| ♦ Horus R. Sekhmeth ♦ Outfit ♦Horus fissava con una certa perplessità il soffitto del proprio baldacchino. Aveva le sopracciglia corrugate ed una smorfia dipinta sul volto che esprimevano chiaramente il suo più profondo disappunto. Che pessima idea, si stava ripetendo sdraiato sul letto e ostinandosi a trovare un colpevole a quell’avvenimento. Era lì da ben cinque minuti, incapace di capire bene come fosse successo e come avesse potuto essere tanto stupido nel ritrovarsi in quelle condizioni. Eppure, era sempre stato così accorto, così attento: che la Magia si fosse insita anche negli oggetti e questi avessero cospirato contro di lui tentando di ammazzarlo? Ma no, pensò, che sciocchezza. La verità era che aveva la piccola tendenza e mania di voler sempre aggiungere quel dettaglio ad ogni suo abito. Qualsiasi fosse il tipo di ballo, ci doveva sempre essere nei suoi piani un bel mantello lungo e monospalla. Del resto, nessuno lo aveva mai fatto desistere: sua madre era amante quanto lui degli abiti ricercati, raffinati e dal sapore antico ed il sarto a cui affidavano il confezionamento di quei lavori era un maestro. Così, prima di ogni festa, Horus abbozzava rapidamente qualcosa su una pergamena, sua madre lo consigliava e poi lasciavano il tutto a quel benedetto sarto che, pace all’anima sua, aveva novantacinque anni ma cuciva ancora perfettamente. A pensarci bene, giudicò Horus, gli occhi ancora posati sulla stoffa del letto, forse era proprio perché il sarto era un vecchio bacucco che i suoi abiti avevano quel sapore ottocentesco che a lui piaceva tanto. Comunque, era tardi. Incredibilmente tardi. Sospirò, agitandosi come un’anguilla in mezzo alle alghe, cercando di liberare un braccio dal mantello. « Gnnnn ma che diamine… gnnnnn»Agitò le gambe, miseramente avvolte anche loro nella stoffa, poi le abbandonò, esausto. Syr, che dal comodino osservava il suo padrone con curiosità, scosse la testa e sgusciò via. « Noooo, Syr, non andare viaa, chiama aiuto! No aspetta… No macché non chiamarlo ma torna qui, supportami. » Implorò il Tassino stupidamente, rotolando su un fianco e finendo prono sul letto. La lucertolina, di tutta risposta, se la filò, per niente decisa ad assistere a quello stupidissimo suicidio. Horus abbandonò la faccia in mezzo alle lenzuola, smoccolando improperi di natura non ben specificata e lieto, in fin dei conti, che nessuno avesse assistito a quella scena patetica. Com’era possibile finire così? Un momento prima era lì che si guardava allo specchio, finendo di allacciare la fascia di velluto carminio che gli attraversava la spalla e gli cingeva la vita e poi, il finimondo: si era girato con uno scatto, calpestando il lungo mantello e inciampando rovinosamente in avanti. Aveva agitato le braccia, avvolgendosi nella stoffa e saltellando come un povero gnomo zoppo nel tentativo di non schiantarsi a terra e dopo qualche mezza ridicolissima piroetta, s’era spiaccicato sul letto, avvolto nel mantello come un filetto di maiale nel bacon. La stoffa era così stretta che le braccia erano schiacciate sui fianchi, a mo’ di salame e, confuso dall’accaduto, era rimasto così, immobile, indagando su come fosse possibile ritrovarsi in condizioni tanto stupide. « L’Arte di essere imbecilli, un best seller autobiografico scritto e redatto da Horus Ra Sekhmeth. » Borbottò, strattonando il mantello e chiudendo gli occhi per la paura di udire il rumore di uno strappo. Alla fine, ci riuscì: liberò prima il braccio destro, poi il sinistro e rotolando ancora nel verso opposto a quello del mantello avvoltolato, riuscì a sciogliere la matassa. « BASTA MANTELLI. » Esclamò, buttando di lato la stoffa con una certa enfasi e guardandosi intorno per accertarsi che non ci fosse nessuno. Ebbene. Qualcuno c’era. Un ragazzino dall’aria piuttosto rimbambita era fermo sulla soglia della porta appena accostata e lo fissava con fare piuttosto inquietante. Quando lo sguardo di Horus si posò su di lui, squittì e provò a scappare, ma Horus, con un tic evidente all’occhio, lo rincorse, fiondandosi verso i corridoi del dormitorio e rischiando di inciampare nuovamente in quel maledetto manto. « O ti fermi o t’assicuro che ti ritroverai a pulire la Guferia con uno spazzolino per i denti. Che poi riuserai. » Ringhiò, completamente consapevole di star esagerando, ma di non avere altra scelta. Il marmocchio sembrò non cedere, ma d’un tratto s’arresto di botto e si voltò mestamente verso Horus che lo squadrò.