Horus R. Sekhmeth
« Pix, eh? Ah. Beh, ma allora tu dagli retta, no? » Horus voltò appena il capo in direzione del ragazzino che si torceva le mani, nervoso. Un grosso bernoccolo si ergeva sulla sua fronte, spuntando in mezzo alla zazzera di capelli castani come un fungo fra l’erba autunnale. O come il corno di un unicorno.
« M-ma, m-ma signore, Pix mi ha tirato un gabinetto addosso! Non posso prendere la tavoletta, metterla per cappello e girare i corridoi per riavere il mio libro di Pozioni! » Pigolò il bimbetto, disperato: aveva gli occhi rossi di pianto e guardava Horus con fare implorante. In un’altra situazione, il suo Caposcuola lo avrebbe certamente aiutato in quattro e quattr’otto, ma il povero ragazzino non poteva certo immaginare che Horus non era minimamente in grado né di intendere, né di volere.
In un primo momento, quando egli aveva varcato la soglia del cancello e aveva avvertito il primo giramento di testa, Horus aveva dato la colpa all’alcool: infido e deleterio, infine aveva avvelenato le sue vene ed era giunto al cervello, dandogli le vertigini e una fastidiosa quanto scarsa concezione della realtà. Poi, però, quando lui e Eugene s’erano separati come se niente fosse, il suo subconscio aveva capito che l’alcool era sì, complice, ma non l’unico artefice. Era la confusione dei sentimenti che lo sferzavano come forti venti di tempesta a destabilizzarlo in quel modo; l’incapacità di far fronte alle proprie azioni, alle reazioni del suo corpo e della sua mente. Era questo, piuttosto, che lo aveva fregato. E forse era stato proprio quel bacio ad averlo inebriato ben più di un paio di boccali di idromele. Ciò che Horus aveva difficoltà ad ammettere e che lo lasciava così stordito e confuso era il fatto di aver capito che Eugene O’Sullivan gli interessava, gli interessava eccome e non era più solo una mera questione fisica. C’era dell altro che egli tentava disperatamente di negare, continuando ad affibbiare la colpa di tutto quello scombussolamento a dei bicchieri di troppo e al comportamento ambiguo dell’infermiere che, in fin dei conti, lo aveva sempre turbato.
« Ah… eh beh, ultimamente van di moda, le tavolette per cappello. Suvvia, perché non chiedi a Niahndra di darti una mano? » Stanco, Horus si portò una mano sugli occhi, massaggiandoli piano. Dei del cielo, come voleva andarsene a letto; perché quel nano non si toglieva dalle scatole?
« M-ma ho paura di miss Alist--- » Provò a dire il Tassino, quando Horus, al limite, sbottò. « Senti Agenore » « A-Argent, signore… » « Argent. Senti. La Alistine ti aiuterà sicuramente a recuperare il tuo libro. Gentilmente, ho bisogno disperatamente di dormire, ti spiace lasciarmi andare? O preferisci un altro cornino su quella bella fronte, così sei pronto per fare la renna per Natale? »
Nonostante il tono apparentemente pacato, gli occhi di Horus, arrossati dalla bevuta e dalla stanchezza, squadravano il ragazzino con un’intensità tale che, se avessero potuto, l’avrebbero incenerito. Questi, spaventato, squittì balzando sul posto e scappò via, inciampando sulla tunica troppo grande. Soddisfatto, Horus s’incamminò: probabilmente l’indomani —se gli rifosse capitato a tiro, s’intende— si sarebbe scusato, ma in quell’istante l’unica cosa che voleva fare era dimenticarsi dell’esistenza di altri esseri umani. Si trascinò quindi verso i dormitori, sperando che tutti i suoi compagni fossero occupati con la cena e, una volta in stanza, si buttò direttamente sotto la doccia ghiacciata.
Lì, rimase immobile sotto il getto fresco per interminabili minuti, le braccia lungo i fianchi ed il volto sollevato verso l’alto, riempiendosi le orecchie dello scrocio dell’acqua che scivolava sul suo corpo nudo, lavandolo da qualsiasi stanchezza ed impurità.
