Gear ~, Concorso a Tema: Luglio 2017 - Magia

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view post Posted on 27/7/2017, 17:52
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Serpeverde
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«Che cos'è la magia in un mondo come il nostro? Oscilliamo la nostra bacchetta ogni giorno, evochiamo il fuoco, ci spostiamo da un luogo all'altro, ormai ci apparecchiamo anche la tavola. Ho visto maghi sostituire il Lavatutum ad un tiepida doccia, altri dimenticare che cosa significhi ordinare la propria borsa da lavoro. Io personalmente ho sperimentato la magia quando per la prima volta ho poggiato le chiappe sulla scopa di mio padre. Volare fu un'esperienza che non dimenticherò mai; potere e controllo nel polso, la capacità di muoverti in ogni direzione, anche verso il cielo, sentivo di aver spezzato qualsiasi limite la natura mi avesse imposto. La seconda volta, invece, fu quando conobbi mia moglie. Ah! Lo capii dal primo istante che l'avrei sposata e avevo solo sedici anni, per la miseria. Ai tempi ero solo un purosangue come ce ne sono mille altri, arrogante ed egocentrico, sentivo il mondo nel mio pugno eppure non avevo capito nulla di cosa significasse vivere una vita... magica!
Mi creda signorina, la magia - quella vera - non è quella che ci hanno insegnato a scuola; io quelli li chiamo "utensili per pigri". La vera magia sono le esperienze che il mondo ci regala, a patto di essere abbastanza furbi da saperle cogliere. Potrebbe mai, lei, paragonare un Lumos al momento in cui ha scoperto di essere incinta?
Il mondo è pieno di magia, mia cara. A volte basta dimenticarsi della bacchetta per scoprirlo.»


[Hector J. Black]




Il ritorno a casa Black non era mai piacevole. Poggiare gli occhi su quelle gelidi assi non aveva smesso di lasciare un gusto amaro sul palato; quasi poteva sentire ogni spiffero fischiare tra le incanalature del legno, consumato dal tempo e lasciato al suo destino da una donna che sembrava ansiosa di veder crollare quella struttura su se stesse. Il sibilo del vento entrò insieme e lui dalla porta d'ingresso, accompagnando la sua entrata priva di alcuna accoglienza. Non sembrava esserci nessuno, come al solito, e di questo William non poteva che gioire. Dall'ultima volta in cui aveva messo piede in quella dimora aveva imparato a non aspettarsi neanche la presenza degli elfi domestici, unica nota dolente di quell'esperienza. Quelli erano gli unici due volti familiari che avrebbe gradito rivedere sebbene, da quando il giovane aveva fatto il suo ingresso ad Hogwarts, i loro rapporti si erano ridotti all'osso, per la gioia della madre. Si chiuse la porta alle spalle, eliminando così l'ultimo suono atto a disturbare l'inquietante silenzio di quell'enorme luogo. Appese la giacca sull'appendiabito e si preparò a dirigersi verso l'anfitrione, colmando lentamente le distanze che lo separavano dalla sua stanza. Non poteva avere la certezza che Lei non fosse in casa. Sapeva che prima o poi, durante quel periodo di vacanze, avrebbe incrociato il suo volto eppure il suo cuore non poteva far altro che serbare speranza in ogni possibile ritardo. Non era raro che Susan partisse alla ricerca di nuovi ingredienti per i suoi intrugli. Alle volte stava via per mesi, mettendo radici in chissà quale paese della Danimarca o della Scozia. Vi era la speranza di non incontrarla affatto, godendo così della tranquillità della solitudine tra delle mura che certo non rievocavano piacevoli ricordi; eppure era meglio tenersi cauti, non lasciarsi trasportare dalle fantasie e prepararsi all'idea di rivedere quegli occhi di ghiaccio scrutarlo con sufficienza dall'alto verso il basso. A nulla sarebbe servito dirle che anche quell'anno aveva vinto nella Giornata della Pozione, di sicuro lei avrebbe risposto che fosse il minimo per il figlio di una Pozionista del suo rango.
