alle orbite vuote, più e più volte, senza tranquillizarsi davvero fino in fondo. Normalmente avrebbe risolto il problema decapitandolo; e non soltanto avrebbe segato via la sua testa, ma anche le sue braccia, le gambe, mani e piedi. Gli avrebbe preso il cuore e conservato le interiora. Un bottino che come d'abitudine, avrebbe poi utilizzato in tutta calma, una volta tornato al numero nove di High Street. Non quella volta però. Si trattava di un'uscita atipica poiché, avendo a disposizione solo un paio d'ore da quel momento all'inizio del suo turno in infermeria, non avrebbe avuto tempo e modo di portare via nulla da lì, se non sé stesso. Se voleva comunque togliersi il capriccio, doveva contentarsi di ciò che poteva avere subito ed ignorare i presentimenti, sforzandosi di considerarli pure fantasie della sua mente ansiosa.
*...oh finiscila!* pensò con astio.

Spazientito dalla sua stessa indecisione afferrò i lembi della camicia e scostandoli per rivelare la pelle nuda del giovane. Malgrado il fisico asciutto, l'epidermide era davvero gonfia, violacea in diversi punti tra le costole dove trasudava un viscidume fetido. Eugene vi passo la mano, carezzandola con delicatezza attraverso il lattice e continuando a leccarsi le labbra con la stessa frenesia di un bambino alla vista di un bel pacco regalo con il proprio nome scritto sopra. Rapidamente, prese a scorrere la zip argentata del cappotto che sfilò di dosso e lasciò cadere senza cura alle sue spalle.

Non proprio una mossa troppo furba dato che la bacchetta era ancora lì dentro infilata nella tasca, ma in quel momento non poteva farci caso. Era infatti impegnato a rimestare il fondo della borsa alla ricerca di un piccolo, ma fondamentale attrezzo e quando finalmente lo trovò, sfilò la custodia di metallo del bisturi nr.22 stringendola nel pugno. L'aperse e la lama per alcuni secondi restituì al cielo freddi riverberi di luce come un piccolo diamante ma quando Eugene la conficcò nella pancia del ragazzo, ogni bagliore si spense all'improvviso, inghiottito dalla carne.

Esitò un'istante. Avvicinò la mano libera al viso ed infilando un dito all'interno della maschera la diresse lentamente verso il basso fino al collo. L'aria fredda della notte impregnata del dolce aroma della morte, gli penetrava i polmoni senza più alcun ostacolo e nonostante il suo stomaco soffrisse per i conati della nausea e per gli inevitabili sudori freddi (come sarebbe stato normale per chiunque al suo posto) non poteva fare a meno di sentirsi elettrizzato. Lento scorse il filo in orizzontale, affondando nel primo strato di pelle senza resistenze e terminando l'incisione con un gesto più rapido e netto verso destra. Favoriti dalla stessa gravità, gli intestini scivolarono fuori, gli uni sugli altri, assieme ad un liquido denso di sangue coagulato e liquami putridi che sospinti dalla presenza di gas schizzarono fuori all'istante, insudiciandolo generosamente.

La sua guancia destra gocciolava e sul maglione color cenere spiccava una grossa macchia che scendeva in obliquo dalla spalla al fianco sinistro, fino ai pantaloni ora completamente fradici. Subito, immerse le mani in quel groviglio di visceri, in quella sorta di poltiglia scura informe e nauseabonda, inebriato dalla consistenza che avvertiva attraverso i guanti. Socchiuse gli occhi, reclinò il collo inarcando la schiena ed alcuni boccoli della frangia vermiglia scivolarono all'indietro scoprendogli la fronte, il profilo illuminato dalla luce della luna. Non si rendeva conto di ciò che faceva perché ormai reagiva per automatismo e mentre una mano risaliva il suo petto al di sotto del maglione dopo aver slacciato i primi due bottoni dei jeans, l'altra ancora gocciolante si accostava al proprio volto. Dischiuse le labbra con un tremito giocando, pericolosamente, con la tentazione di leccarsi le dita...


 
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view post Posted on 6/8/2016, 21:07
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▲ Highgate Cemetery, London | mood: Agitated| Weather: Night▼
Horus R. Sekhmeth

