| C'era qualcosa di sbagliato quel giorno al villaggio, un’impressione generale che era rimasta rilegata a un angolo della mente e cui aveva evitato di dar peso fino a quel momento. Le cose cambiavano in dieci anni, lui era rimasto lontano così tanto da sentirsi spaesato. I maghi erano sempre stati festaioli sfrenati e folli ma in quel caos c'era un degrado che non aveva mai notato da giovane. Quella maleducazione indecente, il puzzo, il menefreghismo rivolto all'uomo distinto e al senso stesso della festa. Nessuno sembrava interessato alle motivazioni e alla storia e si lanciavano sul bere. Era nauseato e quegli aggeggi volanti avevano rischiato di fargli perdere la pazienza già da tempo. Quella era la giornata in cui, quando era poco più che infante, coi suoi genitori, passeggiava tra negozi e baracchini a comprare dolci e bibite zuccherate, rimanendo incantato nel udire le gesta del fondatore. Poi era diventata quella in cui, al terzo anno, lui e i suoi compagni Tassorosso si divertivano a castare decorazioni colorate, cantando, mangiando stuzzichini e bevendo Burrobirra. Negli ultimi anni ad Hogwarts l'aveva passava con i due amici Serpeverde. Non l'aveva mai vissuta così male. Qualcosa si era guastato tra i maghi. Vivevano chiusi tra le mura da troppo, nascosti, come ratti, senza voglia di migliorare le cose, giustificandosi con leggi e atteggiamenti privi di amor proprio. E c'era anche chi elogiava i babbani e li imitava. Era tutto così privo di senso e dignità, così come quel omuncolo dagli abiti scuri che sembrava reggersi a malapena in piedi. Non valeva la pena arrabbiarsi e finire nei guai per un povero babbione simile, eppure il suo nervosismo non riusciva a placarsi, così come il disgusto. A dar man forte all'incazzatura crescente, arrivò un olezzo rivoltante, acre, pungente e nauseabondo. I primi postumi delle bevute più esagerate, rigettate a terra in diversi modi e sostanze. Era in un locale, non in una stalla. Tra maghi e non babbani. Faticava a ricordarselo. La consapevolezza che era circondato dalla sua gente e da individui che nulla c’entravano, era l'unica cosa a tenerlo fermo. Non poteva permettersi certe reazioni davanti a tutti quei testimoni, non era uno stupido. Il suo lato più gentile e pacato morì quando il bicchiere impattò sul suo alluce e il Whisky fu nuovamente sprecato per inzozzargli l'abito. Il suo abito. Di nuovo. Questo pensiero arrivò dopo una lunga imprecazione mentale (qualcosa di simile a un: “Maledettosanguesporcoticavogliocchicoicocci”) seguita da una incomprensibile a denti stretti. Era abituato al dolore, ma la fitta cacciò via ogni resistenza a quella massa di odio e rabbia che aveva covato già dal vedere le macchine volanti. Quel mostro di negatività e violenza, solitamente riservata ai babbani nei suoi pensieri più cattivi, avanzava a passi larghi e pesanti, facendogli incattivire lo sguardo. Il cuore iniziò a pulsare più rapidamente, mentre il corpo iniziava a fremere come prima di una rissa. Non era mai successo che quel suo lato lo assalisse con tanta veemenza. Il suo odio per i babbani era qualcosa di covato e accresciuto nel tempo. I suoi spostamenti continui gli avevano evitato anche i litigi con le persone, già che non si fermava abbastanza per arrivare a tanto. Aveva bisticciato ovviamente, ma sempre nella decenza. Non era mai stato trattato in modo così irrispettoso, da qualcuno che stava sprecando il sangue magico che probabilmente era stato sostituito dall’alcol. Quella frase, seguita dalla risata, fece apparire l’ubriacone niente di più e niente di meno che feccia da abbattere. Più rideva più i nervi vibravano. Davanti ai suoi occhi passarono così tanti metodi di tortura che si costrinse a chiudergli con forza e riaprirli subito dopo. Inspirò ed espirò dalle narici con furore. Sorrise, l'espressione era un ghigno nervoso, la voce era distaccata, con un innaturale tono cordiale. “Il nostro amico sta diventando un po’ pericoloso, meglio metterlo a nanna.” Senza preavviso alcuno, spostò la bacchetta dalle proprie zone non citabili all’uomo. Desiderava sottoporlo a tante belle cose. Solo una poteva essere spacciata per un collasso da chi non guardava e per un liberare tutti da un impiccio molesto agli “spettatori”. Voleva, o meglio, pretendeva di stenderlo per bene a terra, senza avvicinarsi. Già lo vedeva prono tra piscio e whisky. Nella sua immaginazione ci stava fin troppo bene. Ogni fibra esasperata del suo essere puntava a un risultato: privarlo delle forze necessarie a dire altro, facendolo distendere sul pavimento ridotto male. Sarebbe bastato a placarlo? Oppure quella parte di sé avrebbe preteso di più? Nel momento stesso in cui cercò di puntare la bacchetta verso quel coso, provò a pronunciare la formula con sicurezza e decisione, ben aiutato da quel suo desiderio di metterlo al suo posto. “Decàdo.” Nel parlare tentò di muovere il salice con un gesto continuo del polso, rapido ma preciso, dall’alto al basso e poi da sinistra a destra, in una sorta di immaginaria “L”, quasi imponesse all'altro prima di cadere a terra e successivamente di stendersi sulla pavimentazione.
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