Wormhole., Privata.

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▲ Hyde Park, London | Late Afternoon ▼
Horus R. Sekhmeth

L’aria gelida gli tagliava il viso come minuscole lame scagliate a grande velocità da un’invisibile mano nemica; il vento gli aveva spinto indietro il cappuccio ed i capelli rossi, scompigliati e liberi, erano come lingue di fiamma dietro di sé. Gli anfibi battevano contro il selciato, producendo un rumore sordo, allertando coloro che gli si paravano davanti di spostarsi, se non volevano venir travolti; il mantello si agitava dietro di lui, come una vela squarciata su una barca impazzita. Horus correva senza sosta, scartando agilmente i passanti che incrociava lungo il viottolo di terra battuta che zigzagava nei giardini di Hyde Park, rischiando di investire gli scoiattoli che gli attraversavano la strada come un razzo, o attentando alla vita di qualche vecchietta che si godeva la passeggiata pomeridiana. Le cinque del pomeriggio di un sabato affollato: non c’era orario peggiore per addentrarsi in uno dei parchi più famosi di Londra, gremito di persone che si godevano il primo giorno senza la pioggia da una settimana a quella parte. E a tal proposito, un’anziana donna tarchiatella era appena balzata in mezzo alla via con un’agilità incredibile, alzandosi dalla panchina che aveva monopolizzato fino a quel momento, costringendo Horus a sfuggire lo scontro diretto per un soffio. Non gli riuscì, invece, evitare di colpire il poderoso braccio della vecchiarda: il ragazzo vi rimbalzò contro come una pallina deviata da un muro, sbilanciandosi e riprendendosi per un pelo con un improperio borbottato a mezza voce.
« AHIO! GUARDA DOVE VAI TEPPISTA!! » Gli aveva urlato dietro la mastodontica signora ed Horus, senza neanche voltarsi, la maledisse mentalmente: “ahio” un par di Boccini, pensò; con quel suo arto lardoso gli aveva quasi fatto fuori l’avambraccio. Massaggiandosi rapidamente la parte dolente con la mano sinistra, Horus deglutì, respirando col naso per controllare meglio l’ossigenazione e assottigliando lo sguardo verso la preda che fino ad allora non aveva mai perso di vista: era poco più avanti di lui e nonostante a prima vista lo avesse preso per un uomo piuttosto mingherlino, reso ancor più magro dal cappotto logoro e di cinque taglie più grandi che indossava, correva come un razzo e aveva una resistenza pazzesca: probabilmente nella sua losca vita, correre era l’unica salvezza a cui aveva potuto appellarsi, visto che di muscoli non ne aveva. Horus l’aveva sottovalutato dal primo momento in cui l’aveva visto: Lysander gli aveva detto di fare attenzione, che i Babbani, talvolta, sanno essere più infidi di un Mago, ma il ragazzo, quando se l’era trovato davanti, aveva peccato di superbia. Come avrebbe potuto temere un ometto alto poco più di un metro e sessanta, con un’ingente calvizie e una circonferenza braccio che si chiudeva fra il suo indice e pollice? Era untuoso e cerimonioso, interessato solo al denaro e quel tipo di persone, s’era detto, si tenevano facilmente sotto controllo con un sacchetto di monete. Ma aveva fatto male i conti, l’omino aveva fiutato l’inganno ed era scattato come una faina, facendo rimpiangere al ragazzo tutta la sua arroganza. Ora ne pagava le spese e nonostante il suo fisico fosse allenato, Horus faceva fatica a tenergli dietro: la milza gli lanciava dolorose fitte che si irradiavano per tutto il fianco ed i polmoni chiedevano pietà mentre il cuore pompava a mille col serio rischio che da un momento all’altro perforasse la cassa toracica e partisse come una molla verso l’iperspazio. Erano più di dieci minuti che gli stava dietro ed ora la stanchezza ed il freddo cominciavano a minare seriamente non solo il suo corpo, ma anche la sua mente, ormai allo stremo e prossima alla resa.
*Lo perdo, lo perdo, lo perdo, dannazione!* Serrò la mascella, decidendo di rischiare abbandonando la strada e svoltando bruscamente verso il prato nel tentativo di tagliare la strada al suo obiettivo; l’erba, ancora coperta dalla brina laddove il Sole non era riuscito a scaldarla, scricchiolava lievemente sotto la suola pesante delle sue scarpe. Se solo non si fosse trovato in un luogo frequentato da Babbani, sarebbe stato così facile tirare fuori la bacchetta dalla tasca e puntarla alle gambe dell’uomo, fatturandolo e mettendolo KO. Poco importava che anche il suo obiettivo fosse un Babbano, tante care cose allo Statuto di Segretezza in casi come quelli. Si trattenne dallo sbuffare, mantenendo il poco ossigeno che gli arrivava al sicuro nei polmoni e rimanendo lucido sul piano elaborato in quei velocissimi frangenti: se c’era una cosa che il Quidditch gli aveva insegnato, era braccare un avversario pianificando strategie in pochi secondi. Ecco, se avesse avuto la sua Gelbsturm sarebbe stato altrettanto facile acciuffare il fuggitivo.
Resistendo alla stanchezza e stringendo i pugni, Horus aggirò un grosso pioppo, cercando con lo sguardo l’omuncolo che correva a perdifiato. Eccolo lì, l’infame, neanche tre metri più avanti, infilarsi in mezzo alla vegetazione dopo essersi guardato rapidamente alle spalle e aver constatato che, forse, il suo inseguitore aveva desistito; Sì, pensò il Tassino: ce l’aveva in pugno. La caviglia dell’uomo aveva vacillato, l’aveva visto chiaramente prendere in pieno un sasso proprio mentre si voltava a cercarlo ed ora la sua corsa era rallentata. Horus sorrise, scoprendo i denti in una smorfia tutt’altro che di buon auspicio e con l’ultimo sprint che l’adrenalina poteva concedergli, scattò in avanti, infilandosi a sua volta nel verde del parco e tagliando la strada all’uomo che, sorpreso, dopo aver inchiodato imprecò sonoramente e cadde all’indietro.

« Dove scappi… figlio di… Morgana…? » La gola gli doleva per l’aria ingerita, il petto si alzava ed abbassava freneticamente, le gambe tremavano per la corsa che avevano dovuto sopportare, eppure, stoico, Horus resistette, avvicinandosi all’uomo e tirandolo su per il bavero della giacca sudicia —sussultando interiormente per aver toccato quel lerciume— e costringendolo, così, ad alzarsi. « Dammela… o giuro che ti ammazzo. » Sibilò, spingendolo con forza verso il tronco di un leccio. Aveva il viso arrossato dalla corsa e la voglia sul suo occhio spiccava livida risaltando gli occhi chiari; un’espressione di puro disgusto era dipinta sul volto del ragazzo e l’uomo, dopo averlo guardato nervosamente ed aver rabbrividito, sbuffò.
« Ehhh… chissà… potrei averla… persa… mentre mi inseguivi…» Sbiascicò in tutta risposta, ansimando come un grosso cane bavoso. Un sorriso sdentato si aprì sul suo volto scavato da anni di incuria e vecchiaia ed il suo alito fetido invase il viso di Horus che per poco non lo lasciò andare per il ribrezzo. *Prima ammazzo lui, poi ammazzo quel maledetto Lysander.* Nervoso, ma conscio del proprio ruolo, fece correre la mano dominante al pugnale che teneva infilato nella cintura, nascosto dal lungo mantello nero. Per un istante le sue dita vacillarono, tentate di afferrare, invece, il manico della propria bacchetta — Dei del cielo, com’era difficile farne a meno: uno Stupeficium piccolo piccolo e nessuno l’avrebbe saputo, forse.
Sfoderò quindi l’arma in metallo che balenò verso il collo dell’uomo, premendo la lama contro la carne ruvida e raggrinzita. Ancora una volta, preso alla sprovvista, lo sconosciuto trasalì, inghiottendo rumorosamente e cambiando strategia. I suoi occhi, fino a quel momento colmi di sfida, si appannarono e si fecero lucidi, forse per il tentativo di far leva sulla pietà.
« Io…io… potrei… davvero averla pe….AH NO! NO! » Guaì, mentre Horus affondava la lama quel tanto che bastava per aprire una ferita superficiale all’altezza del pomo d’Adamo. Qualcosa dentro di lui gli diceva di affondare l’intero pugnale dentro la gola di quel miserabile, ma il ragazzo, ormai avvezzo alla Voce, la ignorò, limitandosi a piegare di lato il capo ed osservare l’uomo con freddezza.
« Urla di nuovo e te lo pianto nel collo. Dov’è. La. Chiave. » Scandì, con disprezzo, senza che gli occhi pallidi abbandonassero il viso di lui.
L’uomo si guardò intorno, a disagio, le mani artigliate alla corteccia dell’albero alle sue spalle. Cercava aiuto, ma, povero stolto, si trovavano in un angolo lontano dalla via principale; il Sole andava tramontando e con lui tutti gli ultimi visitatori si affannavano a tornare al caldo delle proprie case. Horus sorrise ancora, sprezzante.

« No, non ti salverà nessuno. Ed io conto fino a tre.
Uno…
Due... »




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Edited by Horus Sekhmeth - 5/1/2024, 15:35
 
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«
Rosie? Sono io. »
« Rue? Rue! Che bello sentirti! Sono passate due settimane! »
Sorrisi, distendendo le labbra contro la cornetta. « Tredici giorni - o giù di lì. »
« E allora? Il colloquio com'è andato? »
« È andato » dissi, accorgendomi di avere la voce ancora impastata dal sonno. « Ho un ufficio tutto mio adesso. »
« Oddio! Oddio, che bello! Devo dirlo alla mamma e al papà! Saranno felicissimi, erano tanto in pensiero! »
Risi appena, premendo di più il telefono contro l'orecchio. « Ho una proposta. Perché non vieni a Londra, oggi? È una bellissima giornata, c'è il sole. Pranziamo insieme e ti racconto tutto. »
« Mi piacerebbe un sacco! Pensavo fossi impegnata e non volevo disturbarti. Non vedo l'ora di vederti! »

Due ore dopo.



Seppur l'aria fosse fredda e tagliente, il sole riusciva a dare un'atmosfera completamente diversa alla capitale inglese. Era trascorsa una settimana di pioggia incessante - una pioggia che aveva accompagnato il mio colloquio e che, per un certo qual modo, mi era cara - ed ora quel lieve tepore veniva accolto dai passanti come balsamo per le loro ferite. Parevano tutti sorridenti, tutti felici, come se quell'unico e banale cambio climatico avesse annullato tutte le loro preoccupazioni. Era bizzarro eppure piacevole vedere tutti così spensierati.
Mi appoggiai con la parte superiore della schiena al muro; ficcai le mani in tasca del lungo cappotto verde scuro e incrociai gli stivaletti uno sull'altro. Abbassai lo sguardo, infilando il mento nel collo alto del maglione, osservando l'uscita di Paddington Station in attesa di Rosalie. Da quando mi ero trasferita a Londra riuscivo a stare con lei molto meno ma non ero, comunque, mai stata senza vederla due settimane. Spesso veniva lei a trovarmi, fermandosi anche qualche giorno. Spesso, nei fine settimana, ero io a tornare a casa. Certo, per lei significava prendere il treno, trovare le coincidenze giuste e organizzarsi con gli impegni e gli orari; a me bastava una smaterializzazione. Avevamo spesso parlato del fatto che, una volta finiti i suoi studi, avrebbe potuto decidere di trasferirsi con me, sia che avesse deciso di proseguirli, sia che avesse propeso per la ricerca di un lavoro. Non avrei mai condiviso i miei spazi con nessuno, ma lei faceva eccezione.
« Rue! »
Alzai il mento e mi staccai dal muro, rimettendomi in posizione eretta. Sorrisi in direzione di mia sorella che si affrettava ad attraversare e raggiungermi. Quando mi fu a pochi passi aprì le braccia e si buttò praticamente su di me, stringendomi forte.
« La mia sorellona fantastica! » mormorò, ficcando il naso nelle pieghe del mio bavero. « Adesso è un Auror fighissimo! »
Scoppiai a ridere e l'abbracciai a mia volta. « Diciamo che ho appena cominciato » mormorai.
« Ah, non fare la modesta! Dobbiamo festeggiare! »
« Ho prenotato in un ristorante italiano qui vicino, è davvero ottimo. Poi possiamo andare- »
« Rue, non posso trattenermi troppo » m'interruppe Rosalie, staccandosi appena e guardandomi negli occhi. « Nel pomeriggio devo riprendere il treno ma ti prometto che staremo più a lungo insieme la prossima volta. »
Non potei nascondere una prepotente amarezza. Sorrisi comunque, un sorriso quasi rassegnato. « Non preoccuparti. »

Erano le quattro e quaranta quando mi separai da mia sorella, dopo averla accompagnata fino al binario. Aspettai che il treno scomparisse alla vista, poi mi voltai in direzione dell'uscita. Paddington Station non era molto distante da Hyde Park e - non avendo alcuna voglia di tornare a casa - deviai in quella direzione, entrando in corrispondenza dell'Italian Gardens Cafe.
Il sole non era più alto e forte come a mezzogiorno e le ombre delle cose stavano gradualmente allungandosi. Dimentica della popolosità di quel luogo il sabato pomeriggio, esitai, pensando se introdurmi nel parco pieno di famigliole con bambini urlanti fosse una buona idea. Spostai gli occhi verso le vie secondarie, quelle ombrate che di solito non percorre nessuno; tirai dritto in quella direzione e ne imboccai una.
Il vociare degli ospiti del parco si fece via via più lontano ed ovattato, man mano che mi addentravo nei sentieri più sconosciuti. Hyde Park era un punto turistico molto famoso, forse troppo per i miei gusti; in genere non preferivo quel tipo di posti, ma quel giorno avevo davvero bisogno di camminare, camminare, camminare, facendo camminare via da me anche i pensieri.
D'un tratto sentii delle voci serrate. Sembravano urlate eppure erano appena sussurrate. Poi, qualcuno gemette - di dolore? Di paura? Mi ritrovai a seguire quei suoni e, tra gli alberi in ombra, vidi due figure. Erano due uomini. Quello con i capelli rossi mi dava le spalle e sovrastava completamente con il suo corpo quello dell'altro. Era evidente, però, che quello con il cappotto grande e logoro stesse subendo l'aggressione - giustificata o meno che fosse. Che avrei potuto fare? Andare via, dimenticandomi di ciò che avevo visto? Restare con il dubbio che quello fosse un pover'uomo costretto a subire una minaccia dall'altro?
« Che succede qui? » parlai, prima di pensarci ulteriormente.
 
