| Thalia Jane Moran Osservava quella figura china in silenzio, incapace di profferir parola. Non le mancavano le parole, anzi, conoscendosi ne avrebbe potute dire fin troppe e di una certa importanza. Respirava lentamente, incamerando quanta più aria possibile che, raggiunti i polmoni, risaliva per uscire dalla bocca, socchiusa. Intrecciò le dita, mantenendo la medesima posizione, e si limitava a mantenere un religioso, quanto salvifico per il suo interlocutore, silenzio. Provava uno strano turbinio di sensazioni ed emozioni, mescolate insieme e che, analizzate singolarmente, non avrebbero mai coinciso l'una con l'altra. Era arrabbiata? Certo che lo era. Come non esserlo, dopo che quel ragazzo le aveva puntato contro la bacchetta, minacciando di "tagliarle la gola"? E se da un lato si sentiva percorrere da un certa "elettricità", dall'altro percepiva che l'adrenalina in circolo diminuiva vistosamente di minuto in minuto. Una sensazione di rilassatezza la stava invadendo... o si trattava solamente della tensione accumulata che stava scivolando via, lentamente, lasciando il posto alla spossatezza? Allungò le gambe sotto la tavola, cercando di rilassarsi totalmente, ma senza per questo avvicinarsi a lui. Si stava scusando. E allora? Bastavano delle semplici scuse per farle dimenticare l'accaduto? No. Non avrebbe dimenticato, ma forse, con le dovute spiegazioni e il tempo necessario ad elaborare il fatto, sarebbe riuscita a perdonarlo. Non capiva, dal suo modo di vedere, che cosa avesse mai potuto spingerlo tanto al limite. Non si era risparmiata, di questo era fortemente consapevole, ma non le sembrava di aver varcato tanto la soglia della sua sopportazione. Non credeva, quella era la parola giusta, di averlo fatto. In quel momento, cercava di capire maggiormente se stessa e non quel ragazzo così strano. Era lei a causare quei mutamenti nel suo modo di essere? Separarsi da quell'idea si stava rivelando estremamente difficile, così che era più facile addossare la colpa a se stessa, piuttosto di riversare ogni suo sentimento avverso su di lui. Più lo guardava e più si sentiva responsabile, almeno in parte, di quanto accaduto.
...non so cosa sia successo, era come se non fossi io a parlare, non capisco....
Non ci capiva nulla nemmeno lei, di questo poteva esserne certo. Di tutta quella storia, che cosa sarebbe rimasto? Le scuse, le parole grosse, le minacce... probabilmente la rabbia e il risentimento. E poi? Sarebbe stata in grado di rivolgergli un saluto o di scambiare due parole con lui? Non sapeva dirlo. C'erano troppe cose che non sapeva e non capiva. Forse avrebbe dovuto raccogliere i suoi libri e la sua borsa, tornando in silenzio e da sola al dormitorio, restandoci per tutta la serata. Non aveva fame, la cena le sarebbe rimasta sullo stomaco e la sola idea di incrociarlo in Sala Grande le faceva gelare il sangue. Voleva andarsene e allora... perché restava? Chiuse il manuale di Storia della Magia, rimasto aperto fino a quel momento, e tornò a posare gli occhi azzurri su Mitchell che, finalmente, ricambiava il suo sguardo. Occhi lucidi, i suoi, occhi pentiti. Ma lo era davvero? Se lo chiese, continuando a scambiare quello sguardo in silenzio.
*Prima o poi, con la scusa di aiutare il prossimo, ci resterai secca.*
Ti è già successo, non è vero? chiese, infine, con un tono piatto e senza entusiasmo. Aveva l'impressione che quella non fosse la prima volta che Mitchell si trovasse in quella situazione. Non solo con lei, magari era successo con i suoi compagni Corvonero o con altri studenti di altre Case. Che cosa non andava in lui? Curiosità, altruismo, masochismo... qualunque fosse la forza motrice a spingerla ad indagare, sicuramente non l'avrebbe fatta schiodare da quella sedia tanto facilmente. Si sentiva molto come sua madre Leanne, in quel momento: una donna dolce, ma dal carattere determinato, che sapeva difendersi e, allo stesso tempo, sapeva mettere da parte le ostilità. Thalia aveva sempre creduto di somigliare al padre, ma in quegli istanti realizzò quanto somigliasse, in realtà, alla madre.
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