Wormhole., Privata.

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Wormhole
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Le
sue mani ebbero uno spasmo ben visibile e il suo volto s'irrigidì. Che la mia domanda circa la fiducia avesse colto nel segno? Ne ebbi la conferma quando parlò. Ero sempre stata abbastanza brava a cogliere i punti deboli delle persone. Lo conoscevo da poche ore, era vero; ma mi pareva che, in quel tira e molla lacerante che stava avvenendo tra noi, io avessi già avuto modo di capire qualcosa di lui. O, quanto meno, quel poco che mi serviva per pungerlo sul vivo o mettere a segno qualche piccola soddisfazione.
La mia proposta di contatto aleggiò nell'aria per qualche istante. Non mi aspettavo veramente un sua reazione positiva; e, d'altronde, mi resi conto quanto potesse suonare strana e ambigua la mia frase. Mentre nella mia testa aveva ovviamente il senso di riferirsi alla smaterializzazione - sebbene era inutile fingere che non ci fosse anche qualche altro desiderio - all'esterno poteva essere percepita in maniera nettamente diversa. Diamine, perché non avevo continuato quella frase? Perché mi ero lasciata andare a quell'ambiguità? E mentre ci riflettevo, non vidi la sua mano. Questa scattò rapida verso il mio polso sinistro e strinse con forza. Così forte che temetti avrebbe potuto spezzarmelo. La sua mano era grande e il mio polso piccolo, tanto che - ebbi giusto il tempo di notare - avrebbe potuto con una sola mano bloccarmi due polsi. Poi, nel tempo di un inspiro, ci smaterializzammo. Avevo però visto, prima di svanire da Hyde Park, che aveva afferrato la bacchetta nella mano sinistra.
Il suo tocco fu odioso e scottante al tempo stesso. Perché mi attraeva e tanto, inutile negarlo. E una parte di me aveva desiderato la sua pelle. Ma odioso perché violento, inaspettato. Non ero riuscita a fermarlo. Non ero riuscita a parlare. Aveva agito bruscamente e rapidamente, fin troppo, come se gli appartenessi. Come se quello non fosse il braccio di una sconosciuta, come se dietro ci fosse un'urgenza esasperata. E forse era così, almeno per quest'ultima parte. L'avevo stuzzicato, inchiodato, manipolato, convinto infine a fare ciò che io volevo. Ma lui, di tutto questo, doveva farmi vedere di averne il controllo - anche se, credevo, più si ha bisogno di dimostrarlo, meno questo ci appartiene. Doveva necessariamente dimostrarmi di essere più forte di me. Ecco l'urgenza. Era sempre stato quello, fin dall'inizio; uno che cercava di piegare l'altro, in un moto incessante, esaminando con minuzia i punti deboli e colpendoli. Dove saremmo arrivati, di questo passo?
Lo stomaco mi si strinse un attimo prima di metter piede a Diagon Alley, come dopo ogni smaterializzazione - ma stavolta fu una fitta perfino più forte.
Appena risollevai lo sguardo nel suo, strattonai quel contatto e contemporaneamente lui mollò la presa, bruscamente, così come l'aveva afferrata. Mi guardai rapidamente intorno per capire se fossimo dove avevo intenzione di essere - l'Ars Arcana doveva trovarsi a poco da lì, se non ricordavo male.
Riportai altrettanto rapida lo sguardo su di lui; aveva un'espressione enigmatica ma sicuramente molto più intensa di quella che mi aveva riservato finora.
«Certamente non mi sarei aspettata d'esser davvero presa gentilmente per la vita come avevo proposto prima della smaterializzazione ma-»
« E poi gli ho detto: “senti un po', buzzicone, ma mi prendi per Troll?” Dovevi vedere la sua faccia! Come se non sapessi che il fegato di Drago costa molto più di così! »
Buzzi-che? Mi interruppi e voltai d'istinto per seguire la provenienza di quel suono e intravidi due signore camminare spedite. E non feci nemmeno in tempo a voltarmi nuovamente che Horus mi placcò e trascinò senza troppi complimenti nel vicolo adiacente. Misi un mezzo passo in fallo all'indietro e sbattei con la schiena contro il muro; lo stesso rumore sordo venne ripetuto in piccolo dal palmo della sua mano, un attimo dopo, premuto con decisione sulla pietra accanto al mio viso. Mi bloccò con il suo corpo con l'evidente intento di non farmi fuggire.
Più alto di me, più forte, così vicino, troppo vicino, il suo profumo intenso, i suoi occhi taglienti, il suo respiro caldo e il mio respiro interrotto.
Rapidamente mi ripresi, sgranai gli occhi, dischiusi la bocca. Che diamine era successo? Perché dovevamo nasconderci? Erano dei semplici passanti. Non stavamo facendo niente di male. Non eravamo stati colti in alcuna situazione compromettente. Eravamo due ragazzi in piedi in una traversa di Diagon Alley. Ma, ancor più dell'irritazione per la reazione insensata ed eccessiva, provai rabbia per il modo in cui lui si permetteva di continuare a comportarsi, così brusco e autoritario.
«Tu stai-»
Con un gesto repentino alzò la punta della bacchetta contro la mia gola e avvicinò il viso al mio.
« Prova a fregarmi... » sussurrò, lo sguardo fisso su di me. « E troverò il modo di fregare te. »
Sorrisi. Feci scorrere per un attimo gli occhi sul suo viso e mentalmente mi concentrai per restare così tanto calma e rilassata che lui non avrebbe mai percepito il mio tremore.
«Mi sembra che tu sia leggermente troppo agitato» sussurrai con lo stesso tono di voce basso che aveva usato lui.
«Troppo agitato per uno che non ha niente da nascondere» continuai, spostando gli occhi nei suoi. Mentre dentro di me ribolliva il nervosismo per l'ardire con cui lui tentava di minacciarmi - dopo che mi ero chiaramente rivelata un Auror - fuori non lasciai che trasparisse alcunché. Nemmeno quell'eccitazione, così assurda e fastidiosa, che mi rapiva il cuore e lo stomaco, che mi spingeva un po' più vicina alle sue labbra. Come potevano provarsi due sentimenti così contrastanti? No. Non gli avrei dato la soddisfazione di farmi perdere il controllo. Dovevo rimanere lucida, dovevo restare con la bacchetta dalla parte del manico.
«Inutile che ti ricordi che stai minacciando un Auror, ma forse la tua memoria non è così buona come pensavo. Poco male... ci mettiamo un attimo a rinfrescarla.»
Mi sporsi appena e sentii ancora più forte il suo profumo e il respiro suo sulla mia pelle. «Potrei sbatterti un paio di notti ad Azkaban solo per questo» dissi sempre con un leggero sorriso ad incresparmi le labbra morbide.
«O magari, semplicemente, cambiare idea e far saltare in aria te e quel posto dove lavori. Perché tanto è evidente che nascondi qualcosa.»
Alzai la mano sinistra e, per un attimo, combattei contro l'istinto di poggiare i polpastrelli sulla sua bocca. Ma questi, decisi, deviarono verso la punta della bacchetta - e intanto notavo che il mio polso riportava delle evidenti linee violacee - accompagnando lentamente la discesa della sua arma verso il basso.
«Vedi di non tirare troppo la corda» aggiunsi con un ulteriore sorriso, come se stessi raccomandando ad un bambino di stare attento al parco giochi. Carezzevole ma autoritaria e decisa.
Mi accorsi solo dopo che i suoi occhi avevano abbandonato da qualche istante i miei ed erano concentrati sul mio collo in una strana e muta contemplazione. E poi nuovamente, con un altro scatto, Horus si voltò e mi diede le spalle e così non riuscì a decifrare per bene la sua ultima espressione. Lo vidi però alzare una mano e portarsela al viso; guardavo la sua sagoma immobile stagliarsi nell'ombra del vicolo improvvisamente calmo.
Mi concessi un attimo, solo un attimo per guardare la forma della sua schiena ampia e muscolosa e i capelli disordinati che riflettevano la luce del lampione. Poi lasciai il vicolo e m'incamminai un po', finché non voltai la testa sopra la spalla; intravidi di nuovo i suoi occhi. Due laghi ghiacciati impenetrabili, come i miei.
«Allora? Per quanto tempo hai intenzione di restare là impalato?» feci, lasciando trasparire una punta di divertimento. Poi mi voltai nuovamente davanti e lasciai il vicolo, diretta all'Ars Arcana.

Lontana respirai, un paio di volte, cercando d'ignorare il battito frenetico del cuore.