Salì le scale domandandosi se il gelo che avvertiva fosse realmente dovuto ad un'improbabile clima di Luglio o se fosse solo un brutto scherzo della sua mente. Era innegabile che i ricordi che accompagnavano quei quadri e quell'arredamento non fossero affatto piacevoli ma il Serpeverde aveva sperato che con la maggiore età sarebbe riuscito a liberarsi dei suoi fantasmi, almeno in parte. Accompagnato da quei pensieri, il giovane risalì l'ultimo gradino ritrovandosi al bivio del piano superiore. Uno occhiata di sfuggita fu lanciata sulla destra, in direzione della stanza della madre ma - nell'immobilità di quel luogo - William percorse i primi passi verso sinistra, ansioso di lasciare il suo bagaglio in camera e riposare le membra sul letto che lo aveva portato per mano verso i sogni della sua infanzia. Poi un rumore sinistro, lo scricchiolare di una porta e il tendersi dei nervi; rimase paralizzato per un'istante, quasi incapace di voltarsi ed accertarsi che fosse opera della madre. Non l'avrebbe mai afferrata in camera sua ma il suo primo pensiero fu quello di accertarsi che la bacchetta fosse ancora nella tasca del pantalone. Gli ci volle qualche secondo prima di decidersi a fare marcia indietro e assicurarsi di essere solo. A testa bassa, i suoi occhi smeraldini scrutarono in direzione della stanza di Susan notando la porta ancora ben chiusa. Un altro scherzo di una mente troppo stanca? No, era sicuro di aver sentito una porta scricchiolare, dunque, afferrato il coraggio in mano, si decise ad avanzare, superando le scale per il piano inferiore, poi la stanza precedentemente incriminata. Ne rimaneva solo una.
*Possibile che?* Accelerò improvvisamente il passo, svoltando l'angolo che lo separava dalla risposta al quesito che si era appena posto. Un tonfo lo paralizzò una seconda volta ma questa lo tenne inchiodato al pavimento per ben più di qualche istante. La porta di quella stanza era aperta, l'ufficio del padre, quella stanza a cui Susan gli aveva sempre negato l'accesso. Il pensiero che il padre fosse tornato dopo diciotto anni dalla sua scomparsa lo attraversò solo per un'istante, del resto gli era impossibile anche solo immaginarlo. Per anni aveva lavorato sul rimuovere quella figura paterna dalla sua mente eppure - nell'arco di una manciata di secondi - tutte le sue certezze e il suo lavoro erano crollati sotto l'inarrestabile potenziale delle emozioni umane. Mille domande accompagnarlo i successivi passi: Era vivo? Era tornato? Avrebbe finalmente scoperto il motivo della sua fuga? *E' qui per me?*
La mano sinistra afferrò la porta mentre il viso del ragazzo sbirciava all'interno della stanza. Deserta, un aggettivo con cui avrebbe volentieri descritto anche il suo spirito. Si sentì tremendamente sciocco per essersi fatto delle illusioni tanto infantili. Suo padre era un codardo fuggito pochi mesi dopo il concepimento, colui che l'aveva lasciato nelle mani di quella donna. Sì, ancora una volta tornò a ringraziarlo per aver fatto di lui un gelido involucro privo di alcun calore umano, un'essere che nella sua perfezione poteva ambire a scopi ben più grandi di un comune mago. La tentazione di chiudersi quella maledetta porta alle spalle lasciandosi dietro il suo passato fu grande ma, in parte curioso, in parte rassegnato, William varcò quell'uscio scrutando all'interno di un luogo immacolato che conosceva ormai a menadito. Tante volte aveva passato lì i suoi pomeriggi di solitudine, seduto alla scrivania definendo i contorni di un padre che non conosceva. Tabacco, fogli di pergamena, tomi di creature del mondo magico e intrugli tra i più disparati erano ciò che il giovane Black aveva toccato con mano cento e una volta, immaginandosi il padre dedito ai suoi affari, qualunque essi fossero. Dentro quella stanza, rimasta immutata se non per il massiccio strato di polvere che la sovrastava, lo studente smise di chiedersi come mai quella porta fosse aperta. Per qualche strana ragione, rimanere in quella stanza lo aiutava a calmarsi.