Eppure, nonostante il benessere del freddo, Horus continuava a sentire la sua pelle bollire come se avesse avuto la febbre e, titubante, le sue dita sfiorarono le sue labbra, cercando di ricordare la sensazione provata quando aveva toccato quelle di Eugene. In quel gesto, Horus scoprì che una parte di sé, scioccamente, sperava che l’acqua potesse cancellare i ricordi e tutto ciò che ne era conseguito. Con un sospiro, si premette le mani sul viso.
Per quanti anni potesse passare dentro quelle mura, Horus non si sarebbe mai abituato al fastidioso giallo senape delle tende dei baldacchini dei dormitori Tassorosso. Eppure quei pochi metri di stoffa tirati lungo tutto il perimetro del suo letto erano l’unica cosa che, in una stanza condivisa, gli potesse donare un po’ di intimità, l’illusione di essere solo, nonostante il forte russare di Aaron spezzasse la magia.
Era, ormai, mezzanotte passata e sebbene Horus si fosse ficcato sotto le coperte da cinque ore buone, per altrettante non era riuscito a prendere sonno, girandosi e rigirandosi come un’anima in pena. L’ impressione di esser stato colto da una febbre alta non l’aveva abbandonato neppure dopo la doccia fredda che, una volta fuori, l’aveva lasciato tremante e in preda ai brividi.
*Maledetto te, Eugene.* Sbuffò irato, tirandosi a sedere e prendendo a pugni il cuscino nella speranza di renderlo più comodo. Esausto, giacque prono, il viso semi-nascosto nella stoffa della federa profumata di pulito. Anche lui, si disse, profumava di qualcosa di simile; più salato, certo, e c’era qualche nota di disinfettante, eppure era piacevole e gli aveva invaso le narici quando lui s’era avvicinato a lui fin dalla prima volta. All’inizio —e come poteva dimenticarlo?— lo aveva nauseato, non riuscendo a distinguere nulla in quell’odore, al di fuori dell’impersonale asetticità di un maledettissimo infermiere, un carnefice opportunista sotto un camice bianco. L’aveva persino odiato, quell’odore, e aveva imparato a riconoscerlo e ad identificarlo con Eugene, disgustando quell’atteggiamento lascivo e languido che il ragazzo assumeva ogni volta che lo incontrava. Poi Eugene ed il suo odore erano spariti per lungo tempo ed Horus l’aveva dimenticato, fino a quel giorno in cui, tornato in Infermeria, era tornato ad avvolgerlo quando Eugene era ricomparso, effimero e delicato, nella luce tiepida e polverosa della sala ingombra di letti e medicinali.
Benché Horus ignorasse praticamente tutto di Eugene e della sua vita, quel giorno aveva sentito una nota diversa, nel suo odore, qualcosa di personale, e aveva subito capito che in Eugene era cambiato qualcosa, che era diventato qualcos’altro, assumendo un’altra forma. D’improvviso quella fastidiosa creatura serpentina, era diventata più fragile, più innocua e soprattutto più sincera. Dopo quella volta passando per il Secondo Piano, Horus si era ritrovato ad indugiare per qualche secondo all’imboccare del corridoio che conduceva all’Infermeria, mentre il suo subconscio cercava di trovare una scusa che lo spingesse ad oltrepassare la soglia e chiamare il suo nome.
Ma non lo fece mai.
La Vita, infine, lo aveva travolto con tutto ciò che ne derivava: la fine della storia con Mya, l’attrazione per Emily, Dulwich e la scoperta di tutto quello che Ainsel gli aveva taciuto, i Mangiamorte, l’omicidio e la salvezza di un motivo per cui vivere senza sensi di colpa, Camille e la sua promessa: un intero caleidoscopio di eventi che l’avevano coinvolto e avevano sospinto Eugene in fondo al suo cuore, come un petalo scacciato dal vento e sommerso da decine di foglie.