 
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▲ Ars Arcana, London | Early Evening▼
Horus R. Sekhmeth

Era agitato.
Terribilmente agitato.
E quel tentativo di calmare il proprio istinto lo spingeva al punto da rimanere in silenzio, senza reagire a quanto Urania gli stesse dicendo. Se chiudeva gli occhi poteva ancora vedere il suo collo latteo, le vene che pulsavano lievemente, la striscia rossa del sangue nel passare la lama del pugnale sulla tenera carne. Poi però vedeva la linea del mento piccolo e appuntito, il naso costellato di efelidi, gli occhi che lo squadravano con un'intensità tale da fargli capovolgere lo stomaco, farlo quasi vergognare.
No, aspetta, questo cosa c'entrava? Indispettito, cercò di scrollarsi di dosso la sensazione che lo sguardo di Urania gli aveva provocato, ma fu impossibile. Continuava a percepirlo dietro di sé, proprio all'altezza della nuca e fu difficile trattenere la mano che voleva correre lì a grattarsi, come se questo potesse cancellare la sensazione che stava provando. Lo metteva a disagio e forse era proprio quello a spingerlo, più o meno inconsciamente, a reagire in maniera così violenta. Non riusciva a capire dove lei volesse andare a parare. Paragonando la sensazione scomoda alla scossa elettrica provata poc'anzi, Horus si ritrovò a pensare in che modo sbagliato il proprio corpo stesse reagendo a quella che era una reazione inaspettata. Era la frenesia dell'omicidio, a fargli agitare il sangue in quel modo? Sì, certo, pensò. Ma allora perché, premendo il palmo sul viso, si scoprì accaldato? Era arrossito? Perché, poi? Perché aveva guardato il suo collo? Per quel contatto forse fin troppo irruento spinto da una paura irrazionale, per il viso di lei sfrontatamente proteso verso il suo? Oh, era stato un accenno minimo e lui aveva istintivamente irrigidito il collo a sua volta, pronto ad allontanarsi, ma l'aveva notato.
*È come mi guarda.*Si ritrovò a rispondersi, mentre udiva il passo di lei alle proprie spalle. Alzò di scatto la testa voltandola in direzione del suono, ritrovando la schiena della donna poco più avanti di lui. Fasciata in un cappotto elegante verde pino, i capelli neri le ricadevano fra le scapole come un manto. A differenza di prima, ora non erano più incendiati dal sole e la luce dei lampioni sembrava quasi venir assorbita da quella chioma corvina che le ondeggiava, lievemente, sulle spalle. Dei jeans scuri le fasciavano la porzione di gambe visibile, evidenziando l'atleticità della muscolatura, forse derivante dagli allenamenti che il suo lavoro le imponeva. Il suo portamento fiero, così come aveva fatto il suo sguardo poco prima, gli ricordarono ancora una volta il gatto che aveva intravisto in quel vicolo tanto tempo prima. Se doveva definire Urania con una parola avrebbe detto: felina. Era conscia di essere così provocante? O forse era lui a pensarlo? Del resto non sculettava, non ondeggiava, era quasi marziale. Eppure la sua figura...
*Ma che cazzo, Horus.*
Imprecò scuotendo la testa a quel pensiero e ostinandosi a lasciar andare le gambe di Urania per concentrarsi sulla situazione. La raggiunse velocizzando il passo, senza proferir parola, mordendosi l'interno della guancia per imporsi un controllo che sin dall'inizio aveva perduto. Anche se non le aveva risposto e la sua testa era presa da ragionamenti assurdi, aveva udito quanto lei gli aveva detto e aveva capito. Era stato incauto, un idiota e la sua arroganza rischiava di mandare in frantumi quell'immagine che si era faticosamente costruito. Continuò a biasimarsi per tutto il breve tragitto, camminandole al fianco in silenzio. Non tenne, tuttavia, la testa bassa. La schiena diritta, lo sguardo ben puntato verso la porta che si intravedeva in lontananza, Horus era consapevole del proprio errore, ma il suo orgoglio gli impediva di andarle dietro come un cagnolino rimproverato. Non rimase mai dietro di lei, né gareggiò per esserle avanti, camminandole al fianco come suo pari. Sapeva perfettamente che il risultato di quell'incontro dipendeva quasi tutto da lui e dal suo sangue freddo. Se poi lei lo avesse fregato... allora avrebbe agito seguendo l'istinto. Prima di allora, però, doveva elaborare in fretta un piano, cercare di lasciar andare il nervoso, distillarlo in qualcosa di più producente piuttosto che lasciarlo defluire in una serie di atteggiamenti fin troppo spregiudicati. E poi, c'era quel miscuglio di sensazioni che l'agitava e che lo spingeva a ripetersi: “non sono in pericolo di vita, non c'è bisogno che le faccia del male”.
Per quanto la giustificazione che si era dato per le precedenti uccisioni potesse “funzionare” se si sorvolava una certa... etica, non poteva —e lo sapeva bene— cedere a quei desideri sbagliati. Era caduto in fallo fin dall'inizio, spinto da una situazione al limite della pazienza. Urania era giunta al momento giusto, proprio quando lui stava per cedere, ma Horus non era ancora abbastanza forte da ignorare del tutto le voci ed era lui, in realtà, ad aver mostrato a lei un fianco. Raggiunsero l'Ars Arcana proprio mentre lui faceva appello a tutta la sua forza di volontà per cercare di salvare la propria situazione.
Fu a quel punto che anticipò la donna di un passo, trattenendosi dall'allungare un braccio e poggiarle una mano sulla spalla per attirare la sua situazione. Non voleva toccarla, non se non strettamente necessario.

« Fai andare prima me. » Si sforzò di non usare il tono autoritario che sapeva gli sarebbe potuto uscire, forse più per ripicca per il modo in cui lei si era rivolto a lui, che per reale necessità. *Cos'è una gara? L'ho costretta io.* Dovette convenire. Non riuscì ad abbozzare nessun sorriso di circostanza che decretasse "la tregua" poiché aveva i muscoli tirati, ma ad un suo cenno, Horus poggiò la mano sul pomello d'ottone dell'entrata. Attese un istante, respirando a pieni polmoni l'aria umida per calmarsi una volta per tutte, poi, con la mano libera, controllò inutilmente la tasca che celava la chiave che sapeva essere ancora lì. Infine, spinse la porta.

La luce buia dell'Ars Arcana e il profumo familiare di pergamena e cera per legno non fu piacevole come invece lo era stato ogni volta che terminava una commissione. Tornare lì, quasi sempre vincitore, significava aver svolto correttamente l'incarico e aver vinto un'altra immaginaria partita contro lo scettico Lysander. Quella volta, però, il negozio gli sembrò claustrofobico, con le sue vetrine ammassate sui muri, le librerie, il possente bancone in fondo alla stanza come uno statico controllore. Lysander sedeva sulla poltrona che, solitamente, occupava quando era presente; a volte leggeva il giornale (rigorosamente NON la Gazzetta del Profeta), un libro, controllava gli incassi o l'inventario e in generale, a meno che non fosse qualcosa di estremamente complesso, gli elargiva un raro sorriso quando lo vedeva tornare con quanto gli aveva chiesto. Quella volta, invece, allo scampanellio della porta e quando le due figure si stagliarono oltre l'uscio, Lysander alzò lo sguardo verso Horus e, a giudicare dal colorito paonazzo delle sue guance, era decisamente infuriato. Molto infuriato.

« Dove diamine sei stato, ragazzo? Sei stato via l'intero pomeriggio per una cosa che richiedeva appena due ore! L'hai presa? Dov... »
« Ciao, Lysander. Sì, perdonami, ma ho avuto... problemi col committente. » Horus interruppe prontamente la voce dell'uomo per guardarlo con intensità. Avrebbe capito ciò che era davvero successo e cioè che quando gli aveva affidato l'incarico, l'uomo s'era dimenticato di dirgli tutta la storia? Lysander non era un idiota, in fondo, e a giudicare da come s'era azzittito, doveva aver intuito. Horus si frugò nella tasca con la mano sinistra, estraendone poco dopo la chiave che consegnò all'uomo. Lysander, però, pur prendendo meccanicamente l'oggetto, non lo guardava. Fissava Urania con evidente sospetto.
« Mi dispiace signorina. Siamo chiusi. » Con fredda cortesia, l'uomo si rivolse alla ragazza per poi lanciare un'occhiata di fuoco al Tassorosso. “Non te ne sei accorto che c'è una tizia dietro di te?” sembravano dire i furenti occhi smeraldini.
Horus benedisse la sua incredibile faccia tosta e la sua capacità di adattarsi alla situazione, qualcosa che gli aveva permesso sempre di recitare la parte dell'innocente pargolo sin dalla più tenera età.
Con familiarità, allungò un braccio attorno alle spalle di Urania, cingendola come se la conoscesse da sempre. Un sorriso all'apparenza sincero (simile ad una colica solo se lo si fosse guardato troppo a lungo) si aprì sulle sue labbra ed il ragazzo si sforzò oltremodo di comunicare la stessa ilarità anche col suo sguardo.

« Ah! Lei è Urania Donovan, è una mia amica d'infanzia. L'ho incontrata ad Hyde Park proprio mentre stavo venendo via. Lei vive... » *Dove cazzarola vivi?* Lo sguardo corse disperato per la stanza alla ricerca di un suggerimento per giustificare la sua presenza lì. Del resto, solo una lontananza sentita poteva aver spinto Horus a a trascinarsi dietro la presunta amica. L'occhio gli cadde su un libro sull'antica America del sud. Beh, era abbastanza lontano per far quadrare l'improvviso desiderio di portarsi l'amica al negozio, pur consapevole di cosa doveva riferire. « In Patagonia. Per lavoro. Era tanto che non la vedevo e così, ecco, siccome dopo andiamo a cena insieme, mi ha accompagnato qui. Rue questo è il signor Lysander, il mio capo. » Si voltò verso di lei, sempre con la solita affabilità, indicando con una mano la figura imponente dell'uomo. Lysander aveva grossi baffi bianchi, una folta chioma di capelli altrettanto candidi ed una pancia presumibilmente formata al novanta percento da alcol. Ma aveva occhi verdi brillanti che squadravano prima Horus, poi la donna. Le labbra, sottili, erano tirate in un'espressione indecifrabile. La presa di Horus sulla spalla di Urania ebbe un minuscolo, impercettibile spasmo. Ancora una volta quel contatto lo innervosì e le dita si strinsero alla stoffa del cappotto, resistendo. La farsa doveva essere credibile.
« Molto bella la Patagonia, signorina Donovan. Posso chiederle che lavoro fa lì? »
Horus si voltò verso Urania, le dita ancora aggrappate alla sua spalla, il volto simile ad una maschera di pietra.
*Sono spacciato*
Lo era davvero.


"Knowing your own Darkness is the best method for dealing with the darknesses of other people".