Sebbene non fumasse da tempo, decise di utilizzare per la prima volta il tabacco del padre che - per quanto ricordava - doveva trovarsi nel cassetto della scrivania. Lo aprì senza troppi indugi ma, di fianco al tabacco, vi trovò qualcosa che non aveva mai visto. Opaco, consumato più dall'uso che dal tempo, un piccolo orologio da taschino placcato in argento colorava l'interno impolverato di quel cassetto. Possibile che, delle numerose volte in cui aveva messo le mani in quella scrivania, William non si fosse mai accorto di quel gingillo? Lo osservò per diversi minuti; il gusto di trovarsi qualcosa di nuovo con aiutarsi a dipingere la figura del padre fu senza alcun dubbio illuminante. Era rotto, la lancetta dei secondi continuava a spostarsi avanti e indietro, l'ora era fissa sulle quattro e sette. Possibile che avesse trovato finalmente un'indizio sulla sua figura? Come rincuorato da quell'idea, rapido voltò l'oggetto, leggendone le incisioni sul retro: "H. J. Hume, Whitcomb Street 64".
Londra.


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Londra era una città che William riusciva superare con non poche difficoltà: muoversi senza l'utilizzo della scopa, immerso in una folla di gente ignara lo faceva sentire simile a tutti gli altri, facente parte di un agglomerato così grande da apparire ridicolo agli occhi di chi vede il vero potenziale nel singolo individuo. Una smorfia disgustata lo accompagnò per tutto il viaggio mentre il mento si nascondeva sotto il collo di un cappotto forse troppo pesante per quelle temperature ma spesso a sufficienza da farlo sentire protetto da ciò che lo circondava. Alzò lo sguardo verso la targhetta bianca all'angolo della strada per poi tirar fuori dalla tasca il vecchio orologio del padre. *Whitcomb Street* Una folata di vento si sollevò improvvisamente rammentando a tutti l'arrivo della pioggia già presagita dallo scurirsi delle nuvole in cielo. Quel monito da parte della natura gli impedì di tuffarsi in nuovi pensieri e sembrò guidarlo nella ricerca del numero 64, lì dove forse avrebbe trovato le risposte che cercava. Mosse pochi passi in quella strada che - con i numeri a fargli da guida - trovò l'insegna di una vecchia bottega, quasi nascosta da strutture ben più luminose e moderne ai lati. L'insegna recitava "Mr. Hume" e tanto bastò a William per convincerlo di essere nel posto giusto. Era deciso ad entrare, mostrare il suo lato più oscuro pur di ottenere tutte le possibili informazioni, eppure - quando la sua mano si poggiò sulla porta d'ingresso - si impietrì, terrorizzato al pensiero di cosa effettivamente avrebbe potuto scoprire. Prese un lungo respiro prima di decidersi ad entrare e ciò che trovò non fu poi così lontano da quanto aveva immaginato ma lasciava trasparire un'aura ben più mistica, capace di sorprenderlo e allo stesso tempo affascinarlo. Si trattava di un'orologeria, ad occhi e croce molto vecchia e di certo lo spesso strato di polvere che l'accompagnava contribuiva. William si ritrovò circondato da un'accozzaglia di orologi a cucù e meccanismi di ogni genere; vi erano pendoli, sveglie, orologi di tutte le forme e dimensioni, carrillon e diversi balocchi di vecchia fattura. Il ticchettare di ogni lancetta e lo spostarsi di ogni ingranaggio sembravano intonare una melodia che difficilmente qualcuno avrebbe potuto definire orecchiabile ma che in quel contesto sembrava quasi non poter essere altrimenti. Ad eccezion fatta per un piccolo lume posto nella parte più interna della bottega, non vi era alcuna fonte di luce portando l'ex-prefetto a domandarsi quanto fosse prudente abbandonare l'ingresso, unica zona illuminata dalle vetrate che si affacciavano sulla strada. Girò intorno almeno una decina di volte per osservare le varie sfumature e i contorni di quelle creazioni che si ammassavano nella bottega; ad ogni sguardo era possibile scovarne una nuova, armata di particolari completamente diversi ma animata dalla stessa particolarità di tutte le altre. Di certo non poteva definirsi un esperto di quelle che per lui erano solo cianfrusaglie babbane ma aveva come l'impressione che fossero tutte il frutto del medesimo artigiani, perennemente il lotta per la creazione di qualcosa di nuovo, quasi volesse associare a ciascuno di quegli ingranaggi una diversa esperienza.