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view post Posted on 24/12/2016, 18:41
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▲ Hyde Park, London | Late Afternoon ▼
Horus R. Sekhmeth


Solo qualche anno prima, si era chiesto tante volte cosa l’Uomo provava di fronte alla Morte e alla sua imminenza. Se la Paura di questa fosse quantificabile ed uguale per tutti, come se fosse un valore matematico da attribuire a ciascun caso per misurarne la potenza e la credibilità.
“Oh, quel tizio sta per essere ucciso: in una scala da 1 a 10 come classifica il suo terrore? Ed è uguale a quello del tale che sta per morire dopo una lunga malattia? O a quello del poveretto che si vede un incanto mortale impossibile da deviare, venirgli incontro? E a quello del disgraziato sta per essere sbranato da un Drago?”.
A volte, invece, si era domandato se era vero ciò che raccontassero nei libri, se chi stava per morire vedesse la propria vita passargli davanti, come tante fotografie in movimento di un film muto di cui lui era stato attore, regista e sceneggiatore; se era vero che la Paura di morire trasformasse l’essere umano in una belva senza più intelletto e logica, ma con una forza incredibile in grado da sbaragliare persino un Ungaro Spinato.
A sue spese, però, Horus aveva scoperto che gran parte di quelle teorie erano cazzate, belle e buone. Nient’altro che favolette romanzate di una realtà ben più cruda e spicciola di così: non c’era nessun bel filmino ad accoglierti quando una lama stava per trapassarti una gola; nessuna scala di terrore quantificabile se un Drago stava per affondare i denti nella tua carne e masticarti come un gustoso pasticcio; nessun sentimento uguale all’altro, figuriamoci una potenza interiore che la Paura avrebbe dovuto estrapolare con forza dall’Ego di ciascun moribondo.
L’unica cosa che c’era in quei momenti era il battito del cuore che riempiva tutta la cassa toracica e la testa, scandendo degli attimi che sembravano lenti e rapidi al tempo stesso. Non c’erano domande scaturite dal più classico dei cliché, c’era solo quel suono che, roboante, assordava e riempiva tutto quanto. E talvolta, c’era più logica di quanto si pensasse e la disperazione diveniva un tutt’uno col sangue e l’adrenalina e portava a reagire nei modi più impensabili, incredibilmente cruenti.
Quando si era ritrovato coperto di sangue sgorgato da un enorme squarcio che lo aveva tagliato da lato a lato del busto, Horus aveva provato solo una cosa, così potente da aver per un attimo ammutolito le urla di dolore: rabbia; quando il Mangiamorte lo aveva costretto a terra, dita artigliate alla sua gola e l’aria che a poco a poco veniva meno, Horus aveva provato ancora una volta quella cocente furia irrazionale che il suo stesso cuore istigava a gran voce, come un Imperatore che spingeva il Gladiatore ad infierire sul leone che lo aveva ferito a morte.
L’ira che la propria vita potesse esser presa con tanta facilità, il furore di voler portare con sé chiunque avesse avuto l’ardire di ammazzarlo. E così, il Golem era morto ed l’uomo aveva fatto la stessa fine.
Da quelle esperienze, Horus aveva imparato che la Paura di morire, che è insita anche nel più coraggioso degli uomini, scatena una rabbia ed un egoismo senza pari e fine della storia, senza romanticherie di sorta o belle leggende da narrare come cantastorie di gesta cavalleresche.
Lì, dunque, in mezzo a degli alberi in un angolo remoto di Hyde Park, dove la sua sola voce rintoccava come il pendolo di un orologio che scoccava l’ora della Morte, Horus poteva vedere l’Ira trapassare gli occhi acquosi del viscido omino che gli era davanti. Pigolava come un pulcino fra le grinfie di un gatto e tremava come una foglia eppure, nonostante quell’atteggiamento vile e codardo, il ragazzo sapeva che quello che batteva nel petto rachitico dell’ometto era un cuore ricolmo di rabbia ed odio. Seppe, semplicemente, che se egli avesse potuto, gli sarebbe saltato addosso e avrebbe tanto di ucciderlo a sua volta, strappandogli il pugnale dalle mani e ficcandoglielo in mezzo agli occhi. E come se fosse stata un nettare corroborante, una giustificazione suadente ad affondare la lama, Horus si deliziava di quella rabbia, sentendola assorbire dentro di sé e perdendo, per un folle istante, il contatto con la realtà.

« Tr… » Decretò senza terminare la sentenza, bruscamente interrotto da due voci dissonanti fra loro. Confuso, sussultò, indeciso dove guardare; l’omino aveva parlato, aveva biascicato qualcosa che somigliava ad una resa, ma un’altra voce, sconosciuta, si era frapposta alla sua. Col cuore che balzava nel petto e il tempo che riprendeva la sua solita corsa, Horus si voltò di scatto, il pugnale, immobile, ancora puntato alla gola dell’uomo.
Chi aveva parlato era una giovane donna, i cui occhi grigi spiccavano al di sotto delle folte sopracciglia scure come due pietre preziose incastonate nell’
ematite; uno sguardo enigmatico, criptico, che nell’immediato ricordò ad Horus un gatto incontrato, tanto tempo addietro, in una strana sera.

Il Sole era calato da diverse ore e fra le vie nascoste di Diagon Alley non c’era più la consueta folla; i più, se ne stavano riparati fra le mura delle proprie case, mentre quei pochi che ancora si attardavano fuori, venivano sballottolati dagli eventi che li avevano costretti, nolenti o volenti, a rincasare più tardi del previsto. Horus era uno di loro: aveva appena chiuso il negozio dopo aver terminato un infinito inventario ed era incredibilmente stanco. Non avendo ancora raggiunto la maggiore età e ben lungi dallo Smaterializzarsi, gli toccava trascinarsi per le strade illuminate dalla luce dei pigri lampioni, diretto verso la Passaporta delle ventidue e un quarto che lo attendeva all’angolo della strada fra il Ghirigoro e un vecchio emporio per la riparazione dei calderoni. L’unica compagnia era il lontano cicaleccio della City che, nonostante la Magia che nascondeva Diagon Alley, si udiva comunque quando i negozi chiudevano, e rumoreggiava continuamente, come se fosse il respiro di un gigante. Poche persone avevano incrociato ed il suo cammino, ma nessuno badò a lui, né lui badò a loro. Camminava con le mani infilate nelle tasche della giacca autunnale, lo sguardo vacuo perso dinanzi a sé: i suoi piedi calpestavano le foglie marcite cadute dagli alberi che formavano un tappeto di colori smorti, ma Horus si muoveva percorrendo un itinerario tracciato dall’abitudine in cui non era richiesta attenzione alcuna se non il completo abbandono alla consuetudine. Era immerso in una bolla di stanchezza che ovattava qualsiasi suono e qualsiasi colore, ma quando il ragazzo incrociò un angusto vicolo che si apriva fra i muri delle case vicine come una ferita che squarciava la pelle, si arrestò d’un botto, quasi una mano invisibile l’avesse afferrato per il bavero della giacca e trattenuto brutalmente. Lo assalì in quell’istante un impalpabile senso di disagio, la sensazione di esser osservato con interesse tanto da farlo rabbrividire dalla testa ai piedi. D’istinto, Horus si voltò verso l’apertura dell’angiporto, socchiudendo appena le palpebre per penetrare nella semi-oscurità. Immerso in quel buio, sopra un bidone dell’immondizia, v’era un gatto. Sedeva ritto ed aggraziato, la coda che ricadeva morbida lungo il fianco, statico. I suoi occhi gialli baluginavano a seconda di come la luce cadeva su di loro, facendoli sembrare fari nella notte. Immobile, il felino dal pelo di tenebra lo osservava, quasi stesse aspettando proprio lui; i baffi, lunghi e sottili come fili d’acciaio, fremettero appena.
Horus non seppe quanto tempo rimase lì, inchiodato da quello sguardo, incapace di distogliere le proprie iridi da quelle dell’animale. Lo aveva osservato senza neanche capire il perché, studiandone la forma magra, ma slanciata, che si intravedeva grazie alla fioca illuminazione. C’era qualcosa in lui che gli aveva fatto capire che era un randagio, ma non un vagabondo qualunque, spelacchiato e abbacchiato dalla vita di stenti. Era fiero di ciò che era e sotto il suo silente sguardo, egli giudicava la caduca vita umana, come una Divinità; Bastet. Di colpo, sentendosi giudicato da quella bestiola e dalla Dea che gli balenò nella mente, Horus abbassò gli occhi, scuotendo il capo quasi in segno di scuse.
La bolla si era rotta e lui era andato via, sentendo su di sé quel velo indefinibile di malinconia.


Lei gli ricordò quel gatto e per quell’attimo titubò e la sua mano fremette; il panico di venir scoperto a poco a poco gli serrò la gola, ma questa volta il suo sguardo non vacillò. Tuttavia, Horus pagò comunque le conseguenze di quell’intromissione: accortosi del momento di stallo, la lama del pugnale lievemente allontanata dalla sua carotide, l’omino ne approfittò e caricò un pugno proprio alla bocca dello stomaco del suo assalitore. Il colpo non fu devastante, ma fu ben mirato e, soprattutto inatteso ed Horus, colpito alla sprovvista, si piegò su se stesso con un gemito, portando ambo le braccia alla parte ferita. Sentì il fiato mancargli ed il dolore, insieme all’ira, crescere fecondo laddove era stato colpito con tanta insolenza.
Il fuggitivo, invece, cominciò a correre, dando sfogo a tutta la sua abilità di furfante velocista: superò la giovane donna e se la diede a gambe senza tanti complimenti; qualcosa, però, gli cadde dalla tasca in mezzo all’erba a qualche metro di distanza da dove era scappato. Nessuno se ne avvide, neanche lui stesso.
Con gli occhi appannati, tutto ciò che Horus vide fu la propria preda fuggire via e sibilò un’imprecazione di natura tutt’altro che britannica.

« Non erano… affari tuoi. » Ringhiò poi alla donna, raddrizzandosi ed appoggiando una spalla alla corteccia dell’albero, il braccio destro che circondava lo stomaco. Le dita della mano sinistra strinsero il pugnale in maniera così convulsa che le nocche, per quanto possibile, sbiancarono ancor di più.



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Edited by Horus Sekhmeth - 5/1/2024, 15:36
 