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Non
disse nulla. E la cosa mi sorprese. Dopo che mi fui incamminata per qualche passo, mi aspettai di ricevere una qualche imprecazione - qualsiasi cosa, ma non il silenzio. Lo sentii raggiungermi ed accostarsi a me e ancora una volta non aggiunse nulla. Lo guardai di sottecchi, attenta a non farmi notare. I miei tacchi bassi risuonavano ritmici sulle pietre di Diagon Alley e il vento leggero giocava con il lembo sinistro del mio lungo cappotto. Colsi il suo silenzio come un'ammissione di colpevolezza o - quanto meno - come una presa di coscienza del suo aver esagerato, prima, con me. Mi mettevo anche nei suoi panni, certo; se aveva qualcosa da nascondere - ed ero sicura, oramai, fosse così - la presenza imposta di una sconosciuta che probabilmente aspettava il momento giusto per incastrarmi mi avrebbe turbato non poco. Ma, tant'è, io non volevo incastrarlo. Non avevo intenzioni bellicose, non avevo doppi fini, non avevo un piano malvagio che guidava le mie azioni. Ecco, cos'era che volevo?
Con la coda dell'occhio vidi la sua figura; camminava dritto, testa alta, sguardo in lontananza. Di certo, seppur fosse stata la consapevolezza ad ammutolirlo, non s'era piegato. E non mi aspettavo lo avrebbe fatto, per quello che avevo avuto modo di capire. Se era orgoglioso almeno quanto lo ero io, quel silenzio doveva costargli e io, nel profondo, gliene fui quasi grata. Il mio umore cambiò improvvisamente. Camminando accanto, non uno davanti o l'altro dietro, senza fretta, con calma, quasi fosse una dolce passeggiata, distesi le spalle e alzai di più il mento, respirando l'aria fredda della sera.
La porta dell'Ars Arcana diventava sempre più vicina e un pizzico d'agitazione s'impadronì del mio stomaco. Avrei saputo reggere il gioco? Avrei saputo esserne all'altezza? Dovevo prenderlo come un incarico di lavoro. Come se Rhaegar in persona mi avesse chiesto di andare lì sotto copertura; fingere bene, mentire ancora meglio. D'altronde, non era la prima volta che mi trovavo in situazioni simili.
« Fai andare prima me. » La sua voce spezzò i miei pensieri. Non era stato brusco, tutt'altro. Il tono era basso, quasi confidenziale. Annuii solamente, restando ferma affinché mi superasse e mi precedesse. Afferrò il pomello, esitò e spinse la porta.
Lo seguii quasi subito. Se già dall'esterno quel negozio mi aveva sempre affascinato, benché non avessi mai avuto occasione e tempo per visitarlo, entrarci mi fece sgranare gli occhi per un istante. Possedeva un fascino orientaleggiante eppure comunicava d'essere un ricettacolo di oggetti provenienti da tutto il mondo, tutti dall'aria notevolmente antica. Nonostante la penombra potei notarne la fulgida bellezza e fui rapita dal suo fascino.
Dietro un possente bancone sul fondo del negozio, seduto su una poltrona, stava un anziano signore. Il suo sguardo era chiaramente furente e per qualche attimo mi dispiacque perfino per Horus. Quando parlò, infatti, non nascose il nervosismo e l'impazienza. E, ovviamente, confermò subito la informazioni che mi aveva fornito Horus stesso. Che lavorava lì, che quel signore sapeva cosa era andato a fare ad Hyde Park. Non che ne avessi dubitato, quello no. Sarebbe stato troppo sciocco darmi informazioni precise, portarmi lì e poi trovarsi a fronteggiare un fallimento. Ma ciò non toglieva che c'era dell'altro. E tutto me lo suggeriva.
Il proprietario del negozio si alzò e si diresse verso di noi, così Horus gli diede la chiave.
« Mi dispiace signorina. Siamo chiusi. »
Avanzai, spostando l'attenzione ai suoi occhi verde brillante, così giovani in un incarnato ormai segnato del tempo. Stavo per parlare, per presentarmi, per giustificare la mia presenza in quel luogo, lì, insieme al suo commesso. Ma Horus mi passò un braccio intorno alle spalle, tirandomi appena a sé e, nonostante fossi completamente calata nella parte, non riuscii a non sgranare appena gli occhi. Mi ripresi subito, sciogliendo i muscoli del torace e pregando di non essere arrossita. Ma che diamine. Potevo davvero avere una reazione tanto infantile per quel mezzo abbraccio? Io che - be', era assurdo. Era per come mi aveva preso, così all'improvviso, mi dissi.
Il calore del suo corpo riscaldava parte del mio. La sua presa era decisa, sicura, come se il contatto con me fosse abituale e familiare. Mi riscoprii la gola secca.
« Ah! Lei è Urania Donovan, è una mia amica d'infanzia. L'ho incontrata ad Hyde Park proprio mentre stavo venendo via. Lei vive... »
Una pausa infinitesimale mi fece voltare lo sguardo su di lui. Maledizione. Certe cose avremmo dovuto concordarle prima.
« In Patagonia. Per lavoro. Era tanto che non la vedevo e così, ecco, siccome dopo andiamo a cena insieme, mi ha accompagnato qui. Rue questo è il signor Lysander, il mio capo. »
« Molto bella la Patagonia, signorina Donovan. Posso chiederle che lavoro fa lì? »
La Patagonia. Okay. Ti uccido. Se non l'ho fatto finora, lo posso fare adesso. Però senza bacchetta, con le mie mani - pensai, fulminando Horus con lo sguardo. Pensa pensa pensa. Cosa potevo fare in Patagonia? Non era di certo la prima volta che mi capitava di trovarmi sotto copertura. Noi Auror non avevamo una divisa appariscente e riconoscibile come la Polizia Babbana e il più delle volte non ci identificavamo, preferendo inventare occupazioni diverse e perfino provenienze diverse quando la situazione lo richiedeva. Ma la Patagonia. Tenni a freno la stizza e tesi una mano all'uomo che avevo davanti.
«Molto lieta, signor Lysander» dissi cordiale e calma. «Sono un'Erbologa» mentii, ripescando le informazioni che avevo in merito. Lo studio delle piante mi aveva sempre affascinato ed avevo cominciato da autodidatta con la flora rigogliosa che abbracciava il territorio in cui ero cresciuta. Ad Hogwarts, poi, avevo affinato le mie conoscenze, conseguendo i M.A.G.O. in quella disciplina con Oltre Ogni Previsione. Potevo farcela. «Sono lì solo temporaneamente, sto studiando alcune piante decisamente interessanti che assomigliano all'Alioto ma con effetti più potenti» aggiunsi con sicurezza.
Sperai di essere risultata convincente. Ero rimasta vaga ma non ero stata frettolosa o di poche parole, fornendo anche qualche informazione non strettamente necessaria. Ed ero rimasta serena, limpida. Inoltre, se ero fortunata - e tremai al solo pensiero - magari chi mi stava davanti non era un gran esperto di piante e non mi avrebbe riempito di domande, mettendomi in crisi. Certo, avevo scelto un argomento a me congeniale ma non ero sicura di poter reggere una conversazione molto elaborata. Perciò, per evitare ulteriori approfondimenti, parlai ancora.
«Mi dispiace esser piombata qui senza preavviso, signor Lysander. E mi rendo anche conto di aver trattenuto Horus e aver fatto aspettare lei, sono mortificata. Voglia scusarmi.»
Avevo poi sentito la stretta di Horus farsi più intensa. Se il gesto che aveva fatto mi era parso inizialmente naturale, ora mi dava l'impressione che, più che una carineria tra amici intimi, quello di Horus fosse un aggrapparsi, come se improvvisamente sentisse di star precipitando in un baratro. Sollevai la mano destra sulla spalla destra, laddove le sue dita stringevano nervose, poggiandovi sopra le mie. La sua pelle era fredda, la mia anche. Non so perché l'avevo fatto. Un minuto prima, in quel vicolo, avrei voluto strozzarlo. Adesso, volevo proteggerlo. Assurdo. Intensificai il contatto e mi voltai a guardarlo, spostando gli occhi nei suoi, intenzionata a trasmettergli calma. Va tutto bene. Sorrisi, un sorriso totalmente privo di sottintesi, totalmente sincero. Il suo volto latteo e i suoi occhi grigi mi parvero ancora più belli. «Quando vuoi bene ad una persona e ti è tanto mancata, perdi il senso del tempo» aggiunsi infine, senza smettere di guardarlo, con voce pacata, carezzevole. E me ne sorpresi io stessa di quanto quella dolcezza mi uscisse, ora, naturale. Non avevo mai provato sentimenti tanto contrastanti, mai prima di quel momento.
Basta. Mi riscossi come da un torpore. Levai la mano da lì e distolsi lo sguardo da Horus, senza fare nessun gesto avventato, solo con la consapevolezza di essere andata troppo oltre.
Guardai il signor Lysander con fare cordiale. «Ma non parliamo solo di me. Com'è Horus come commesso? Le crea sempre problemi come ha fatto oggi?» continuai, con un dolce sorriso a distendermi appena le labbra piene.