Aveva dovuto castare un Felpato sui propri piedi poiché, ossessionato dal rumore che avrebbero potuto fare sulle foglie secche sparse lungo il viale, Horus non riusciva a tranquillizzare il battito del suo cuore.
La curiosità, l’eccitazione e il senso di colpa ed il rimorso nello star facendo qualcosa di assolutamente sbagliato lo galvanizzavano e al contempo lo atterrivano.
Seguendo silenzioso la figura di Eugene a una decina di metri più avanti, Horus passava i minuti nell’indecisione di continuare a proseguire o fermarsi e tornare indietro.
A dispetto delle apparenze, della rigidità e della severità che usava per ammantarsi come se fossero state un mantello che separava lui dagli altri studenti, Horus non era mai stato così incline a seguire le regole, se queste lo separavano da qualcosa che voleva davvero. Aveva sempre imparato a sorpassare certi limiti, varcarli con una giustificazione sempre pronta per mettere a posto la sua coscienza, altrimenti in grado di tormentarlo durante i momenti di tranquillità; Dulwich alla fine era stato un esempio, seppur estremo.
Ora, semplicemente, tutto ciò che si ripeteva quando la tentazione di lasciar perdere si faceva troppo forte, era che doveva conoscere Eugene a modo, per poter gestire i propri sentimenti e capire cosa farne e come comportarsi. E poiché l’Infermiere, sospettava Horus, non gli avrebbe mai permesso di conoscerlo nell’intimità, lui doveva arrangiarsi. Suonava così candido, così ingiudicabile che ad un certo punto si convinse lui stesso di essere nella ragione.
Solamente l’impegno preso con Lysander continuava a pizzicarlo, ma Horus si ripromise di andarsene non appena la sua curiosità non fosse stata soddisfatta.
Tuttavia, quando Swain’s Lane cominciò ad allargarsi con l’avvicinarsi di Highgate e delle sue grandi ed imponenti recinzioni ottocentesche, le cui punte a picca svettavano nere verso l’alto separando il regno dei morti da quello dei vivi, Horus dubitò di riuscire a sbrigare quell’ “impegno” tanto in fretta.
Più avanti, infatti, Eugene s’era arrestato, mentre il Sole calava incendiando di fuoco i capelli del giovane e lasciando riverberi aranciati lungo tutta la strada; Horus, ancora non del tutto sicuro che il suo Seocculto fosse attivo, si nascose tra un pioppo ed una macchina parcheggiata vicino il muro di una casa solitaria, sbirciando il suo obiettivo nel piccolo spazio che si apriva fra il tettino scrostato della vecchia Renault e il tronco dell’albero. Eugene sembrava in attesa di qualcosa, o, pensò il ragazzo, di qualcuno.
D’improvviso l’ipotesi che l’infermiere potesse frequentare una persona gli si palesò davanti con chiarezza ed Horus trovò difficoltà nel capire se sarebbe stato un sollievo —perché questo avrebbe significato la fine di qualsiasi sentimento con una certa facilità—, o un fastidio. Di tanto in tanto, il Tassino lanciava occhiate nervose all’orologio che portava al polso, spostando poi lo sguardo ancora su Eugene.
Un paio di anziani Babbani passarono lungo la via, senza dar segno di notare né Horus né, tantomeno, il giovane che sostava in attesa vicino ai cancelli del cimitero. Poi, cadde il silenzio, fatta eccezione per lo stormire delle foglie degli alberi circostanti, dal cigolio di un cancello lontano e da una coppia di tordi che passò cinguettando sopra le loro teste.
Più il tempo passava, più l’ansia di Horus aumentava; erano ormai le sette passate quando il Tassino dovette far fronte all’ennesima scelta. Era vicino al punto di non ritorno: se fosse rimasto ancora lì, avrebbe dovuto rinunciare all’incarico per conto di Lysander. Indeciso, Horus si morse un labbro, guardando silenziosamente la figura di Eugene rimanere ancora immobile, come se fosse assorto in qualcosa. Ormai era improbabile che sarebbe giunto qualcuno ed il ragazzo si ritrovò a spronare mentalmente l’infermiere affinché si decidesse a muoversi; il Sole, nel frattempo, era tramontato ed il buio calava su di loro come un sipario.
Infine, diverso tempo dopo, quando Horus aveva ormai deciso di andarsene, progettando qualche scusa da imbastire al signor Barnes, Eugene si mosse. Il cuore del Tassino sembrò ritrovare vitalità e accelerò nel petto quasi a voler ricordare al ragazzo che non poteva più tornare indietro e che al signor Barnes avrebbe pensato l’indomani. A Lysander, pensò, poteva benissimo dire di non averlo trovato in casa.
Rapido, ma silente, i piedi attutiti ancora dal cuscinetto magico, Horus uscì fuori dal suo nascondiglio, allungando il passo per riuscire ad infilarsi nel cancello in ferro battuto che andava chiudendosi alle spalle di Eugene. Riuscì ad entrare per un pelo, fermandolo con una mano e balzando all’interno del cimitero. Il cancello si richiuse con un clangore metallico dietro di lui e subito l’odore dei cipressi e del muschio cominciò a infastidire le sue narici. Timoroso di uno starnuto, Horus trattenne il fiato per qualche istante, scartando di lato, rispetto a Eugene, e seguendolo a debita distanza.
Non era mai stato ad Highgate. Anzi, a dirla tutta Horus non era mai stato in un cimitero “convenzionale” prima di allora: la sua famiglia, da ambo le parti, aveva un concetto particolare della morte e sua madre aveva sempre detto che i cimiteri le mettevano tristezza perché le davano l’idea di anime intrappolate fra legno e pietra. Tutti i membri della famiglia degli O’Neill venivano cremati ed i resti venivano sparsi nel bosco di proprietà privata del casato, così da dar vita a nuove piante. Per quanto riguardava i Sekhmeth, si praticava ancora l’imbalsamazione e l’immensa tomba, che ospitava i resti dei membri della famiglia scavata in un sito protetto Magicamente per evitare che ladri, Babbani e curiosi potessero scovarlo, era un tripudio di colori, dipinti ed oggetti di vita quotidiana, esattamente com’erano soliti fare nell’Antichità. In entrambi i casi, dunque, la Morte veniva vista come un intervallo di trapasso e rinascita, mentre in quel cimitero tutto ciò che Horus percepì fu oppressione e tristezza.
Eppure, giudicò mentre, nel cammino, osservava le splendide lapidi intagliate, le statue e i piccoli mausolei, c’era qualcosa di meraviglioso in quella melancolia. Qualcosa che ricordava sì, la caducità della vita e della bellezza, ma che, in un certo qual modo, la imprimeva nel silenzio della Natura e nell’austerità del marmo e della pietra.
Tuttavia, benché Highgate, le sue tombe e la sua vegetazione non facessero altro che richiamare l’interesse del Tassino (Horus aveva persino scorto una tomba la cui lapide, in finto legno, recava inciso “I was here… but not anymore” con tanto di terra smossa e manine plasticose che spuntavano dal tumulo), la sua attenzione doveva rimanere vigile sul percorso che Eugene stava compiendo. Il ragazzo, infatti, si muoveva conscio del luogo che aveva intorno, lo sguardo rivolto innanzi a sé, come se sapesse dove andare. Evitava abilmente tutte le radici che spuntavano dal terreno, che, invece, costituivano un certo ostacolo per Horus che a fatica proseguiva, rallentato dall’incombenza di un incanto che, al minimo rumore, lo avrebbe esposto alla vista di Eugene.
*Accidenti a me e a quando non mi sono portato dietro il Mantello della Disillusione. Non si può mai sapere, no? Pensò infastidito, dopo aver compiuto una stramba piroetta e aver mulinato in aria le braccia nel tentativo di non calpestare un cumulo di foglie secche.
Camminarono ancora per un bel pezzo, addentrandosi nel folto della vegetazione e del cimitero e quando finalmente si arrestarono, nei pressi di una tomba tumulata da poco tempo, la luna era già alta nella porzione di cielo che si apriva sopra le loro teste, incorniciata dalle foglie delle querce e dei faggi.
Solo quando Eugene si arrestò vicino la tomba, Horus, nascostosi dietro l’ennesimo albero, si rese conto della bacchetta che egli stringeva fra le dita. La trovò una cosa curiosa e piegò il capo dubbioso: cosa diamine ci doveva fare con la bacchetta? Una qualche parte di lui aveva già capito che Eugene non si trovava lì per trovare una persona cara, forse perché il senso di quell’attesa, fuori ai cancelli, aveva ormai messo a nudo la torbidità delle sue intenzioni. Eugene aveva atteso che scoccasse la chiusura del cimitero, quando ormai la notte andava calando, e un qualsiasi altro, normale visitatore non avrebbe avuto motivo di farlo. Eppure, Horus si era detto che forse il dolore e la riservatezza del ragazzo erano tali da non volere nessuno fra i piedi in un momento così intimo (un pensiero che gli aveva procurato un’altra stilettata di rimorso per averlo seguito).
Quando, però, Eugene castò un evidentissimo Defodio, Horus non ebbe più dubbi: l’infermiere non era lì per ricordare alcun caro, ma era lì per combinare qualcosa di losco. Qualcosa che, notò Horus, poteva aver a che fare con la pesante tracolla che gli pendeva dalla spalla. Fu in quel momento, infatti, che il Tassino la riconobbe per la stessa tracolla che solo la sera prima Eugene aveva con sé e che pesava una mezza tonnellata. Un sospetto a quel punto emerse nel Caposcuola quando ricordò il rumore metallico che la borsa aveva fatto quando era caduta a terra.
*Oh, Anubi… non vorrà mica?* Si portò una mano alla bocca, mentre, con l’altra, si appoggiava al tronco, sporgendosi oltre per cercare di vedere cosa il ragazzo faceva. Ormai la terra acquitrinosa gli lambiva le gambe e quando Eugene abbassò la bacchetta, un’infinità di minuti dopo, la buca era tale che Horus, dal posto in cui si trovava, non riuscì a veder più nulla poiché l’infermiere era totalmente inglobato dalla terra. Per un lungo minuto Horus si ritrasse dietro il tronco, poggiando le spalle al legno, il cuore che batteva forte. Un piccolo flash, di un quaderno nero che spuntava sulla scrivania dell’ufficio di Eugene e che veniva prontamente nascosto in un cassetto, gli tornò alla memoria ed Horus dovette premersi la mano sulle labbra per evitare che anche solo un mormorio inquietato prendesse vita sulle sue labbra.
Il rumore della terra scavata con le mani, dello sciabordio del fango e del tramestio del legno gli giunsero alle orecchie, ma Horus non trovò il coraggio di sporsi ancora dal tronco. Rimase immobile, impietrito, gli occhi fissi di fronte a sé, su una lapide colorata dal muschio e dalla muffa che, storta, spuntava in mezzo alle foglie d’edera come un buffo dente in una bocca sdentata.
Gli ci vollero parecchi minuti prima di ritrovare il controllo sul proprio respiro e sul battito del proprio cuore, minuti occupati per tutto il tempo dai rumori che rimbombavano nelle orecchie di Horus con fare grottesco in quel silenzio altrimenti intonso.
Quando sentì lo scricchiolio del legno e del metallo, segno che probabilmente la bara era stata aperta, Horus sbucò dal suo nascondiglio, silenzioso; la risatina che aveva udito provenire da Eugene gli procurò un brivido lungo la schiena. Avanzò rapido dietro la lapide della tomba violata, così da avere una visione più completa di quel che stava accadendo nella buca. Non seppe neanche lui cosa gli impedì di scappare via: sentiva solo la pericolosa curiosità che lo spingeva a non muoversi da lì, a non abbandonare quel luogo, gli occhi che non potevano fare a meno di puntare Eugene. Sapeva che stava per assistere a qualcosa di deviato, qualcosa che avrebbe potuto cambiare tutto quello che era riuscito ad accettare fino a poche ore prima, ma non riuscì ad andarsene. Fu come una pallina che, poggiata su un piano in discesa, cominciava a rotolare sempre più rapida, impossibile da fermare.
Quando la bara fu aperta e le esalazioni uscirono fuori con una certa forza, compresse fino a quel momento dal coperchio della bara, Horus si premunì, tirando su il collo del maglioncino color tortora, e premendoselo sul naso e sulla bocca. Anche così, tuttavia, non riuscì a non sentire i venefici gas maleodoranti che si liberarono nell’aria e lo stomaco gli si strinse dolorosamente, mentre un conato gli salì alla gola. Chiuse gli occhi, stringendoli forte per cercare di ritrovare un controllo e non cedere agli spasmi sempre più violenti che gli squassavano il corpo.
Non riuscì neanche a formulare un pensiero, né si chiese come poteva Eugene resistere a quell’odore fetido: semplicemente era troppo occupato a lottare con tutto se stesso per non vomitare.
Ma ormai era tardi per fuggire da quella scena raccapricciante e come uno spettatore spaventato non può fare a meno di guardare, attraverso le dita delle mani corse a coprire il viso, il film horror, Horus si arrischiò ad aprire gli occhi, premendo in maniera più convulsa la stoffa alla bocca. Cominciò a invaderlo il malessere fisico e psicologico che provava quando si trovava in un luogo sporco e le gambe gli tremarono quando Eugene si accovacciò sopra il defunto. Le pallide iridi di Horus non poterono non scorrere su quel volto tumefatto e livido i cui liquami sgorgavano da ogni poro lacerato. Con orrore seguì Eugene infilare le dita in un’apertura sulla tempia, forse la causa del decesso, e bloccò un altro conato quando lo vide tirar fuori uno strumento simile a quello di uno scultore per tirare fuori l’occhio dall’orbita, neanche fosse stato un nocciolo d’oliva.
Il volto di Horus era una maschera d’orrore e fu con fatica che il Tassino controllò la nausea. D’improvviso il ricordo dei corpi che aveva straziato gli inondò la mente e fu costretto ad alzare lo sguardo verso l’alto, gli occhi liquidi per l’irritazione di quel puzzo. La luna brillava candida al cospetto di quella grottesca serata, quasi volesse ricordar loro che era troppo lontana, troppo pura per macchiarsi della stessa lordura degli uomini. Horus non abbassò lo sguardo finché non riuscì a scacciare i ricordi e a trovare una spiegazione e quando credette di esserci riuscito, si azzardò a guardare di nuovo. Per un folle istante credette di essercisi abituato e molto probabilmente lo era. Aveva ormai convenuto che Eugene fosse uno di quei malati che andava nei cimiteri per prendersi un ricordino; accadeva spesso, in passato, e in fin dei conti non era neanche così strano, tutt’al più che aveva avuto delle avvisaglie, quando Eugene lo aveva curato e aveva notato il suo sguardo assorto, quasi affascinato quando osservava una ferita, specie se in suppurazione. In fondo, s’era detto mentre guardava la volta celeste, fissando l’Orsa Maggiore con intensità, anche lui di cadaveri ne aveva visti e per quando schifato inizialmente, aveva accettato quei corpi macellati, quella materia cerebrale schizzata sui tronchi, la densa viscosità del sangue che come pittura macchiava qualunque cosa sfiorasse. Era questione di abitudine, no?
Ma per quanto alla fine il suo cervello era riuscito a giustificare quell’orrore, Horus non si era affatto preparato a quel che accadde dopo. Come al rallentatore vide Eugene scivolare verso l’inguine del cadavere ed infilare le mani nella putrescenza del torace. Lo vide inarcarsi, sul viso un’espressione che non poteva esser altro che piacere, piacere fisico, non c’erano dubbi: gli occhi erano socchiusi e il volto, quel bel volto che gli era sembrato tanto fragile, era proteso verso l’alto, illuminato dai bagliori della luna che lo rendevano ancora più pallido e risaltavano il rosso delle lentiggini e dei riccioli. Il collo allungato era aggraziato, più simile a quello esile di una donna che a quello muscoloso di un uomo ed Horus provò ribrezzo nel ricordare quando aveva morso proprio quella pelle in apparenza candida. Lo vide slacciarsi i bottoni dei jeans e vide la sua mano, sotto la stoffa del maglione macchiato, risalire lungo il suo petto; vide l’altra mano lorda di sangue e marcescenza, quella mano che l’aveva sfiorato e cercato, alzarsi verso il viso; vide le labbra, quelle labbra che aveva baciato, che aveva desiderato, schiudersi, pronte a leccare le proprie dita. E fu a quel punto che Horus cedette.
Sentì qualcosa infrangersi, dentro di sé, e la mano che teneva il maglione ricadde lungo il fianco. Dopo aver indietreggiato, Horus cominciò a correre, attutito ancora dal Felpato, ma facendo abbastanza rumore da infrangere il Seocculto. Corse solo per qualche metro, prima che la nausea avesse la meglio e dopo essersi nascosto dietro il tronco di un grosso cipresso, una mano premuta sullo stomaco e l’altra appoggiata, a sostegno, sul legno, rimise anche l’anima.
Avrebbe potuto quasi accettare un’insana attitudine nel volersi portare dentro casa —forse per il bene? Della Medicina— un ricordino, ma la necrofilia… quella no. La sola idea che quelle mani sporche de gli Dei solo sapevano cosa, che lo toccavano, che quella bocca, che aveva leccato via quell’orrore (era assai probabile, visto l’andazzo, che Eugene l’avrebbe fatto), potesse baciarlo lo devastavano. Non c’era neanche qualcosa di morale sotto e questo, in un secondo momento, lo avrebbe persino preoccupato; ma ora, mentre rigettava qualsiasi cosa esistente dentro di sé, tutto ciò che lo sconvolgeva è che Eugene avesse potuto toccarlo dopo aver toccato un cadavere putrefatto. Anche solo l’idea che il ragazzo avesse potuto pensarlo in quelle condizioni, decomposto dentro una bara, lo sconvolgeva.
Quand’ebbe finito riprese fiato, pulendosi le labbra con la manica, schifato. Se si fosse visto allo specchio, probabilmente non si sarebbe riconosciuto: era pallido come la morte e su quel pallore il rosso delle guance e degli occhi svettava come se qualcuno gli avesse dipinto la faccia. Si sentiva sporco, infetto e se avesse potuto si sarebbe dato fuoco. La mano sinistra, tremante per lo sforzo, corse al braccio, dove cominciò a grattarsi convulsamente, quasi volesse toglier via la sozzura che sentiva impregnarlo. Sapeva che Eugene lo aveva udito, sebbene non avesse idea di quel che avrebbe fatto. In un certo senso, non sapeva neanche cosa avrebbe fatto lui. Ora, però, l’orrore lo inchiodava al tronco a neanche dieci metri da Eugene e dal cadavere; il cuore batteva all’impazzata e l’ignobile sensazione di esser stato preso in giro gli avviluppava il petto come una morsa: stupido, sì, era stato uno stupido per aver creduto anche solo… cosa? Che era tutto rose e fiori, che sarebbe stato così facile? Che Eugene era davvero cambiato? No non lo conosceva neanche, in fondo: probabilmente si era ancora preso gioco di lui, fingendosi più innocente di quel che era in realtà, soltanto per il gusto di vederlo cedere e ingannarlo. Continuò a grattarsi convulsamente il braccio ed il collo, finché non sentì la pelle lacerarsi; si sentiva sfiancato e debole, lercio quasi quanto Eugene, se non di più.