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view post Posted on 25/12/2016, 22:08
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Una
goccia s'infranse sulla mia fronte, scivolando poi lentamente fino alla sommità del naso. Non mi mossi, né per controllare da dove fosse caduta - forse un lascito della settimana piovosa - né per asciugarmi. Quando quel ragazzo dai capelli rossi si voltò, nell'attimo in cui spostò i suoi occhi nei miei, il mio tempo personale si sospese.
I suoi occhi.
Quegli occhi mi fecero vacillare ed estraniare dal contesto. Fu come se, in quel momento presente e isolato, fosse esistito solo quello sguardo freddo. Per quanto mi riguardava, io e quello sconosciuto potevamo essere ovunque a scambiarci quel contatto perché il contesto s'era spostato su un piano infinitamente secondario.
Era strano, curioso; era come se mi fossi aspettata di trovare un altro sguardo - qualsiasi altro sguardo - dietro quella massa di capelli scompigliati a cui avevo parlato. Magari uno sguardo anonimo, come tanti, forse poco sveglio, probabilmente distorto dalla rabbia. Invece no. Le sue iridi erano fredde, lontane, in un certo qual modo misteriose. Di un grigio perfino più chiaro del mio - quasi bianco, quasi inumano. E, stranamente - per degli occhi così chiari - stranamente profonde, come se nascondessero chissà quale verità, chissà quale assurda illuminante rivelazione. Poi quel disegno, come una voglia, quasi una lacrima, decorava la sua pelle appena sotto l'occhio sinistro. Cos'era?
Lasciai le labbra dischiuse in procinto di aggiungere qualcosa - ma cosa, poi? - ma non riuscii; mi limitai, dopo un tempo che mi parve infinito, a sbattere le palpebre.
Era bello.
Un pensiero fin troppo frivolo e decontestualizzato, ma che mi era apparso d'improvviso nella mente. Non era la prima volta che mi capitava di apprezzare un bel ragazzo, ovviamente. Negli anni ad Hogwarts, e anche dopo, non mi ero certo tenuta lontana dall'altro sesso. Certo, non sopportavo le relazioni esclusive - non avrei voluto che qualcuno entrasse nella mia quotidianità perché non amavo che potesse arrivare a conoscermi davvero. Preferivo di gran lunga i singoli momenti di passione, privi di qualsivoglia coinvolgimento ulteriore e depurati da vane e false promesse. Non mi aveva mai nemmeno sfiorato l'idea di affezionarmi, legarmi a qualche sconosciuto solo perché provavo un'attrazione sessuale nei suoi confronti - perché di quello si trattava. Quindi, ecco, era facile che m'invaghissi ma non che andassi oltre qualche incontro di piacere. Ma in quel momento provai qualcosa che non capii; qualcosa che, a pensarci, non avevo provato davanti ad altri. Come un lieve dolore, come se dell'acqua gelida mi scorresse sotto l'epidermide, come se d'un tratto avessi una strozzatura alla bocca dello stomaco. Come se questa sensazione si arrampicasse fino alla gola, stringendomela in una morsa di incertezza e fragilità. Perché mi sentivo in quel modo? Mi pareva di aver perso quella dose di determinazione con cui avevo deciso di interrompere quel momento.
Tutto accadde nel giro di pochi secondi e il gesto improvviso dell'altro uomo mi riportò alla realtà. Il pugnale appena allontanato dalla gola doveva avergli garantito un sicuro raggio d'azione, tanto che quello schizzò in avanti e diede un pugno al ragazzo, forte e inaspettato, tanto che questo si piegò su se stesso, accartocciandosi come un foglia con le braccia intorno al torace.
Sbattei le palpebre e tornai completamente in me, mentre l'uomo dal cappotto logoro scappava e mi superava; spostai il mio sguardo sul fuggitivo solo un istante, poi tornai a guardare il ragazzo. Mi sentii completamente bloccata, incapace di muovere un passo nella sua direzione - anche se i miei pensieri mi stavano suggerendo di aiutarlo ad alzarsi o, magari, di scusarmi. Ma rimasi lì. Lo guardai sollevarsi con difficoltà, strusciare con la spalla contro la corteccia del tronco, rimettersi a fatica in piedi. Non avevo mai ricevuto un pugno nello stomaco ma immaginai che dovesse fare molto male. Il suo braccio destro teneva premuto il punto dolente ma i miei occhi si fissarono sulla mano sinistra che, abbandonata lungo il corpo, stringeva un pugnale con tale ardore da sbiancare le nocche. Quando parlò, la sua voce ne uscì contratta dalla rabbia ma profonda e calda come se avesse parlato direttamente al mio orecchio. La cosa mi destabilizzò ulteriormente.
Ero sicura che avrebbe volentieri affondato quella lama nel mio collo. Per un attimo vidi la scena, completamente e chiaramente davanti ai miei occhi come in quell'istante vedevo lui e il bosco. Lo vidi scattare in avanti, afferrarmi, buttarmi per terra e tagliarmi di netto la giugulare. La mia fervida immaginazione mi mostrò perfino la scena dall'esterno; mi vidi sovrastata dalla sua figura, vidi la mia pelle bianca irrorata di sangue e i miei occhi sbarrati nei suoi, incatenati ancora una volta.
Mossi un passo indietro, sciogliendo finalmente la mia posizione d'assoluta immobilità; ne seguì un altro, un altro ancora. Mi fermai quando il mio tallone, dopo aver ripetutamente affondato nella terra morbida, toccò qualcosa di duro. Forse un bastoncino, sicuramente non una pietra. Guardai con la coda dell'occhio, senza davvero distogliere l'attenzione da lui, e vidi una porzione cilindrica di ottone un po' usurata - un oggetto che comunque non aveva motivo di essere spontaneamente lì in quel posto.
Decisi di non badarci, almeno per il momento. Quello che catalizzava la mia attenzione era soprattutto il pugnale e l'idea che sarei diventata io la vittima di quella drammatica scena. Probabilmente davanti avevo un comunissimo babbano, anche se qualcosa mi suggeriva di no - ma ovviamente non potevo estrarre la bacchetta in base ad una supposizione. Certo era che, qualora mi fossi trovata in pericolo di vita, ne avrei avuto tutto il diritto. Deglutii e tentai di riprendere pieno controllo della mia arma preferita, quella da cui i suoi occhi mi avevano momentaneamente privato.
« Forse no, ma adesso mi pare che lo siano diventati » allusi, spostando nuovamente gli occhi sulla lama. « Qualcosa mi fa intuire che adesso io non possa semplicemente andarmene così come sono arrivata. » Feci una pausa, stringendo appena lo sguardo. « Perciò, visto che siamo a questo punto, mi permetto di insistere: cosa stava succedendo? »


Buon Natale Horus ♥
 
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Horus R. Sekhmeth



Quello sguardo lo metteva incredibilmente a disagio.
Sembrava volergli penetrare dentro, strappargli la pelle e studiarne le ossa e i nervi per analizzarlo, metterlo a nudo e comprenderne l’esistenza. Voleva distogliere gli occhi, ma se l’avesse fatto, pensò scioccamente, avrebbe significato che era un debole; non gli piaceva essere guardato
, studiato in quel modo. Non gli piaceva essere guardato a prescindere. Nonostante il ruolo di spicco che aveva nella sua Scuola e alla Gazzetta del Profeta, ad Horus non era mai andata giù di stare troppo al centro dell’attenzione. Agli occhi di chi non sapeva nulla di lui sembrava, invece, perfettamente a suo agio nei suoi compiti di rilievo, con la sua bella spilla brillante, sempre in prima fila per far rispettare le regole e come punto di riferimento per Casa; nessuno poteva anche solo immaginare che Sekhmeth, il Caposcuola Tassorosso che con tanta facilità faceva i suoi discorsi sul palco alle feste di fine anno, fosse in realtà un ragazzo che tutto ambiva, tranne la folla e la sua acclamazione. L’ambizione, sì, quella era qualcosa che era difficile da ignorare: sussurrava suadente, invaghiva l’Ego e lo adulava, rendendo difficile rifiutare ruoli importanti e di responsabilità che non a tutti erano concessi. Per il proprio egoismo, Horus aveva sempre accettato quelle cariche che, altrimenti, la sua natura schiva avrebbe sempre voluto evitare e nonostante tuttora si fosse abituato ad essere spesso sotto gli occhi di molte persone, allo stesso tempo aveva imparato a filarsela al momento giusto, ad adottare un basso profilo, a non restare sotto quegli sguardi, più tempo del necessario senza destare sospetti alcuni. Non era un cane a capo del branco, ma era un lupo solitario a cui era toccato quel compito: di fatto, però, la sua natura non cambiava.
E quella maledettissima donna continuava a fissarlo, inchiodandolo lì, mentre lui non poteva farlo che squadrarla freddamente di rimando, studiandone i lineamenti affilati, i capelli neri come la pece che esaltavano il suo pallore e la sua vaga spettralità. Aveva le labbra sottili e le gote lievemente arrossate dall’aria fredda e quella condizione risaltava delle piccolissimi efelidi che anche a quella distanza, Horus riusciva a scorgere come forse l’unica cosa che spezzava il niveo candore di granito del suo incarnato. La sua figura era slanciata, spigolosa eppure allo stesso tempo armoniosa, androgina. No, con quell’ aspetto incredibilmente particolare, unico, la sconosciuta non era affatto brutta, pur non essendo la classica bellezza cui era abituato. Non aveva lo splendore nordico di Emily, col suo corpo minuto e il calore dei suoi capelli, né il vigore di Mya e la liquidità del suo sguardo purpureo, o la fresca bellezza della bionda Amber —le ragazze, da lui, reputate fra le più belle; eppure c’era qualcosa in lei che la rendeva affascinante come un cristallo grezzo, puntuto, ma dalla luce vibrante. Ma
chi era quella donna?
Una Babbana? Una Strega? Impossibile stabilirlo con certezza, non finché non avesse tirato fuori la bacchetta e non gliel’avesse puntata contro il suo viso, analizzandone la reazione. La mano destra ebbe un lieve fremito, indecisa se correre alla tasca che celava la bacchetta, ma non si mosse, rimanendo artigliata nel punto dove era stato colpito con tanta viltà. Horus sapeva che avrebbe dovuto agire, sapeva che doveva Obliviarla, qualunque cosa ella fosse, ma in quel momento si studiavano come due predatori di specie diverse che conoscono la loro natura e che per questo la
temono. Perché lei non sembrava un agnellino, sebbene ad Horus non fosse sfuggito quel movimento scattoso che lei aveva fatto, indietreggiando di qualche passo da lui alla vista del pugnale. Aveva avuto timore? Sì, ma come biasimarla? Solo un folle non ne avrebbe avuto di uno sconosciuto armato. Il cuore batteva calmo nel petto, il dolore allo stomaco scemava, pur rimanendone una fastidiosa scintilla che si irradiava, ma quella stasi rimase ed il nervoso, per qualche istante, fu accantonato dalla circospezione.
La voce di lei spezzò l’idillio ed Horus, ascoltandola, alzò un sopracciglio, scettico. Ruppe il contatto visivo con lei —sentendo subito venir meno lo strano disagio provato—, puntando le iridi sulla propria mano. Era livida e non si era accorto di stringere così forte l’elsa dell’arma fino a quel momento. Indubbiamente, quell’intromissione non gli era affatto piaciuta e il suo corpo reagiva senza che lui neanche se ne rendesse conto. Sbuffò, sardonico, rinfoderando con agilità il proprio pugnale con un gesto fluido del braccio. Mostrò quindi i palmi, piegando di lato il capo, una visione distorta di un bimbo che mostra le mani alla mamma che lo accusa di qualche marachella che lui nega. Una ciocca di capelli rossi gli ricadde sul viso, macchiandolo come una goccia di sangue nella neve. La luce cominciava a calare velocemente e già Venere si intravedeva, brillante, nella finestra naturale che le chiome di due lecci vicini formavano fra loro intrecciando rami e foglie.

« Credevi che te lo piantassi in mezzo agli occhi? È per questo che sarebbero anche affari tuoi? » Disse, una punta d’ironia mal celata nella voce alludendo a quanto lei stessa gli aveva fatto capire. Nonostante lo nascondesse, era nervoso: se non fosse stato per lei, l’ometto avrebbe ceduto, ne era più che certo. *Sicuro che non avresti perso il controllo, Ra?* Pensò cupo. *No, che non avrei perso il controllo. E’ solo colpa di quest’impicciona, maledizione.*
« Beh, detto fatto, il pugnale non c’è più, ora non sono davvero affari tuoi. »
Aggiunse, tagliente, infilando le mani nelle tasche con non-chalance. Le dita della mano sinistra sfiorarono il legno del frassino che ivi custodiva, celato agli occhi altrui. Vi si arpionarono con forza, pronte ad estrarre la bacchetta al minimo accenno o passo falso di lei. Gli occhi non l’abbandonavano mai e l’ira prendeva una forma più densa, man a mano che la luce calava ed il tempo scorreva. Doveva sbrigarsi ad andarsene, o non avrebbe più ritrovato l’idiota e la chiave.
« Quel qualcosa che ti ha fatto intuire che tu non possa semplicemente andartene, sbaglia. Facciamo così quindi: ora tu te ne vai e ti fai gli affari tuoi e io mi faccio i miei e grazie tante. » Concluse, i muscoli del viso congelati dalla tensione e dal freddo.
Un falco che calpestava, lentamente, un terreno scivoloso, che non gli era affine; ma era un gioco fra predatori o fra prede?




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Edited by Horus Sekhmeth - 5/1/2024, 15:36
 