 
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Horus R. Sekhmeth

L'occhiata che Urania gli rivolse non fu delle più rassicuranti. Deglutendo piano, Horus tornò a guardare Lysander, sentendo il battito del cuore aumentare per la tensione che cominciava ad aleggiare nell'aria. Si disse che non era poi così grave: se Lysander lo avesse licenziato, avrebbe potuto trovare un altro lavoro, qualcosa per cui, magari, sarebbe stato pagato meglio senza il bisogno di fare il corriere illegale per arrotondare. Ma, dando una rapidissima scorsa al familiare negozio che gli si spalancava davanti, il cuore si strinse per un'acuta fitta di tristezza. No, amava l'Ars Arcana e sei anni lì dentro non sarebbero potuti esser cancellati con tanta facilità da un rimpiazzo qualunque. Probabilmente avrebbe trovato il modo di ricattare Lysander per assicurarsi il posto: aveva ormai intuito da tempo che non tutti gli affari dell'uomo fossero poi così in regola. Era già pronto a sentire la verità uscire dalle labbra di Urania quando la donna fece —di nuovo— qualcosa di inaspettato. La mano fredda di lei cinse la sua ed Horus sussultò leggermente a quel gesto. Lysander non poteva essersene accorto, ma Urania, che gli era vicina, sì. Il ragazzo tentò di rimanere impassibile, ma le dita di lei, strette alle sue, furono un contatto diverso dai precedenti. In quell'intima carezza, non c'era l'autorità di un Auror, né la malizia di una femme-fatale. Fu naturale e dolce, una rassicurazione familiare che Horus non si aspettava e che andò sciogliendo, per un momento, quel grumo di ostilità che aveva impigliato nello stomaco e che lo spingeva a diffidare di Urania tanto quanto diffidava di un qualsiasi altro estraneo. Improvvisamente, ascoltandola parlare ed inventarsi un lavoro sorprendentemente plausibile (insegnavano anche questo agli Auror?), Horus si rese conto che lei, forse, era diversa da tutti gli altri. Non seppe il perché di quel gesto, né riuscì a capire perché Urania avesse deciso di mentire davvero a Lysander e fingere quanto aveva promesso al Tassorosso, rispettando i patti. Sentì il cuore accelerare e le sue dita ebbero un tentennamento tanto che l'indice, in uno spasmo inconscio, si alzò leggermente, sfiorando un polpastrello di lei. “Ok”, sembrò dirle, “Ho recepito” ed il tono leggero e genuino con cui lei recitò la parte dell'amica che sentiva la sua mancanza quasi gli fece credere di esser davvero dei vecchi confidenti che dopo un lungo tempo si sono riabbracciati. Inizialmente il sorriso che lei gli fece spuntare sulle labbra fu spontaneo e delicato, quasi divertito dall'incredibile capacità di adattamento di Urania. Tuttavia, una volta resosi conto di quella spontaneità, quasi si sentisse in difetto o in una situazione pericolosa per se stesso, Horus sottrasse con discrezione la mano da quella di lei, concentrandosi, piuttosto, su Lysander. L'uomo ascoltava Urania con interesse, ma la freddezza che calava sugli occhi brillanti non tranquillizzò affatto il ragazzo che aveva imparato a tradurre molti silenzi del suo datore di lavoro. *Avanti, Lysander, mi basta il beneficio del dubbio, solo quello. Si appellò mentalmente, trattenendo impercettibilmente il respiro in attesa di capire, anche solo da un cenno involontario del viso, se Lysander avesse bevuto la bugia di Urania. Lysander rimase impassibile, ma si mostrò interessato all'accenno sull'Erbologia: bene, pensò quindi il Tassino, è ora di filarsela e quando fu lì lì per parlare inventandosi una scusa per togliersi di mezzo, Urania lo spiazzò di nuovo. Senza riuscire a frenarsi, Horus si voltò di scatto verso di lei: questa volta fu lui a rivolgerle uno sguardo di fuoco. *Cos'è, sapere di me come garzone fa parte della tua indagine?* Avrebbe voluto dirle, ma di tutta risposta finse un sorriso, diverso da quello che gli era scappato poco prima, decisamente più artificioso ad un occhio più esperto.
« Cos'è Rue, non ti fidi di me? » Esordì, rimarcando lievemente il soprannome che lei gli aveva consigliato di usare; incrociò le braccia con tranquillità, spostando il peso sulla gamba destra per assumere una posizione più rilassata. Lysander osservò silenziosamente lo scambio; da quando s'era alzato dalla poltrona per prendere la preziosa chiave, non aveva smesso di guardare Urania ed era la prima volta che i suoi occhi si posavano anche su Horus. Le gote non erano più arrossate dall'ira, ma l'espressione enigmatica che era andata dipingendosi sul volto incuteva in Horus ancora più preoccupazione. La sua rabbia poteva gestirla, ma la sua imprevedibilità...
« Pensavo avessi fatto tardi perché il cliente era stato scortese, Horus. » Commentò lui, alzando il mento e squadrandolo con intensità. Lysander non era particolarmente alto: Horus lo sovrastava con tutta la testa, ma più di una volta il Tassino s'era fatto piccolo piccolo sotto il suo sguardo indagatore. Del resto rispettava Lysander e la sua autorità: era un uomo che s'era fatto da solo e pur non sapendo quasi nulla della sua vita, Horus aveva imparato ad apprezzare, nonostante tutto, la forza di volontà e lo spirito d'iniziativa di quell'anziano scozzese.
« Sì, certo, ho dovuto contrattare a lungo con lui. » Capitombolò il ragazzo, cercando velocemente di trovare una soluzione all'incongruenza che Urania aveva servito su un piatto d'argento al suo capo. Merda, merda, merda, pensò: cos'è più grave per Lysander, perder tempo per colpa di un Auror o perder tempo perché incontri un'amica? Decise per la prima, sebbene non si sentisse sicuro al cento percento.
« Ma quel ritardo mi ha portato ad incontrare casualmente Rue ed il tempo dei saluti... » Guardò la donna, cercando di assumere un'espressione disinvolta, ma era difficile con lo stomaco stretto da quel pout-pourri di emozioni contrastanti. « Mi ha rallentato di quei dieci minuti in più. » Niente da fare, era un'inutile risposta non risposta. Correre ai ripari: subito! « Ah, ho dimenticato le chiavi del negozio. Le prendo e andiamo, Rue. » A disagio e nel tentativo di creare un diversivo, Horus si mosse in direzione del bancone, allontanandosi sia da Urania che da Lysander. Una volta aperto un cassetto a caso cercò l'oggetto inutilmente, giacché nella tasca della felpa possedeva già la sua copia. Nonostante ciò, fu costretto a farlo: la tensione di quel piccolo intoppo cominciava a premergli sul petto con fin troppa ferocia e questo lo destabilizzava. Aveva affrontato situazioni molto più pressanti, anche più pericolose, perché agitarsi? Non è niente, si ripeteva, fingendo di trafficare con il cassetto: non è niente. Improvvisamente, come se lei gliele stesse sussurrando nelle orecchie, gli risuonò nella mente la voce bassa di Urania, tanto da farlo rabbrividire.
“O magari, semplicemente, cambiare idea e far saltare in aria te e quel posto dove lavori. Perché tanto è evidente che nascondi qualcosa..”
“Quando vuoi bene ad una persona e ti è tanto mancata, perdi il senso del tempo”
Come diamine faceva lei a sembrare così credibile quando, fino a poco prima, l'aveva rimesso al suo posto con tanta ruvidità? Senza rendersene conto, Horus corrugò le sopracciglia, dimentico per un istante della situazione in cui verteva. Era confuso e in balia di continui ripensamenti: prima non si fidava, poi intravedeva qualcosa, poi infine ci rimuginava su e si chiedeva se stesse facendo la cosa giusta. Ancora una volta si impedì di sbirciare Urania di sottecchi. Non capiva e questo lo agitava: era questa la risposta al perché non riuscisse a fronteggiare quella situazione al meglio. Se avesse giocato da solo se la sarebbe cavata, ma con Urania in bilico fra il ruolo di alleata e nemica...
« Per risponderle signorina, Horus non mi dà problemi ed è un ottimo garzone, quando non perde tempo. » Sentì Lysander rispondere ad Urania tutto d'un tratto, e percepì chiaramente il calore invadergli le guance. Chinò quindi la testa con ancor più ostinazione, aprendo un altro paio di cassetti, attento a non esagerare col rumore: qualcosa di troppo finto avrebbe destato sospetti.
« Quando tornerà in Patagonia, signorina Donovan? »
Dimentico di quel che stava facendo e di tutti i suoi propositi, Horus alzò bruscamente la testa percependo il pericolo: non era ancora finita. Lysander gli dava le spalle e la sua mole copriva, in parte, la figura esile di Urania. Le pallide iridi di lui scrutarono la porzione del volto di lei visibile; scioccamente gli venne in mente un cielo notturno dove una falce di luna veniva nascosta da una grande nube scura.
Si fidava di lei? Si interrogò ancora, guardandole gli zigomi alti e le sopracciglia scure, gli occhi argentei e le labbra sottili. Ripensò alle dita di lei che gli stringevano la mano con delicatezza, un gesto non strettamente necessario a quella sciocca recita per salvargli la faccia.

*Forse* Si rispose.