«Un cliente! Non se ne vedono molti oggigiorno.» Impreparato, il giovane Black si voltò di scatto in direzione della voce proveniente dalle spalle, spaventando anche l'anziano signore che - evidentemente - non si aspettava una simile reazione. «Oh, numi!» William lo vide sbattere le palpebre un paio di volte prima di afferrare i suoi occhiali e strofinarne le lenti sui pantaloni, probabilmente più logori dei vetri. «Lo so, lo so, questo frastuono può dare alla testa... ma ci si abitua presto, sai?» Se da un lato il vecchio aveva recuperato immediatamente la sua compostezza, il giovane invece si sentì spaesato ancora per diversi secondi, colto dal insano dubbio che quell'uomo, in un altro tempo, avesse avuto qualcosa a che fare col padre. «Il signor Hume?»
«Così dice l'insegna, ragazzo. Cosa posso fare per te? Ti si è fermato l'orologio?»
Tanta confidenza e allegria lo mettevano a disagio. Aveva sempre avuto difficoltà a rapportarsi con persone del genere sebbene avesse sempre trovato piacevole la compagnia delle persone anziane le quali serbavano tutte storie emozionanti, seppur avvolte infiocchettate a dovere. Quell'uomo però non era come tutti gli altri, il suo nome era riportato su quell'orologio da taschino e - sebbene potesse semplicemente trattarsi di colui che l'aveva realizzato - in qualche modo William sperava di trovare in lui un ponte che lo conducesse ad una nuova tappa, sempre meno distante dall'ombra di un padre di cui non sapeva nulla. Ad incuriosirlo maggiormente, fu la stranezza di trovare un accessorio babbano nel cassetto della scrivania di un purosangue, un Black che aveva sempre immaginato austero tanto quanto la madre, visto e considerata la puzza sotto al naso che quest'ultima ostentava. «Qualcosa del genere, in effetti.» Incapace di tergiversare ulteriormente, tirò fuori dalla tasca l'orologio, così da mostrarlo all'orologiaio. «Per caso riconosce questo orologio?» L'anziano, incuriosito, non perse tempo e afferrò l'oggetto per la catenina, portandolo vicino agli occhi per esaminarlo con cura, prima sul fronte, poi sul retro. La sua espressione cambiò radicalmente non appena si accorse di cosa realmente aveva davanti, dettaglio che William non mancò di notare. Sembrava assurdo, ma le sue fantasie di trovare in quell'oggetto un indizio sembravano sul punto di concretizzarsi.
Staccatisi dalle placche in oro, gli occhi di Hume si posarono sul volto del giovane, osservandole i lineamenti in un modo in cui non aveva fatto prima. Fu allora che la sua espressione tornò ad essere la stessa con cui l'aveva accolto.