« I wanna hide the truth, I wanna shelter you, but with the beast inside there’s nowhere we can hide. »

CODICE ROLE SCHEME © dominionpf


Edited by Horus Sekhmeth - 7/8/2016, 01:12
 
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Eugene O'Sullivan
view post Posted on 21/9/2016, 15:14





Si sentì raggelare il sangue nelle vene. In un primo momento, non avvertì distintamente il rumore dei passi né lo scricchiolio sordo dei rami secchi calpestati ma ugualmente arrestò ogni sordido affaccendamento, volgendosi rapido con gli occhi sbarrati ed il fiato sospeso. Il braccio destro era ancora piegato, la mano accostata al viso istintivamente contratta a stringere nel pugno la stoffa semirigida della mascherina chirurgica. Il collo s'era girato ma non di molto ed era spettato allo sguardo il balzo maggiore in direzione della presumibile fonte del disturbo. Fisso in un vuoto di densa oscurità e da un'angolazione già di per sé scomoda che non gli permetteva di mettere a fuoco nulla oltre il perimetro della fossa.

La luce della luna non penetrava lo spazio tra gli alberi e gli arbusti ai lati della strada se non, debolmente in brevi sprazzi tra i rami dove la vegetazione era più rada, tuttavia non aveva alcuna importanza dato che dalla posizione in cui lui si trovava, isolato in quella sorta di trincea acquitrinosa, non era possibile scorgere neanche quello. La sensazione che ne ricavava lo atterriva e la sua mente iperattiva che lesta cominciava a svegliarsi di pari passo con il terrore, dava forma primitiva ad un'accozzaglia di immagini e furiosi maelstrom di pensieri vorticanti: un black hole, al centro di una voragine in cui qualsiasi bagliore scompariva inghiottito dal buio e dalla quale lui stesso avvinghiato e trascinato verso ignote profondità, si percepiva a poco a poco divorare dall'interno. Oppresso e soffocato da quella visione (in cuor suo e di fatto), cacciò un respiro profondo, colmando i polmoni per intero in una volta sola e forse troppo bruscamente; così, adesso che la cassa toracica riprendeva la sua funzione vitale (espandendosi e contraendosi con ritmo sincopato al limite dell'iperventilazione), risultava quasi doloroso. Provò ad aprire la mano, ad allontanarla dall'incavo della gola, dall' altezza del muscolo sternotiroideo più o meno, sino al bordo della cassa adoperandosi a far leva su quello, per tirarsi su di peso.

Non era un'impresa facile: le dita si muovevano intorpidite ed umidicce di sudore al di sotto dei guanti con una lentezza macchinosa ed aveva su di sé, riversi sulle sue gambe e buona parte dell'addome, almeno una quindicina di chili di putridi intestini e liquami glutinosi che rendevano la superficie interna del feretro alquanto sdrucciolevole. Eppure, eppure sapeva di doversi muovere di lì. Sapeva di dover agire in qualche modo, senza perdere tempo in maniera stupida ma aveva paura. E con ragione probabilmente, perché i gorgoglii ed i singulti strozzati che in quel momento attraversavano l'etere al di sopra della sua testa, erano chiaramente dei versi umani. Dovevano averlo seguito senza che se ne fosse reso conto. A quel punto, il sospetto che ci fosse di mezzo qualche incantesimo di occultamento gli balenò in testa (ovvio, non poteva escludere del tutto l'errore personale ma era propenso a credere che in mancanza di quel genere di artifici, difficilmente qualcuno sarebbe riuscito nell'intento) e questa ipotesi palesava una situazione di gran lunga peggiore: non soltanto, era stato seguito e spiato ma se davvero si trattava di un mago o di una strega allora la faccenda diventava oltremodo seria.

D'impulso, agguantò la borsa con il pugno sinistro e preda di un primordiale istinto di fuga, se l'avvicinò al fianco praticamente senza sforzo. Pur percependo i secondi scorrere a velocità doppia, pressanti ed inesorabili per l'apprensione, si sforzava di cavar pensieri di senso compiuto dal più completo e torbido caos, di riuscire a valutare quel che stava accadendo senza cedere al panico. Ma era bello che andato già da un pezzo. Il cuore gli martellava così forte da sentirselo pulsare più che in gola direttamente nel cervello e con il ritmo pericoloso di una mitraglia impazzita. Nel giro di brevi istanti, divenne assai più simile al ronzio di un frenetico batter d'ali e da quel fracrasso che gli sconquassava il cranio con violenza, crebbe sino al punto di trasformarsi improvvisamente in rumore bianco. Fisso, continuo e doloroso come uno spillo conficcato nei timpani in profondità. Scrollò la testa assottigliando gli occhi, come se quel movimento potesse davvero alleviare in qualche modo il fastidio e lo sguardo gli cadde suo malgrado sul volto del ragazzo lì davanti: il collo piegato verso il basso faceva poggiare il mento sulla spalla sinistra, la bocca perfettamente chiusa. Le orbite vuote che s'intravedevano appena da dietro le palpebre superiori rimaste calate per metà, mentre le inferiori (o meglio, quel che ne restava) danneggiate dall'incisione della sgorbia affondavano direttamente all'interno delle cavità.

Da quei tagli netti fuoriuscivano copiosi rigagnoli di sangue, come lacrime purpuree giù lungo le guance, all' orecchio ed oltre sino ad impregnare la fodera del cuscino di raso. Sapeva che non poteva essere reale. Lo sapeva perfettamente. Il suo cervello stava imbroccando la strada sbagliata un'altra volta ma per quanto potesse esserne consapevole non gli riuscì di evitarsi un tuffo al cuore. Un sussulto, per colpa del quale sobbalzò, perdendo il già fragile appiglio sul bordo ligneo e viscido della cassa e precipitando dritto nel fango con tutta la tracolla. Rimase frastornato per un'istante, con entrambi i gomiti piantati nella terra, il polpaccio e la caviglia destri intrappolati dall'attorcigliamento di visceri che si era trascinato appresso. Doveva anche essersi lasciato sfuggire qualche lamento ma non ne era sicuro. Quella sorta di sibilo proprio non voleva saperne di abbandonarlo e a causa di ciò, non era certo neppure della quantità di rumore che aveva generato cadendo. Senza perdere altro tempo, diede uno strattone deciso con la gamba destra lacerando alla buona quelle untuose corde di carne, riuscendo a liberarsi.

Nel mentre intorno a lui, entità dalla forma indistinta scivolavano sulla melma come su uno strato di ghiaccio. Eugene che evitava di fissarle direttamente ne conosceva già il numero esatto senza mettersi a contarle: ve n'erano undici in tutto, dalle fattezze vagamente antropomorfe ma dai contorni davvero troppo imprecisi, sfocati e tremolanti come ombre proiettate da lontane fiamme di candela. Dapprima si muovevano in totale silenzio attraversando la materia che incontravano lungo il cammino (le zolle umide, il contenuto lucente della borsa sparso per il pantano e le pozzanghere nero pece), per poi levare una sorta mormorio a più voci, via via che lo spazio tra loro e Eugene diminuiva. Sussurrato come dalla notte stessa direttamente nel suo orecchio, era un cicaleccio che s'andava ad aggiungere al già irritante brusio riempendolo di parole non sue. In ginocchio con entrambe le mani immerse nel terriccio, il capo chino e la sensazione vivida che il liquor racchiuso nel suo cranio ribollisse, si costringeva ad ignorarle nella speranza che sparissero da sole così come erano comparse. Invano. Il suolo cominciò a fremere sotto di lui quasi schiumando e all'improvviso stroncando ogni possibile tentativo di autocontrollo, qualcosa lo afferrò per il polso affondando nella manica destra. Era una mano minuta, una mano da bambino, lercia e dalle dita malconce, graffiate e contuse come se avessero lungamente scavato nella dura terra. Emergendo a sua volta dal fango nello spazio ristretto tra le sue braccia, la seguì anche il volto alla quale apparteneva, smagrito e dai lineamenti poco chiari a causa dello sporco che lo ricopriva ma dagli occhi ben aperti e che puntavano dritti in alto riflettendo pienamente quelli di Eugene, le sue pupille midriatiche, le iridi dello stesso identico colore blu cadetto.

S'arrovellava su una destabilizzante sensazione di déjà-vu. La percezione distorta di aver già vissuto quel momento, forse da un altra prospettiva, forse in un'altra forma e lo inquietava non riuscire a definire limpidamente i propri ricordi. Tuttavia quella figura gli pareva tutt'altro che una minaccia e persino gli spettri mormoranti che continuavano ad assediarlo, non gli davano l'impressione d'essere lì presenti con l'obiettivo di nuocergli. Erano rumorosi, molesti ma familiari e questo bastava a permettergli di conservare la giusta dose di sangue freddo per evitare di gettarsi patetico in un angolo ad aspettare il termine dell'incubo. Per fortuna, per quanto fossero vivide, certe visioni non duravano mai troppo: arrivavano, portavano trambusto e poi svanivano a distanza di pochi minuti. Finché Eugene riusciva ancora a distinguerle dal reale poteva amministrarsi senza troppi problemi, evitare che altri indovinassero ciò che stava davvero accadendo e proseguire la sua farsa di normalità. Ma a volte era difficile comprendere effettivamente dove finisse il delirio ed incominciasse il concreto e tutto ciò che poteva fare, si riduceva all'affidarsi arrendevole al caso e sperare di uscirne più in fretta possibile.

Proprio ora, si trovava su una sottile linea di confine. Pur consapevole di interagire con il frutto della propria mente, sperimentava sensazioni tattili così smaccatamente vivide da confonderlo. Quelle piccole dita infantili s'avvinghiavano alla carne del suo avambraccio affondandoci le unghie e non poteva dire che non fosse vero. Nel tentativo di divincolarsi dalla stretta, incordò i muscoli del braccio e strinse il pugno al di sotto dello strato di fanghiglia ma qualcosa lo punse all'improvviso. Qualcosa di tagliente contro cui strusciò incauto i polpastrelli ferendosi. Cacciò la mano fuori assieme all'oggetto misterioso ed appurò che si trattava del bisturi che aveva utilizzato in precedenza per sventrare il ragazzo. Si chiese come avesse fatto ad arrivare così lontano ma ipotizzò alla svelta che fosse rimasto intrappolato nei brandelli d'intestino esattamente come era capitato alla sua caviglia staccandosi poi, dopo lo strattone che egli stesso aveva dato per liberarsi. Per quanto ne sapeva, era plausibile che il colpo l'avesse fatto volare sin lì.