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view post Posted on 11/6/2017, 20:58
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Non
riuscii a smettere di pensare a quel breve e intimo contatto. Avevo tolto la mano dalla sua, mi ero rivolta al signor Lysander con un tono leggero e divertito, eppure i miei pensieri erano ancora lì. A quel gesto istintivo e imperdonabile a cui mi ero lasciata andare. Mi stavo maledicendo. Potevo sentire ancora la sua pelle fredda contro la mia e quel polpastrello che sfiorava il mio, impercettibilmente. Mi ero sentita mancare. Un vuoto improvviso allo stomaco che s'era poi attorcigliato. Non avrei dovuto. Avevo percepito il benessere che gli avevo trasmesso con quel breve gesto, e solo quello, in parte, mi rendeva felice. Mi parve davvero, in un attimo sospeso del tempo, di conoscerlo da sempre. Il sorriso che c'eravamo scambiati, del tutto naturale, mi richiamò alla mente un pomeriggio con Dorian e Kappa, di quelli spensierati e confidenziali, in cui non solo ti senti perfettamente a tuo agio ma anche al sicuro. Una sensazione che non credevo potesse mai provocarmi un estraneo. Ma temevo di farmi trasportare troppo.
Quando la sua mano lasciò la mia spalla, un leggero senso di vuoto mi pervase. Che assurdità. Fu assolutamente un bene che non continuasse a mantenere saldo quel contatto. Rimasi ferma, lo sguardo dritto davanti a me, fisso nelle pieghe degli occhi del signor Lysander, pur di restare concentrata.
« Cos'è Rue, non ti fidi di me? »
Scossi appena la testa, abbassando il capo, percependo nuovamente con stranezza il modo in cui aveva marcato il mio soprannome. Era curioso sentirsi chiamare da lui così. Mi voltai un attimo a guardarlo; il sorriso naturale era sparito, sostituito da uno leggermente più tirato. Eravamo tornati a ricoprire i nostri ruoli. Io ero un Auror, lui un sospettato - se così potevo definirlo. E, di nuovo, si tornava a parlare di fiducia.
«Certo che no!» scherzai con enfasi, spostando poi gli occhi sul suo Capo. «Meglio sentire un parere più autorevole» aggiunsi.
« Pensavo avessi fatto tardi perché il cliente era stato scortese, Horus. »
Sgranai appena gli occhi, ma lo sguardo di Lysander era ormai sul ragazzo accanto a me. Quelle parole dolci, dette per lo più sovrappensiero, rischiavano di tradirmi. Una leggera ansia mi attanagliò la gola e mi sorpresi a rendermi conto, ancora una volta, che non avevo alcuna intenzione di metterlo in difficoltà. Mi voltai a guardarlo e pregai che riuscisse a parlare con sicurezza e credibilità. Ma cosa pretendevo? L'avevo messo io, fin dall'inizio, in quella situazione scomoda. Più che scomoda, a dire il vero. E adesso mi preoccupavo di non vederlo capitolare? Che assurdità. Mi sentivo una cretina, davvero. Spostai gli occhi tra gli scaffali oltre le spalle di Lysander, guardai il negozio avvolto dalla penombra; un luogo non familiare, non mio. E quelle persone non le conoscevo assolutamente. Niente della complicità che mi aveva fatto fantasticare c'era realmente. Niente. Io e Horus ci conoscevamo da appena qualche ora. Che stavo facendo? Dove mi trovavo? Mi mancò l'aria.
« Ah, ho dimenticato le chiavi del negozio. Le prendo e andiamo, Rue. »
«S-sì» dissi, sbattendo le palpebre e guardandolo schizzare via dal mio fianco, verso il fondo del locale. Lo vidi rovistare in un cassetto e mi lasciai trasportare dai suoi gesti, senza essere capace di dire altro. Volevo uscire da lì. Volevo andare via. Dovevo andare via.
« Per risponderle signorina, Horus non mi dà problemi ed è un ottimo garzone, quando non perde tempo. »
«Horus è una persona determinata e affidabile» dissi sovrappensiero, «sono sicura che lavori bene.» Sorrisi, infine, per smorzare la serietà con cui avevo parlato. I miei occhi continuavano a spostarsi su quel ragazzo; sul quel volto chiaro potevo leggere preoccupazione. E non mi andava più bene. Ecco, inutile mentire. Deglutii. La gola secca, lo stomaco aggrovigliato, un leggero giramento di testa, nausea perfino. Erano tutti sintomi di ciò che il corpo cercava di comunicarmi, dato che la mente si rifiutava di assecondarlo. Il piede sinistro si spostò leggermente indietro.
« Quando tornerà in Patagonia, signorina Donovan? »
«Presto» dissi, forse troppo rapidamente. Poi, sorrisi cordiale. «Ho lasciato molte cose in sospeso che mi aspettano e questo ritorno in patria dovrà essere tristemente breve.»
Infilai le mani nelle tasche del cappotto e mi tormentai appena le dita tra loro. Pensai che non avrei potuto mettere più piede in quel posto. Non potevo tornare lì mentre il signor Lysander mi credeva in Patagonia. E non avrei potuto continuare a fingere tutta la vita di fare un altro lavoro, vivere in un altro posto, qualora avesse voluto chiacchierare. Perciò, quella era l'ultima volta che vedevo L'Ars Arcana. Mi sarebbe piaciuto visitarlo di giorno, curiosare tra gli scaffali, diventare cliente fissa, fare amicizia con il capo di quel posto, conoscere Horus al banco, dopo aver chiesto il prezzo di un manufatto particolarmente interessante. Scoprirci affini, parlare con disinvoltura di ciò che facevamo, di ciò che amavamo. Ritrovarsi, dopo qualche giorno. Prendere un gelato insieme. Ridere alle battute dell'altro. Pensare di aver fatto bene, quel giorno, ad entrare all'Ars Arcana.
Ricominciare.
Tirare dritto ad Hyde Park e poi entrare casualmente, una mattina fredda di Dicembre, a cercare riparo in quel negozio. E di nuovo, in loop, la mia mente costruiva e disfaceva. Sorrisi, amaramente. Tutte fantasticherie. Non potevo tornare indietro e cancellare ciò che era successo, nemmeno con una Giratempo. Non lo avrei più rivisto. Era questo, in tutto quell'intrecciarsi di tristi pensieri, quello che mi graffiava la gola. Ovvio che fosse così. Non avevo motivo per rincontrarlo e certamente lui non avrebbe voluto rivedermi. Ero stata una grana fin dall'inizio, un fastidioso sassolino nella scarpa. Aveva, giustamente, ribadito di dover andare via, a cena, inquieto. Almeno questo, glielo dovevo.
«Voglia perdonarmi, ho un'improvvisa mancanza d'aria. Aspetto Horus fuori. Mi ha fatto davvero piacere incontrarla» accennai ad un leggero cenno del capo, le labbra velate dal solito sorriso; poi, senza nemmeno guardare quel ragazzo un'altra volta, uscii.
Mi mossi con scrupolosità; fui tranquilla e naturale fino ad un attimo prima di varcare la porta. Quando, però, me la chiusi alle spalle, accelerai i passi, uno dietro l'altro. Mi fermai solo per un attimo, respirando lentamente per calmarmi. Alzai gli occhi al cielo stellato, dove Venere e la falce di Luna si scorgevano limpide e luminose grazie all'assenza di nuvole. Il cuore mi batteva rapido, l'aria pareva rarefatta. Dovevo smaterializzarmi subito e andare via di lì. Dovevo. Dovevo.


 
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view post Posted on 12/6/2017, 23:32
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▲ Ars Arcana/Diagon Alley, London | Early Evening▼
Horus R. Sekhmeth

Non si era minimamente reso conto dell'espressione innaturale che gli stava tendendo i muscoli del viso. Quasi fosse un effetto domino di quella tensione che ormai era assodato aleggiasse nell'aria come un mefitico fantasma, Horus non si avvide neanche di come si fosse aggrappato in modo del tutto inconscio al bordo del cassetto, mentre gli occhi facevano lo stesso con la figura di Urania. Stava respirando piano, centellinando l'aria come se stesse preparandosi ad un'immersione e quando udì la risposta di lei e vide il minuscolo cenno del capo di Lysander, intuì che la donna non era caduta nella sua trappola: una partita a scatti infinita, ecco cos'era quel dannato incontro. Horus trattenne un sospiro di sollievo, abbassando lo sguardo verso le proprie mani. La ruvidità del legno cominciò a fargli male e solo in quel momento s'accorse di come le sue dita stringessero il cassetto con così tanto vigore che le nocche erano sbiancate del tutto. Che situazione assurda, pensò ancora, non desiderando altro che respirare aria che non fosse pregna di quell'ansia.
« Beh, scusi se mi permetto signorina Donovan, ma trovo strano che non vi siate mandati un Gufo. Da quanto ho capito, la sua era una visita preventivata, non è così? Credevo che due amici d'infanzia si avvisassero l'un l'altro di eventuali visite e ritorni in patria. » Lysander parlò con naturalezza, evitando con cura che l'accusa fosse direttamente percepibile e mascherandola ad arte con un'espressione di curiosità (finta come una moneta da due Galeoni); non soddisfatto, scoccò anche un'occhiata di sbieco ad Horus che, tuttavia, era troppo occupato a imprecare mentalmente, l'attenzione apparentemente rivolta al contenuto del cassetto, per accorgersene.
Avrebbe dovuto immaginarlo, si rimproverò il ragazzo fissando con ostilità un pennino incrostato dalla ruggine e abbandonato in un angolo: sapeva che Lysander era un uomo fin troppo furbo, abituato ad avere a che fare con così tante persone, molte delle quali anche piuttosto... ambigue, che la loro storia non avrebbe mai retto. Servendosi di domande che altro non erano che specchietti per Fwooper, lui ed Urania schivavano un inganno per finire, a piedi pari, dentro un nuovo inghippo nascosto fra un punto interrogativo e l'altro. Era un po' come evitare di venir mangiati da un coccodrillo gettandosi a volo d'angelo nelle sabbie mobili proprio dietro di lui.
Il silenzio che seguì l'osservazione di Lysander fu breve, ma di una pesantezza tale che Horus fu certo che Urania avrebbe rivelato tutto per porre finire a quello stillicidio. In effetti, confessare sarebbe stato un atto di pietà, un'eutanasia necessaria. Va bene, pensò Horus, sono pronto, avanti diglielo. Socchiuse gli occhi, incassando la testa nelle spalle, pronto alle conseguenze... che non giunsero. La voce di Urania arrivò, sì, alle sue orecchie (e questa volta non era più il sussurro che gli era rimbalzato nella mente poco prima), ma fu con un tono angosciato, quasi arrendevole che lei soccombé all'astuzia dello scozzese.
*Cosa?* Attonito, Horus la guardò sbigottito, sbattendo le palpebre mentre lei si voltava e si avvicinava, con assoluta calma scandita da una leggerissima rigidità, alla porta. Lysander, di tutta risposta, la salutò con un cenno della mano, aggiungendo, proprio mentre lei si stava per chiudere la porta alle spalle: « Arrivederci signorina Donovan, stia attenta con l'Alioto. Provoca isteria, ma lo saprà sicuramente! »
Fu un attimo e, prima che Horus se ne rendesse conto, la donna era sparita lasciando dietro di sé solamente il tintinnante scampanellio della porta. La sua sagoma non indugiò neanche per un istante davanti la soglia e come un'ombra, Urania Donovan si dileguò.
Lo stomaco fece un brusco balzo a quella consapevolezza e, con un movimento repentino, il ragazzo richiuse il cassetto che emise un sonoro tonfo. Quel che successe di seguito fu solo una conseguenza di quella fuga. Horus agì d'impulso, scombussolato da quell'ennesimo cambio di programma, confuso da quel turbinio di situazioni che cambiavano e mutavano come il capriccioso tempo inglese. L'unica cosa che Horus sapeva era che non poteva permetterle di andarsene così, non dopo tutto quello che lei, inconsapevolmente o meno, aveva provocato.