«E' mio, se anche vi fosse inciso un nome diverso ne riconoscerei comunque la fattura. Si tratta senza dubbio di una commissione, così come ne ho fatte tante. Perché me lo chiedi, ragazzo?» Il suo tono fu talmente indifferente da disintegrare tutte le speranze che Black aveva coltivato in quegli interminabili secondi; le sue parole cozzavano così tanto dalla sua espressione che il giovane ebbe il dubbio di non aver preso una cantonata: forse aveva visto in quel volto ciò che voleva vedere, offuscando la realtà. La delusione e la vergogna furono tali da fargli desiderare di essere il più lontano possibile da quel luogo. «Temo non abbia alcuna importanza. Mi scuso per il tempo che le ho rubato.» Con fare frettoloso, William recuperò l'orologio per poi voltarsi e proseguire in direzione dell'uscita. Aveva fatto un grave errore ad illudersi ed ora sentiva di starne pagando le conseguenze. «Frena! Frena, giovanotto. Quello è un mio orologio e si da il caso che sia rotto. Non ti lascerò uscire di qui prima di averlo aggiustato.» Hume cominciò ad agitare il braccio come un forsennato pur di farsi ascoltare dal giovane che fu costretto a rimandare la sua uscita di scena ancora di qualche secondo. «Non è necessario, davvero, non avrei neanche il denaro per pagarla.» Che non avesse soldi babbani con sé non era una menzogna ma la realtà era che voleva uscire da quella bottega il prima possibile così da poter continuare a sentirsi un'idiota in pace, a casa sua. «Non voglio i tuoi soldi, mi basta ripararlo, poi sarai libero di andare.» Un sorriso compiaciuto, a tratti familiare, solcò il viso colmo di rughe del signor Hume. Per qualche strana ragione, quel suo modo di fare lo privò di polso, tanto che non riuscì ad opporsi ad una simile richiesta. Sarebbe bastato un semplice Reparo per rimettere a nuovo quell'insieme di ingranaggi ma, a tratti incredulo, a tratti perprello, William rimase immobile, accondiscendente di fronte alle parole del vecchio. «Su,su vieni, siediti qui! Non ci metterò molto.» Gli venne indicata una vecchia sedia impolverata, circondata anch'essa da quel ciarpame che il vecchio riteneva opere di sua creazione. Il fare spiritato e colmo di giubilo del vecchio poco si legavano a quel frastuono che continuava a riempire la stanza, sostituendo un silenzio che il Serpeverde avrebbe di gran lunga preferito.
Col sorriso sulle labbra, Hume afferrò degli strani attrezzi di metallo e li utilizzò per svitare delle piccole viti poste sull'arnese ed aprirlo, rivelandone un contenuto ben più complesso di quello che Black aveva immaginato. Estremamente rigido sulla sua sedia, alzò il collo per poter osservare meglio l'interno dell'orologio, notando così tutti i piccoli ingranaggi al suo interno. I babbani erano incredibili, non sapeva dire se l'incapacità di lanciare incantesimi derivasse da una menomazione del loro intelletto o da un fattore esterno ma, di certo, quegli esseri erano in grado di sorprenderlo. Quei meccanismi erano talmente piccoli e numerosi da avere dell'incredibile. Forse non erano in grado di volare, di sfruttare il potere dei quattro elementi o di uccidere un uomo con la semplice volontà canalizzata da un ramo di legno ma, nelle loro menti ingegnose, vi era un tipo di magia che William non riusciva a catalogare. Hume doveva essersene accorto perché i suoi occhi si posarono sulla sua figura e il suo sorriso parve allargarsi considerevolmente, tanto da farlo apparire a tratti inquietante.
«Dimmi, mhh... com'è che ti chiami, di grazia?» Tardò qualche istante a rispondere, non affatto convinto che rivelare il suo vero nome fosse una scelta oculata. Eppure qualcosa in quell'uomo riusciva a rasserenarlo. «William, William Black.»
