| ▲ Hyde Park, London | Late Afternoon ▼Horus R. Sekhmeth Solo qualche anno prima, si era chiesto tante volte cosa l’Uomo provava di fronte alla Morte e alla sua imminenza. Se la Paura di questa fosse quantificabile ed uguale per tutti, come se fosse un valore matematico da attribuire a ciascun caso per misurarne la potenza e la credibilità. “Oh, quel tizio sta per essere ucciso: in una scala da 1 a 10 come classifica il suo terrore? Ed è uguale a quello del tale che sta per morire dopo una lunga malattia? O a quello del poveretto che si vede un incanto mortale impossibile da deviare, venirgli incontro? E a quello del disgraziato sta per essere sbranato da un Drago?”. A volte, invece, si era domandato se era vero ciò che raccontassero nei libri, se chi stava per morire vedesse la propria vita passargli davanti, come tante fotografie in movimento di un film muto di cui lui era stato attore, regista e sceneggiatore; se era vero che la Paura di morire trasformasse l’essere umano in una belva senza più intelletto e logica, ma con una forza incredibile in grado da sbaragliare persino un Ungaro Spinato. A sue spese, però, Horus aveva scoperto che gran parte di quelle teorie erano cazzate, belle e buone. Nient’altro che favolette romanzate di una realtà ben più cruda e spicciola di così: non c’era nessun bel filmino ad accoglierti quando una lama stava per trapassarti una gola; nessuna scala di terrore quantificabile se un Drago stava per affondare i denti nella tua carne e masticarti come un gustoso pasticcio; nessun sentimento uguale all’altro, figuriamoci una potenza interiore che la Paura avrebbe dovuto estrapolare con forza dall’Ego di ciascun moribondo. L’unica cosa che c’era in quei momenti era il battito del cuore che riempiva tutta la cassa toracica e la testa, scandendo degli attimi che sembravano lenti e rapidi al tempo stesso. Non c’erano domande scaturite dal più classico dei cliché, c’era solo quel suono che, roboante, assordava e riempiva tutto quanto. E talvolta, c’era più logica di quanto si pensasse e la disperazione diveniva un tutt’uno col sangue e l’adrenalina e portava a reagire nei modi più impensabili, incredibilmente cruenti. Quando si era ritrovato coperto di sangue sgorgato da un enorme squarcio che lo aveva tagliato da lato a lato del busto, Horus aveva provato solo una cosa, così potente da aver per un attimo ammutolito le urla di dolore: rabbia; quando il Mangiamorte lo aveva costretto a terra, dita artigliate alla sua gola e l’aria che a poco a poco veniva meno, Horus aveva provato ancora una volta quella cocente furia irrazionale che il suo stesso cuore istigava a gran voce, come un Imperatore che spingeva il Gladiatore ad infierire sul leone che lo aveva ferito a morte. L’ira che la propria vita potesse esser presa con tanta facilità, il furore di voler portare con sé chiunque avesse avuto l’ardire di ammazzarlo. E così, il Golem era morto ed l’uomo aveva fatto la stessa fine. Da quelle esperienze, Horus aveva imparato che la Paura di morire, che è insita anche nel più coraggioso degli uomini, scatena una rabbia ed un egoismo senza pari e fine della storia, senza romanticherie di sorta o belle leggende da narrare come cantastorie di gesta cavalleresche. Lì, dunque, in mezzo a degli alberi in un angolo remoto di Hyde Park, dove la sua sola voce rintoccava come il pendolo di un orologio che scoccava l’ora della Morte, Horus poteva vedere l’Ira trapassare gli occhi acquosi del viscido omino che gli era davanti. Pigolava come un pulcino fra le grinfie di un gatto e tremava come una foglia eppure, nonostante quell’atteggiamento vile e codardo, il ragazzo sapeva che quello che batteva nel petto rachitico dell’ometto era un cuore ricolmo di rabbia ed odio. Seppe, semplicemente, che se egli avesse potuto, gli sarebbe saltato addosso e avrebbe tanto di ucciderlo a sua volta, strappandogli il pugnale dalle mani e ficcandoglielo in mezzo agli occhi. E come se fosse stata un nettare corroborante, una giustificazione suadente ad affondare la lama, Horus si deliziava di quella rabbia, sentendola assorbire dentro di sé e perdendo, per un folle istante, il contatto con la realtà.« Tr… » Decretò senza terminare la sentenza, bruscamente interrotto da due voci dissonanti fra loro. Confuso, sussultò, indeciso dove guardare; l’omino aveva parlato, aveva biascicato qualcosa che somigliava ad una resa, ma un’altra voce, sconosciuta, si era frapposta alla sua. Col cuore che balzava nel petto e il tempo che riprendeva la sua solita corsa, Horus si voltò di scatto, il pugnale, immobile, ancora puntato alla gola dell’uomo. Chi aveva parlato era una giovane donna, i cui occhi grigi spiccavano al di sotto delle folte sopracciglia scure come due pietre preziose incastonate nell’ ematite ; uno sguardo enigmatico, criptico, che nell’immediato ricordò ad Horus un gatto incontrato, tanto tempo addietro, in una strana sera.