Rimase ad osservarlo meditabondo in silenzio mentre sotto di lui, l'entità s'agitava e tentava dischiudendo le labbra di parlare (o respirare?) gorgogliando invece dalla sua bocca piena di melma, bolle di fango dense e scure, al posto delle parole. Non occorrevano parafrasi tuttavia, perché per lui che fissava morbosamente il filo della lama stagliarsi contro l'oscurità, il messaggio era ben chiaro:

"non lasciare che ti prendano"

Rafforzando la stretta sul manico di metallo con espressione glaciale, frattanto che il giovane volto spariva lento inghiottito di nuovo dal terreno, Eugene riuscì ad issarsi sulle proprie gambe (forse ancora un po' rigide ma stabili), per volgersi poi verso la bara alle sue spalle; s'avvicino di quel mezzo passo che da essa lo separava senza badare minimamente al cadavere e dopo aver infilato il bisturi nella tasca posteriore dei jeans, rivoltò il cappotto per estrarne la bacchetta di agrifoglio.

Probabilmente era stato lui stesso a borbottare sbiascicando, le parole che aveva udite ma non si trattava di un dettaglio importante perché in ogni caso a dispetto della poca lucidità s'avvedeva ugualmente della loro sensatezza. Le possibilità erano due: uscire di lì in fretta, fuggire fintanto che poteva ancora farlo, approfittando del momento di calma per nascondersi da qualche parte in attesa del disfacimento del suo piccolo universo, oppure scovare quel figlio di puttana nascosto tra gli alberi e senza dargli il tempo di parlarne a chicchessia, eliminare il problema. Qualora avesse tentato e fallito, non ci sarebbe stato modo di tornare indietro. Eugene ne era perfettamente consapevole e si trovava a dover decidere a cosa dare retta; se allo scrupolo che umanamente lo frenava dal compiere quel genere di azioni contro un suo simile o se dare sfogo al terrore che provava in quel momento e tentare così di salvare sé stesso dall'umiliazione. Come infermiere era abituato a prendersi cura della gente e non a ferirla o peggio. Si sentiva dilaniare soltanto considerando questa possibilità e tuttavia non poteva escludere che fosse il caso di superare certi limiti dettati dalla propria coscienza. Egoismo il suo. Vile, opportunista e persino banale ma contrastava la paura ed era di fatto tutto ciò che seguitava a spingere la sua marcia al di fuori della fossa.

Il terreno umido era friabile e franava appena ci metteva il piede sopra, creando solchi, scie nella melma e pozze nere. Gli ci volle del buono per riuscire ad inerpicarsi ed ebbe tutto il tempo di avvertire i singhiozzi gutturali che fino a quel momento erano risuonati in fondo al suo cranio e tra le fronde, estinguersi nel buio. Dietro di lui la Luna lo illuminava, la sua sagoma vi si stagliava contro come fosse stato un faretto e questo lo faceva sentire peggio che nudo. Rivolse la bacchetta verso di sé e pronuncio la formula del Seoccùlto a mezzavoce. Le ombre umane frattanto, continuavano a seguirlo. Alcune unicamente con lo sguardo dal fondo della fossa, altre infilandosi tra gli arbusti sporgenti, tra i rami di quercia seguivano i suoi movimenti, si confondevano con l'oscurità, sembravano riunirsi nella direzione in cui i versi erano cessati pochi attimi prima.

Seppure il suolo fosse ricoperto di foglie e rami secchi, radici e quant'altro crescesse spontaneo dalla terra, ambo le suole dei suoi anfibi erano ricoperte da uno spesso strato di morbido fango fresco e ciò attutiva il rumore dei passi riducendolo al minimo. Si trattava di una combinazione fortuita, perché non aveva assolutamente pensato a quello specifico problema continuando piuttosto ad avanzare, evitando di impigliarsi nei cespugli come unico accorgimento. Fissava invece il vuoto, concentrato e proteso all'ascolto di un respiro pesante e carico di affanno ma senza riuscirne a definirne l'origine con esattezza finché non gli fu sufficientemente vicino da notarne i movimenti. Una figura rannicchiata e seminascosta dal grosso tronco di un cipresso, ad appena un paio di metri da lui. Trattenne automaticamente il fiato per un'istante per evitare d'essere udito a sua volta ed acuì lo sguardo in cerca di indizi. Così, di spalle, non poteva decretare se si trattasse di una donna o di un uomo; il suo volto gli era completamente precluso. Forse presto si sarebbe voltato/a per suo conto e avrebbe potuto appurarne l'identità ma questo avrebbe aumentato a dismisura il rischio di essere scoperto vanificando l'effetto sorpresa a cui puntava per metterlo fuorigioco.

E allora perché aspettava? Perché era così importante sapere chi fosse quell'individuo? Non poteva semplicemente stenderlo ora che ne aveva la possibilità, ora che si trovava vulnerabile alla sua mercé? La stretta sul manico della bacchetta divenne così forte da sbiancargli la pelle delle nocche ma il suo sguardo rimaneva artigliato sulla scena, immobile, senza un singolo battito di palpebra. Desiderava un motivo per non doverlo colpire? O forse voleva solo concedergli la dignità di vedere il suo volto prima di farlo? Quale fosse il motivo, temporeggiava pericolosamente, mentre la patina di sudore freddo sulla sua fronte s'addensava incominciando a scivolargli lungo le tempie assieme ad un brivido. Che fare? Si ripeteva senza decidersi, con ansia febbrile senza trovare una via d'uscita a quel suo frenetico loop mentale. Alla fine, una delle figure accanto a lui, scivolò oltre frapponendosi tra Eugene ed il suo obiettivo e prese ad indicare qualcosa sul terreno. Qualcosa ai suoi piedi, apparentemente privo di importanza ma che attirò completamente la sua attenzione: una pietra irregolare, un sasso che strusciava contro la pelle del suo scarpone sinistro, non più grande di mezzo pugno. La raccolse, piegandosi lentamente e cauto per non far rumore e tenendolo poi così per un po', stretto tra le dita della mano con espressione assorta.

Era una strana idea. Presumeva fosse l'unico sistema per riuscire a vederlo in volto, allo stesso tempo dirigere il suo interesse altrove, lontano da lui e per questo se possibile, conferirgli ulteriore vantaggio. Poteva considerarlo, nonostante tutto, meno ignobile da parte sua (e più accettabile) che un colpo inferto di schiena. Lo gettò, con un rapido movimento del braccio e ruotando il polso verso l'esterno, verso sinistra. La distanza era sufficiente a spaventare quella figura costringendola a voltarsi (o almeno così sperava), ma abbastanza lontano dalla propria posizione per ritenersi relativamente al sicuro.


 
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view post Posted on 5/12/2016, 13:08
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Horus R. Sekhmeth

« D’accordo, figlia mia, dimmi com’è iniziato.»
Ainsel alzò gli occhi dalla tazza di latte, miele e spezie che teneva fra le mani, e guardò il viso di sua suocera. Meresankh la guardava con sguardo mite, le grandi iridi grigie come quelle tanto amate di Osiris ed Horus, ma con una dolcezza che loro non potevano avere, perché tipica di una madre.
Al di là del colore degli occhi, Meresankh non assomigliava a suo figlio né a suo nipote; aveva il viso tondo, ma aggraziato, le rughe che le solcavano la pelle erano sottili, appena visibili, rendendo difficile identificare la sua età. Era alta e slanciata, un esile giunco, ed i capelli grigi erano acconciati da un lato con perline dorate e treccine alternate a ciocche libere, una moda antica che si soleva vedere nei libri di storia. Portava un abito in lino pregiato, pieghettato sulla gonna, e diversi gioielli d’oro e lapislazzuli al collo e alle braccia. La prima volta che l’aveva vista, Ainsel era rimasta meravigliata da lei e dal suo fascino “antico”, tanto da sentirsi ancora in soggezione; aveva poi scoperto che nella casa-tempio dei Sekhmeth sembrava che il Tempo non fosse mai scorso e lei ne era rimasta conquistata fin da subito.
Erano tornati a Luxor per le vacanze estive, questa la scusa ufficiale, ma la verità è che a casa lei si sentiva inquieta. Osiris non le aveva scritto negli ultimi giorni, ma era più che normale e l’aveva avvisata che non ne avrebbe avuto il tempo: sembrava tutto tranquillo, eppure lei non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che qualcosa sarebbe accaduto, un’ipotesi avvalorato da ciò che ora, in quel momento, non riusciva a raccontare. Sospirò, prendendo un sorso della bevanda dolce e tiepida, lasciando che il suo sapore corposo le invadesse la bocca, addolcendo così quanto stava per dire. Meresankh non disse nulla, attese, semplicemente, che la nuora parlasse; sapeva che la donna leggeva sul suo viso l’inquietudine e che stava pregando i suoi Dei affinché dessero la forza a quella fragile donna di affrontare qualsiasi cosa la stesse turbando. Con lei c’era sempre stato un bel rapporto: al contrario di sua madre Sinéad, Meresankh era una donna straordinariamente forte, erede del casato dei Sekhmeth di cui persino suo marito aveva ereditato il cognome. Con lei, Ainsel poteva parlare di ogni cosa e contare su un aiuto sincero, concreto. Eppure, ora che era corsa da lei ed era nella sua casa assolata, col profumo degli incensi e dei ceri a tranquillizzare le sue ansie, trovava difficile elaborare quanto vissuto e confidarle quanto provato.
Infine, trovando coraggio, Ainsel parlò.
« Horus ha fatto un sogno, un paio di settimane fa, poco dopo la partenza di Osiris. Era notte fonda, stavamo dormendo, dopo un giorno assolutamente normale. Horus aveva giocato tutto il tempo con Ra, il falco che Osiris gli ha regalato per il compleanno. Inizialmente ero contraria, ma alla fine devo dire di essermi ricreduta. Quell’animale è straordinariamente intelligente e delicato: gioca con lui come se fosse un suo pulcino, come farebbe suo padre. » Ainsel abbozzò un sorriso, carezzando distrattamente col pollice la terracotta della tazza, dimentica per un momento del perché era così spaventata. « In serata siamo andati a fare una passeggiata a Bath; c’era una specie di mercatino nel quartiere magico e avevo promesso ad Horus che gli avrei comprato un libro sulla falconeria. Credo sia troppo piccolo per capire davvero come si addestra un animale, ma abbiamo trovato un bel volume sui rapaci, pieno di foto in movimento. Era entusiasta e quando siamo tornati l’ho messo a letto e io mi sono ritirata. Era stata una giornata tranquilla, sì. » Ripeté, lo sguardo vacuo. Rimase in silenzio qualche istante, finché Meresankh non le poggiò una mano sul polso; le sue dita erano piene di anelli e il freddo contatto del metallo contro la pelle calda fece sussultare Ainsel.
« Vai avanti. » L’incoraggiò lei, sentendo il turbamento della nuora entrarle nel petto.
« Quando l’ho sentito gridare, saranno state le tre del mattino. Sono corsa in camera sua, ma la porta era chiusa. Horus non ha la chiave della sua stanza, per questo sono più che sicura che sia stata la sua magia latente a sigillarla, forse per la paura. Ho provato a castare di tutto, mentre oltre l’uscio mi arrivavano le sue grida. È stato straziante, sono accorsi anche i nostri Elfi, ma non sono riusciti neanche loro. Alla fine, ho buttato giù la porta quando le urla si erano ormai calmate… quello che ho visto… » Ainsel riuscì a reprimere un singhiozzo, asciugandosi gli occhi con una manica dell’abito, tirò su col naso, poi alzò di nuovo il capo che in precedenza aveva abbassato, e si specchiò negli occhi lucidi di Meresankh. Questa volta, la sua voce non tremò.
« Horus era rannicchiato in fondo al suo letto, aveva il viso solcato dalle lacrime, non ho mai visto la voglia così rossa. Gli occhi erano spalancati, ma era come se non mi vedesse. Fissava un punto davanti a sé. Le lenzuola erano sporche e solo allora mi sono accorta che si stava scorticando. Era pieno di abrasioni che lui stesso si era procurato e le manine continuavano a grattare convulsamente ogni punto scoperto. Il collo, le braccia, persino le gambe! Si era tirato su i pantaloni del pigiama e si grattava come se non riuscisse a farne a meno. Mi sono avvicinata, ho cercato di calmarlo, ma mormorava cose senza senso. Ha detto che era in un sarcofago e che i cattivi continuavano a gettargli addosso delle cose sporche, che gli svuotavano i canopi sulla testa, gli dicevano che erano cose marce e che i vermi lo avrebbero mangiato e che ciò che gli rovesciavano erano… » Nauseata, Ainsel poggiò sul tavolino la tazza, chiudendo gli occhi per qualche istante. Respirò piano, cercando di scacciare dalla mente la visione di quella notte. Quanta paura aveva avuto, nonostante sul momento fosse riuscita a mantenere un autocontrollo. Ora, ne pagava lo scotto.
« Ha detto, voltandosi verso di me, che i resti di cui gli stavano riempiendo il sarcofago erano i resti di suo padre. Lui cercava di grattare via tutto quanto, ma non riusciva e mentre lo diceva si grattava con più foga.
Inizialmente non voleva che lo toccassi, poi, con dolci parole, sono riuscito a calmarlo. L’ho preso in braccio che lacrimava ancora, gli ho fatto un bagno e solo allora si è svegliato. Mi ha chiesto perché la pelle gli bruciasse così tanto e cos’era successo. Non sono riuscita a raccontargli la verità. Mi sono inventata che era un bacillo che girava, una specie di vaiolo di drago in forma leggera, l’ho medicato, ma non ha voluto le bende. Ha detto che non voleva sembrare una mummia. Alla fine, l’ho portato a letto con me e si è addormentato. Nei giorni seguenti non ha parlato del sogno, ma ho notato… una fobia dello sporco che prima non aveva. Si lava le mani cinque volte prima di mangiare, non vuole andare in bagno se prima gli Elfi non l’hanno pulito, in giardino evita il fango, quando prima dovevo raccomandare l’anima agli Dei per non farcelo andare dentro a saltellare. In un primo momento ha avuto persino di toccare Ra e ha messo una bacinella d’acqua sulla finestra dove l’animale potesse lavarsi. E credimi Meresankh, l’ha fatto: Ra è planato dentro la ciotola e ha infilato la testa nell’acqua, schizzando Horus e facendolo sorridere, come se avesse capito che il suo padroncino sarebbe stato tranquillo solo se lui si fosse pulito. Horus ha paura e non sa perché. Quell’incubo, gli è rimasto dentro e anche se le cicatrici di ciò che si è fatto sono andate via grazie alla Magia, ho il terrore che possa riprendergli un attacco simile. »