Ma in quella sera, così innocua all’apparenza, Horus s’era accorto che in realtà Eugene non se n’era mai andato dalla sua testa: la curiosità per la sua vita, per la sua storia e la sua persona avevano in parte celato la vera attrazione che infine era sfociata nella scusa più plausibile: l’attrazione fisica.
Ora, chiudendo gli occhi, il Tassino riviveva quei momenti ambigui che si erano susseguiti dal loro primo incontro, risentiva sulla pelle le labbra di Eugene, sentiva sulle dita la sua lingua, quel giorno in cui le labbra di lui s’erano chiuse su di loro e, a quei pensieri, il sangue si fece così caldo da ustionarlo, ribollendo feroce dentro di lui, mentre il cuore accelerava il battito, turbando ancor di più il ragazzo. *Che diamine. Datti un contegno.* Si impose, mentre l’ennesimo brivido gli scorreva lungo la schiena e le gambe. Fuori dalla finestra, un lampo squarciò la cupa notte ed un roboante tuono preannunciò l’arrivo di una tempesta. Di lì a poco, con un’intensità sempre maggiore, la pioggia cominciò a rimbombare nel silenzio notturno.
Quanto a lungo poteva continuare a mentire a se stesso? L’alcol, ormai, non c’entrava più nulla ed era indubbio che non era stato quello, a farlo sentire così, ma Eugene.
Horus non era mai stato attratto dagli uomini e probabilmente non lo sarebbe mai stato: un corpo femminile, aveva sempre pensato, spesso senza alcuna malizia, era perfetto. Eppure Eugene era stato capace di attirarlo come il fuoco con una falena e sebbene ciò che Horus provava per lui era ben diverso da quello che aveva provato per Mya e che ora cominciava a provare per Emily, sapeva che trascendeva qualsiasi sesso, qualsiasi imposizione, qualsiasi dogma e qualsiasi forma. Quella consapevolezza, l’accettazione di quell’interesse e del piacere che, inevitabilmente, aveva provato baciandolo e che continuava a provare ripensando all’accaduto, bastò a convincerlo.
Eugene gli piaceva, in un qualche strano modo, punto e basta: questo non implicava null’altro.
E di fronte quella semplice e disarmante constatazione, Horus sorrise, chiedendosi perché diamine non fosse giunto prima ad una risposta tanto semplice; non riusciva neanche a capire perché era stato così difficile ammetterlo.
Con l’unico pensiero di essere straordinariamente bravo a complicarsi la vita con un nonnulla e con l’ultima benedizione dell’alcool rimastogli ancora in corpo, infine, s’addormentò mentre fuori infuriava la tempesta.
»Londra, h. 5.45 p.m.
Un Babbano in bicicletta gli sfrecciò di fianco, sfiorandolo per un pelo e trovando persino il coraggio di inveirgli addosso. Horus, che si era salvato solo grazie ai riflessi pronti che gli avevano permesso di balzare di lato, inchiodò lungo la strada, osservando l’uomo e il suo bislacco mezzo venir inghiottiti dall’oscurità.
« Fanculo pure a te, amico! » Gli gridò dietro, ricordandosi solo dopo un attimo di sbigottimento dell’insulto subito. Assurdo, pensò incamminandosi di nuovo, i Babbani erano davvero un branco di matti: giravano su quei cosi a due ruote come se fossero i padroni indiscussi delle strade, senza curarsi minimamente né di chi era a piedi, né di chi era dentro le loro macchine. Semplicemente si atteggiavano a signori della strada e quando avevano torto pretendevano anche di avere ragione. Per di più in una strada ampia come quella, quello stupido ciclista era andato a incrociare proprio il cammino di Horus che era l’unico pedone. *Ammasso di imbecilli.*
Era, ormai, tardo pomeriggio e gran parte delle persone stava tornando a casa dagli uffici: Oakeshott Avenue era straordinariamente tranquilla, con le sue casette ordinate e silenziose, i tigli che accompagnavano la lunghezza dei viali e il dolce stormire delle foglie carezzate dal venticello fresco. Due bambini giocavano nel giardino della loro abitazione, quando Horus passò loro davanti, perfettamente vestito come un Babbano qualsiasi. Nessuno di loro gli prestò attenzione, troppo presi dai loro giochi ed il ragazzo passò avanti, scoccando loro un’occhiata invidiosa. Nonostante si trovasse in una zona residenziale tipicamente Babbana, Horus —ciclisti a parte— si trovava a suo agio. Quell’atmosfera di piacevole sospensione fra la fine del giorno e l’inizio della notte, l’aria frizzante della sera, il cielo che s’imbruniva e la luna che, splendente, sorgeva con Venere che ammiccava nel cobalto, allietavano e accompagnavano il ragazzo nel suo cammino.