« Se ti ribecco ancora una volta a spiare nelle stanze di altri tuoi compagni, ti porto dal Vice Preside. » Lo minacciò, puntandogli un dito contro. Il ragazzino annuì vigorosamente, poi, torcendosi le mani, prese parola. Aveva un vocione così profondo che per poco ad Horus non prese un colpo. Ma la pubertà era così devastante? Era alto poco più di un metro e una gelatina e aveva la voce di un trombone, pensò lui sconvolto.« M-mi scusi signor Caposcuola, ma, volevo avvisarla. L’ho chiamata, ma ehm… non mi ha sentito.» * Fidati, brutto bugiardo, è impossibile non sentirti.* « Che c’è? » Disse invece.« Ehm… volevo andare al ballo, ma fuori la porta della Sala Comune… c’è una tenda… cioè è una ragazza, non so, però… è lì che fissa la nostra entrata ed… ehm, fa un po’ paura perché non si muove e non so se è finta o…»Horus non riuscì ad impedirsi dal guardarlo stralunato: una tenda vestita da ragazza? Uno scherzo di Pix? Davanti la Sala Comune? * Oh Amon, ma che ho fatto di male stasera?* « Va bene, ci penso io. Ora va’. E ricorda quanto detto. » Lo ammonì, benedicendo in cuor suo l’essere perennemente in anticipo che lo salvava da eventuali imprevisti. Lasciò che il ragazzino si defilasse e poi tornò velocemente in stanza. Stava dimenticando un ultimo dettaglio: aprì il cassetto del comodino, dove estrasse il regalo per Emily. Si assicurò che la carta blu prussia fosse intatta, prese la bacchetta e castò un Reducio: non avendo grosse tasche ed essendo, l’oggetto dentro il pacchetto, piuttosto delicato, aveva pensato a lungo su come risolvere la cosa. Poi si era ricordato che era un Mago e che la Trasfigurazione era una cosa meravigliosa. Così il regalo divenne non più grande di una gomma da cancellare e, soddisfatto, il Tassino se lo infilò nella tasca, nascondendo la bacchetta all’interno di una taschina cucita nel mantello. Infine, svicolando amabilmente lo specchio, uscì, preparandosi mentalmente alla famosa tenda che lo avrebbe atteso al di fuori delle botti. Quando raggiunse l’uscita della Sala Comune, però, tutto si sarebbe aspettato, men che meno quello che gli si parò davanti quando i barili si spostarono per lasciarlo passare. La prima cosa che vide non fu l’abito, riccamente decorato di fili d’oro e ricamato ad arte; né la cascata di riccioli rossi che spiccava come una criniera di fuoco sul blu oltremare del tessuto. Ma fu il suo viso. Non il trucco che dipingeva sulle sue labbra una maturità diversa da quella a cui era abituata, ma la sua luminosità, il brillio degli occhi, il dolce rossore sulle guance che risaltava le decine di efelidi che le punteggiavano il viso come stelle della notte. La bellezza di quel volto di bambola che, per un istante lasciarono Horus di stucco ed immobile a fissarla. Sapeva che Emily era bellissima e le aveva visto indossare tanti altri abiti da sera, tutti deliziosamente eleganti. Ma quella sera, forse per la prima volta, Horus si rese conto di quanto fosse splendida. « Ah. » Disse piuttosto ottusamente, sentendo il cuore partire verso il pomo d’Adamo e rimanere incastrato lì per qualche istante. Sì senti immensamente, incredibilmente fortunato; sarebbe voluto tornare indietro a parlare con quel trombone vestito da ragazzino e pigliarlo per la collottola e fargli chiedere scusa per averle dato della tenda. Ma, oddio, forse della tappezzeria qualcosa la decorazione dell’abito lo aveva, ma come biasimare lei, se lui aveva un lenzuolo appeso alla spalla? Tappezzeria con stile, giudicò. Si riscosse, avanzando verso di lei, sorridendole imbarazzato. Era anche la prima volta che frequentavano il ballo dopo quello che si erano detti, al loro primo appuntamento; il solo ricordo, gli riscaldava il petto.« Buonasera » *Zarina Emilyska Tendeskova.* « Vostra Grazia. Posso saltare i convenevoli e darle un saluto più confacente al mio rango? » La punzecchiò, senza tuttavia riuscire a resisterle. Fregandosene bellamente del fatto che erano in mezzo al corridoio, le cinse la vita con delicatezza, attirandola a sé e la baciò. Avrebbe voluto saltare il ballo e filarsela via, magari fuori da Hogwarts, lontano dalle persone e dai doveri, ma si accontentò: in fondo, sarebbero potuti uscire quando volevano. Si separò da lei a malincuore, come sempre, sentendo le orecchie imporporarsi e ringraziando che i capelli le censurassero. « Prima di andare, devo dirti che mi hai spaventato i Tassini. Non sapevano se fossi una bambola o una ragazza vera. Ma ti perdono. » Scherzò, per smorzare l’imbarazzo che, infingardo, ogni tanto continuava a tormentarlo poiché affatto abituato a quella confidenza. Eppure, non riusciva a farne a meno e se ne crogiolava. Avrebbe voluto dirle cose molto più appropriate, ma tacque. C’era tempo.
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