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Mi
resi conto, forse troppo tardi, di aver sfacciatamente insistito nel fissarlo.
In genere, era un mio comportamento abituale tenere sotto controllo gli ambienti e le persone. Era stata Rosalie a farmi notare quel mio atteggiamento, ancor prima che ne prendessi consapevolezza; lei diceva che radiografavo le cose. La verità era che mi veniva naturale soppesare la situazione in cui ero calata - per mantenere il controllo e conservare una posizione di privilegio. Non mi piaceva che mi sfuggissero le cose e mi infastidiva che qualcuno mi fosse un passo avanti. Ma, se non per precise motivazioni, credevo fosse controproducente mostrare chiaramente di fissare qualcuno o di guardarsi intorno in un ambiente sconosciuto. Avevo sempre preferito che i miei gesti passassero inosservati.
Invece, con quel ragazzo, tutto era andato al contrario. E per cosa, poi? Per averlo visto mezzo secondo, in una situazione per di più per nulla pulita? Mi sentivo arrabbiata con me stessa. Avrei dovuto decisamente tirare dritto e fregarmene di intervenire; sarebbe stato meglio per tutti e tre, forse perfino per il fuggitivo. D'altronde nel mio impeto avevo pensato di difendere un debole, ma a conti fatti poteva essere tutto il contrario. Poteva essere quello il cattivo, poteva aver fatto all'altro un torto, poteva essere giusto che venisse, in qualche modo, fermato. Ma poi, seppur il ragazzo dai capelli rossi fosse stato nel giusto, andava bene girarsi dall'altra parte e lasciare che compisse la sua vendetta? Infine mi resi conto che i sentimenti dell'evento aggrovigliavano senza sosta la mia mente; ciò mi suggeriva che, qualora avessi deciso di restarne fuori fin dall'inizio, quei pensieri mi avrebbero divorato nel tempo.
Poi lui parlò, interrompendo i miei pensieri; ritrassi appena il mento e lo guardai da sotto le sopracciglia, come se potessi così allontanarmi da lui ma al contempo tenerlo sotto controllo. Il modo in cui aveva guardato la sua mano, prima di aprire lievemente il pugno, mi aveva fatto intendere che non fosse completamente sicuro di non volermi fare del male. Mi diede quasi l'impressione che la rabbia che aveva palesato gli fosse quasi ignara. Quando la contrazione muscolare con cui artigliava il pugnale si allentò del tutto, quel ragazzo rimise a posto l'arma, mostrandomi i palmi bianchi con un'evidente arroganza. Ma come biasimarlo? Potevo forse sperare di ricevere un trattamento migliore, diverso da quello sprezzante che adesso muoveva le sue azioni?
« Dal modo in cui stringevi quel pugnale e mi guardavi sì, l'idea era quella. Ma felice di essermi sbagliata » dissi, alzando un sopracciglio, per nulla intenzionata a credergli. Ma, in effetti, cosa mi doveva? Non poteva darmi chiarezza e rispetto, non in quel frangente: seppur continuassi a mal digerire il tono che mi rivolgeva, sapevo bene che aveva ragione e che quelli non erano affari miei. Eppure... il mio pensiero era come un cane che si mordeva la coda, tornando sempre al punto di partenza: l'essere trattata con sufficienza e ritrovarmi a dagli ragione mi infastidiva in loop.
« Quel qualcosa che ti ha fatto intuire che tu non possa semplicemente andartene, sbaglia. Facciamo così quindi: ora tu te ne vai e ti fai gli affari tuoi e io mi faccio i miei e grazie tante. »
« Hai fretta di andare via? » dissi senza pensarci, con un sorriso appena visibile. L'idea di sfidarlo mi venne istintiva, prima ancora che lo decidessi lucidamente. In realtà non volevo sentire davvero la risposta, non m'importava; ero abbastanza certa che avesse voglia di recuperare il fuggitivo. D'altronde, se si vuole qualcosa da qualcuno, non si rinuncia perché si viene interrotti. Se la mia supposizione era esatta, avevo il coltello dalla parte del manico. Potevo rallentarlo, bloccarlo lì affinché perdesse completamente le tracce dell'altro, magari addirittura scoprire chi avevo di fronte - se un mago o un comune babbano -, smascherando le sue intenzioni, facendo sì che la curiosità che nutrivo nei suoi confronti si placasse almeno in parte.
Ma, tant'è, quei comportamenti non mi si addicevano affatto. Cosa avrei potuto fare, in fondo? Insistere? E mi interessava davvero saperne qualcosa, poi? O forse ero ancora piantata lì, nonostante il freddo e la notte che lentamente scendeva su Hyde Park, per altri motivi? Ovviamente era così. Ero ancora in quella maledetta e fissa posizione perché una parte infinitesimale di me non voleva andarsene. Che follia! Quello sconosciuto era magari un criminale e io l'avevo sorpreso in una situazione pericolosa e non volevo andarmene da lì? Di certo era colpa dell'improvvisa ripartenza di Rosalie che aveva scombinato le mie intenzioni pomeridiane e mi portava a sragionare. Sicuramente. Non avrei insistito ulteriormente, ché già quella frecciatina che mi ero lasciata sfuggire non era da me. Dovevo andare via. Muovere i passi, l'uno dopo l'altro, lasciare quel posto e quella fissazione, tornare a casa al caldo.
« E sia. Ognuno per la sua strada » dissi solamente, quasi tra me e me, distogliendo gli occhi da lui e facendo un mezzo passo indietro, avvertendo nuovamente quell'oggetto sotto la suola della mia scarpa. Così abbassai del tutto lo sguardo, quindi distesi un braccio verso l'erba e mi sporsi quel poco che mi consentì di afferrare l'oggetto tra le dita. Lo guardai per qualche attimo: era una chiave in pesante ottone, logora e consumata. Era fittamente lavorata, per quanto l'usura del tempo avesse levigato i dettagli. Era davvero strano che un oggetto del genere fosse lì; sicuramente qualcuno doveva averlo perso. Forse proprio chi avevo davanti?
Non riflettei che qualche breve secondo prima di metterla nella tasca opposta a quella che custodiva la bacchetta, quindi alzai per un'ultima volta gli occhi verso quel ragazzo. Feci qualche passo indietro, per non dargli immediatamente le spalle ed essere così vulnerabile, poi mi voltai con l'intento di andare via. Non sfilai le mani dalle tasche, che rimasero l'una a sfiorare il dorso freddo della chiave, l'altra quello decorato della bacchetta, pronta eventualmente ad una sua azione avventata.

 
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▲ Hyde Park, London | Late Afternoon ▼
Horus R. Sekhmeth



Una folata di vento gelido fece stormire quelle poche fronde che erano state risparmiate dall’inflessibilità dell’Inverno e dall’inevitabile caducità che portava con sé.
L’aria, come preda in fuga, si infilò fra gli stretti rami dei cipressi che circondavano quel limitare alberato dove Horus e la ragazza si squadravano, e l’impetuosità del vento staccò qualche foglia dai rami, facendo cadere un paio di galbuli che rotolarono a terra, attutiti dal fogliame di quelle piante, che invece, non avevano avuto la medesima fortuna dei sempreverdi.
Il freddo fece rabbrividire, impercettibilmente, il ragazzo e l’odore resinoso dei piccoli frutti legnosi andò a pizzicargli il naso in maniera terribilmente fastidiosa. Eppure, come se fosse stata un’eco lontana, Horus non vi badò, troppo impegnato nella sua posizione di stasi, per ricordare che tutto il resto era in movimento. Non seppe bene il perché, ma se si fosse mosso, pensava, avrebbe rischiato di rompere l’equilibrio, scatenando una serie di reazioni a catena che stava ancora finendo di elaborare. Avrebbe dovuto trattenere la ragazza almeno il tempo necessario per capire come sbarazzarsi di lei: un testimone, s’era detto, era pericoloso. Ma mentre quei secondi passavano e il parco andava svuotandosi dai suoi visitatori e gli animali andavano ritirandosi nelle proprie tane, Horus arrivò a chiedersi se non stesse davvero cedendo il passo a quel lato di sé che aveva rifuggito soltanto per l’enfasi del momento. C’era davvero motivo per Obliviare una perfetta sconosciuta, forse Babbana? In fondo, lui non aveva ammazzato quell’infame: certo, sì, il suo pugnale era stato chiaramente puntato contro la sua gola —ed Horus stesso non avrebbe potuto giurare che non l’avrebbe affondato fino a tranciargli la carotide— e la misteriosa donna di granito aveva persino creduto che lui avrebbe potuto farle del male —ed anche qui Horus ancora non era certo del contrario—, eppure, in fondo, davanti ad un qualsiasi giudice non c’erano prove; il pugnale poteva essere occultato con facilità. E quindi, a chi avrebbe potuto denunciarlo? Alla puolizia Babbana? Si sarebbe Smaterializzato al primo angolo utile.
A qualche autorità Magica? Avrebbe spiegato, a costo di tirar fuori Lysander (perché era solo colpa sua se si trovava in quella situazione).
No, si disse, piegando lievemente il capo e lasciando che il vento gli scompigliasse le ciocche vermiglie, sostenendo ancora gli occhi di lei. Poteva lasciarla andare.
Il pollice, nella tasca, sfiorò con delicatezza le venature del legno della sua fida arma: non esitava perché si fidava inspiegabilmente per chissà quali assurde ragioni. Esitava perché attaccare, in quel caso, fosse stata o meno una Strega, sarebbe stato rischioso e l’avrebbe messo con le spalle al muro: sì, questa era una buona giustificazione per tenersi a bada.
Non aveva prestato attenzione a quanto lei aveva detto in precedenza, o meglio, non aveva dubbi che la donna avesse considerato il pugnale il motivo per cui si sentisse trattenuta lì, ma alla seconda insinuazione, Horus non poté fare a meno di rispondere con uno sbuffo ironico.

« Molto perspicace, Miss. » *E scommetto che intuisci anche il perché.* Rispose sardonico, tirando fuori la mano destra dalla tasca, e sorridendole. Un sorriso che tuttavia cozzava con il suo sguardo, affatto incline a mostrare alcun divertimento.
*Vattene via.* Si ritrovò a pensare il Tassino, incapace di comprendere perché gli fosse difficile muovere un passo per allontanarsi da lì. L’istinto gli diceva che lei avrebbe potuto attaccarlo e mostrarle le spalle non era sicuro, ma la ragione gli ricordava che non c’era alcun motivo per cui lei avrebbe potuto farlo. Eppure l’adrenalina che gli era andata in circolo dapprima per l’inseguimento, ed in seguito per l’euforia e la febbrilità di avere nelle proprie mani la vita di un altro —per quanto vile—, lo rendevano molto più irrazionale, molto più incline a seguire l’istinto che la ragione, proprio come un animale selvatico.
La squadrò ancora: lei era anomala, proprio come quella folata di vento che era giunta all’improvviso, scombussolando i rami delle piante. Si stagliava fiera e fredda come il ghiaccio, senza alcuna espressione sul volto e l’impressione che la sconosciuta fosse simile a quel gatto che aveva incontrato tempo addietro, tornò a solleticargli la memoria e per riflesso, Horus ebbe uno spasmo della mano, quasi avrebbe voluto grattarsi via quel pensiero.
D’un tratto, infrangendo i secondi, la udì mormorare: comprese che lei stava abbandonando per prima, assumendosi l’incombenza del
primo passoed e una parte di Horus se ne sentì sollevata. Quando lei distolse lo sguardo, il senso di disagio venne meno, ma non il freddo: un altro brivido andò a scuotere il ragazzo ed il naso pizzicò con più intensità, tanto che l’arricciò senza rendersene conto. L’aura d’attesa e di studio s’era rotta e proprio mentre lui, ormai, ritrovava una tranquillità e una calma che ora vedeva con più facilità, notò la donna piegarsi e raccogliere qualcosa fra l’erba umida. Spalancò gli occhi quando lei si rigirò fra le dita la chiave. Horus aprì e chiuse la bocca, serrando la mascella ed irrigidendo, di riflesso, tutti i muscoli, osservando il piccolo oggetto come una gazza fa con il gioiello intravisto dal nido.
*E quello? Quando cavolo… Gli è scivolata nella fuga… * Si ritrovò improvvisamente le labbra secche e la gola arsa, rimanendo immobile per la sorpresa e la tensione, ma quando lei si infilò in tasca la chiave e gli rivolse un’ultima occhiata, prima di voltarsi, Horus agì.
« Ah! » Esclamò, anche e soprattutto per indurla a fermarsi o, quantomeno, a rallentare.
Allungò il passo, macinando in breve tempo la distanza che li aveva separati e le scartò davanti, bloccandole il passo, il mantello che gli frusciava alle spalle. Le era abbastanza vicino da non permetterle alcuna fuga e, al tempo stesso, qualora lei fosse stata una Strega, per evitarle di estrarre la bacchetta: una tale vicinanza sarebbe stata rischiosa per castare un incanto e sebbene questo andasse a discapito di Horus stesso, non poteva rischiare. In fondo, era la prima cosa che gli era passata per la mente e lui non era tipo da Schiantare qualcuno alle spalle.

« Quella chiave… è mia. Rendimela, per favore. » Non fu rude né implorante, ma il suo tono, per quanto cortese, non lasciava troppo spazio ai rifiuti. La chiave era sua, era sua di diritto: del resto, l’aveva pagata e aveva rischiato di perderla quando l’uomo era fuggito per colpa dell’arrivo di lei. Glielo doveva, no?
Allungò quindi il braccio sinistro, mostrando il palmo aperto, in attesa. Gli occhi continuavano a scrutare il viso di lei, ora più vicino, e si accorse delle piccolissime efelidi che le puntellavano i lineamenti, già osservate pochi metri più in là: pensò, per un istante, che sebbene queste fossero un elemento piuttosto comune sulla pelle altrui, su di lei si accostavano in modo curioso ai suoi lineamenti duri.
Era un bell’accostamento;
ma i suoi algidi occhi continuavano a turbarlo.




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Edited by Horus Sekhmeth - 5/1/2024, 15:40
 