Ainsel tacque, il viso addolorato. Si premette una mano sulle labbra, trattenendo qualsiasi altra parola o emozione. Meresankh, che aveva ascoltato tutto senza proferir parola, sospirò, adagiandosi sullo schienale del divanetto in veranda. Per la prima volta, spostò lo sguardo verso il giardino assolato, guardando in lontananza verso il tempio, la cui sagoma, resa tremolante dal caldo, si ergeva all’orizzonte. Era turbata, ma non lo diede a vedere e rimase così, in silenzio, per lunghi momenti, esaminando la storia ed eventuali rimedi. Dal piano di sopra sentiva il richiamo di Ra che volava sulla finestra nella camera di suo nipote.
« Chi erano quelle persone, Ainsel? Horus ti ha detto chi gli stava lanciando i resti di suo padre? » Esordì d’un tratto, sondando il viso della nuora.
« No, non ha mai detto chi fossero. » Mentì lei.

Ainsel Sekhmeth tacque ciò che aveva fatto quella notte, quando Horus dormiva accanto a lei. Non raccontò mai di aver stretto il figlio a sé, di aver preso la bacchetta e di aver pregato gli Dei di darle la forza. Non rivelò mai che Horus aveva parlato di uomini vestiti di nero dalle maschere d’argento, coloro di cui aveva udito una sera prima, origliando un discorso cui non era destinato.
Ainsel Sekhmeth non confessò mai che quella notte aveva imposto su suo figlio un Sigillo che lo avrebbe protetto e, al contempo, reso ignaro di quanto succedeva nel mondo, solo perché aveva paura di perderlo. In cuor suo sapeva che Osiris non sarebbe tornato; non avrebbe permesso anche a suo figlio di andarsene.


A contatto con l’aria la pelle bruciava come fosse stata attraversata da lava liquida; ormai lo strato superficiale dell’epidermide era stato grattato via, infilandosi sotto le unghie che continuavano, tuttavia, il loro sordo operato. C’era qualcosa di ritmico in quel continuo via vai delle dita sulla pelle nuda, qualcosa di confortante ed una voce che rimbombava nella testa: “Continua così, c’è ancora dello sporco lì, lo vedi?”
E lui sì, lo vedeva, lo sentiva scivolargli addosso come melma, avvolgerlo e solidificarsi, penetrargli sotto i vestiti come tentacoli luridi che gli cingevano le membra. Aveva gli occhi chiusi, serrati, ma continuava a vedere. Allora si morse le labbra, affondando i denti nella carne, lacerandola e lo scorrere lento del sangue, il suo sapore dolce e ferroso lo inondò, gli colò sul mento e sul collo, ma non vi badò.
Nella testa le immagini che aveva rimosso fecero capolino, come cadaveri trasportati dalla marea su una spiaggia altrimenti intonsa. Si era accucciato tremante in mezzo alle radici del cipresso, in preda al terrore più puro.
Ciò che aveva toccato e baciato di Eugene che ora aveva visto ricoperto di frattaglie continuava a rimbalzargli da una meninge all’altra, come una Gobbiglia impazzita. Avrebbe rimesso ancora, se il suo stesso stomaco non avesse implorato pietà, ricordandogli con un doloroso conato, che non c’era più niente da rigettare.
In lui non c’era più lucidità, persino quella, probabilmente, era andata a rintanarsi da qualche parte o era stata scorticata via dal corpo. Fuori di sé, il ragazzo era completamente dimentico di dove si trovava e non si avvide, in un primo momento, della figura che era avanzata a qualche passo di distanza, immersa nel buio della notte. Non ricordò nemmeno più perché era lì, tanto era impellente ed urgente il bisogno di cancellare quella sensazione dal proprio corpo. Era come un animale preso dal suo istinto primordiale, terrorizzato a tal punto da perdere qualsiasi barlume di autoconservazione. E lì, qualcosa si dipanava nel suo petto, rispondendo a quel richiamo primitivo di Paura.
Hagalaz si animava, infervorata dal sangue che scorreva veloce pompato dal cuore, lo stesso sangue che faceva spiccare la voglia sull’occhio, che faceva bruciare ogni centimetro di carne.
Si impadroniva di lui come una protezione e quando il sasso piombò spezzando il silenzio, Hagalaz rispose.
Svegliata l’irrazionalità da quel rumore secco ed improvviso, Horus balzò in piedi, volandosi verso la direzione del rumore, una bestia spaventata. Reagì prima ancora che potesse rendersene conto, la mano sinistra che paradossalmente teneva la bacchetta, rimase abbandonata lungo il fianco. Fu il braccio destro ad alzarsi, il palmo aperto verso il pericolo e l’energia si compresse laddove le dita si spalancavano.
Una serie di lame d’aria, piccole, sottili e letali, partirono a grande velocità dalla sua mano, scandagliando il terreno, tagliando tutto ciò che incontravano sul loro cammino: arbusti, erba, lapidi,
carne.
Eugene ne fu bersagliato e miracolato solo da un lato, zigomo, orecchio, braccio e spalla; persino una ciocca di capelli rossi fu tranciata di netto e cadde a terra, mescolando il fulvo col cruore denso che macchiava il cupo terreno che, negli anni, ne aveva assorbito chissà quanto. Minuscoli, sottili, ma profondi tagli si aprivano nella pelle, lasciando scorrere il sangue, mentre le lame superstiti che non si erano schiantate su qualcosa, si abbattevano come frecce sugli alberi in lontananza, liberando una eco di scricchiolii sinistri di corteccia spezzata, tonfi profondi di pianticelle tranciate; una cacofonia di suoni che turbò il sonno degli animali. Si udirono versi e qualche rapace notturno, disturbato nella caccia, volò via dalle fronde, stridendo sopra le loro teste, mentre vaghi raggi di luna cominciavano a penetrare fra i rami, illuminando il cimitero.
Col petto che si alzava e si abbassava freneticamente, Horus attutì la debolezza che conseguiva l’uso della Runa; sentì le gambe tremare ancora e ancora e si appoggiò al tronco dell’albero, sollevando a fatica il braccio armato, puntandolo verso la sagoma che intravedeva.
Il suo subconscio sapeva chi era, ma non lo
capiva, non riusciva a comprenderlo. Per lui era un’ombra nera dalla maschera argentata, tra le mani i resti di suo padre; era tornato bambino, il respiro affannoso.

Era suo padre quello nella tomba, vero?

La sagoma era venuto a rinchiuderlo nel feretro con lui, ficcandogli in bocca le sue stesse viscere.

Sì, sì, era così, pensò fuori di sé, la destra che tornava a martoriare la guancia, i denti che laceravano ancora le labbra, il sangue che colava.

No, non si sarebbe avvicinato, non gliel’avrebbe permesso.




« I wanna hide the truth, I wanna shelter you, but with the beast inside there’s nowhere we can hide. »

CODICE ROLE SCHEME © dominionpf


I Danni e la riuscita dell’incanto sono stati stabiliti con Eugene; starà a lui decretare la perdita di PS e PC del proprio pg. L’uso della Runa comporta una perdita del 2% di PS e PM. Il Master NON è richiesto al momento poiché tutto concordato.