«Bene William! io sono Hector Hume. Dimmi, questo orologio, apparteneva a qualcuno a te caro?»
«Era di mio padre... o almeno credo.»
lo sguardo del ragazzo si abbassò di colpo e subito si maledisse per aver detto più di quanto non dovesse. Il vecchio, dal canto suo, ebbe la sensibilità di non rispondere e si limitò a riportare la sua attenzione sull'orologio, animato sempre dalla stessa incrollabile volontà.
Un sonoro TAC e l'orologio venne richiuso, spegnendo il flebile ticchettio che da pochi secondi aveva ricominciato a marciare.
«Ecco fatto, come nuovo... ma sempre arricchito delle sue esperienze.» Una frase criptica che lasciò William dubbioso. Evidentemente quel vecchio doveva tenere molto alle sue creazioni, tanto da dar loro un valore che il ragazzo poteva a stento immaginare. «Sono contento che questa piccola perla sia finita tra le tue mani. Non ricordo l'uomo a cui apparteneva ma so per certo che il suo ricordo ha per te un valore tale da dare a questo orologio un suono unico.» Con lo sguardo perso nel vuoto, Hume si portò l'orologio all'orecchio, sorridendo di rimando al suono che emanava. «Se ne avrai voglia, puoi tornare qui domani alle nove, c'è qualcosa che vorrei farti vedere.» Ridacchiò sotto i baffi prima di lanciargli indietro l'orologio del padre. Il gesto improvviso prese Black alla sprovvista ma i riflessi maturati come portiere lo aiutarono ad afferrarlo, lasciandolo con un'espressione incuriosita.

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Che cosa stava facendo? Di fronte all'insegna di Mr.Hume, William si chiese quanto senso avessero le azioni delle ultime quarantottore. Se ancora poteva dare un senso alla sua ricerca del giorno precedente, certo non capiva cosa vi facesse lì, ancora una volta. Quell'uomo lo aveva incuriosito, cosa mai poteva avere un babbano di tanto importante da mostrargli, valeva davvero il tempo speso? Rassegnato, abbassò il capo, lasciando cadere due ciuffi corvini lungo le guance. Entrò all'interno della bottega, questa volta preparato al frastuono che lo avrebbe accompagnato da lì fino al momento in cui finalmente fosse andato via, possibilmente il prima possibile. Il piano era semplice, vedere cosa il vecchio avesse in mente, negare qualsiasi cosa e andarsene. No, decisamente non valeva neanche il disturbo.
«Nove spaccate, puntuale come un orologio! Bene bene, ragazzo, avvicinati, ho giusto quello che fa al caso tuo.»
Per un momento Black ci sperò, magari Hume conservava una vecchia rubrica in cui aveva annotato il nome dei suoi clienti, affiancati dal numero di serie dell'orologio. Non era una cosa impensabile, non erano pochi a voler tenere in ordine certi documenti. Ma le sue speranze morirono rapidamente quanto il vecchio tirò fuori un vecchio carillon da sotto al bancone. «Mi aiuterai a ripararlo!»
Il Serpeverde rimase interdetto, che razza di richiesta era? Si sentì immediatamente preso in giro, come se quel vecchio stesse sfruttando le sue emozioni per ottenere un paio di braccia in più per il suo stupido lavoro. «Deve scusarmi ma io avrei...»
«Cosa? Altro da fare? Cosa potrà mai avere un ragazzino da fare in piena estate. Forza, vieni qui dietro, passa una giornata con questo vecchio e se domani non vorrai tornare sarai libero di farlo.»
«D-domani?» Per quanto tempo aveva intenzione di tenerlo lì dentro?
«E' un carillon ragazzo e tu certo non sai come funziona, pensi davvero basterà solo qualche minuto?»