« Ho trovato le chiavi, scappo, ciao! » Biascicò quindi al suo capo, talmente preso ad inseguire la donna da non rendersi minimamente conto dell'inutilità di quel saluto: era chiaro, ormai, come la recita avesse mostrato i veri volti degli attori. Mentre Horus si precipitava alla porta e la apriva di malagrazia sparendo oltre di essa, Lysander cominciò a ridere di gusto, rigirandosi la chiave fra le dita con una certa maestria, lasciandosi cadere sulla poltrona con soddisfazione.

Una volta fuori gli ci volle qualche secondo per abituare gli occhi alla fioca luce della strada. L'Ars Arcana era illuminata da decine di candele galleggianti disposte sapientemente per tutto il locale, in modo che la calda luce della fiamma facesse rilucere gli amuleti ed i gioielli , rendendo ancor più appetibili gli oggetti in vendita. Diagon Alley, invece, era avvolta da una luce bieca e spenta che, insieme al leggero strato di umidità che era calato con la sera, rendeva l'atmosfera buia e affatto confortevole.

« Urania? » Horus pronunciò il suo nome con molta più naturalezza di quanta ne avesse messa nella recita e quasi non seppe dire perché l'avesse chiamata: non c'era traccia di lei nella strada che gli si apriva davanti. La cercò con lo sguardo e si incamminò rapido, gli occhi che saettavano a destra o a sinistra nel tentativo di individuare il verde cupo del suo soprabito spiccare tra tutti quei colori anonimi che caratterizzavano le poche persone ancora in giro. Si rese conto di come fosse urgente il bisogno di trovarla, nonostante ancora non potesse fare chiarezza sulle proprie impressioni. Era come se fosse immerso in una corrente imprevedibile che lo spingeva prima verso la spiaggia e poi verso il mare aperto. La differenza, però, è che lui non annaspava: si teneva a galla, ma le braccia dolevano nel tentativo di capire che direzione prendere. Forse, s'era detto mentre il suono dei suoi passi veloci risuonava in maniera fin troppo amplificata nelle sue orecchie, doveva semplicemente farsi trascinare. *L'ho già fatto.*
La trovò quando ormai era convinto si fosse Smaterializzata, diversi metri più avanti: la prima cosa che vide non fu il cappotto che aveva cercato, ma, paradossalmente, i suoi capelli. Una chioma scura, in un ambiente cupo come quello, erano come un ago in un pagliaio, eppure da quella capì che era lei ancor prima di osservare l'intera figura. I suoi capelli non erano inchiostro, pensò stupidamente mentre allungava il passo per colmare l'ultima distanza che li separava; erano bui e pieni, come la notte. Urania gli dava la schiena e le sue spalle si alzavano e si abbassavano freneticamente, facendogli capire che lei aveva corso.
« Urania? » Ripeté, mentre la mano correva ad afferrarle il gomito e lui rabbrividiva, questa volta per il freddo. Senza più il sole, il vento mite che li aveva sferzati quel pomeriggio s'era fatto tagliente e penetrava sotto la stoffa pesante della sua felpa. Ignorando completamente il freddo, Horus le strinse il braccio con più delicatezza, ma la fermezza che volutamente vi impresse avrebbe dovuto indurla a voltarsi verso di lui. In quel frangente, lui si chiese che espressione avrebbe riflesso il viso di Urania ed ebbe una visione di sé, bambino, intento a guardare estasiato un caleidoscopio Babbano che suo padre gli aveva portato dopo un viaggio in Grecia.
Si era stupito come dei banali pezzi di vetro montati su uno specchio potessero creare forme ed immagini geometriche così belle. “Che incantesimo è, papà?” si ricordava di aver chiesto ad Osiris che gli aveva sorriso, divertito. “Nessuna Magia, è un trucchetto Babbano. Ecco, giralo così, cosa vedi?”
Cosa avrebbe visto sul viso di Urania? Rabbia? Tristezza? Indifferenza? Cos'è che le permetteva di mutare così? Non riuscì a capire.

« Che ti prende? » Pur lievemente irritato per quella reazione improvvisa e per la sua fuga, Horus si sorprese del tono accorato con cui pronunciò quella domanda. E quasi tutto d'un fiato, come se fosse stato qualcosa che gli premeva dire per potersi liberare, o più semplicemente, spiegare, aggiunse: « Senti, mi dispiace per averti aggredita. Io... » La frase rimase sospesa e quell'ultima parola si spense come una foglia s'arrende all'autunno, mentre lui chiudeva la bocca e distoglieva lo sguardo da lei per guardare la propria mano, bianca, aggrappata al suo avambraccio. Sentiva di doversi scusare, ma sentiva anche che qualsiasi cosa andava bene, pur di trattenerla lì. Quelle frasi che lei gli aveva rivolto erano così discordanti da sembrare note stonate su uno spartito confusionario ed imperfetto. S'erano destreggiati in un concerto cacofonico di impressioni sbagliate ed atteggiamenti contorti in una chiave sconosciuta, il cui ritmo era ancor più incerto. Andante, andante con moto, adagio, talmente era il roboante frastuono che emettevano da rendere impossibile capire quale fosse il gran finale. Non erano nient'altro che due apprendisti musicanti che si approcciavano per la prima volta e che intonavano due melodie totalmente differenti. Eppure, in quei disarmonici accordi, alcune note entravano in risonanza e producevano qualcosa, qualcosa che Horus sentì nelle orecchie e che lo portò a lasciar andare, di scatto, il braccio di lei, liberandolo.


