Un bruciore al polso fu la prima cosa che sentì non appena ebbe scagliato l’incantesimo. Ma non era stata la rottura della fialetta a causarlo, bensì l’incanto che il Mago aveva a sua volta castato. L’espressione sul suo volto era cambiata, si era fatta più crudele e non lasciava spazio a dubbi: poteva farle del male, voleva farle del male e lo avrebbe fatto, se solo l’incantesimo dell’Auror non lo avesse colpito per primo.
La seconda sensazione fu un odore familiare. Inizialmente lieve, come un ricordo in lontananza. Si chiese per quale motivo le fosse tornato in mente quel profumo in un momento così poco opportuno, quando la sua mente doveva essere interamente focalizzata ad affrontare le minacce che aveva davanti. Ma non le ci volle molto affinché il suo sguardo si posasse sulla nuvoletta perlacea che si stava formando davanti a lei. Il tempo di un respiro e comprese: Amortentia. La pozione d’amore più famosa e potente del mondo. Chiuse gli occhi, *Stupida* si disse, per non aver riconosciuto il tanto famoso liquido madreperlaceo. *Stupida*, non aveva preso in considerazione quella possibilità. Avrebbe voluto rispondere al Mago con una battuta tagliente, appuntita come il vetro che gli si era conficcato nella pelle, avrebbe voluto colpirlo di nuovo. Ma era tardi, le fragranze si stavano già innalzando fino a giungere rapidamente ai suoi sensi. Ora le poteva distinguere chiaramente.
Odore di carta intrisa d’inchiostro. Era l’odore che riempiva una stanza piena di libri, che aleggiava insieme ai granelli di polvere illuminati dall’unico raggio di sole che filtrava dalla finestra. Un odore che sapeva di caldo. Un odore tranquillo, come il suono lento e cadenzato delle lancette dell’orologio, unico rumore a rompere il silenzio e a scandire il ritmo della piuma sul foglio. L’aveva accompagnata nelle lunghe ore di studio, ad Hogwarts, quando con diligenza e precisione eseguiva i compiti assegnati, approfondendo quanto più poteva gli argomenti affrontati ed andando oltre quella che era la mera richiesta dell’insegnante. L’accompagnava tutt’ora, perché non aveva mai smesso di avere sete di nuove conoscenze. Era l’odore dei suoi successi e delle sue sfide, di ignoti che si aprivano continuamente davanti a lei e che - seducendola - le chiedevano di essere sondati. L’intimo piacere della scoperta, che zampillava dall’interno del suo essere e si espandeva fino a riempire l’intera stanza intorno a lei.
Odore di erba mista a salsedine. Sin da piccola aveva amato sdraiarsi sul prato del giardino di casa sua, l’eco del mare vicino come perenne sottofondo. Le piaceva il contatto fresco con la terra. Spesso si stendeva ad osservare il cielo, somma opera d’arte che la inglobava, senza confini. Di giorno, insieme alle risate rassicuranti dei genitori, quando le striature bianche appartenevano solo alle nuvole che solcavano il cielo e non ai loro capelli. Di notte, puntellato da una miriade di stelle, tante quante erano le voci dei grilli d’estate o le onde del mare d’inverno. Il vento le portava l’odore dell’acqua salata, che le rimaneva appiccicato alla pelle. Poteva quasi sentirne ancora il sapore sulle labbra, anche in quel momento, in quella stanza angusta che odorava di tenebre, persa nel centro di Londra, lontana dal suo mare. In quel posto - unico al mondo - si era sempre sentita al sicuro. Era l’odore di casa.