Horus R. Sekhmeth

PS: 238/243
PC: 213
PM: 231/236

 
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Eugene O'Sullivan
view post Posted on 11/1/2017, 15:57





Mentre attendeva nervosamente che il mistero fosse svelato, in quel breve lasso di tempo tra la caduta del ciottolo ed il voltarsi della figura, ebbe come l'impressione che ad infrangersi contro il suolo, più che la pietra fosse il cielo. L'aveva percepito, seppure ad un livello puramente immaginario, dividersi in due fino agli estremi opposti dell'orizzonte e creare uno squarcio profondo. Oscuro fin troppo, perché quei pochi residui di luce attorno a lui non vi rimanessero inevitabilmente imprigionati. Luna e stelle avevano lanciato un ultimo bagliore prima di annegare dentro a quell'abisso di tenebra, spegnendosi simultaneamente come candele al soffio del vento. Taceva così, all'improvviso ogni cosa, come indugiando nell'interminabile istante prima della rivelazione. Una sensazione che non si aspettava di provare e che gli risultava quasi fastidiosa, abituato com'era alla solita, animata cacofonia del suo cervello, formata da parole e versi sovrapposti alla rinfusa. Probabilmente possedevano un preciso significato ma rimanevano in tal guisa, di difficile comprensione e del tutto simili più ad un brusio di fondo che a dei veri e propri discorsi.

Eppure nonostante non ci si potesse raccapezzar nulla, si trattava di una presenza regolare, stabile e in una certa misura persino confortante per Eugene che si appigliava per mezzo dell'istinto, ad ogni Costante possibile, pur di contrastare il caos e mantenere coscienza di sé. Ora invece, i timpani del ragazzo erano martellati da un silenzio assordante e completo: abbandonato dalle voci ma non dagli spettri antropomorfi, aveva l'impressione nitida di esserne sfiorato intimamente, di avvertirli come indivisibili estensioni della propria ombra. Se a quel punto fossero divenuti una sorta di corazza? Una barriera? Un bozzolo? forse si sarebbe sentito meglio? Più sicuro? La propria vulnerabilità gli era ben chiara, la sensazione d'essere assolutamente inadeguato in contesti di quel genere non poteva risultargli più palese. Si sentiva ed era fuori luogo e di certo, se avesse potuto sincerarsi dell'identità di quel tipo, evitando di ricorrere alla violenza ne avrebbe ricavato un gran sollievo.

Da quando si era lasciato la fossa alle spalle, non aveva mai smesso di crogiolarsi al pensiero si trattasse solo di un insignificante babbano e ci sperava, profondamente convinto che in quel caso, avrebbe saputo gestire la situazione con facilità, senza perderci la faccia e senza conseguenze irrimediabili. Non c'era da stupirsi troppo dunque, se allo svanire di ogni suono e luce, trovandosi solo in quell'attimo sospeso nell'oscurità, con il cuore in gola e lo sguardo puntato verso la traiettoria del lancio, con il braccio ancora sollevato, il polso piegato e la bacchetta stretta nell'altra mano, facesse infine capolino il dubbio di aver commesso un terribile errore non tentando la via della fuga. Da un punto di vista strategico, rimanere a fronteggiare il problema sarebbe stata la scelta più giusta in generale per chiunque ma, non per lui che di duelli conosceva il minimo indispensabile dai libri e che per tutta la vita, aveva sempre evitato di trovarsi nella condizione di acquisirne esperienza ulteriore, un'esperienza diretta. Si stava rendendo conto ora di quanto poco lungimirante fosse stato e che per cavarsela, avrebbe avuto bisogno di ben altre basi, meno teoriche e più pratiche. Ad ogni modo, con il senno di poi, le scelte sbagliate tendono sempre ad apparire eccessivamente stupide; forse aveva peccato di superbia credendosi più furbo del fato ma di certo, non era quello il momento di rimpiangere le scelte fatte perdendo tempo utile in modo cretino. E non ce n'era rimasto molto dire il vero, perché sebbene l'immaginario strappo nel continuum offrisse a Eugene l'errata percezione che i secondi stessero scorrendo a velocità ragguardevolmente decelerata, ogni cosa stava invece accadendo secondo natura, secondo leggi fisiche reali.

Il sasso, rimbalzò una prima volta colpendo una zolla dura del terreno, forse un altra pietra; avrebbe dovuto far rumore, ma non gli riuscì di udirlo. Gli parve invece, di osservarne l'irradiamento attraverso l'aria come sulla superficie d'acqua di un cheto stagno per mezzo di onde sonore visibili. Prima di alzare lo sguardo in direzione della sagoma rannicchiata e ben prima che le pupille riuscissero a contrarsi per riflesso nel tentativo di metterla a fuoco, cerchi concentrici regolari giunsero al suo viso sfiorandogli le guance con il tocco delicato di una brezza leggera. La pietra rimbalzò poi una volta ancora, prima di sparire per sempre, al di sotto della bruma ma di questo, non si accorse e non gli fu possibile abusare di altro tempo.

Giunse invece, simile ad uno schiaffo qualcosa di completamente inaspettato, forte e molto più solido di una mano umana. Circoscritto ad una zona ben precisa, in alto a sinistra sul suo viso proprio vicino all'attaccatura dei capelli e violento come una bastonata. Lo si sarebbe detto un assalto in piena regola o uno schiantesimo fallito, si trattava in realtà, del contraccolpo dovuto allo spostamento d'aria della prima lama guizzata sibilante e rapida come una saetta a poca distanza dal suo orecchio. L'urto lo obbligò ugualmente a ruotare la testa dalla parte opposta, la tempia pulsò frenetica e la vista si velò, lasciandolo cieco e disorientato per alcuni secondi, mentre intorno a lui continuava a fioccare imperterrita la raffica affilata. Arretrò di qualche passo, con occhi socchiusi, le braccia incautamente distanti dal proprio corpo, protese e animate in cerca di appiglio; inciampando nei propri piedi e nel contempo sbalzato all'indietro da ben più forza di quanta potesse tollerare il suo corpo magrolino, lo trovò infine nello spesso tronco di un albero contro cui cozzò malamente di spalle. Qualcosa di caldo e denso incominciò a colargli in abbondanza sul viso, lungo il collo e dalla fronte fin dentro l'occhio sinistro che subito, prese a bruciare per il salino costringendolo a contrarre vigorosamente i muscoli zigomatici e orbicolari nel tentativo di mantenerlo aperto. Sapeva di dover insistere, perché stava lentamente riacquistando campo visivo ma ovunque, l'aria era densa di polvere, di numerose foglie di quercia, di aghi sempreverdi e fili d'erba che cadendo inspiegabilmente dall'alto vorticando su loro stessi rendevano l'impresa ancor più difficoltosa. Ad un fischio ronzante era seguito poi uno scricchiolio, un boato, un tonfo secco e le ginocchia di Eugene si erano piegate di conseguenza: ignorava se per debolezza o per la sorpresa dovuta a quel fracasso improvviso ma senza attendere, dopo essersi lasciato scivolare lungo il tronco aveva diretto lo sguardo aggrottato in alto in cerca di spiegazioni. Subito il sangue gli si ghiacciò nelle vene e lesta la presa sul manico della bacchetta raddoppiò istintivamente d'intensità. La sommità del fusto era sparita. Spezzata ad un'altezza di poco superiore rispetto a quella dove si trovava il suo cranio fino a poco prima e si era ribaltata all'indietro, trascinando oltre alla propria intricata chioma anche le fronde vicine in una sorta d'impetuoso effetto domino. Schegge di corteccia, detriti, terriccio, rami verdi e pezzi di roccia.

L'attacco non aveva risparmiato neppure la pietra di alcune vecchie lapidi grigie lì vicino e per i secondi che seguirono, rimase fissamente ad osservarne i frammenti sparsi sul terreno, con occhi spalancati, il cuore in gola ed i polmoni riempiti del profumo dolciastro ed intenso della linfa. Cominciava a provare nel mentre, una strana sensazione di malessere generale, brividi ed il sentore crescente di una nausea fastidiosa. Tutto ciò poteva dipendere benissimo dal colpo ricevuto alla testa ma Eugene lo interpretò invece come un segnale da parte del suo corpo giunto ormai al limite, di spicciarsi a portare via il culo da lì, il prima possibile. In realtà, c'era dell'altro di cui, ancora frastornato, non poteva rendersi pienamente conto: stava perdendo sangue in vari punti, ad una velocità rischiosa. La stoffa del maglione color cenere si era aperta lungo buona parte della manica sinistra, così come pure la pelle del suo braccio a cui mancava letteralmente un pezzo. Affettato come burro da una delle lame volanti e saltato via (finendo chissà dove), aveva lasciato scoperta una generosa porzione di epidermide viva, tendini e muscolo, grossa come un palmo. Stillava sangue ed i rigagnoli parevano sotto quella tetra luce notturna, neri torrenti d'inchiostro guizzante. Nello stesso modo, gocciolava dal profondo taglio sulla fronte e dallo squarcio sul suo orecchio sinistro dove la cartilagine superiore si era lacerata, separandosi in due parti distinte fino a poco più della metà. I riccioli vermigli della frangia impregnati di sangue e sudore, gli si appiccicavano addosso incorniciando il volto pallido, dall'espressione stanca e turbata. Senza percepire segno di dolore e completamente assorto dal tentativo di decidere come agire, poggiava la testa alla superficie ruvida della quercia prendendo respiri ravvicinati ma poco profondi e spingendo nel contempo lo sguardo il più lontano possibile in attesa che il nuvolone si diradasse.

Era chiaro a quel punto che la sua speranza di avere a che fare con un debole babbano indifeso poteva considerarsi senza alcun dubbio, definitivamente estinta. Forse, l'occultamento era fallito ed il mago si era accorto della sua presenza, quando aveva tentato di avvicinarsi? Possibile. Ma allora perché attaccarlo in quel modo impreciso se davvero sapeva dove si trovava? Si chiese. Era più probabile che lo sconosciuto, allarmato dal suono improvviso del ciottolo, avesse agito per paura, che si fosse sbrigato a puntare in quella direzione mirando alla cieca e che per questo, avesse finito per mancarlo. Ma con cosa? Stranamente in verità, si trattava di un incantesimo che Eugene non conosceva. Non ricordava di aver mai veduto prima qualcosa di simile né di aver mai letto a riguardo in alcuno dei suoi libri eppure, non dubitava troppo della sorte che gli sarebbe spettata se il colpo fosse andato invece a segno. Era un pensiero che rendeva più difficile apprezzare fino in fondo il suo (non così) piccolo colpo di fortuna e a dirla tutta, ormai pensava che ci fosse davvero poco di equo in quella situazione. Perché tante storie? Perché era rimasto? Una vita in fuga non era forse sempre meglio che nessuna? Decise che se avesse potuto strisciare via di lì, lo avrebbe fatto alla prima occasione.
Ora,
sebbene dopo il passaggio delle lame, si fosse venuto a creare uno spiazzo tuttosommato piuttosto piccolo a causa della caduta delle piante e nonostante la quasi totalità delle stesse si trovassero ancora lì a schermare il cielo con l'intricata massa delle loro chiome, una maggior quantità di luce poteva ora attraversarle, schiarendo così la scena. Da principio, penetravano a stento il fitto pulviscolo, generando raggi sottili di una vaga tinta azzurrina che si disperdevano in fretta senza giungere al suolo e poi, a mano a mano che i secondi passavano e che l'aria si ripuliva, riuscendo ad aumentare area ed intensità finanche ad illuminare la foschia radente, il volto di Eugene e qualcos'altro...che probabilmente, avrebbe preferito continuare ad ignorare. A quel punto, l'ultima foglia piroettando sfiorò il terreno e l'universo, stridendo come gli ingranaggi di una vecchia giostra, si fermò assieme al suo cuore: simili a lucidi specchi riflettevano la luna due occhi grigio-ghiaccio che conosceva fin troppo bene e che mai quella notte, si sarebbe aspettato di trovarsi di fronte. Lo osservavano con un'espressione orribile a metà tra il terrore e la rabbia, ma non era certo che si stessero limitando a scrutarlo. Piuttosto se ne sentiva trafitto, come se ogni senso di colpa e vergogna provato per sé stesso nel corso degli anni, avesse deciso di affondare in quel momento e tutto in una volta, una potente, inesorabile stilettata dritta nel suo petto.

