Horus R. Sekhmeth
Era agitato.
Terribilmente agitato.
E quel tentativo di calmare il proprio istinto lo spingeva al punto da rimanere in silenzio, senza reagire a quanto Urania gli stesse dicendo. Se chiudeva gli occhi poteva ancora vedere il suo collo latteo, le vene che pulsavano lievemente, la striscia rossa del sangue nel passare la lama del pugnale sulla tenera carne. Poi però vedeva la linea del mento piccolo e appuntito, il naso costellato di efelidi, gli occhi che lo squadravano con un'intensità tale da fargli capovolgere lo stomaco, farlo quasi vergognare.
No, aspetta, questo cosa c'entrava? Indispettito, cercò di scrollarsi di dosso la sensazione che lo sguardo di Urania gli aveva provocato, ma fu impossibile. Continuava a percepirlo dietro di sé, proprio all'altezza della nuca e fu difficile trattenere la mano che voleva correre lì a grattarsi, come se questo potesse cancellare la sensazione che stava provando. Lo metteva a disagio e forse era proprio quello a spingerlo, più o meno inconsciamente, a reagire in maniera così violenta. Non riusciva a capire dove lei volesse andare a parare. Paragonando la sensazione scomoda alla scossa elettrica provata poc'anzi, Horus si ritrovò a pensare in che modo sbagliato il proprio corpo stesse reagendo a quella che era una reazione inaspettata. Era la frenesia dell'omicidio, a fargli agitare il sangue in quel modo? Sì, certo, pensò. Ma allora perché, premendo il palmo sul viso, si scoprì accaldato? Era arrossito? Perché, poi? Perché aveva guardato il suo collo? Per quel contatto forse fin troppo irruento spinto da una paura irrazionale, per il viso di lei sfrontatamente proteso verso il suo? Oh, era stato un accenno minimo e lui aveva istintivamente irrigidito il collo a sua volta, pronto ad allontanarsi, ma l'aveva notato.
*È come mi guarda.*Si ritrovò a rispondersi, mentre udiva il passo di lei alle proprie spalle. Alzò di scatto la testa voltandola in direzione del suono, ritrovando la schiena della donna poco più avanti di lui. Fasciata in un cappotto elegante verde pino, i capelli neri le ricadevano fra le scapole come un manto. A differenza di prima, ora non erano più incendiati dal sole e la luce dei lampioni sembrava quasi venir assorbita da quella chioma corvina che le ondeggiava, lievemente, sulle spalle. Dei jeans scuri le fasciavano la porzione di gambe visibile, evidenziando l'atleticità della muscolatura, forse derivante dagli allenamenti che il suo lavoro le imponeva. Il suo portamento fiero, così come aveva fatto il suo sguardo poco prima, gli ricordarono ancora una volta il gatto che aveva intravisto in quel vicolo tanto tempo prima. Se doveva definire Urania con una parola avrebbe detto: felina. Era conscia di essere così provocante? O forse era lui a pensarlo? Del resto non sculettava, non ondeggiava, era quasi marziale. Eppure la sua figura...
*Ma che cazzo, Horus.*
Imprecò scuotendo la testa a quel pensiero e ostinandosi a lasciar andare le gambe di Urania per concentrarsi sulla situazione. La raggiunse velocizzando il passo, senza proferir parola, mordendosi l'interno della guancia per imporsi un controllo che sin dall'inizio aveva perduto. Anche se non le aveva risposto e la sua testa era presa da ragionamenti assurdi, aveva udito quanto lei gli aveva detto e aveva capito. Era stato incauto, un idiota e la sua arroganza rischiava di mandare in frantumi quell'immagine che si era faticosamente costruito. Continuò a biasimarsi per tutto il breve tragitto, camminandole al fianco in silenzio. Non tenne, tuttavia, la testa bassa. La schiena diritta, lo sguardo ben puntato verso la porta che si intravedeva in lontananza, Horus era consapevole del proprio errore, ma il suo orgoglio gli impediva di andarle dietro come un cagnolino rimproverato. Non rimase mai dietro di lei, né gareggiò per esserle avanti, camminandole al fianco come suo pari. Sapeva perfettamente che il risultato di quell'incontro dipendeva quasi tutto da lui e dal suo sangue freddo. Se poi lei lo avesse fregato... allora avrebbe agito seguendo l'istinto. Prima di allora, però, doveva elaborare in fretta un piano, cercare di lasciar andare il nervoso, distillarlo in qualcosa di più producente piuttosto che lasciarlo defluire in una serie di atteggiamenti fin troppo spregiudicati. E poi, c'era quel miscuglio di sensazioni che l'agitava e che lo spingeva a ripetersi: “non sono in pericolo di vita, non c'è bisogno che le faccia del male”.
Per quanto la giustificazione che si era dato per le precedenti uccisioni potesse “funzionare” se si sorvolava una certa... etica, non poteva —e lo sapeva bene— cedere a quei desideri sbagliati. Era caduto in fallo fin dall'inizio, spinto da una situazione al limite della pazienza. Urania era giunta al momento giusto, proprio quando lui stava per cedere, ma Horus non era ancora abbastanza forte da ignorare del tutto le voci ed era lui, in realtà, ad aver mostrato a lei un fianco. Raggiunsero l'Ars Arcana proprio mentre lui faceva appello a tutta la sua forza di volontà per cercare di salvare la propria situazione.
Fu a quel punto che anticipò la donna di un passo, trattenendosi dall'allungare un braccio e poggiarle una mano sulla spalla per attirare la sua situazione. Non voleva toccarla, non se non strettamente necessario.