Infine, l’odore di lui. William. L’amico che aveva perduto. Era il profumo che sentiva quando affondava il viso nel suo abbraccio. L’odore che aveva sentito anche quell’ultima volta, quando stringeva il suo corpo inerme tra le braccia, perdendosi in quel profumo finché la notte non l’ebbe assorbito del tutto, portandolo via con sé. Barcollò all’indietro, colta di sorpresa da quell’odore che non sentiva da anni, un lampo freddo nello stomaco che le tolse il respiro e che le fece sentire il terreno mancare da sotto ai piedi. Lo aveva cercato per tanto tempo, quell'odore, negli oggetti che aveva lasciato o negli antri sperduti della sua memoria. Le era mancato nelle notti insonni o quando, ad ogni nuovo traguardo raggiunto, avrebbe voluto sentire di nuovo la sua presenza accanto, per condividere insieme le gioie. Iniziava a sentirsi stordita, non sapeva se per l’effetto della pozione o la sensazione di ubriacatura che le aveva causato quell’odore. Cercò di recuperare la ragione, tentando di cacciare il turbinio di ricordi che si stavano rimescolando in lei, toccando le corde più intime e profonde del suo essere. Tentò di portare il pensiero alla sua missione, a quel Distintivo di cui poteva sentire chiaramente il peso nella tasca della giacca. Cercò di aggrapparsi a quell’unico peso - materiale e tangibile - che era riuscita a trovare, unico brandello di razionalità che le rimaneva. Cosa sarebbe successo se avesse ceduto, se avesse perso il controllo di se stessa? Cosa le avrebbe potuto fare Dante Huges se fosse stata in suo potere? Sentì l’ombra di una fitta di disprezzo tentare di materializzarsi dentro di lei, ma non fece in tempo a prendere forma che ricadde subito nel vuoto. Perché nello stesso tempo combatteva anche contro se stessa e il desiderio di lasciarsi andare ancora una volta a quell’ultimo profumo. Al bisogno di sentirlo ancora, lì, perché non avrebbe più potuto sentirlo in nessun altro luogo. Solo una volta. Inspirò di nuovo, mossa dagli effluvi della pozione che si stavano avvinghiando dentro di lei. Il senso di stordimento aumentò. La pozione stava avendo il sopravvento. La sua mente parve colorarsi di bianco. Perché fino a un attimo prima stava resistendo? Contro cosa stava resistendo? Stavolta provò un leggero senso di calma. Le sembrava di stare meglio. La voce del Mago la raggiunse di nuovo. Era una voce incredibilmente attraente e si rivolgeva a lei. Batté un paio di volte le palpebre. «N-no» iniziò, una leggera titubanza, mista a stupore, dovuta allo stato di confusione da cui stava uscendo e alla presa di coscienza della verità delle sue parole. Alzò lo sguardo sull’uomo. «No.» stavolta era più sicura. Perché avrebbe dovuto andarsene? Era esattamente nel posto in cui voleva essere, con la persona con cui voleva stare. Abbassò la bacchetta, rilassando il braccio lungo il fianco. Il polso della mano sinistra le doleva, per un attimo se n’era dimenticata. Non ci badò più di tanto, era secondario. Con la coda dell’occhio notò che il fumo del calderone continuava ad avanzare. Non le sembrava importante. Un solo pensiero le occupava la mente: Dante Huges. Fece scorrere lo sguardo su di lui, apprezzandone i movimenti eleganti, lenti, sicuri. I lineamenti del viso erano perfetti, scolpiti tra il buio della stanza e la luce della candela. Le labbra sottili. Pendeva da quelle labbra. Bramava le sue labbra. Fissò lo sguardo nei suoi occhi chiari, imperturbabili, increspati solo da una venatura di lussuria. Fu quella striatura che la incoraggiò ad osare, più di quanto la sua natura le avrebbe concesso di fare normalmente. Fece a sua volta alcuni passi in avanti, avvicinandosi ulteriormente al Mago. Sul pavimento c’erano dei pezzi di vetro appuntiti: miseri ostacoli che volevano tenerla lontana dall’oggetto del suo desiderio. Illusi. Puntò la bacchetta verso di loro e *Oppugno*, con un movimento veemente tentò di scagliarli verso il muro. Non che le importasse di calpestarli, ma voleva far vedere loro cosa succedeva a chi osava frapporsi tra lei e il suo obiettivo. Continuò ad avanzare, avvicinandosi sempre di più a Dante Huges, fino ad essere abbastanza vicina da posargli lievemente una mano sulla camicia. Si alzò leggermente in punta di piedi, accostando le labbra al suo orecchio. «Non voglio andarmene» sussurrò, facendo scorrere la punta delle dita lungo il fianco, lentamente.
La pozione aveva vinto ogni sua resistenza. Era in suo potere.