Tutto ciò aveva del ridicolo, vi era un'incantesimo adatto per riparare oggetti come quello nonché un altro incanto per trasfigurare un altro oggetto in carillon. Ad occhio e croce quella sarebbe stata l'esperienza più inutile della sua vita. Non vi era motivo per restare ma qualcosa nello sguardo di Hume continuava a metterlo in soggezione, colpendolo nel profondo; in qualche modo riusciva a fare di lui ciò che voleva, era un semplice soldato nelle mani di un generale.
L'espressione che William sfoggiò in quell'occasione non lasciò spazio alle parole. Con le guance gonfie e lo sguardo intontito, il ragazzo aveva già deciso.
«Ottimo, sapevo di poter contare su di te! Vedrai, ragazzo, non te ne pentirai.»
Inizialmente la giornata si rivelò tremendamente lunga. Prima di esaminare il carillon, il vecchio si prese la briga di insegnare a Black le nozioni necessarie fondamentali, quanto bastava a fargli comprendere il meccanismo su cui si basavano quegli aggeggi. Partirono da una piccola sveglia, affatto complessa e quasi dozzinale nella sua esecuzione e ciò bastò a coprire quasi tutta la mattinata. Pian piano iniziò a trovare quelle funzioni interessanti, ogni tassello sembrava disposto alla perfezione alla fire di compiere un'azione ben precisa. Non era mai un singolo ingranaggio a muovere una lancetta ma un'insieme degli stessi e ognuno si incastrava l'uno con l'altro, andando a ricoprire una serie di funzioni che aveva dell'incredibile. Vi era una notevole mole di lavoro dietro ognuno di quei piccoli strumenti ed osservarli dall'interno era assolutamente elettrizante. Il vecchio non permise a William di rimanere anche durante il pomeriggio. A detta sua doveva assimilare quanto aveva appreso la mattina e riposare le membra al fine di ritrovarselo vigile il giorno seguente. Alle nove in punto, l'apprendista solcò nuovamente l'ingresso della bottega, raggiungendo un Hector Hume sempre più affabile e appassionato dal suo mestiere. Gli occhi di quell'uomo brillavano ogni qual volta posasse lo sguardo su un nuovo ingranaggio e spiegare quelle nozioni ad un ragazzo così giovane doveva essere per lui un emozione dimenticata. Black poteva sentirsi il costante peso dello sguardo del vecchio adesso. Quell'uomo non lo perdeva mai di vista e si emozionava per ogni successo che rapidamente conseguiva. Era un ragazzo sveglio, come ve n'erano pochi altri ed Hector non faticò ad accorgersene, aumentando così la mole di nozioni da poter insegnare. William, dal canto suo, pareva iniziare a divertirsi. La curiosità era trascesa in comprensione e i primi risultati finalmente riuscivano a vedersi. Hume si limitava a spiegare mentre William era la mano destinata ad assemblare con precisione; dunque - ogni passo avanti era possibile solo grazie all'intervento del ragazzo che poteva prendersene ogni merito, sentendo l'orgoglio gonfiarsi nel petto.
Al termine del terzo giorno, i due avevano cominciato a lavorare sul carillon. Il meccanismo era molto più complesso perché andavano bilanciati i tempi in base alle note e al loro andazzo. Da buon perfezionista, lo studente non si sarebbe accontentato di un risultato mediocre mentre - dal canto suo - Hume lo avrebbe ammonito ogni qual volta il giovane avesse commesso un'azione dettata dalla negligenza. Al quarto giorno, il frastuono generato dall'accozzaglia di sveglie, orologi e pendoli, si era trasformata in una melodia piacevole, di accompagnamento. Il volto di William era colmo di macchie di grasso che le sue mani si portavano dietro. In quell'ambiente chiuso, il caldo regnava sovrano e il sudore scendeva dolcemente lungo le guance di entrambi.

«Ci siamo, Will, questa è la prova del nove. Sei pronto?»