Nella tasca dei jeans ardesia v’era ripiegato un bigliettino con l’indirizzo dell’abitazione di un uomo, un Babbano con cui Lysander di tanto in tanto faceva affari. A quanto sembrava, però, l’ultima trattativa non era andata tutta rose e fiori e alla fine il Babbano aveva liquidato Lysander con l’augurio di rivederlo nella tomba.
“Mi raccomando ragazzo, fatti vendere quell’anfora! Il vecchio Banes è astuto come una faina, ma tu lo sei di più. Fagli una lagna, digli che studi archeologia, sviolinalo come hai sviolinato me con il Vaso Canopo e ottienilo. E offfrigli il minimo, non si merita neanche un centesimo, quell’inglese dei miei stivali.” aveva detto, con non poca enfasi, l’anziano quando aveva incastrato Horus quella mattina al lavoro. Le lamentele del Tassino su quanto fosse poco pratico con i soldi Babbani erano state inutili ed alla fine, era stato incastrato a suon di “meno bancone gli dai meglio è”. Lysander sapeva essere irremovibile.
Giunto alla fine della strada, Horus alzò lo sguardo sul cartello, identificandola come Swain’s Lane; per un istante fu tentato di tirare fuori la bacchetta e di castare un Incanto Quattro Punti, ma anche per quello Lysander era stato chiaro: guai a lui se avesse usato la Magia. Quella zona pullulava di Babbani, ci mancava solo un richiamo ufficiale del Ministero; e sebbene Lysander avesse tentato di spacciare la proprio preoccupazione per il futuro del ragazzo ad Hogwarts, in realtà Horus sapeva bene che egli temeva solo un controllo da parte delle istituzioni. Quanti altarini nascondeva quell’uomo, Horus non avrebbe potuto saperlo neanche in cent’anni di vita al suo fianco. *E chissene frega, non ci tengo neanche a scoprirli.*
Preso da quei pensieri, Horus non fece troppo caso Swain’s Lane, che differiva ben poco da Oakshott Avenue. Quelle strade si somigliavano tutte terribilmente ed Horus si sarebbe perso se non fosse stato per la provvidenziale indicazione di una vecchietta incontrata un centinaio di metri prima. Con suo sommo piacere, comunque, Horus si ritrovò da solo per la via e s’incamminò con più lentezza, prendendosi tutto il tempo del mondo. Lysander gli aveva detto che l’uomo, un professore, rincasava sempre verso le sette passate e questo permetteva al Tassino di godersi la tranquillità della sera. In un primo momento, avrebbe voluto rifiutare, ma quando infine si era ritrovato in quel tranquillo e placido quartiere, Horus era stato grato a Lysander per quell’incarico. La notte precedente si era addormentato tardi e sogni fatti avevano reso il suo sonno inquieto. Fin da quando s’era svegliato, poi, il ricordo sfocato del pomeriggio precedente lo avevano assillato con i numerosi flash dei momenti vissuti. Era stata una liberazione ed una benedizione poter camminare così lontano da Hogwarts, così lontano da chiunque conoscesse. Eppure, stolto piccolo umano, Horus non poteva sapere quanto il Fato sapesse essere beffardo.