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La
chiave era sua. Se non fosse stata una situazione tesa allo stremo avrei perfino sorriso. D'altronde, non poteva essere altrimenti; le coincidenze avevano sempre giocato curiosamente nella mia vita. Avrei dovuto seguire il mio istinto quando mi aveva urlato che quel pezzo di ottone così antico e decorato non poteva trovarsi lì per caso. Oppure avrei potuto lasciarla nell'erba, assecondando il sospetto che potesse essere di chi avevo di fronte.
Ma il mio inconscio mi suggeriva, in modi sottili, che avevo agito con cognizione di causa. Perché, altrimenti, non gli avevo chiesto se era sua? Perché l'avevo silenziosamente messa in tasca, davanti ai suoi occhi, per poi allontanarmi? La verità, sepolta tra le membra dei miei istinti, era che avevo notato l'oggetto, avevo sperato fosse suo e l'avevo preso con me, andandomene. Perché non volevo andarmene veramente.
Ecco il perché di quel sorriso che avevo a stento trattenuto. Era venuto a riprendersi ciò che era suo, ciò che probabilmente - visto il suo tono severo - era qualcosa da cui non avrebbe mai dovuto separarsi.
Quando mi ero voltata, d'altronde, l'avevo sentito esclamare e in una frazione di secondo era apparso davanti ai miei occhi, facendo arrestare il mio passo. Avevo perfino indietreggiato con il busto, restando con il piede destro sulla punta, poco più dietro dell'altro. Avevo alzato il mento - da vicino era abbastanza più alto di me - reclinando appena la testa per poterlo guardare negli occhi. Riuscivo così a distinguere precisamente i contorni della voglia rosea che aveva sul viso. Quella che inizialmente mi era parsa una lacrima era invece parte di un simbolo che avevo visto su qualche vecchio libro di mio padre. I miei ricordi mi avevano riportato indietro di poco meno di dieci anni, intenta a sfogliare un grosso tomo dell'Enciclopedia che papà aveva ereditato dal nonno e che mi aveva sempre affascinato. Nell'insieme, il suo occhio sinistro richiamava un simbolo della religione egizia, chiamato Occhio di Horus o qualcosa di simile. Avevo provato invano a ricordare che significato avesse, gradualmente rendendomi conto che lui aveva parlato, riportandomi bruscamente al momento attuale.
Insieme alla consapevolezza del presente, arrivò alle mie narici un forte profumo di muschio bianco mischiato a qualcos'altro. Il suo profumo. Una fragranza per me indecifrabile nella sua totalità ma che mi dava la sensazione di un odore molto maschile, nonostante la sua fisionomia fosse abbastanza androgina. Un po' come la mia.
Il tono che aveva usato non era stato scortese o supplichevole, ma così severo e deciso da non lasciar spazio ai tentennamenti. L'urgenza con cui mi aveva raggiunto e la sua fermezza mi suggerivano di non giocare al gatto e il topo troppo a lungo; dovevo dargli quell'oggetto. Non era mio; già che l'avessi raccolto e messo in tasca faceva di me una mezza cleptomane, cosa che non ero. Dovevo assolutamente smetterla di stringere quell'oggetto nella tasca e darglielo, poggiandolo sul palmo che ora mi mostrava aperto e candido. Dovevo. Forza, allunga la mano.
Mi scoprii paralizzata dalla sua presenza.
Mi sentivo una completa idiota per quella cosa, avevo avuto a che fare con diversi uomini, primi fra tutti i miei migliori - e unici - amici, ma anche con molti estranei - e per cose molto più intime - e adesso quel ragazzo, forse persino più piccolo di me o comunque al massimo mio coetaneo, mi destabilizzava. Una cosa impensabile! La sua presenza riempiva lo spazio antistante al mio corpo e mi sembrava d'avere le gambe molli, la bocca dello stomaco attorcigliata e la gola secca. Deglutii. Perché ero schiava dei colpi di fulmine? Non era la prima volta che mi capitava - anche se non con quell'intensità. Era raro che qualcuno potesse piacermi in seguito ad una costante vicinanza, anzi, magari capitava l'opposto. Era frequente, invece, che m'invaghissi d'impatto, ma c'era anche da dire che capitava altrettanto velocemente che me ne stancassi. Fatto indiscutibile era che, in quel contesto, quello che provavo fosse totalmente fuori luogo.
Corrucciai le sopracciglia al centro, dischiudendo la bocca qualche istante prima di cominciare a parlare. « La chiave era accanto a me. Perciò due sono le storie plausibili » dissi, spostando le mie pupille nelle sue. « O l'hai persa in un frangente precedente a quello in cui sono apparsa io, oppure l'ha persa il tipo scappato poco fa. » Feci una pausa, stringendo sia la bacchetta che la chiave tra le dita nelle rispettive tasche. « Se fosse vera la seconda ipotesi, magari ti ho visto mentre minacciavi un uomo per rubargli un oggetto. E quel malcapitato l'ha anche perso per sfuggirti. » Un'altra pausa, osservando una sua eventuale reazione. « Oppure, e preferisco credere a questa versione, quel tipo ha rubato a te questa chiave e tu stavi solo cercando di riaverla. » dissi, sviscerando ad alta voce il mio ragionamento. « Perciò, ti darò la chiave. E me andrò » conclusi a voce leggermente più bassa, più per ricordalo a me stessa. « Non voglio stare qui un minuto di più » aggiunsi rapidamente, sbattendo le palpebre e abbassando appena lo sguardo. Mi sentii confusa. Mi accorsi di tremare appena quando estrassi la mano sinistra dalla tasca. Spostai il peso dell'oggetto verso la punta delle dita, stringendolo maggiormente tra indice e pollice. Esitai per qualche secondo, ché quasi ebbi paura di toccare la sua pelle. Il contatto con gli altri mi aveva sempre infastidito. Non amavo le strette di mano, qualora non fossero necessarie; amavo ancor meno gli abbracci casuali e non pienamente indispensabili; odiavo, praticamente, le pacche sulla spalle, le mani sul viso di chi cercava la mia attenzione o pensava di compiere un gesto affettuoso, il ticchettio delle dita sul braccio per farsi guardare. Insopportabili. Avevo un margine - abbastanza ampio - di tolleranza solo con Didi e Kappa ed ovviamente con Rosalie. E in certi momenti. Per il resto, fulminavo con lo sguardo chiunque provasse solo ad accennare un movimento nei miei confronti.
In quell'occasione, ad avere necessità di sfiorarlo ero io; e, dato il breve quanto accennato contatto, la cosa non mi avrebbe per nulla infastidito. Eppure, esitavo.
Sbattei nuovamente le palpebre, prendendo un respiro, completando l'azione che mi condusse ad un briciolo di distanza dal suo palmo. Azione bruscamente interrotta da un'ombra nera che apparve nel mio campo visivo per poi volare via.
« Ah! » esclamai, spostando il capo e il busto all'indietro, spaventata. La mia mano era vuota e meccanicamente i miei polpastrelli freddi avevano toccato la mano di lui, come se l'improvvisa apparizione fosse stata così irreale da considerarsi trascurabile. Ma la chiave era sparita. Ritrassi la mano e mi voltai verso sinistra, cercando con gli occhi, nel buio quasi completo di Hyde Park, il colpevole.
Una gazza ladra stava appollaiata su un ramo alto di un albero secolare, le piume lucide e perfettamente ordinate, con la chiave nel becco.
« Che diavolo- » biascicai, restando con la bocca dischiusa, non trovando le parole per descrivere quell'assurda situazione. Ero sicura che se avessi fatto un passo nella direzione della gazza, quella avrebbe spiccato il volo allontanandosi ancora di più; senza pensare che avrebbe potuto decidere di riprendere il suo volo anche se fossi rimasta immobile, magari diretta al suo nido per mettere al sicuro il bottino. L'ideale sarebbe stato poter usare la bacchetta e provare anche semplicemente un Accio chiave, ma non potevo farlo senza sapere se con me c'era un mago o un babbano. Obliviarlo e ritrovarmi, magari, a dover fare rapporto non rientrava esattamente nei miei piani.
Passare da Hyde Park era stata senza dubbio una pessima, pessima idea.


Edited by .Urania - 20/1/2017, 00:05
 
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view post Posted on 12/3/2017, 19:41
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C’era qualcosa di strano, in lei. L’aveva osservata in precedenza e già dal primo momento in cui i loro occhi grigi si erano incrociati, Horus aveva saputo che quella ragazza era anomala.In che contesto e quanto fosse positivo quel dato di fatto ancora doveva valutarlo. Tuttavia, quella strana cautela, quella tensione che sembrava intorpidire le membra pallide di quella giovane donna sembravano comunicare una sorta di… magnetismo. Sì, la sconosciuta emanava come una sorta di campo magnetico, una forza attrattiva completamente opposta alla sua e quasi ci fosse stato un muro invisibile, Horus sembrò quasi sentire quella parete frapporsi fra loro due. Al contrario, però, anziché sentire repulsione, il Tassino sentiva che lei era attratta al di là di tutto. Oh, Horus non era quel tipo di persona così sveglia in grado di rendersi conto dei sentimenti altrui. Era tutt’altro che empatico e per capire se qualcuno provava attrazione fisicaper lui dovevano dirglielo in venti. No, quel che percepiva dalla sconosciuta era diverso, sembrava quasi che lei non volesse andarsene da lì, come se sulle sue sottili labbra gravassero domande e curiosità che tuttavia, per orgoglio, per pudore, per semplice, banale e schiva natura umana, ella non pronunciava. La vide titubare alla sua richiesta, la mano sinistra che indugiava nella tasca che celava la chiave; il ragazzo alzò lo sguardo verso il viso stentoreo e vide, fra le sopracciglia nere ad affilate come sbuffi d’inchiostro, una piccola ruga generata da chissà quali dilemmi interiori. Piegò il capo di lato, a sua volta corrugando la fronte, confuso da quell’atteggiamento. Si chiese quanto ci volesse a consegnare una semplice chiave, cosa la spingesse fino a quel punto d’indecisione e d’un tratto la voglia di prenderla per le spalle e scrollarla fu così intensa che Horus fu costretto a serrare il pugno destro.
Per quanto cercasse di negarlo a se stesso e di non mostrarlo a lei, era agitato e il timore che lei potesse negargli la chiave, costringendolo così ad usare la Magia, lo faceva sentire irrequieto. Cercò di non mostrare il suo stato d’animo, ma quando lei cominciò a parlare, con voce chiara, esponendo quelle che potevano essere due ipotesi, Horus gemette d’impazienza.
Spostò il peso sulla gamba destra, alzando il viso verso l’alto, esasperato, il braccio sinistro che ricadeva lungo il fianco, arreso.
Oh Amon, stava pregando, perché tutte oggi? Perché non me ne va bene una?
Già si vedeva arrivare in ritardo, subirsi le lagne di Lysander e tanti cari saluti a quelle due settimane di ferie che voleva chiedergli. Perché ecco cosa rappresentava quella preziosissima chiave: il lasciapassare per la sua libertà in vista della sua missione a Villa Cavendish. Ma con l’Ars Arcana in mezzo alle scatole, s’era detto, non avrebbe potuto muoversi con discrezione: cedere a quel compito tanto rognoso era un modo per ingraziarsi l’anziano proprietario e riuscire, così, a strappargli i giorni di permesso da giustificare con “visita a mia nonna” per chiunque avesse potuto indagare.

*Avanti, Ra, dille la verità e tanti saluti.* Si ammonì, riportando lo sguardo verso di lei, ma rimanendo stupito da quanto le sue parole cozzavano con le sue palesi intenzioni. Una parte di sé si sentì sollevata nell’udire che gli avrebbe reso la chiave senza tante spiegazioni; ma fu impossibile non notare come il suo desiderio di andarsene (che ribadiva con tanta decisione nella voce) non rispecchiasse affatto quel che, forse, desiderava, con quello sguardo puntato verso il basso: ed eccola lì, quella forza gravitazionale che spingeva una mera sconosciuta a rimanere ancorata alla sua presenza e, più confuso di prima, Horus vide la mano di lei tremare lievemente.
« Non mi sembri molto convinta. Credo sia la terza volta che dici di volertene andare eppure sei ancora qui. » Esordì improvvisamente, senza riuscire a tenere a freno la lingua. Non seppe descrivere il tono con cui formulò quell’osservazione: forse era stato atono, forse una punta di curiosità s’era insidiata fra le parole, forse c’era anche un rimprovero, fra questa o quell’altra intonazione.
Tuttavia, Horus allungò ancora una volta la mano, mostrando il palmo, in attesa. L’avrebbe incalzata volentieri, quasi strappandole dalle dita la chiave, tanto era la sua angoscia di recuperare l’oggetto e tornarsene a Diagon Alley. Scoprì, invece, di essere estremamente incuriosito da come quel semplice gesto sembrava riuscire incredibilmente difficile alla donna. Lei respirò a fondo, quasi trattenendo l’aria, strinse l’ottone fra le dita, fremette appena: dava l’idea che quel semplice movimento le costasse una fatica incredibile, come se il suo braccio e le sue mani non si fossero mosse per decine d’anni, intrappolate da chissà quali catene.
Forse aveva paura? Il pensiero di incutere timore in quella donna lo fece sorridere tanto che una fossetta gli si dipinse sulla guancia destra. Meschinamente si sentì soddisfatto di generare quel tipo di reverenza, mentre la Ragione gli diceva che avrebbe dovuto tranquillizzarla: visti i presupposti e la sottile minaccia che lui stesso aveva avuto premura di farle, poteva essere un atteggiamento naturale, quello di lei. Ecco spiegato, pensò proprio in quei frangenti, cosa poteva essere il Motore di quella forza che spingeva lei a rimanere inchiodata in quell’angolo di parco, ostentando un’indifferenza che, però, non sembrava appartenerle.
Proprio quando Horus sentiva di aver risolto l’enigma e quando la soluzione si andava adagiando sul suo palmo aperto, accadde ancora una volta l’inevitabile. Fu un lampo nero di piume ed artigli a strappare la chiave dalla mano della donna, lasciando che solo le sue dita vuote si poggiassero su quelle di Horus.
Trattenendo un’imprecazione, il Tassorosso sobbalzò, ritraendo la mano, spostando lo sguardo verso il viso della ragazza, poi cercando il fautore di quel furto. La risposta la diede la colpevole stessa, gracchiando gutturalmente di soddisfazione, mentre si adagiava con tutto il suo peso sul ramo di un vecchio pioppo.

« Damn*. » L’improperio venne quasi ringhiato in una lingua secca e sconosciuta e prima che Horus si potesse render conto della sua stessa azione, il braccio era corso alla tasca dei pantaloni, aveva estratto la bacchetta e l’aveva puntata con contro il pennuto con un gesto fluido e preciso.
*Immòbilus!* La formula fu evocata con decisione, mentre nella mente si palesava l’immagine della gazza completamente immota. Il braccio, disteso e perpendicolare, e la bacchetta dritta verso il cuore della creatura catalizzarono la Magia e l’incanto si liberò con velocità, immobilizzando la gazza proprio mentre questa stava spalancando le grandi ali nere e bianche.
Le foglie oscillarono appena ed il ramo sembrò sul punto di spezzarsi, ma tutto rimase, per un lungo istante, completamente in silenzio. Finché Horus, conscio di aver rotto l’idillio precedente e di aver svelato, seppur in parte, la propria identità, fece saettare la bacchetta dalla gazza al viso della sconosciuta. Il suo volto, duro, non esprimeva alcun sentimento. Dentro, invece, Horus sentiva il cuore esplodere: se lei fosse stata una Babbana, si diceva, avrebbe complicato le cose se il Ministero fosse venuto a conoscenza di quell’incidente. Avrebbe dovuto spiegare a Camille e Lysander avrebbe scoperto che le cose non erano filate lisce e tutta una serie di spiacevoli conseguenze cominciarono ad affollarsi nella sua testa al punto che la voglia divenne più rossa per l’afflusso di sangue.

« Identificati. » Le ordinò, puntando gli occhi verso quelli di lei e studiando, pieno di tensione, ogni sua mossa. Un Babbano non avrebbe certamente compreso, avrebbe balbettato, avrebbe mostrato una qualsiasi reazione alla Magia ed Horus pregò tutti i suoi Dei affinché questo non accadesse.
Non gli passò neanche per la mente, in mezzo a quella miriade di risvolti possibili, che la donna potesse essere, sì, una Strega, ma qualcuno in grado di metterlo seriamente nei guai nel Mondo Magico.