Scosse la testa, il mento gli tremò ma nessuno dei suoi riccioli fradici di sudore, lerci di polvere e grumi di sangue rappreso, si mosse di un millimetro. "No" sibilò con un filo di voce prepotentemente strozzato, continuando a ripetersi, senza pause, senza riprender fiato e in preda al panico più totale "Non è reale, non è reale, non è reale, non è reale, non è..."

Lo era?

Senz'altro motivo che l'ondata di adrenalina, si alzò di scatto, tirando indietro le braccia e facendo leva con quelle sul tronco nel tentativo di riuscire nuovamente a conquistare la postura eretta. Ci riuscì, ma la mantenne per poco. Lo stomaco gli si attorcigliò e fu costretto a piegarsi boccheggiante in avanti, vinto da una fitta improvvisa ed orrendamente acuta al fianco destro. Lì, a circa tre centimetri al di sotto delle reni e piantato nella carne per i due quarti lucenti della sua punta in acciaio, c'era davvero qualcosa di assai meno allegorico e decisamente più nocivo. Poco prima uscendo dalla fossa, assieme alla bacchetta aveva deciso di portarsi appresso anche il bisturi, convinto che alle strette gli sarebbe potuto tornare utile in qualche modo, ma (colpa lo stato mentale in cui versava) aveva compiuto la pessima scelta d'infilarlo nella tasca posteriore dei jeans. Le gambe tremarono vistosamente e cedette di nuovo , finendo in ginocchio. Da lontano, poteva esser notato il riverbero del metallo sbucare dalla linea curva della schiena, perfettamente diritto e lucente verso il cielo. Represse un singulto, affondò la mano destra nel tessuto lercio della maglia, sulla manica opposta e spostandosi poco più in su, scoprì invece la carne viva, la piaga aperta. Toccandola infine gemette, più che per il dolore (che poi in realtà, per la ferita al braccio non provava affatto), per il carico d'emozioni di cui si trovò improvvisamente oppresso. Diavolo, si disse, se non era reale quello! Sfregava i polpastrelli delle dita caldi ed umidicci di sangue e plasma, di fronte al proprio naso, gli uni con gli altri, una volta e poi una seconda, attonito.

Un attimo prima, era lì che cercava di salvarsi la pelle ragionando con il suo solito modo di fare ponderato e poi, un attimo dopo era come svanito. Certo, il suo corpo rimaneva ben poggiato a terra sulle ginocchia, rigido come se ce l'avessero inchiodato ma la sua testa ed ogni rimasuglio di logica, raziocinio e buon senso di cui era abitualmente fornita, invece no. Evaporata, dopo aver tanto ribollito d'ansia e terrore, aveva lasciato al suo posto un abisso incolmabile d'incredulità e negazione. Comodo convincersi di essere infine completamente impazzito, che il suo cervello avesse terminato di friggere. Lui per primo lo sperava o avrebbe dovuto ammettere che ciò che osservava con i propri occhi era la verità e sapeva alla perfezione di non poterlo accettare. Non, senza annientarsi.

Ma Horus era lì, davanti a lui e con il viso come deformato, da un'espressione che non gli aveva mai visto addosso, uno sguardo di cui non credeva neppure fosse capace e tendeva il braccio puntandogli la bacchetta contro. Sembrava stravolto, fuori di sé e certo, era possibile che dipendesse dalla freddezza di quella luce lunare in cui si trovavano immersi ma, gli sembrava anche assurdamente pallido e che le sue belle labbra contratte fossero macchiate di sangue. Squadrò la pelle tutt'intorno fin dove riusciva ad arrivare con la propria vista bacata, ma non c'erano ferite visibili a cui potesse imputare la cosa e perciò, rimase instupidito a fissarle per brevi istanti in attesa, come se dovessero muoversi ancora. Si sarebbero schiuse nuovamente per castare il colpo di grazia? Quella era l'espressione di qualcuno che l'avrebbe fatto di sicuro, pensò con inaspettata calma. Perché avrebbe dovuto agitarsi dopotutto? Tanto non stava accadendo sul serio, ribadiva senza sosta a sé stesso. Si trattava dell'ennesimo frutto marcio del suo cervello. Uno dei tanti. Doveva essere così. Doveva. Altrimenti qual'era il senso di tutto? Non c'era alcun motivo per cui quel ragazzo avrebbe dovuto trovarsi proprio lì ed era perciò, quanto mai ovvio che si trattava solo di un'altra allucinazione. Una delle peggiori, certo. Tormentata ed angosciante come un'incubo ma assolutamente, totalmente falsa. Ecco.
Falsa.
Si, però...

Un tic scosse l'angolo del suo occhio. E se invece fosse stato reale, si chiese imperterrito, se lo fosse stato, cosa avrebbe dovuto fare? Rispondere all'attacco? Ferirlo? Come? Immobilizzarlo forse. Poteva essere una soluzione temporanea. E a quel punto? Disarmarlo. Forse, tentare di modificare i suoi ricordi? Aveva la bacchetta in mano anche Eugene. La sentiva ancora stretta nel pugno, (quello poggiato sul terreno e sul quale scaricava in parte il proprio peso), ma adoperarla per difendersi da Lui, era di quanto più intollerabile riuscisse a concepire. Non c'era nulla che potesse fare. Nulla di cui non si sarebbe pentito in seguito, di questo era sicuro e sempre che fosse riuscito davvero nell'intento di colpirlo! Nelle condizioni in cui era, risultava arduo muoversi con scioltezza e persino sollevare la sua fedelissima avrebbe richiesto un certo, imprescindibile impegno. Figurarsi dunque, mirare con precisione o schivare anatemi! E se pure ne avesse avuta la forza, poi? Se fosse riuscito a cavarsela e a fuggire, dove sarebbe potuto andare?

Non era ancora stato creato un luogo così lontano perché gli fosse concesso di nascondersi da quegli occhi di ghiaccio. Occhi impietosi che avvolti dalla penombra cerulea, fissavano non il suo corpo ma la sua stessa anima e si sentiva a causa loro, messo a nudo come un verme, sopraffatto dalla vergogna. Giudicato ferocemente, mentre ogni propria bassezza più intima e meschina sfilava in una sorta macabra parata, lì davanti a Colui che amava al di sopra di tutto. Il Solo, che non avrebbe mai dovuto sapere e l'unico, che era infine sceso con lui in quell'inferno. Da quanto tempo lo seguiva? Da quanto lo osservava? Gli balenò in mente ogni azione compiuta e quel poco sangue che non aveva ancora perso risalì di colpo fino al suo viso e alle orecchie (la sinistra non si vedeva manco più tanto era ricoperta di coaguli), che presero fuoco come fornaci. Il suo cuore batteva all'impazzata contro lo sterno e giù, lungo le costole facendo pulsare la ferita sul fianco con il ritmo di uno stantuffo impazzito. Così, esasperato dalle fitte martellanti, piegò il braccio destro all'indietro e afferrò l'estremità del bisturi. Rabrividì, respirò a fondo e contò mentalmente fino a tre, prima di estrarlo con un gesto secco e il più velocemente possibile. La lama si sfilò ed una sensazione di calore iniziò a diffondersi come lava sulla pelle al di sotto del maglione. Un dolore intenso, fulmineo s'irradiò simile ad una scarica elettrica dalla profondità del taglio sino alla bocca dello stomaco dove si piantò, acuendo la nausea ad un livello insopportabile.

"Oh. Dio..." mormorò rantolando ansimante, con lo sguardo che puntava al terreno sotto di lui e schiumando saliva dallo sforzo di trattenersi dal gridare. Poteva sembrare una supplica ma non lo era. Sapeva bene che non poteva esserci nessuno in ascolto e se pure avesse avuto teologicamente torto, ormai non ricordava granché delle preghiere che gli erano state insegnate all'Haut de la Garenne. Serrò allora le palpebre e come se ciò potesse davvero aiutarlo in qualche modo, immaginò per alcuni istanti di trovarsi altrove. E si vide, comodamente al sicuro nel proprio letto, come lo era stato ore prima, mentre all'esterno il temporale si scatenava ed tuoni risuonavano reboanti tra le nubi di pece, diffondendo lampi di luce ed echi fragorosi nell'aria fredda della notte. In quel sogno innocente, scavò più a fondo, immergendosi nel tepore del pomeriggio precedente, del sole che batteva le sue spalle sudate e che aveva seguito i suoi passi lungo la strada ad Hogsmeade, l'andirivieni ed il vociare animato de 'I Tre Manici', financo il gusto dell'idromele invadergli il palato, lo stesso sapore dolce e lievemente alcolico delle labbra che aveva baciato. A quel punto, deglutì a vuoto. Quanto al resto, non riusciva a pensarci. La gola era secca, la bocca dello stomaco gli doleva ma così in profondità che poteva trattarsi anche dell'anima per quel che ne capiva lui. Forse si disse, sanguinava anche quella. Quando infine sollevò il viso tornando con lo sguardo allo studente e alla realtà, entrambi gli occhi erano ormai arrossati e ricolmi di lacrime. Aveva saputo evitarle fino a quel momento, consapevole che se avesse ceduto all'emotività si sarebbe danneggiato da solo giocandosi probabilmente quel poco di ragionevolezza che ancora possedeva. Eppure, ora che ogni argine di riserbo si era definitivamente infranto si scopriva in vero, sorprendentemente lucido.

Contrastando la fitta al fianco piegò il ginocchio destro facendo leva per alzarsi ed una volta riconquistato alla buona l'equilibrio aprì gradualmente la mano ancora infilata nel guanto di lattice a brandelli. Dopo essersela avvicinata al petto e averle concesso il tempo di una stanca occhiata, mollò la presa sulla bacchetta lasciandola andare ai suoi piedi. A quel rintocco (per quanto tenue, risultava praticamente impossibile da ignorare circondati com'erano di silenzio tombale) cercò istintivamente nello sguardo del ragazzo qualche tipo reazione, anche minima, che potesse aiutarlo a decifrarne gli intenti ma non sembrava proprio offrire alcun tipo di indizio utile. All'apparenza esausto, s'era invece tenuto sulla difensiva per tutto il tempo, con il fiato corto e gli occhi ben aperti sulla scena. Non capiva il motivo di tanto affanno ma più che quello Eugene si chiedeva, cosa stesse aspettando e perché non avesse provato a lanciare un secondo attacco.

Strascicò in avanti di un passo accorgendosi solo in quel momento che le ombre antropomorfe erano sparite e che stranamente ciò non gli importava. Aveva altro per la testa. La perdita di sangue cominciava ad essere consistente, le gambe gli tremavano, la postura eretta portava con sé dolore e vertigini sempre più intense ed era assai probabile che da lì a poco avrebbe perso conoscenza. Inspirò a fondo, cercando di radunare il coraggio per aprir bocca e chiamare il suo nome ma tutto quello che fece in principio, fu di muovere le labbra e farne uscire il nulla assoluto. Le strinse di nuovo e storse il naso, come schifato dalla sua stessa codardia. Sembrava la cosa più difficile del mondo.