Il Sole era calato da diverse ore e fra le vie nascoste di Diagon Alley non c’era più la consueta folla; i più, se ne stavano riparati fra le mura delle proprie case, mentre quei pochi che ancora si attardavano fuori, venivano sballottolati dagli eventi che li avevano costretti, nolenti o volenti, a rincasare più tardi del previsto. Horus era uno di loro: aveva appena chiuso il negozio dopo aver terminato un infinito inventario ed era incredibilmente stanco. Non avendo ancora raggiunto la maggiore età e ben lungi dallo Smaterializzarsi, gli toccava trascinarsi per le strade illuminate dalla luce dei pigri lampioni, diretto verso la Passaporta delle ventidue e un quarto che lo attendeva all’angolo della strada fra il Ghirigoro e un vecchio emporio per la riparazione dei calderoni. L’unica compagnia era il lontano cicaleccio della City che, nonostante la Magia che nascondeva Diagon Alley, si udiva comunque quando i negozi chiudevano, e rumoreggiava continuamente, come se fosse il respiro di un gigante. Poche persone avevano incrociato ed il suo cammino, ma nessuno badò a lui, né lui badò a loro. Camminava con le mani infilate nelle tasche della giacca autunnale, lo sguardo vacuo perso dinanzi a sé: i suoi piedi calpestavano le foglie marcite cadute dagli alberi che formavano un tappeto di colori smorti, ma Horus si muoveva percorrendo un itinerario tracciato dall’abitudine in cui non era richiesta attenzione alcuna se non il completo abbandono alla consuetudine. Era immerso in una bolla di stanchezza che ovattava qualsiasi suono e qualsiasi colore, ma quando il ragazzo incrociò un angusto vicolo che si apriva fra i muri delle case vicine come una ferita che squarciava la pelle, si arrestò d’un botto, quasi una mano invisibile l’avesse afferrato per il bavero della giacca e trattenuto brutalmente. Lo assalì in quell’istante un impalpabile senso di disagio, la sensazione di esser osservato con interesse tanto da farlo rabbrividire dalla testa ai piedi. D’istinto, Horus si voltò verso l’apertura dell’angiporto, socchiudendo appena le palpebre per penetrare nella semi-oscurità. Immerso in quel buio, sopra un bidone dell’immondizia, v’era un gatto. Sedeva ritto ed aggraziato, la coda che ricadeva morbida lungo il fianco, statico. I suoi occhi gialli baluginavano a seconda di come la luce cadeva su di loro, facendoli sembrare fari nella notte. Immobile, il felino dal pelo di tenebra lo osservava, quasi stesse aspettando proprio lui; i baffi, lunghi e sottili come fili d’acciaio, fremettero appena. Horus non seppe quanto tempo rimase lì, inchiodato da quello sguardo, incapace di distogliere le proprie iridi da quelle dell’animale. Lo aveva osservato senza neanche capire il perché, studiandone la forma magra, ma slanciata, che si intravedeva grazie alla fioca illuminazione. C’era qualcosa in lui che gli aveva fatto capire che era un randagio, ma non un vagabondo qualunque, spelacchiato e abbacchiato dalla vita di stenti. Era fiero di ciò che era e sotto il suo silente sguardo, egli giudicava la caduca vita umana, come una Divinità; Bastet. Di colpo, sentendosi giudicato da quella bestiola e dalla Dea che gli balenò nella mente, Horus abbassò gli occhi, scuotendo il capo quasi in segno di scuse. La bolla si era rotta e lui era andato via, sentendo su di sé quel velo indefinibile di malinconia.
Lei gli ricordò quel gatto e per quell’attimo titubò e la sua mano fremette; il panico di venir scoperto a poco a poco gli serrò la gola, ma questa volta il suo sguardo non vacillò. Tuttavia, Horus pagò comunque le conseguenze di quell’intromissione: accortosi del momento di stallo, la lama del pugnale lievemente allontanata dalla sua carotide, l’omino ne approfittò e caricò un pugno proprio alla bocca dello stomaco del suo assalitore. Il colpo non fu devastante, ma fu ben mirato e, soprattutto inatteso ed Horus, colpito alla sprovvista, si piegò su se stesso con un gemito, portando ambo le braccia alla parte ferita. Sentì il fiato mancargli ed il dolore, insieme all’ira, crescere fecondo laddove era stato colpito con tanta insolenza. Il fuggitivo, invece, cominciò a correre, dando sfogo a tutta la sua abilità di furfante velocista: superò la giovane donna e se la diede a gambe senza tanti complimenti; qualcosa, però, gli cadde dalla tasca in mezzo all’erba a qualche metro di distanza da dove era scappato. Nessuno se ne avvide, neanche lui stesso. Con gli occhi appannati, tutto ciò che Horus vide fu la propria preda fuggire via e sibilò un’imprecazione di natura tutt’altro che britannica.« Non erano… affari tuoi. » Ringhiò poi alla donna, raddrizzandosi ed appoggiando una spalla alla corteccia dell’albero, il braccio destro che circondava lo stomaco. Le dita della mano sinistra strinsero il pugnale in maniera così convulsa che le nocche, per quanto possibile, sbiancarono ancor di più. ❝ "Knowing your own Darkness is the best method for dealing with the darknesses of other people".
Buon Natale Snasa ♥Edited by Horus Sekhmeth - 5/1/2024, 15:36
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