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Era
ormai buio. Il cielo s'era colorato del blu dopo il tramonto, un colore irripetibile e bellissimo che esibiva sfumature di viola, così intenso e pungente che mi aveva sempre costretto a restarne incantata, desiderosa di fissare l'istante che, rapido, fuggiva via. Così, oltre le spalle di quel ragazzo alto dai capelli rossi, il paesaggio andava nascondendosi e mischiandosi, non era più facile distinguere bene i contorni delle cose e sembrava aumentare l'idea che, in quel momento, fossimo solo noi due.
« Non mi sembri molto convinta. Credo sia la terza volta che dici di volertene andare eppure sei ancora qui. »
Non mi ferivano nemmeno le sue parole, che in altri momenti avrei ritenuto odiose. L'essere capita così nel profondo, l'essere messa in scacco, l'essere prevista e anticipata. L'essere derisa, perfino. Quel sorriso, quello che mostrava chiaramente quanto fosse inebriato - dalla mia paura? - dalla mia esitazione. Ma non c'era più nulla, non più Hyde Park nella sua caotica vastità, i turisti, i residenti, gli scoiattoli, gli uccelli, gli amanti, i vecchi lenti, i bambini inquieti, il rumore del vento, il sapore di umido dell'aria gelida, il freddo, il futuro. Non c'era.
Quell'istante fissato nel tempo l'avevo forse raggiunto?
Potevo afferrarlo, adesso, quel colore?
La gazza ladra apparve in tutta la sua splendida indifferenza ma non alterò l'istante, seppur i miei occhi ne dovettero seguire il movimento fino a quel ramo alto - e non ne alterò la magia, certamente facendo sì che il tempo tornasse a scorrere rapido ma aiutandomi a distogliere l'attenzione da quel cielo, evitando che rimanessi ferita dal suo impellente cambiamento. Perché sarebbe cambiato. Sarebbe diventato nero pece, e lo sapevo bene io quanto quell'uccello che niente aveva il privilegio di durare per sempre.
Sbattei le palpebre quando sentii imprecare il ragazzo in una lingua a me sconosciuta e, prima che me ne rendessi conto - probabilmente, prima che entrambi potessimo - lui aveva già estratto la bacchetta e l'aveva puntata contro la gazza. L'incanto lasciò il legno rischiarando per un secondo l'aria fra noi, infrangendosi sul corpicino dell'animale e immobilizzandolo. Anche il mio respiro si fermò per un istante, quasi come se io stessa avessi subìto quello che era toccato al povero uccello. La brutalità di quel gesto contrasse involontariamente la mia fronte ma quell'impellenza mi confermò solo ulteriormente la sua smania di riappropriarsene. Cos'era quella chiave? Quanto era importante? Cosa apriva? Scoprire che fosse un mago, invece, non aveva esercitato su di me chissà quale sorpresa; un po' l'avevo sospettato, un po' - forse - l'avevo sperato. Sperato? E a che pro, poi? Se fosse stato un comune babbano, l'avrei avuta vinta molto più semplicemente. Che fosse un mago non andava esattamente a mio favore - anzi, che fosse un mago e che in quel momento io fossi l'ostacolo che gli metteva i bastoni tra le ruote non andava assolutamente a mio favore. All'addestramento auror ci avevano insegnato a gestire ed arginare abbastanza bene le situazioni in cui erano coinvolti civili babbani - seppur io avessi ancora tanto da imparare. Le situazioni in cui era coinvolta la magia erano perfino meno spinose perché si agiva in casa e non ci si doveva preoccupare di celare e dissimulare tante cose. Ma ogni situazione aveva i suoi pro e i suoi contro; e certamente, in generale, avere a che fare con una persona armata quanto - o più - di te non è mai un bell'affare. Ed anche in quei casi le procedure erano svariate e la burocrazia lacunosa e io avrei volentieri evitato di dovermi trovare ad usare la magia in un luogo babbano - ma quando mi puntò la bacchetta al viso ebbi poco su cui riflettere.
In quel momento ebbi un leggero sussulto e incatenai il mio sguardo nel suo: il suo volto duro e inespressivo ma così determinato mi fece temere che volesse uccidermi e farla finita, una volta per tutte. Da quella distanza potevo chiaramente vedere la voglia sotto l'occhio scurirsi; da rosa era divenuta rossa e le iridi parevano perfino più chiare, come un lago freddo e paurosamente calmo. Dischiusi la bocca e mossi rapidamente le pupille nelle sue; volevo dire qualcosa, volevo - diamine se volevo. Volevo dirgli chi ero, riacquistare la freddezza e la severità che mi contraddistingueva e ritrovare la lucidità che mi serviva in quel momento. E le sue parole, gelide, mi aiutarono non poco a tornare, a ricalarmi nel contesto. Il tutto durò pochi secondi dalla sua richiesta di identificazione ma nella mia mente ne passarono almeno centotrenta.
Le dita della mia mano destra si strinsero nella tasca, attorno alla bacchetta. Percepii la tensione tornare a vibrare in ogni fibra muscolare e i miei sensi si acuirono, pronta a rispondere ad un'eventuale offesa, come mi era stato insegnato, come era necessario nel mio lavoro. Non potevo esitare, non potevo mostrare preoccupazione, incertezza, paura. Non dovevo mostrare indecisione.
« Sono una Strega » dissi, alzando appena il mento ma non lasciando nemmeno per un istante i suoi occhi. « E visto che siamo passati alle minacce, ti dico anche che sono un Auror. Gradirei perciò da te una spiegazione un po' più accurata sul perché fossi qui, perché minacciassi quell'individuo e - magari - su cosa sia quella chiave. Ma prima, comincia col dirmi il tuo nome. E la tua età. Sai, so essere una persona molto curiosa » aggiunsi con un leggero sorriso, ritrovando man mano la forza e celando al meglio che potevo quelle briciole fastidiose di incauta esitazione. Parlai con decisione ma con notevole calma, come se avessi completamente il controllo della situazione. Per rimarcare la mia posizione, infilai la mano sinistra nella tasca frontale dei pantaloni - spostando così leggermente il bavero del cappotto per rivelare il profilo del distintivo Auror - e tirai fuori la mano destra, con la bacchetta in pugno, abbandonata sì lungo il fianco destro ma con la punta rivolta verso il corpo di quello sconosciuto.

 
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Horus R. Sekhmeth

Quante possibilità c’erano che fra tutte le persone in giro a bighellonare per Hyde Park, Horus incontrasse un Auror? Non solo, ma non contento di ciò l’aveva anche minacciata, se non a parole, con chiari gesti. Quella notizia gli caracollò addosso come un masso da dieci quintali, ma se il cuore accelerava la sua corsa per la sorpresa, nulla si scompose nella maschera di granito che aveva assunto. Continuò a squadrare la donna senza muover né un passo, né senza una parola, la bacchetta ancora puntata verso di lei. Era per questo che lei aveva titubato fino a quell’istante? Per questo i suoi freddi occhi avevano continuato a cercarlo, a dispetto di quanto le sue parole esponessero? Un’attrice brava tanto quanto lui, dovette ammettere, osservando il fiero cipiglio che ora caratterizzava quei lineamenti marmorei.
Ma, in fondo, lui era in una posizione di vantaggio, gli diceva una voce dentro di sé: posa la bacchetta, evoca Hagalaz
uccidila. Non ti sta minacciando? *Lo sta facendo?* Sì, sì, ti sta minacciando, non vedi quel lucente distintivo che descrive chiaramente la tua posizione di inferiorità? Non vedi la bacchetta rilasciata lungo il fianco, ma la cui punta è miseramente puntata verso di te? —continuava la voce. Si è finta un’ingenua per incastrarti, seguire i tuoi movimenti e ti ha anche fregato la chiave di Lysander. Ora ti guarda con un’espressione diversa, dura, quasi saccente: i suoi algidi occhi sembra quasi che vogliano dirti: “Ti ho incastrato e te la farò pagare”.
Uccidila, Ra, uccidila.
E in risposta a quell’ordine, il cuore pompò il sangue con ancora più vigore, eccitato dalla frenesia che precedeva quel desiderio. Sì, perché in fondo nessuno l’obbligava a farlo: era suo desiderio, intimo, terribile e spaventoso, quello di uccidere di nuovo, sentire dentro di sé la bramosia sfociare in qualcosa di assai simile all’atto divino.
*No.*
Replicò improvvisamente a quel dialogo interiore con più decisione; ricordò le parole di Camille, ricordò il dolore e il senso di colpa che aveva provato ripensando a cosa sarebbe accaduto se avesse ucciso per sbaglio un innocente. Lentamente, celando il tremore che ora aveva cominciato a sconquassargli le dita della mano sinistra, Horus allontanò la bacchetta dal viso della donna. Con un gesto fluido, la puntò, invece, verso la gazza immobilizzata, Appellando mentalmente la chiave che volò nella sua mano destra, tesa.
Fu un gesto necessario: se non avesse scaricato la tensione della Magia in qualche modo, forse avrebbe ceduto a quel sordo richiamo che ancora gli rimbombava nella mente. Rimbalzava da una sinapsi all’altra finché Horus non divenne nient’altro che il contenitore di quella voce.
Si disse che fu a causa del nervoso accumulato fino a quel momento, dell’eccitazione che l’aveva posseduto quando la lama del suo pugnale aveva sfiorato il collo vile di quell’uomo, a spingerlo a quel pensiero.
Non stava cadendo ancora nel baratro, si ripeté, mentre lentamente rinfoderava la bacchetta nella tasca dei pantaloni antracite, osservando quel suo stesso gesto come se fosse stato uno spettatore esterno.
Era tutto ok: non aveva ucciso nessuno, né l’avrebbe fatto perché la sua vita non era in pericolo.

*Non è vero? Pensa a salvarti la faccia piuttosto.*
« Avevo un accordo con quell’uomo: lavoro per un negozio di antiquariato, quel tizio lì ci aveva venduto un vecchio scrigno appartenente a suo nonno, ma ci ha truffati. Non ci ha dato la chiave e poiché c’è un incanto sconosciuto che protegge la serratura, abbiamo capito di esser stati fregati. Quindi, il mio capo mi ha mandato a comprare la chiave, ma l’uomo dopo aver intascato il denaro è scappato. Stavo solo riprendendo ciò che avevo pagato e fino a prova contraria è lui che ha colpito me. » Per avvalorare quel punto, la mano sinistra sfiorò lo stomaco ancora indolenzito. « Se vuoi controllare, il negozio è Ars Arcana, Diagon Alley. » Raccontò con apparente tranquillità quella che era una mezza bugia: si guardò bene dal dire che sì, erano stati truffati, ma che quel vecchio scrigno non giungeva dalla soffitta di un nipote a corto di soldi, ma da luoghi non ben identificati e non propriamente legali. Horus aveva sospettato che fosse stato rubato, ma Lysander non l’avrebbe mai ammesso. Deglutì, mandando giù l’agitazione: se la sconosciuta avesse chiesto conferma al suo capo, lui sarebbe stato al gioco, ma una volta allontanato il pericolo si sarebbe sfogato su di lui come una furia. Poteva già sentire i suoi improperi: “Ti avevo affidato un compito di massima discrezione e ti sei fatto infinocchiare da una donna!” o “Cosa devo fare con te? Lo sai portare a termine un incarico o vuoi farti sgamare da mezza Londra?” o peggio di tutto “Avrei dovuto chiedere a Mya, è molto più discreta di te”.
Horus represse una smorfia a quel fastidioso pensiero, giocherellando con la chiave fra le dita. Abbandonò per un istante gli occhi dal viso di lei, per concentrarsi sui riflessi dorati che l’oggetto regalava, baciato dal sole morente. Avrebbe dovuto dirle il suo vero nome?

*Se va davvero all’Ars, lo scoprirà. Tanto vale.*
« Il mio nome è Horus Sekhmeth e ho diciott’anni: il Ministero vuole impedirmi di immobilizzare gazze che mi hanno rubato un oggetto? »
La frase gli uscì più tagliente del previsto ed un sorriso beffardo gli increspò un angolo delle labbra. Sapeva di star giocando con il fuoco, ma l’idea di chinarsi a quello stesso Ministero che disprezzava —nonostante Camille— gli faceva ribollire il sangue, mandando a quel paese la prudenza. Sii cauto, si ammoniva però, chiudendo la chiave nel pugno e allungando entrambi i polsi verso la donna.
« Mi vuole arrestare, agente senza nome? » Sussurrò, piegando di lato il capo facendo così ricadere sul viso delle ciocche vermiglie, un’espressione drammaticamente innocente dipinta sul viso: le sopracciglia corrucciate e le labbra schiuse in un lieve broncio.

Se non ti crede, puoi sempre ucciderla, Ra.