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view post Posted on 13/6/2017, 14:27
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L'
aria di Diagon Alley era fredda, fin troppo. Il respiro mi lasciò le labbra e lì rimase, creando una nuvoletta di condensa. Mai come in quel momento il freddo fu un balsamo per le mie tempie pulsanti. Presi un respiro, un altro ancora. Mi ero allontanata di corsa, con un'urgenza totalmente esagerata. Lo sapevo. Ora che mi ritrovavo sola, nel silenzio della notte, mi sentivo molto meglio.
Quanto era trascorso da quando avevo messo piede all'Ars Arcana? Il cielo mi pareva perfino più nero, come la pece. Le strade erano deserte e il silenzio assordante. Un ronzio basso, sottile, costante, che mi perforava i timpani. Mi portai le mani al collo, abbassando la fronte, roteando poi appena i muscoli indolenziti.
Ero scappata.
Mi pareva di realizzarlo solo adesso con la dovuta razionalità. Scappata. Cosa mi costava, in fin dei conti, reggere quella recita ancora per un po'? Avrei potuto tranquillamente rispondere alle parole del signor Lysander; dire, magari, che il mio arrivo non era programmato oppure che volevo fare una sorpresa ad Horus. Avrei potuto, tranquillamente, continuare quella farsa. Le parole e l'astuzia non m'erano mai mancate e col tempo le avevo affinate. Ma qualcosa, come un impulso elettrico nelle gambe, mi aveva portato fuori da lì. E io lo avevo assecondato, come una novellina. Se fosse stato un vero incarico lavorativo, avrei fallito alla grande. Avrei deluso Rhaegar, avrei deluso me stessa. Forse mi sopravvalutavo? O forse, il problema era sempre stato un altro, da quando avevo incontrato quel maledetto ragazzo?
Mi passai le mani tra i capelli, lasciandoli ricadere oltre le spalle. Deglutii e presi un nuovo respiro. Mi sentivo un po' meglio ma anche ancora intontita; avevo bisogno di tornare a casa mia, di un bagno caldo e di un tè bollente. Nient'altro.
« Urania? »
Mi irrigidii. Come avevo fatto a non sentire i suoi passi? Ma soprattutto, perché era lì? L'avevo lasciato libero. Ero sparita dalla sua vita e dal momento angosciante che gli avevo imposto. Perché era lì?
Non mi voltai subito. Lo feci quando, con ferma dolcezza, la sua mano bianca afferrò il mio gomito fasciato di stoffa verde bosco; impresse una lieve forza e io lo assecondai. Mi girai lentamente e trovai subito i suoi occhi. Il suo viso era una maschera indecifrabile, fatta eccezione per le sopracciglia appena corrugate. Mi riscoprii altrettanto interdetta, contratta al centro della fronte, mentre spostavo le mie pupille tra le sue. Nero nel nero, come sassolini sul fondo di uno specchio d'acqua immobile.
« Che ti prende? » mi disse, con un tono più dolce di quanto mi sarei aspettata. Sbattei le ciglia quando sentii la sua voce, ma rimasi ancora una volta, magneticamente, ancorata alle sue iridi. Già, che mi prende? « Senti, mi dispiace per averti aggredita. Io... »
«Non è per quello» parlai di getto, con le sopracciglia ancora strette. «Non sono andata via per quello» continuai, quasi sovrappensiero, ma con più calma.
Se il mio stesso gesto m'aveva poi sorpreso, mi aveva fatto rimurginare e pensare diversamente una parte di me stessa, il suo mi aveva trasmesso quasi la stessa sensazione. Non riuscivo a capire perché mi avesse seguito, non riuscivo proprio. Mi pareva di vedere un altro Horus, lì davanti a me. Forse quello che avevo intravisto in quel sorriso spensierato, mentre fingevamo di conoscerci da sempre? O quello silenzioso, che mi aveva affiancato e aveva passeggiato con me? Chi era, davvero, Horus Sekhmeth? Quello che mi aveva trattato bruscamente e quasi aggredita o quello che adesso mi tratteneva dall'andar via? Perché era quello che sembrava e io stavo lottando disperatamente con la mia cassa toracica, scossa delle vibrazioni del cuore, per convincermi che non fosse così. Che lui non mi stava trattenendo, che non voleva stare ancora con me. Probabilmente, era solo preoccupato per ciò che avrei potuto raccontare. Sicuramente, voleva assicurarsi di chiudere bene la questione prima di dirmi addio.
Era così. Necessariamente. Ed io per prima mi ero sentita d'improvviso fuori posto, infiltrata nella vita di una persona che, fondamentalmente, non mi aveva fatto nulla di male; avevo giocato con lui, con la sua vita, le sue cose, i suoi affetti. D'un tratto m'era parso tutto stretto, tutto sbagliato. Non ero così, io. Pur essendo un Auror, pur avendo captato qualcosa da approfondire, l'avevo fatto nella maniera sbagliata. Quel ragazzo non meritava la mia arroganza. Era stata arroganza, la mia? Non ne ero totalmente sicura. Ma di una cosa ero stata certa, come dopo un'epifania: dovevo lasciarlo veramente andare.
Ma lui mi aveva seguito. E si era scusato. Perché aveva detto che gli dispiaceva? Perché non riuscivo a fare ordine tra i miei pensieri? Maledizione.
Improvvisamente mi lasciò andare; e solo quando lo fece mi ricordai che mi aveva trattenuto fino a quel momento, scivolata com'ero nelle mie incessanti domande. Distesi il braccio lungo il fianco, toccandomi istintivamente quel punto con l'altra mano. Ne distesi le pieghe ma rimasi aggrappata a quel contatto. Non avevo smesso di guardarlo in viso neanche per un secondo.
«Non ho mantenuto la promessa» mormorai e finalmente distolsi l'attenzione, spostandola in un punto imprecisato oltre la sua figura. Sorrisi appena. «Non sono stata in grado di continuare la recita.» Mi dispiace. «Spero di non aver creato problemi» dissi invece.
Poi sollevai il viso, sforzandomi di assumere un'aria disinvolta. «Direi che per la cena facciamo un'altra volta, eh?» scherzai priva di enfasi ed il mio sorriso era teso come una corda di violino. Maledizione. Mi sentivo un'adolescente alle prese con i primi sbalzi d'umore. E nemmeno, perché non avevo mai provato tante cose discordanti come in quelle poche ore con Horus. Avevo quasi ventun'anni, ero una donna matura. Se mi avesse visto Rosalie, non mi avrebbe riconosciuto.



 
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view post Posted on 7/7/2017, 21:33
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▲ Diagon Alley, London | Early Evening▼
Horus R. Sekhmeth

Lui.
Lui cosa?
La domanda si insinuò fulminea nel brevissimo intervallo che intercorse fra la frase morente e la risposta di Urania. Non si accorse della propria espressione interdetta mentre si indagava e cercava di tirare le somme di quell’assurdo pomeriggio. L’enigmatica replica di lei si intrufolò nella sua mente quasi con molestia: e allora perché? Avrebbe voluto incalzarla, prenderla per le spalle e scuoterla, neanche fosse stato un vaso di Pandora che avrebbe rivelato le verità del mondo. Ma Urania non rispose, non subito. Continuava a guardarlo, il volto adombrato da un’espressione indefinita, sospesa come quel discorso maldestro ed abbozzato. Aveva soffiato quelle parole come se fossero state vento ed i rumori della città le avevano portate via, lontane.
Nelle narici giunse il sentore acro del fumo e sopra le loro teste, sui tetti scompagnati delle storte e curiose case di Diagon Alley, i comignoli esalavano sottili colonne scure che si congiungevano verso la cupola di un cielo cupo e senza stelle. La brezza che si alzava a trasportare l’odore dell’inverno scompigliò le loro chiome, rame e ardesia in uno sfondo confuso tanto quanto lo erano loro due. Due solitarie figure, ritte in una strada ormai vuota, illuminati da un mesto lampione. Due perfetti sconosciuti che in un certo qual modo erano piombati l’una nella vita nell’altro, spingendosi a porre domande che, in altri contesti, in altri luoghi, con altre persone, forse non avrebbero formulato.
Gli occhi di Urania lo scrutavano intensi e, nei minuti dilatati dall’attesa e dall’impazienza, ad Horus sembrarono quasi neri, le iridi completamente prive di qualsiasi colore, profondi come forse lo erano i pensieri che la rendevano muta.
Si ritrovò a percorrere nella mente l’incontro, vedendo, in sé, una creatura che conosceva bene, ma che aveva imparato a temere e a contrastare. Si vedeva come un predatore affamato, un rachitico lupo che scopre le zanne al minimo sentore del sangue. Urania sembrava una preda, poi si era rivelata una cacciatrice e di nuovo, infine, s’era mostrata un’
umana.
Lui non era così. Ecco il punto. Non era un assassino senza scrupoli, non era una belva pronta ad uccidere per soddisfare una voglia primordiale, non era il sangue che voleva vedere scorrere sul bianco collo di Urania. Eppure lo aveva immaginato quando le iridi d’argento avevano attraversato con impudica irruenza il reticolato di vene pulsanti sotto l’epidermide, aveva voluto aprire in due la carne, scrutarne il cruore, assaporarne la viscosità sulle dita. E a quel pensiero, un brivido d’orrore percorse la spina dorsale di Horus.
S’accorse di star trattenendo il fiato e quando Urania riprese parola, buttò fuori l’aria trattenuta dolorosamente dai polmoni un poco per volta, generando minuscoli agglomerati di condensa.
“Lei non aveva mantenuto la
promessa”: a quella parola, il ragazzo sgranò gli occhi, incapace di nascondere la sorpresa. Per quel motivo era fuggita con tanta enfasi, buttando all’aria la copertura che faticosamente avevano tirato su, neanche fosse stato uno spettacolo di cabaret improvvisato? Quanta importanza aveva dato, lei, ad un accordo che inizialmente sembrava solo di convenienza? Nient’altro che un costrutto e una tregua che lei stessa aveva proposto e che lui, solo in un secondo momento, aveva accettato, costretto dai propri sbagli e dalla propria irruenza.
Schiuse le labbra per aggiungere qualcosa, ma Horus comprese che le parole lo avevano abbandonato e che non c’era niente che la sua bocca potesse pronunciare. Le richiuse e, impercettibilmente, ne afferrò con i denti una porzione, mordendola. Si sentiva nuovamente a confuso dall’entità di quell’incontro e lì, mentre lei stringeva fra le dita la stoffa ruvida del cappotto, Horus si chiese che atipico Auror lei fosse. Forse fu proprio quel pensiero a farlo sorridere e quando lei nominò la cena, non riuscì a trattenersi. Il riso cominciò a farsi strada dapprima con timidezza, poi piombò sulle sue labbra e la sua risata inizialmente bassa, s’alzò di qualche tono finché Horus fu costretto a portarsi una mano al viso, nel tentativo di arginarlo. Aveva socchiuso gli occhi, ma non aveva perso il contatto con il volto di Urania e dopo qualche breve istante occupato dal riso, riuscì a riprendersi mentre questo cominciava a scemare.

« Sei davvero l’Auror più strano che io abbia mai conosciuto. » Esordì con la voce roca, ancora accesa dal fantasma di quella risata. Tacque un momento, ragionando su quanto avesse detto ed in fretta aggiunse:
« Oddio, non che ne abbia conosciuti tanti. Sei la prima. Mi chiedo se siano tutti così al Ministero. »
Così come?
Corretti? Imprevedibili? Empatici?
Dolci?
Sì, c’era un’immensa dolcezza in Urania e l’aveva captata, in un qualche modo, nel tono vagamente deluso di quell’ultima domanda. Lei aveva sorriso, ci aveva provato ma era un cenno vuoto, privo di qualsiasi sentimento e i suoi occhi non riuscivano a seguire quel che, evidentemente, la testa le diceva di fare. Perché sforzarsi tanto? Si chiese ancora lui; perché mi prendi così a cuore?
« Mi sentivo minacciato per quello che hai visto. » Ruppe quell’idillio con quella confessione e questa volta il suo sguardo abbandonò la figura di lei, per posarsi su un punto indefinito oltre la sua spalla. Al di là di Urania, una grossa e disabitata costruzione costeggiava il marciapiede; sul muro sporco ed annerito era stato affisso un manifesto per la disinfestazione dei Bundimun, sul quale qualcuno aveva barrato il “prezzi onesti”, aggiungendoci un eloquente “cialtroni ladroni”.
Ancora una volta, Horus si trovò in difficoltà: si rese conto di esser stato tanto imprevedibile quanto Urania e se da una parte questo lo giustificò dicendo che aveva solo agito in base ai suoi istinti, dall’altra si rese conto che non voleva esser visto in quel modo da lei. Si era ripetuto solo qualche ora prima che lei non era un pericolo e lo aveva fatto per non cedere alla furia che lo aveva pervaso. Se inizialmente vi aveva creduto pur senza avere alcuna prova di quel pensiero disperato, ora poteva dire con certezza che lei non solo non rappresentava un rischio, ma era qualcosa di molto più innocente, molto più genuino. La sua premura, il suo cruccio erano reali e benché Horus si domandò se Urania Donovan riservasse quell’atteggiamento a chiunque, si ritrovò in difetto ed in debito con lei. Si disse che era stato ingiusto ad aggredirla, a mordere una mano che, forse, lei voleva solo tendergli. Forse Urania non era comparsa lì per caso, forse era davvero giunta come un’ignota ed inconsapevole salvezza, forse gli Dei avevano deviato il suo cammino per farla finire proprio in quel punto sperduto di Hyde Park. Forse, forse, forse, una distesa di ipotesi sciorinate una dopo l’altra in quella manciata di vita. Quando rialzò gli occhi verso Urania, Horus si interrogò su quanto tempo fosse passato: un minuto, due, cinque?