Il fiero apprendista ricambiò lo sguardo complice del suo insegnante prima di richiudere la placca che avrebbe nascosto l'interno del carillon. Prima di aprirne il coperchio e rivelarne le note, si prese la briga di osservarne le fattezze ancora una volta. Era piccolo, dannatamente piccolo. La forma ricordava quella di un orologio da taschino, vi era anche una catena che lo rendeva identico a quello del padre. Eppure, una volta aperto, non vi sarebbe stato alcun orologio, al contrario sarebbe apparsa una farfalla, dello stesso metallo del carillon, alzarsi in verticale e cominciare a ruotare, intonando le note di una melodia.



Nell'udire quel suono William rimase immobile. Non seppe spiegarsi cosa accade nella sue mente in quegli istanti interminabili eppur fugaci al tempo stesso. Non solo quella melodia era splendida, così candida da scaldare anche un cuore di ghiaccio come il suo, ma quello - più di ogni altra cosa - era il frutto del suo lavoro, qualcosa che mai e poi mai avrebbe potuto ottenere puntando la bacchetta su una scatola, urlando "Cariòn Versatio". No, questa era una magia completamente diversa, qualcosa che avrebbe faticato a dimenticare, il prodotto delle esperienze accumulate in quel giorno di lavoro, sudore e grasso sulle gote. Hector staccò rapidamente gli occhi dalla figura del prezioso oggetto per ammirare l'espressione incredula del suo apprendista. Gli occhi gli divennero così lucidi da sembrare in procinto di scoppiare a piangere come un bambino. Entrambi, in quel momento, avevano provato qualcosa di speciale, ognuno in maniera diversa ma in gradi di unirli.
«Direi che il tuo lavoro qui è terminato.» Il vecchio si voltò di colpo, alla ricerca di qualcosa da sistemare, così da non farsi vedere in quelle misere condizioni. «Quello l'hai riparato tu, quindi è tuo. Ora fila via dal mio negozio, non vorrai passare tutta l'estate in compagnia di questo vecchio, spero?»
Black non comprese quell'atteggiamento ma nel tono di quelle parole lesse tristezza e dolore. Quell'uomo non poteva essersi affezionato a quel punto nell'arco di pochi giorni o era forse una caratteristica delle persone anziane? Ad ogni modo, decide di rispettare la sua decisione e - afferrata la sua creazione - William non si voltò indietro, uscendo per l'ultima volta dall'orologeria.

Non passarono che pochi minuti prima che la porta di Mr. Hume facesse scattare ancora una volta il campanello che andò a confondersi nel brusio indefinito della bottega. Hector era seduto dietro il bancone, con lo sguardo spento, perso nel vuoto. Non sentì tintinnare il campanello ma nel vedere un'ombra muoversi di fronte a lui alzò rapidamente lo sguardo nella speranza di rivedere ancora una volta i tratti di William.
«Hai esagerato, Hector.» Il voltò dell'uomo s'incupì di colpo, avrebbe riconosciuto quella voce tra mille donne. Si alzò in piedi con sguardo severo, stringendo con forza il piccolo giravite che teneva sulla destra. «L'hai portato tu qui?»
«Mi ha trovato lui e di certo non spetta a te dirmi come comportarmi.» Era da tempo che il vecchio non mostrava quel lato tanto ostile ma ogni qual volta posasse gli occhi su quella donna il suo cuore non poteva che riempirsi di tristezza e rimpianti. «A quanto vedo sì, invece. Dovevi allontanarlo dal primo giorno, cambiare cognome non ti ha privato dell'egoismo dei Black. Se solo avesse scopert...»
«Lo so!» Un sonoro pugno colpì il bancone, interrompendo la donna che ora incrociava le braccia, aggrottando le sottili sopracciglia e scrutandolo con uno sguardo di ghiaccio tale da far impallidire una chimera. «Volevo solo passare un po' di tempo con mio nipote... Non tornerà.»




Edited by William Black - 27/7/2017, 21:45
 
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