In una città grande come Londra, con decine di migliaia di migliaia di persone, strade, viuzze, vicoli e quartieri, quante probabilità c’erano che Horus e Eugene si sarebbero potuti incontrare, quando per mesi, all’interno delle stesse mura della Scuola, non si erano mai incrociati?
In un primo momento, distante poco più di un centinaio di metri, il ragazzo non se n’era accorto. Perso nei propri pensieri, le mani infilate nella giacca nera, i suoi occhi non avevano ancora riconosciuto quella capigliatura così inconfondibile. D’un tratto, distratto dal verso stridulo di un merlo, Horus si volse automaticamente verso la fonte del rumore e lì, lo vide.
Gli abiti che indossava erano ben diversi da quelli con cui era abituato a vederlo, eppure, nonostante la fioca luce dei lampioni che via via andavano accendendosi, nonostante la distanza, Horus seppe di non sbagliarsi: quello immobile poco distante dai cancelli di Highgate era Eugene O’Sullivan.
Il primo pensiero del Tassino, che s’era arrestato di scatto ed era balzato dietro un pioppo lì vicino, fu un’imprecazione. Amon benedetto, pensò, com’era possibile che il Destino glielo facesse ritrovare davanti proprio in quel momento, così presto? Sorpreso, Horus si portò una mano al petto, nel tentativo di calmare il battito del suo cuore che era improvvisamente aumentato alla vista del giovane.
*Ed ora, che faccio? Me ne vado? Lo fermo? No, neanche per sogno, non ci penso neanche. No, aspetto qui che entri nel cimitero e poi continuo per la mia strada* Pensò risoluto, poggiando le spalle sul tronco dell’albero. Tuttavia, nonostante l’iniziale risolutezza, Horus si morse un labbro, sentendo l’indecisione far vacillare i suoi buoni propositi.
Ma come, gli disse una vocina nella sua testa, non volevi sapere di più di Eugene? Quale occasione migliore di questa? *Sta andando al cimitero, magari va a trovare una persona cara. Non dovrei approfittarmi di un momento d’intimità…*
Sì, si disse, sarebbe stato alquanto sconveniente intromettersi così negli affari di Eugene. Però, continuò la vocina, lui era così riservato, così chiuso, che c’era di male a saperne un po’ di più? Non avrebbe mai avuto occasione di vederlo in un contesto diverso dalla Scuola, da ciò a cui erano abituati. Del resto, non aveva accettato solo la sera prima la consapevolezza di quell’interesse? Se davvero Eugene gli piaceva, beh, allora doveva almeno saperne un po’ di più, che diamine.
Titubante, Horus si sporse appena, controllando la figura dell’infermiere e prestando attenzione a non farsi vedere. Lui era ancora lì: sembrava incerto sul da farsi tanto quanto il Tassino, ma d’un tratto si mosse in direzione dei grandi cancelli, deciso, a quanto sembrava, a varcarli. Rapido, tornando a ripararsi dietro il tronco, Horus tirò fuori la bacchetta senza pensare ad altra conseguenza che non fosse il venir scoperto da Eugene e la puntò verso di sé. *Séocculto* Pensò con intensità durante il movimento, sentendo la sensazione di un uovo rotto sulla testa pochi istanti dopo. Horus non sapeva se Eugene fosse stato o meno in grado di vederlo, ma decise che la prudenza non era mai troppa. Sicuro che il suo incanto era quantomeno andato a buon fine, uscì con lentezza dal nascondiglio e si incamminò a debita distanza da Eugene, facendo in modo di sfruttare qualsiasi pianta o rientranza per nascondersi, senza perder di vista il suo bell’obiettivo. Si sentiva assurdamente eccitato da quella prospettiva, da quell’avventata azione mai tentata prima di quel momento e se nei giorni a seguire si sarebbe pentito, ora l’unica cosa che gli interessava era scoprire qualcosa di Eugene, un lato di lui che altrimenti non avrebbe mai conosciuto.
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« I wanna hide the truth, I wanna shelter you, but with the beast inside there’s nowhere we can hide. »