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Edited by Horus Sekhmeth - 5/1/2024, 15:41
 
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Era
più giovane di me, proprio come sospettavo. Due anni appena, eppure ero dannatamente consapevole di quanto sembrassi più piccola di lui dall'esterno. Non solo mi sovrastava con la sua altezza - senza contare che una sua mano era tipo il doppio della mia - ma rischiavo anche di venir sopraffatta dai suoi modi sicuri e autoritari.
Era, in genere, una cosa con cui avevo sempre dovuto fare i conti; in quanto donna, in quanto mingherlina. In quanto donna, avendo scelto un lavoro pressoché maschile, farsi rispettare e risultare credibile era una mia costante priorità. In quanto mingherlina - nonostante una discreta altezza mi donasse una presenza più convincente - dovevo spesso fare i conti con chi pensava, guardandomi di primo acchito, che fossi troppo piccola per determinati incarichi. L'essere sottovalutata era una cosa che mi infastidiva - ma, in effetti, si volgeva spesso a mio vantaggio - e reagivo male quando qualcuno cercava di mettermi in scacco.
Nel caso attuale, avrei potuto lasciare andare quel ragazzo, chiudere lì quella lunga vicenda evitando di ingigantirla ulteriormente; avrei potuto lasciar correre, magari decidendo comunque di fare un sopralluogo al negozio in cui lavorava. In effetti, avrei potuto lasciarlo perdere fin dall'inizio: non è che l'avessi visto compiere chissà quale malefatta. Ma mi intestardii dopo le sue parole arroganti. Non mi aveva detto niente di troppo irrispettoso ma il tono con cui parlava e il modo in cui sottilmente mi sfidava mi fece capire che pensava di avere la vittoria in pugno. E la cosa non mi piacque per niente. Inoltre, c'era sempre qualcosa che mi spingeva a pensare che quel ragazzo non mi stesse dicendo tutta la verità. Un mix letale: la voglia di non essere sopraffatta e la curiosità. La curiosità era un mio punto debole; per seguire una pista e scoprirne tutte le carte avevo più volte rischiato tutto. Ero una persona testarda, fin troppo. Non riuscivo a lasciare correre - e Merlino solo sapeva quante volte Rosalie mi aveva rimproverato per questo atteggiamento.
Ripensai a quando, a tredici anni, ero così determinata a scoprire di che animale fossero alcune impronte che io e mia sorella avevamo trovato, che non mi ritirai per cena, restai nel bosco ben oltre il tramonto e feci preoccupare tutti tantissimo. Mio padre venne a cercarmi con la torcia e mamma con la bacchetta alla mano, Rosalie tremava e piangeva. Li sentii chiamarmi e seguii la loro voce per trovarli; mi presi una ramanzina incredibile ma l'indomani ero nel bosco a seguire quelle stesse tracce, avendo promesso però di non attardarmi più oltre un certo orario. Mia madre diceva sempre che avevo la stessa testa di papà, dura come il cemento. Inizialmente pensavo fosse una cosa piuttosto negativa ma, col tempo, avere una certa determinazione mi tornò utile: nelle amicizie, a scuola, a lavoro. Ero discretamente fiera di com'ero venuta su ed ero convinta lo fossero anche i miei. Di certo, quella determinazione un po' incosciente aveva aiutato a far sì che rafforzassi il mio carattere. Carattere che, mi sembrava, condividesse in parte proprio il ragazzo che avevo di fronte.
Ero sicura che non avrebbe ceduto. D'altronde, avrebbe potuto abbassare leggermente il capo, dispiacersi dell'impressione che aveva dato, fornire delle vaghe scuse, farsi irretire dall'autorità che donava il mio distintivo. Farmi capire, insomma, che sapeva restare al suo posto. Ma non era così.
Horus Sekhmeth. Il suo nome mi piaceva un sacco. Nonostante assomigliasse più ad un irlandese od ad uno scozzese che ad un egiziano, la strana voglia sotto il suo occhio sinistro mostrava con evidente contrasto l'intreccio di culture che doveva esserci alla base della sua nascita. Incontrarlo in un altro contesto mi avrebbe dato certamente la possibilità di conoscerlo e qualcosa mi suggeriva che avremmo potuto stabilire perfino un'intesa. Ma, nel momento attuale, non c'era spazio per domande e discorsi troppo amichevoli.
Lo vidi poi chiudere la chiave nel pugno e sporgere i polsi verso di me, lattei e irradiati di vene verdastre. Inclinò appena il capo e mi sfidò ulteriormente. Le parole erano profonde e roche, data anche la vicinanza che avevamo. Mi parve bellissimo. Nonostante cercassi di non pensare a questo inconveniente ero irrimediabilmente attratta da lui. E mi maledicevo ogni secondo che passava.
Non l'avrei di certo arrestato - o forse sì? Mi sarei potuta divertire facendogli credere di averne la facoltà. Sorrisi mentalmente dell'assurdo pensiero che sfiorò la mia immaginazione e sollevai gli occhi nei suoi, grigio chiaro come i miei.
«Facciamo così, ti propongo un accordo. Ora che hai recuperato la chiave, tornerai al negozio per darla al tuo capo, no? Vengo con te. Come un'amica di vecchia data. Vedrò con i miei occhi se lavori davvero lì e, eventualmente, cosa ti dirà il tuo capo in mia presenza» sorrisi, guardandolo da sotto le mie sopracciglia scurissime. «Non dirò nulla né farò domande. Voglio credere che sia tutto lecito come dici, ma certamente se andassi a chiedere di te al negozio in questione, e tu lavorassi davvero lì, il tuo capo saprebbe che ti sei fatto notare per atti non molto chiari in un luogo pubblico ed esposto. E, anche se entrambi foste nel giusto, la mia presenza e le mie domande in qualità di Auror non sarebbero molto piacevoli, che dici?»
Inclinai appena il capo a destra continuando a guardarlo; una ciocca nera scivolò sulla mia pelle chiara e mi urtò il naso. «E visto che stiamo per diventare amici di vecchia data, il mio nome è Urania. Urania Donovan. Ma puoi chiamarmi Rue.»
L'accordo che gli proponevo mi pareva abbastanza vantaggioso. Se mi avesse ascoltato, non l'avrei messo in difficoltà. Se avesse accettato di portarmi con sé al negozio, avrei fatto da spettatrice senza arrecare fastidio alcuno. Se, invece, avesse preferito non scendere a quel compromesso - sia dicendo di no sia fuggendo a metà strada dopo aver finto di acconsentire - sarei andata all'Ars Arcana a creare un po' di scompiglio e dissapore.
Le domande, soprattutto quelle con un distintivo, non fanno del tutto piacere nemmeno alle persone più oneste.



Ciò che dice Urania va letto con innumerevoli frufrufrufrufru al seguito :fru:



 
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Se c'era una cosa che gli veniva maledettamente bene, era arrossire nei momenti meno opportuni.
Se ne rese conto perché le sue guance, fino a quel momento insensibili per la brezza serale che s'era alzata al tramontar del sole, avevano cominciato ad emanare calore, mentre le orecchie, se possibile, avevano raggiunto la temperatura del fuoco. Stupido idiota, si rimbrottò mentalmente come se questo avrebbe potuto nascondere il rossore della voglia sull'occhio e sulle gote, che cavolo arrossisci? In fondo
Urania (un nome che, in un'altra occasione, avrebbe ritenuto affascinante al punto da spingerlo a chiederne l'origine alla proprietaria) non aveva detto niente di eccessivamente ambiguo. O forse sì? “Atti non molto chiari in un luogo pubblico ed esposto”. *Ma veramente sei tu che sei venuta fra le frasche ad impicciarti.* Avrebbe voluto replicare con acidità, rispondendo a tono a quella criptica ed imbarazzante affermazione. *O forse il malizioso sono io... no. L'ha fatto apposta.*
Serrò invece la mascella, costretto a capitombolare di fronte quell'esecrabile trappola; che stronza, pensò. Non l'avrebbe mai detto, ma ora era lei ad avere la bacchetta dalla parte del manico. Rimase in silenzio qualche istante, valutando il da farsi. Concentrandosi sui vari risvolti, il rossore scemò dagli alti zigomi, indugiando tuttavia sulla punta delle orecchie, fortunatamente confuse con le ciocche dei capelli che lì si arricciavano. Si morse un labbro, indeciso, aggrottando lievemente le sopracciglia nel tentativo di valutare pro e contro di quell'offerta.
Portare Urania all'Ars Arcana, pur con una scusa così dozzinale, avrebbe potuto insospettire Lysander? Quanto avrebbe creduto alla storia dell'amica d'infanzia? Abbastanza, si rispose con sincerità: aveva la fortuna di essere una persona discreta quanto il suo capo, più incentrato sul lavoro che sui fatti personali dei suoi garzoni. “Stupidaggini inutili, qua si guadagna vendendo, non ascoltando i vostri affari”, aveva borbottato una volta quando ancora lui e Mya si parlavano e si raccontavano qualcosa. Cacciò l'infingarda stilettata di nostalgia da qualche parte, in fondo allo stomaco, per concentrarsi sulle varie vie di fuga di quello che gli sembrava, più che un aiuto, un cappio al collo. Uccidere Urania era fuori discussione ormai: lottando con ostinazione contro la voce che lo aveva martellato fino a quel momento, non sentiva più quella
pulsione e l'adrenalina era svanita al punto da rendere chiaro il richiamo della Razionalità. Non era in pericolo di vita, s'era ripetuto ancora e ancora, sentendo svanire l'eccitazione dell'omicidio che l'aveva animato finché la situazione non aveva raggiunto risvolti decisamente meno tragici *E più piatti*. Sentiva il cuore battere dolorosamente e le gambe farsi più deboli man a mano che la frenesia lo abbandonava. Non lo diede a vedere, non di fronte a lei e fu lieto di concentrarsi su altro, su quel campanello d'allarme che gli risuonava ostinatamente in testa da quando la Donovan aveva aperto bocca esponendo il piano. Qualcosa non quadrava, ne era sicuro. Non era poi così azzardata l'ipotesi che l'Auror avesse recitato il ruolo della fanciulla indifesa e spaventata dal bruto criminale per cercare di incastrarlo, ma allora perché gli offriva una soluzione tanto vantaggiosa? Horus non ci avrebbe perso niente, se non la pazienza dopo qualche ramanzina di Lysander sugli amici trascinati sul luogo di lavoro (già lo sentiva: “quantomeno che compri qualcosa, la tirchia”). Urania, invece, al momento della proposta non poteva sapere la verità né esser certa che Horus stesse raccontando la realtà dei fatti: lui avrebbe potuto portarla in un qualsiasi anfratto e Obliviarla senza che lei se ne rendesse conto. Sì, d'accordo, aveva convenuto, lei era un'Auror addestrata e sicuramente più capace di lui, ma lui aveva Hagalaz. Non aveva bisogno della bacchetta per metterla fuori gioco —non necessariamente farla a pezzi, magari— per poi cancellarle la memoria. Oppure, dal punto di vista della donna, poteva realmente mentire ed essere un trafficante di manufatti magici o un assassino cui era stata strappata l'ignara vittima e ora era in cerca di vendetta. A differenza di Horus, più che certo d'esser nel giusto (sempre col benestare di quel bugiardo di Lysander), la donna camminava su un filo spesso pochi millimetri e tutto questo per amor di... cosa? Legalità? Giustizia? Senso del dovere? Fiducia verso il prossimo?
*Scegli la tua versione. Ne ho altre* « E se non ti piacesse ciò che scoprirai? Chi mi garantisce che la mia amica di vecchia data non mostri il distintivo e mi faccia licenziare, mandando sul lastrico me e il mio capo? Perché una soluzione tanto vantaggiosa per me se potresti benissimo fregarmi come hai fatto ora? Ti sei finta una sprovveduta per cercare di incastrare un tuo "vecchio amico". Lodevole. » Esordì, infine, alzando un sopracciglio, la voce resa roca dal lungo silenzio e una punta di sarcasmo sulla lingua, celando così il suo fastidio per quel risvolto.
Aveva ritirato le braccia quando lei gli aveva mostrato lo scintillante distintivo. L'argento aveva ammiccato agli ultimi morenti raggi del sole e per un istante durato solo frazioni di secondo, Horus aveva provato una punta d'invidia. Non aveva mai pensato al suo futuro, ma un flash di sé con indosso quel simbolo appuntato all'interno del risvolto di una giacca scura gli attraversò la mente, procurandogli un brivido lungo la spina dorsale. Così come era giunto era passato, trasportato via dal vento che faceva stormire le chiome dei pioppi e dei faggi che li circondavano come muti spettatori.
Aveva squadrato a lungo la figura minuta che gli si poneva davanti, mentre la luce alle sue spalle ne dipingeva i contorni come un sapiente pittore. L'oro e l'arancio del tramonto giocavano con quei capelli d'inchiostro, enfatizzando la sua sagoma con eloquente maestria che la ritraeva come un'eroina di luce. Che buffo, pensò mentre un angolo della bocca si incurvava verso l'alto, generando una fossetta sulla guancia sinistra. Come sembrava stupido lui, un ragazzino, intento a giocare a guardia e ladri con qualcuno che poteva realmente metterlo nei guai, il cui ruolo, a differenza delle loro altezze reali, lo sovrastava.


Quanta arroganza, Ra. Solamente perché, in fondo, sei grato ad Urania Donovan per esser giunta prima che fosse troppo tardi.