"...Horus" mormorò infine dopo un paio di tentativi tormentati e con un tono di voce per quanto incerto, finalmente udibile. " i-intendi finire..."

Il bisturi stretto nel pugno destro giocciolava lungo il fianco con cadenza lenta e regolare.


"...quel che hai iniziato?"




(in accordo con il master)
Eugene O'Sullivan
PS:174 --->117
PC: 113 ---> 92
PM: 115 ---> 115


Edited by Eugene O'Sullivan - 11/1/2017, 22:15
 
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view post Posted on 29/8/2018, 17:08
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There's something inside you
it's hard to explain

I
l fruscio degli alberi si mescolava al
rantolo che proveniva da un punto non identificato davanti a lui.
Il sapore, aspro e dolce, del proprio sangue inondava le sue labbra e la nausea strinse maggiormente la presa sulle sue viscere.
Eugene non esisteva più; sul suo volto addolorato, una maschera d’argento riluceva al bagliore della luna. Ed effettivamente esisteva un baluginio, locato molto più in basso del viso e i cui riflessi attirarono lo sguardo meccanico del ragazzo. Mentre la mano destra continuava a grattare la carne della guancia, i suoi occhi vacui passarono in rassegna il misero fagotto accasciato ai piedi di un albero.
Cosa hai fatto?
Una voce distante solleticava il suo udito; era forse il canto di una civetta?
Guardò ipnotizzato il manico che spuntava dalla schiena dell’individuo come la curiosa spina di una qualche stramba pianta. Un odore, però, lo paralizzava: stantio ed umido, sapeva di terra ed umori, di carne putrefatta. Benché logicamente sapesse che non c’erano cadaveri lì —se non quelli deposti a svariati metri sotto il suolo che calpestava— non riusciva a fare a meno di lasciarsi intrappolare da quella sensazione. Hagalaz, quieta, riposava nel suo petto, ma il sangue scorreva denso e lento nelle sue vene. Le gambe, che non avevano smesso di tremare, minacciavano di cedere ma, stoicamente, Horus resisteva. Sostenuto da un terrore più grande della caduta, rimaneva in piedi, bagnato dalla luce bianca della luna, ingenuamente convinto che questa potesse, in qualche modo, ripulirlo. Le labbra, ormai tumefatte, venivano così liberate dalla morsa dei denti ed un rivolo di sangue scivolò lungo la punta del mento e si insinuò sotto il collo del maglioncino che indossava.
Horus cosa hai fatto?
La voce di sua madre si intromise ed il ragazzo spalancò gli occhi, smarrito. A poco a poco la consapevolezza cominciava a premergli sulle tempie, con un’emicrania sempre più ronzante e fastidiosa. Le dita ebbero uno spasmo e la bacchetta tentennò per un lungo istante; la mente, vuota, cominciava ora a riempirsi di un doloroso e continuo rumore bianco.
Nonostante la semioscurità, la luce della luna illuminava parzialmente gran parte della radura; frammenti di pietra, legno, carne giacevano sparsi in una poltiglia di difficile identificazione. Di nuovo un conato ed Horus serrò le labbra e strinse gli occhi, prendendo aria con il naso per non rimettere.
Horus.
Si sentì chiamare. Ma non aprì gli occhi: basta, mormorava con la bocca asciutta.
« Horus… »
Lottò contro le immagini che gli si palesarono davanti, aggrappandosi disperatamente a quella voce familiare. Non era accaduto niente, si ripeteva, ma quel ronzio fastidioso gli impediva di udire la sua stessa voce.
E poi, d’un tratto, la nebbia si diradò gradualmente ed Horus aprì nuovamente gli occhi. La maschera d’argento svanì e rimase solo il baluginio di quello che sembrava un coltello d’acciaio. Allora vide il sangue inzuppare gli abiti di Eugene, ne sentì l’odore pungente trasportato dal vento freddo di Highgate e trattenne il respiro, indietreggiando di un passo ed incespicando sulla radice bitorzoluta di un pino.

« Merda… » Rantolò, mentre la mano destra abbandonava la guancia e premeva sulle labbra.
Se solo avesse saputo, sarebbe rimasto preda dei suoi incubi ad occhi aperti, poiché la realtà che gli si palesava davanti era molto più spaventosa.
Individuò quel fagotto come Eugene e la voce che provenne, sofferente, gli procurò una stilettata di dolore al petto.
Non solo delusione di ciò che i suoi occhi avevano appena visto, ma anche la presa di coscienza che l’aveva seguito, che aveva accettato di distruggere l’ideale neonato che aveva di lui. S’era fidato, in un certo qual modo, di quell’infermiere scorbutico e conturbante, s’era fidato al punto da affidarsi alle sue cure volontariamente. Così l’aveva rivalutato, aveva ammesso che, forse, era stato in errore. Ed aveva visto la sera prima, nei suoi occhi azzurri, un sentimento ed una muta confessione che l’avevano lasciato smarrito per il tempo a seguire.
C’era poi, quel bacio.
Quel bacio che lui aveva cercato e benché avesse tentato di giustificarlo come l’effetto dell’alcol e delle moine di lui, aveva dovuto ammettere che l’aveva desiderato. Così come aveva desiderato trascinarsi fuori dal locale, nascondersi in un angolo per continuare a baciarlo, nella riprovazione della sua coscienza, consapevolissimo dello sbaglio che entrambi stavano commettendo. Ed in fondo al cuore, lo stupido orgoglio che avrebbe potuto, in qualche modo, salvarlo.
Non poteva minimamente sapere, nella sua tronfia incoscienza adolescenziale, che forse Eugene non voleva essere salvato. Né da lui,né da altri.

« Come… » Singhiozzò, immobile, davanti a lui. « Come hai potuto farlo? COME? » Gridò, barcollando e aggrappandosi alla corteccia dell’albero, conficcandoci le dita sporche dentro.
A chi si stava rivolgendo?
Col viso sfigurato in un’espressione di dolore e disgusto, chinò il capo e poi le gambe cedettero; cadde a terra. La bacchetta rotolò sul tappeto di foglie e con i palmi premuti sul terreno, Horus fu scosso dai brividi e dalla nausea.
Come al rallentatore, rivide Eugene a cavalcioni di quel cadavere e d’improvviso il volto gonfio dell’uomo fu sostituito dal suo. L’ennesimo conato lo squassò, ma non c’era più nulla del suo stomaco e così sputò a terra, per liberarsi del sapore acido. Rimase così per un tempo che gli sembrò interminabile, mentre la voce di Eugene continuava a frammentarsi e a mescolarsi con i ricordi della sera prima: alle sue mani fra i suoi capelli, le sue labbra, calde, sulla base del suo collo. Il sapore salato della sua pelle, il corpo fragile, femmineo, avvinghiato al suo. Quella stessa persona che aveva visto in quella buca lercia. Avrebbe dovuto immaginarlo, in un qualche grottesco modo e rabbrividì nel pensare ai commenti che aveva fatto sulla sua borsa stranamente pesante.
Si stava preparando, pensò.

No, ne aveva abbastanza. Si rialzò traballante, raccogliendo la bacchetta e avvicinandosi a passo cadenzato verso Eugene.
Guardalo, Horus.
Si impose con rabbia.
Puntò la bacchetta contro l’infermiere, e scrutò le ferite che lui gli aveva procurato. Ne fu nauseato molto più di quanto aveva visto in precedenza: forse, Eugene non era un mostro diverso da quello che era lui.
L’orecchio era orrendamente mutilato ed una buona porzione di carne mancava dal braccio. Il sangue aveva ormai tinto di un orrido marrone la stoffa logora dei suoi abiti e lo sguardo gli cadde sul bisturi che Eugene teneva in mano.
Con ferocia, Horus si chinò e glielo strappò dalle dita. La lama, pregna del cruore del ragazzo, baluginava terribile sotto la pallida luce lunare. Lo tenne stretto come si fa con qualcosa di delicato, ma poi, con un gesto rapido, lo lanciò lontano, nel folto della foresta. Il suo tonfo si udì a malapena nel silenzio tombale.
Tornò quindi ad osservarlo, un’espressione indecifrabile sul volto ferito.
Si costrinse a non guardare le sue labbra, lì dove s’erano poggiate le sue, e si costrinse a non pensare a cosa avevano fatto, prima d’allora. Si chinò, rimanendo in bilico sulle gambe che avevano ritrovato forza e fu allora all’altezza del suo viso, sfuggendo il suo sguardo. I bei riccioli fulvi gli si erano appiccicati alla fronte e gli occhi, liquidi, erano arrossati. Le lentiggini sembravano sbiadite sulla pelle mortalmente candida; stava male, e non bisognava essere Medimaghi per capirlo. La mano libera ebbe l’ennesimo spasmo e Horus l’allungò verso la guancia di Eugene, ma poi, ad un soffio dalla sua pelle, si richiuse ed il pugno serrato si abbassò lungo il fianco.
La punta della bacchetta venne direzionata verso il petto di Eugene, laddove il suo cuore, presumibilmente, batteva forte tanto quello di Horus.
« Salùs Dòno. » Mormorò lui in un sussurro così flebile che persino Eugene avrebbe faticato ad udire. Poco prima dell’ordine, l’arma aveva solcato l’aria che li separava per due volte, in un fluido movimento. Una luce dorata s’era così liberata dal frassino, illuminando dolcemente la figura di Eugene e la propria; immersi in quella luce, per un solo, meraviglioso secondo sembrò che nulla fosse accaduto.
Uno dopo l’altro, i pochi incantesimi di guarigione che Horus conosceva ripulirono alla bell’e meglio il sangue raggrumato dalle ferite e fasciarono il braccio.
Infine, le sue labbra si schiusero; dolevano e tiravano, ferite com’erano, ma rimasero così sospese nel tempo e lo sguardo di Horus si posò finalmente sugli occhi di Eugene.
Non sapeva neanche lui cosa dire. Voleva solo andarsene e affogare quei sentimenti in una vasca bollente, così da non sentire più sulla pelle quel dolore.
Serrò allora la mascella, deglutendo piano e alzandosi con riluttanza. Sentiva un groppo alla gola premergli sul pomo d’Adamo e la matassa di sentimenti ingarbugliarsi dentro il petto.
Si voltò, dando le spalle a colui a cui aveva dato fiducia, qualcuno che, in fondo, non era più solo un mero desiderio carnale.
« Eri… molto di più. » Sussurrò, mentre voltava il capo per osservarlo ancora una volta. Dietro lo sporco, il sangue e i grumi di chissà cos’altro, la bellezza androgina e dannata di Eugene era sempre, ostinatamente presente.
Strinse forte la bacchetta nella mano sinistra e volse la testa, muovendo qualche altro incerto passo verso il folto degli alberi del cimitero di Highgate, prima di fermarsi.
« Forse... abbiamo finito entrambi quel che era appena cominciato. » Aggiunse, il viso rivolto verso le buie fronde.


Horus Sekhmeth | 18 | Headboy

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