« Fai andare prima me. » Si sforzò di non usare il tono autoritario che sapeva gli sarebbe potuto uscire, forse più per ripicca per il modo in cui lei si era rivolto a lui, che per reale necessità. *Cos'è una gara? L'ho costretta io.* Dovette convenire. Non riuscì ad abbozzare nessun sorriso di circostanza che decretasse "la tregua" poiché aveva i muscoli tirati, ma ad un suo cenno, Horus poggiò la mano sul pomello d'ottone dell'entrata. Attese un istante, respirando a pieni polmoni l'aria umida per calmarsi una volta per tutte, poi, con la mano libera, controllò inutilmente la tasca che celava la chiave che sapeva essere ancora lì. Infine, spinse la porta.
La luce buia dell'Ars Arcana e il profumo familiare di pergamena e cera per legno non fu piacevole come invece lo era stato ogni volta che terminava una commissione. Tornare lì, quasi sempre vincitore, significava aver svolto correttamente l'incarico e aver vinto un'altra immaginaria partita contro lo scettico Lysander. Quella volta, però, il negozio gli sembrò claustrofobico, con le sue vetrine ammassate sui muri, le librerie, il possente bancone in fondo alla stanza come uno statico controllore. Lysander sedeva sulla poltrona che, solitamente, occupava quando era presente; a volte leggeva il giornale (rigorosamente NON la Gazzetta del Profeta), un libro, controllava gli incassi o l'inventario e in generale, a meno che non fosse qualcosa di estremamente complesso, gli elargiva un raro sorriso quando lo vedeva tornare con quanto gli aveva chiesto. Quella volta, invece, allo scampanellio della porta e quando le due figure si stagliarono oltre l'uscio, Lysander alzò lo sguardo verso Horus e, a giudicare dal colorito paonazzo delle sue guance, era decisamente infuriato. Molto infuriato.
« Dove diamine sei stato, ragazzo? Sei stato via l'intero pomeriggio per una cosa che richiedeva appena due ore! L'hai presa? Dov... »
« Ciao, Lysander. Sì, perdonami, ma ho avuto... problemi col committente. » Horus interruppe prontamente la voce dell'uomo per guardarlo con intensità. Avrebbe capito ciò che era davvero successo e cioè che quando gli aveva affidato l'incarico, l'uomo s'era dimenticato di dirgli tutta la storia? Lysander non era un idiota, in fondo, e a giudicare da come s'era azzittito, doveva aver intuito. Horus si frugò nella tasca con la mano sinistra, estraendone poco dopo la chiave che consegnò all'uomo. Lysander, però, pur prendendo meccanicamente l'oggetto, non lo guardava. Fissava Urania con evidente sospetto.
« Mi dispiace signorina. Siamo chiusi. » Con fredda cortesia, l'uomo si rivolse alla ragazza per poi lanciare un'occhiata di fuoco al Tassorosso. “Non te ne sei accorto che c'è una tizia dietro di te?” sembravano dire i furenti occhi smeraldini.
Horus benedisse la sua incredibile faccia tosta e la sua capacità di adattarsi alla situazione, qualcosa che gli aveva permesso sempre di recitare la parte dell'innocente pargolo sin dalla più tenera età.
Con familiarità, allungò un braccio attorno alle spalle di Urania, cingendola come se la conoscesse da sempre. Un sorriso all'apparenza sincero (simile ad una colica solo se lo si fosse guardato troppo a lungo) si aprì sulle sue labbra ed il ragazzo si sforzò oltremodo di comunicare la stessa ilarità anche col suo sguardo.
« Ah! Lei è Urania Donovan, è una mia amica d'infanzia. L'ho incontrata ad Hyde Park proprio mentre stavo venendo via. Lei vive... » *Dove cazzarola vivi?* Lo sguardo corse disperato per la stanza alla ricerca di un suggerimento per giustificare la sua presenza lì. Del resto, solo una lontananza sentita poteva aver spinto Horus a a trascinarsi dietro la presunta amica. L'occhio gli cadde su un libro sull'antica America del sud. Beh, era abbastanza lontano per far quadrare l'improvviso desiderio di portarsi l'amica al negozio, pur consapevole di cosa doveva riferire. « In Patagonia. Per lavoro. Era tanto che non la vedevo e così, ecco, siccome dopo andiamo a cena insieme, mi ha accompagnato qui. Rue questo è il signor Lysander, il mio capo. » Si voltò verso di lei, sempre con la solita affabilità, indicando con una mano la figura imponente dell'uomo. Lysander aveva grossi baffi bianchi, una folta chioma di capelli altrettanto candidi ed una pancia presumibilmente formata al novanta percento da alcol. Ma aveva occhi verdi brillanti che squadravano prima Horus, poi la donna. Le labbra, sottili, erano tirate in un'espressione indecifrabile. La presa di Horus sulla spalla di Urania ebbe un minuscolo, impercettibile spasmo. Ancora una volta quel contatto lo innervosì e le dita si strinsero alla stoffa del cappotto, resistendo. La farsa doveva essere credibile.
« Molto bella la Patagonia, signorina Donovan. Posso chiederle che lavoro fa lì? »
Horus si voltò verso Urania, le dita ancora aggrappate alla sua spalla, il volto simile ad una maschera di pietra.
*Sono spacciato*
Lo era davvero.
❝
"Knowing your own Darkness is the best method for dealing with the darknesses of other people".