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E noi l'abbiamo letta con molti frufrufrufru al seguito :*-*:
 
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Lo
vidi arrossire e sorrisi spontaneamente per quella prima e reale dimostrazione d'umanità. Non che avesse realmente dimostrato alcunché: non si era scomposto, non aveva balbettato, non si era minimamente arreso. Continuava a non staccare gli occhi dai miei e a sfidarmi, come io facevo con lui. Ma quel lieve rossore mi fece provare l'ebrezza di una piccola vittoria. C'ero riuscita? Avevo colto nel segno? L'avevo messo in scacco?
« E se non ti piacesse ciò che scoprirai? Chi mi garantisce che la mia amica di vecchia data non mostri il distintivo e mi faccia licenziare, mandando sul lastrico me e il mio capo? Perché una soluzione tanto vantaggiosa per me se potresti benissimo fregarmi come hai fatto ora? Ti sei finta una sprovveduta per cercare di incastrare un tuo "vecchio amico". Lodevole. »
«Nessuno può dirtelo.»
Gli sorrisi, inclinando appena il capo, tenendo lo sguardo fisso nel suo. La sua voce appena roca e l'eccessiva vicinanza dei nostri corpi, lì in piedi alle porte di una strana e calda notte, mi provocò un brivido lungo la schiena.
«Potrei mostrare il distintivo,» continuai e la voce, lentamente, si abbassò di tono, quasi fosse una confessione intima tra complici, reali amici di vecchia data o amanti «potrei fare domande su domande, potrei farti licenziare, certo, questo non puoi saperlo. Ma non lo farò.» Feci una pausa, sentii violento il profumo della sua pelle e combattei contro l'impulso di toccarlo. «Non voglio fregarti, altrimenti mi sarei smaterializzata lì all'istante senza darti tempo di tornare indietro per primo.» Voglio solo passare del tempo con te. Che follia. E che modo malato di conoscere una persona. Ma la nostra non poteva essere una semplice conoscenza. Era partita come una sfida e sarebbe continuata come una sfida, non c'era via d'uscita. Era ormai palese quanto entrambi fossimo testardi, cauti, sospettosi. Forse era l'unico modo che avevamo di approcciarci l'un l'altra? Ad ogni modo, preferivo di gran lunga che credesse che m'ero finta sprovveduta fin dall'inizio piuttosto che capire quanto la sua persona mi avesse attratto fin da subito - tanto da costringermi a continuare quella farsa priva di scopo reale. Avrei potuto lasciarlo andare fin dall'inizio. Continuavo a ripetermelo. Lascialo andare. Lascialo. No. Mi risultava impossibile. Avevo il cuore a mille a guardarlo così da vicino negli occhi e Merlino solo sapeva come fosse difficile mantenere un contegno e una certa serietà all'esterno. Ma se ne sarebbe accorto, prima o poi? Perché mi attraeva così tanto? Spostai lo sguardo sulle sue labbra, mi morsi d'istinto le mie. Deglutii. Ripresi fiato, lo guardai di nuovo negli occhi. «Ma d'altronde ti conviene credermi, è l'opzione che ti dà più possibilità di vittoria. Se adesso rifiuti questo patto, io andrò al negozio e farò ciò che temi. Se fingi di venire con me e poi ti smaterializzi altrove farò ciò che temi. Se mi imbrogli in qualsiasi modo, farò ciò che temi. Se ti fidi di me, potrebbe andare nel migliore dei modi.»
Un leggero vento si sollevò tra noi e i miei capelli ne furono trasportati, in quella calma irreale e carica di tensione che s'era creata tra noi; mi sentivo spettatrice di me stessa, quasi a volte avessi la capacità di guardarmi dall'esterno. L'aggressione e la chiave facevano quasi parte di un atto concluso e messo da parte, come se non importasse realmente riprendere le fila di quel discorso - come se non fosse mai realmente importato. Ci avevo girato attorno, l'avevo puntellato a distanza - come farebbe un bambino con una cosa particolarmente paurosa - e poi ci ero finita dentro con tutte le scarpe. Stavo perdendo la ragione? Stavo perdendo il controllo? O ero adesso più lucida di quanto non fossi mai stata?
«Ti è così difficile fidarti degli altri, Horus?» continuai, quasi in un sussurro, ma non sorridevo più. La mia espressione era distesa, certo, ma non più sfacciatamente maliziosa come era stata un attimo prima. Quasi seria. Più che seria, consapevole. Mi resi conto quanto m'importasse che quel ragazzo si fidasse di me. Non lo avrei ferito, non lo avrei messo in pericolo. Volevo solo sapere. Conoscere. Divorata dalla curiosità di saperne di più sul suo conto. Com'era quando si sentiva libero, leggero? Rideva? Potevamo davvero diventare amici, in un modo tutto nostro? Aveva tanti amici? Aveva una ragazza?
«Non serve che mi rispondi.» A cosa? Al fatto di avere una ragazza? «Ma passami una mano attorno alla vita se hai deciso di fidarti, per questa volta» aggiunsi, accennando appena un sorriso. Avevo ovviamente intenzione di compiere una smaterializzazione congiunta guidata da me per dirigerci all'Ars Arcana ma, era evidente, avrebbe potuto semplicemente toccarmi la mano o la spalla senza bisogno di azzardare una specie d'abbraccio. Però, dal momento che per me era così difficile pensare di toccarlo così intensamente, volevo che lo facesse lui. Mi pareva quasi di essere a posto con la coscienza se il gesto ci fosse stato da parte sua. Quasi che, se avessi preso io l'iniziativa, avrei definitivamente e inesorabilmente mosso un passo verso il baratro. La perdita totale di controllo sulla mia persona. Pure istintività. Puro impulso.




 
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view post Posted on 7/6/2017, 16:55
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▲ Hyde Park/Diagon Alley, London | Early Evening▼
Horus R. Sekhmeth

Serrò ostinatamente la mascella nell'udire la domanda che cancellò dalla sua faccia ogni traccia di sorriso. Quella confidenza, quel giudizio sottile che aleggiava anche in quel momento in cui la voce di Urania s'era spenta in una pausa studiata, lo infastidì al punto che le mani ebbero uno spasmo. Si odiò per quella palese dimostrazione di nervosismo: lei l'aveva punto sul vivo su un argomento che era saltato fuori completamente a caso, sviscerato dal contesto e applicato con una certa non-chalance a qualcosa di più empirico e personale.
« Benché tu sia la regista dalla storia che ci vuole amici d'infanzia, ricorda che lo siamo diventati da soli cinque minuti. » *Forse anche meno* Fu l'inevitabile risposta che non riuscì a trattenere. Si sentì improvvisamente turbato, mentre una folata di vento tornava a mitigare i bollori del suo animo. Perché?, si domandòsquadrando Urania; lei non sorrideva più. Quel che aveva illuminato e riscaldato il suo volto d'una certa malizia era scivolato via, ma non c'era più l'algida compostezza che le aveva visto indosso quando, appena mezz'ora prima, i loro sguardi si erano incrociati. Non la conosceva affatto, ribadì a se stesso, quasi fosse una giustificazione: non era tenuto a fidarsi di lei e, del resto, non era mai stato quel tipo di persona che crede alla bontà altrui semplicemente perché "glielo dice l'istinto". Tutt'altro, ribadì, sopprimendo una smorfia d'insofferenza a quel pensiero.
« Ma passami una mano attorno alla vita se hai deciso di fidarti, per questa volta. »
Le parole dell'Auror rimasero sospese per un breve periodo. Giunsero confuse, ovattate alle orecchie del ragazzo che lì per lì si chiese se avesse davvero udito bene. Completamente ignaro di chi Urania Donovan fosse realmente, inaspettatamente lei gli mostrò un punto debole, fornendogli ancora una volta una visione ambigua di sé. Un invito curioso nel modo in cui era stato porto e d'un tratto i contorni sfocati di Urania divennero più netti. Horus piegò appena il capo di lato a quella curiosa dimostrazione di fiducia. Perché avrebbe dovuto passarle una mano attorno alla vita? Che strano modo di chiedere di fidarsi di lei: cosa si aspettava, di ballare un lento? Quanta intimità avrebbe accordato se solo le avesse cinto la sottile vita con il braccio? Lui sarebbe rimasto guardingo, ma lei si sarebbe certamente fidata di lui, di questo era convinto.
Lentamente, senza neanche rendersene conto, un sorriso tutt'altro che affabile andò increspando le labbra sottili di lui, finché un piccolo ghigno non gli scoprì i denti bianchi.

L'aveva fregato, di nuovo.

Si avvicinò a lei colmando la breve distanza che li separava mentre Venere, sopra di loro, ammiccava al giungere della notte. Il parco era ormai vuoto e le ombre calavano sugli alberi e sui sentieri che attraversavano come arterie Hyde Park, sostituendosi a quello che fino a quel momento era stato il fuoco di un tramonto particolarmente intenso. Solitamente a quell'ora, diversi isolati più in là, Lysander cominciava a chiudere le vetrine, castava incantesimi di protezione e contava gli incassi appuntandoli diligentemente nel registro delle entrate. Quella sera, però, l'uomo attendeva il ritorno di Horus con una certa apprensione, maledicendo ogni secondo del suo ritardo. Avrebbe imprecato ancora di più quando, di lì a poco, Horus ed Urania sarebbero giunti a varcare la soglia del negozio?
Prima di allora, però, ancora avvolto nel silenzio dormiente del parco, Horus allungò una mano verso la donna, ma non cinse il suo fianco. Bruscamente e con un gesto repentino, le afferrò il braccio sinistro, cingendole con le lunghe dita un polso sorprendentemente piccolo.
Avrebbe potuto spezzarlo facilmente, avrebbe pensato in seguito, ma ciò che colpì la sua mente come un fulmine nel momento della Smaterializzazione che
lui eseguì non riguardava affatto la fragilità di Urania. Ben lontano dal permettere a lei di farlo per sottolineare il suo pensiero, Horus aveva agito per primo: aveva afferrato la bacchetta con la sinistra, stringendo il braccio della ragazza con la destra, e si era focalizzato su un punto ben preciso, un paio di chilometri più in là. Fu un attimo, uno solo, ma quando le sue dita sfiorarono la pelle di lei, qualcosa per poco non lo fece Spaccare proprio nell'atto della Smaterializzazione.
Toccare Urania fu come sfiorare qualcosa di bollente, una scossa elettrostatica così potente da fargli quasi lasciare la presa per lo sconcerto. Sorpreso e ancora aggrappato al buonsenso tanto quanto a lei, si costrinse a non lasciarla andare, aumentando la pressione sul polso, sentendo le dita affondare nella carne. La Smaterializzazione fu sgradevole e sembrò durare un'eternità. Sentiva i polmoni schiacciati dalla Magia, ma quando il frastuono di Diagon Alley e le luci languide della sera si frapposero alla semi oscurità del parco, Horus seppe di esser riuscito nell'intento. Si trovavano in una strada parallela a dove era situato l'Ars Arcana, la cui vetrina si affacciava in lontananza, all'angolo di un incrocio. La via non era particolarmente trafficata e i negozi, quasi tutti chiusi, si ammassavano tra di loro, attraversati longitudinalmente da vicoli che somigliavano più a ferite conficcate nel corpo di un gigante di pietra. I vecchi e consunti lampioni illuminavano l'ambiente di una luce giallognola e lì, nel cuore del quartiere, la notte aveva già cominciato la sua avanzata.
Horus lasciò andare di scatto il braccio della donna non appena i piedi toccarono il terreno. La mano destra, orfana di quel contatto, si chiuse su se stessa, formicolante. Era suggestione? Sì, ma... Ma aveva sentito
qualcosa, ne era certo, un pizzicore intenso alle dita. La guardò per un istante, le labbra socchiuse, incerto se domandarle che diamine d'incanto gli avesse castato contro, come e quando.
« E poi gli ho detto: “senti un po', buzzicone, ma mi prendi per Troll?” Dovevi vedere la sua faccia! Come se non sapessi che il fegato di Drago costa molto più di così! » La voce trillante di una Strega coinvolta in un'animata conversazione con l'amica che le trotterellava al fianco, qualche passo avanti a sé, spinse Horus a risvegliarsi da quell'intorpidimento. Preso dall'agitazione spinse senza tanti complimenti Urania in un vicolo che si apriva alla propria sinistra, nascondendo entrambi alla vista dei passanti. Lì, parandosi di fronte a lei, la costrinse al muro, piantando il palmo aperto contro la parete —che produsse un suono secco all'impatto— a pochi centimetri dal suo viso, impedendole così col braccio e con il proprio corpo di fuggire. Prima che lei potesse reagire, la mano sinistra, ancora armata, scattò in direzione del collo, la punta della bacchetta direzionata laddove la sua giugulare pulsava lievemente.
Si stava mettendo nei guai, ma sebbene Urania fosse un pubblico ufficiale e potesse sbatterlo in qualche lurida cella anche solo per aver tentato di aggredirla, Horus non riuscì a fidarsi e a chinare remissivo il capo di fronte quel distintivo, troppo preoccupato per se stesso per rendersi davvero conto dell'entità del proprio gesto (e della propria mancata furbizia). Sì, lei lo aveva in pugno dal punto di vista della Legge, ma aveva capito una cosa: ignorando completamente il perché e il per come, Horus aveva scoperto di avere un'ascendente su di lei ed era stata Urania stessa a premurarsi di farglielo sapere.

« Prova a fregarmi... » Sussurrò, gli occhi fissi su di lei. « E troverò il modo di fregare te. » Concluse, laconico. Il suo respiro sfiorava la pelle della donna e per un secondo le sue iridi scivolarono lungo la linea del naso, delle labbra e del mento, per indugiare sul collo bianco minacciato dall'arma. Nell'oscurità dell'angusto angiporto che li ospitava, la luce artificiale giungeva filtrata dalle costruzioni che schiacciavano la stradina, eppure Horus riusciva quasi ad intravedere il sottile intrico di vene che alimentavano i tessuti. A quel punto, resistendo alla tentazione di stringere le dita sulla pelle, il cuore pulsò il sangue con un'intensità tale che quando la frenesia giunse nuovamente ad alimentarlo, Horus se ne spaventò e si rese conto di esser rimasto ipnotizzato per una buona manciata di secondi dalla curva del collo che scendeva fin alle clavicole, immaginandovi una lama che ne sfiorava la pelle. La lasciò andare così come l'aveva bloccata: ruvidamente, abbandonò il contatto con l'umida pietra liberando Urania dalla propria costrizione, indietreggiando poi di un paio di passi per ristabilire le distanze. Le voltò le spalle di scatto per non mostrarle lo spaesamento che lo aveva colto in quell'istante. Il timore aumentò ancora il battito cardiaco, e la mano si costrinse, tremante, a nascondere la bacchetta evitando accuratamente di sfiorare l'elsa del pugnale agganciato alla cintura e opportunamente occultato agli occhi altrui.
Quel turbamento che lo aveva colto pochi minuti prima ad Hyde Park era partito in sordina ed ora aveva aumentato le sue pulsazioni, agitandolo in preda a brividi che si premurò di celare.


Io l'avevo detto che dovevi sgozzarla. Non mi dai più retta.

Sul viso si portò una mano, gelida.


"Knowing your own Darkness is the best method for dealing with the darknesses of other people".

CODICE ROLE SCHEME © dominionpf


POPOPOPPPPOOOODÈÈÈÈÈ:
 
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