« Senti. Non mi hai creato nessun problema. Tutt’altro. » *Mi hai aiutato.* Non esternò quel pensiero, ma cercò di mitigare quelle parole con un sorriso sincero. Un profumo intenso di arrosto si frappose all’acredine del fumo dei camini: proveniva da una delle finestre del primo piano che si aprivano sul palazzo adiacente. Le ante erano leggermente scostate, i vetri appannati dai vapori che, probabilmente, avvolgevano la stanza ed un tintinnante rumore di stoviglie annunciava (o ricordava?) l’ora imminente della cena. E qui Horus indugiò un attimo, prima di parlare ancora una volta.
« Per la cena… forse sì, è meglio rimandare. » Arricciò un angolo della bocca, conscio di una vaga delusione. Doveva tornare al Castello, farsi una doccia, sgomberare la mente, scrollarsi di dosso i momenti più pesanti di quell’intensa giornata: questo era il piano, in realtà. Rabbrividì ancora e si strinse un po’ nella felpa; aveva dimenticato il mantello in negozio e si maledì. « Ma… vorrei offrirtela la prossima volta che ci vediamo, per scusarmi. E poi mi piacerebbe sapere del tuo lavoro in Patagonia. » Ridacchiò, lieve, sollevato e le offrì la mano destra, le dita in attesa d’esser strette in quello che si preannunciava un patto.
« Ci stai? » Aggiunse, celando la lieve titubanza nella domanda. La Ragione ancora gli sussurrava di non cedere, gli ricordava che Urania non era un’amica e che avrebbe potuto inscenare quel teatrino solo perché affamata di vendetta: l’indomani avrebbe potuto ritrovarsi altri Auror pronti ad accusarlo di lesioni e aggressione o, ancor peggio, di traffici illeciti. L’Istinto, tuttavia, rispondeva che aveva era vero, Urania non era un’amica, ma, si premurò di aggiungere, solo per il momento.
Horus aveva deciso di fidarsi di lei e quando le tese la mano, non se ne pentì.



"Knowing your own Darkness is the best method for dealing with the darknesses of other people".

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view post Posted on 10/7/2017, 12:05
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Wormhole
Ou3mlOZ
Di
nuovo accapo. Di nuovo debole, ancora una volta confusa. Non c'era verso di restare fermi su una linea d'azione; non con Horus, non per me. Ero stata circospetta, magneticamente attratta, arrabbiata, vendicativa, intenerita, sentimentalmente rapita, ancora innervosita, poi indebolita. Il grafico delle mie emozioni e dei miei pensieri doveva presentare picchi e abissi diametralmente opposti e la mia mente, adesso, era stanca. Mi reggevo al mio stesso corpo, a quel braccio che Horus aveva afferrato e temevo di crollare da un momento all'altro. Era davvero il momento di andare via. La corda che continuavo a tirare s'era irrimediabilmente lacerata.
Poi, Horus sorrise. E rise perfino, contagiando le mie labbra che imitarono le sue. I miei occhi si assottigliarono per un istante e tutta la tensione accumulata sembrò scivolare via immediatamente. Mi aveva già sorriso, una volta, in maniera del tutto naturale; in quel momento sospeso dal tempo all'Ars Arcana quando la recita era diventata, per qualche attimo, quasi familiare, intima, personale. Mi aveva colpito. Ma adesso quel riso divertito riempiva la strada vuota e il mio cuore prese a battere più forte mentre le mie iridi non smettevano di specchiarsi nelle sue.
« Sei davvero l’Auror più strano che io abbia mai conosciuto. » Fece una pausa, rilassando i muscoli del viso. « Oddio, non che ne abbia conosciuti tanti. Sei la prima. Mi chiedo se siano tutti così al Ministero. »
Così come? Che impressione aveva di me, adesso? Come gli apparivo? Era una connotazione positiva, giusto?
Riportai dietro l'orecchio destro una ciocca di capelli, abbassando appena lo sguardo. «In realtà siamo solo esseri umani... con tutto ciò che ne comporta, in positivo e in negativo» mormorai, vaga, persa per un attimo nei miei pensieri.
« Mi sentivo minacciato per quello che hai visto. »
Sollevai gli occhi nei suoi. Il cielo era nerissimo intorno a noi perché i lampioni ne nascondevano le stelle; il fumo lasciava lentamente i comignoli delle case insieme ai profumi della cena. Un leggero vociare scivolava dalle finestre e veniva a farci compagnia, riempiendo l'aria che si frapponeva tra i nostri corpi. Horus aveva smesso di guardarmi e di parlare ma io non potevo fare a meno di continuare ad indugiare sui lineamenti del suo viso - quasi che questi potessero rivelarmi le profondità del suo sentire. Di ciò che pensava davvero, di ciò che voleva davvero. La voglia rosea e tutti i racconti che le erano legati, gli occhi grigi, chiarissimi, affusolati e taglienti eppure, a volte, morbidi, dolci, sereni; cosa si nascondeva dietro quelle iridi?
«Lo capisco» dissi solamente, rompendo quei minuti di silenzio - tre? Cinque? Dieci? - in cui entrambi eravamo rimasti fermi a digerire quel lungo pomeriggio. Se solo ripensavo a come tutto era cominciato mi pareva quasi impossibile essere arrivata fin lì. Da una semplice coincidenza, dalla voglia di passeggiare e distrarsi dopo che Rosalie era andata via, a quell'incontro casuale; alla diffidenza, alla minaccia, all'imprevisto, al patto, a... qualcosa di indefinito che, in un modo che ancora non riuscivo del tutto ad afferrare e capire in pieno, ci aveva legati. O almeno, per me era così. Percepivo ormai qualcosa da parte sua, inspiegabile ad alta voce, ma potevo parlare certamente per me stessa. Non avrei dimenticato quel ragazzo. Non sarei andata via da lì per archiviare quei momenti in uno dei cassetti abbandonati della mia memoria, in attesa che svanisse col tempo. Ero certa che Horus sarebbe rimasto, ben visibile nei miei pensieri ricorrenti e forse anche nei miei sogni. E l'idea mi stringeva lo stomaco.
« Senti. Non mi hai creato nessun problema. Tutt’altro. »
Tutt'altro? Dopo quello che gli avevo fatto, mi stava facendo capire che era stato quasi contento di incontrarmi? Di essere trascinato in quell'assurdo pomeriggio?
Sorrisi e sorrise anche lui. Spostai le pupille nelle sue ed ebbi il desiderio di sollevare una mano e poggiarla sulla sua guancia, sfiorare con i polpastrelli la sua pelle lattea e scivolare con questi sulla bocca. Una parte di me, che faticosamente tenevo a bada, avrebbe voluto sollevarsi sulle punte e poggiare le mie labbra sulle sue, in un bacio leggero, dolce. D'addio.
E mentre pensavo che non l'avrei più rivisto, le sue parole mi sorpresero. Parlando della cena avevo scherzato; avevo usato quell'espediente per sdrammatizzare una situazione tesa. Ma sapevo bene che, al di là della recita, una cena tra noi non aveva motivo di esserci. Eppure Horus l'aveva tirata in ballo. Al generico e di circostanza ''forse sì, è meglio rimandare'' aveva poi aggiunto dell'altro; che voleva offrirmela la prossima volta che ci fossimo rivisti. La prossima volta. Ci sarebbe stata un'altra occasione?
Sbattei le palpebre e sorrisi al suo rimando alla Patagonia, portandomi alle labbra quella mano che avrei voluto poggiare sulle sue.
Esitai per qualche secondo, vedendo le sue dita protendersi verso di me. Il polso chiaro che spuntava dal tessuto e le dita lunghe, la mano grande con il palmo rivolto appena verso l'alto. Volevo toccarlo eppure il contatto con lui mi destabilizzava. Non mi era mai successo con un uomo.
«Ci sto» dissi infine, sempre con un leggero sorriso, allungando la mano e avvicinandola alla sua.
Un brivido mi percorse la schiena quando avvertii la sua presa salda, in contrasto con la sua pelle fredda. I contatti fra noi erano stati bruschi, rapidi, nervosi e per nulla cortesi, non fino a quel momento; ed era ben diverso e quasi doloroso quell'attimo imprevisto che stavamo condividendo. La promessa di rivederci colorava appena le mie guance, ne ero certa. Ed i miei occhi, di nuovo e sempre, non riuscivano a lasciar andare i suoi.



 
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