Elizabeth si chiuse alle spalle la porta del minuscolo bagno. Rabbrividì: anche nel tepore di casa, la t-shirt che la copriva appena fino ai fianchi era indubbiamente troppo poco per gli ultimi giorni di dicembre. La strega depositò il morbido asciugamano sullo sgabello accanto alla doccia e si strofinò con le mani le cosce nude, nell'infruttuoso tentativo di riscaldarle. Allungò la mano sinistra e girò decisa la manopola dell'acqua calda. La rondine sul polso fremette, come se dovesse spiccare il volo da un momento all'altro, portando via con sé l'invito che portava nel becco – Bring it on – e lasciando soltanto pelle bianca e spoglia, privata di ogni significato.
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«Chi è qui il giocatore professionista e chi l'anonima ragazzina, eh?»
Elizabeth strinse le labbra e si avvicinò all'uomo che, braccia conserte e sorriso beffardo, non mosse un muscolo. La ragazza teneva il capo sollevato per guardare negli occhi il giocatore: «Brutto pallone gonfiato, stupido troll» gli soffiò in faccia «vermicolo insignificante, se giochi come parli mi stupisce che la tua squadra non abbia fatto la fine di una casa infestata da un Bundimun. Faresti meglio ad abbassare la tua cresta da galletto arrogante prima di fare una gran brutta figura.»
Lui si chinò, incombendo minaccioso sull'esile strega: «E chi me la farebbe fare, tu? Che fai, mi picchi?»
Elizabeth si sporse, si allungò più che poteva per portare il proprio volto a pochi centimetri da quello dell'uomo: «Oh, non c'è nulla che io desideri di più. Andiamo, fatti sotto!»
L'uomo arretrò di due passi e scoppiò a ridere. Una risata grassa, di pancia, con la testa gettata all'indietro e gli occhi chiusi. Qualche altro avventore cominciò a sorridere o ridacchiare.
La ragazza lo guardò torva per qualche istante. Lentamente estrasse la bacchetta e la puntò con calma. Inspirò e mormorò l'incantesimo. La scopa abbandonata nell'angolo si librò docile nell'aria, puntando dritta verso il giocatore ancora troppo impegnato a ridere per guardarsi intorno.
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Elizabeth si voltò verso lo specchio che già cominciava ad appannarsi. Incrociò le braccia davanti al corpo, afferrò con entrambe le mani l'orlo inferiore della maglietta e tirò verso l'alto. La stoffa scivolò sul busto liberando i fianchi snelli, il bacino sporgente, le costole che come i pioli di una scala congiungevano la pancia al seno. Prima che quel sipario di cotone le occludesse la vista, Elizabeth si bloccò. La maglietta tolta a metà, piegò il busto in movimenti ondulatori, fissando affascinata la propria immagine riflessa: la fenice e l'obscurus si affrontavano sul suo fianco in una lotta senza quartiere. Se si torceva all'indietro in quel modo, l'obscurus sembrava prevalere, soffocare la fenice tra le proprie spire; ma se invece si piegava verso destra, un po' di più, ecco, allora era la fenice ad incombere minacciosa sull'obscurus, a respingerlo nell'abisso.
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La mamma le sistemava la nuova divisa. Elizabeth si grattò la pancia, infastidita: il maglione le faceva prurito e la gonna era troppo larga.
«Su, Beth, smettila di stropicciare tutto.»
«Ma mi prude!»
«Ci farai l'abitudine e non ti darà più nessun fastidio, vedrai.»
«Nella mia scuola non ci facevano mettere queste stupide divise.» borbottò la bambina.
«Ora è questa la tua scuola. Abbiamo dovuto cambiarla per forza, dopo che-»
La mamma sospirò. Lasciò stare la divisa e guardò Elizabeth negli occhi, stringendole delicatamente le braccia: «Ascolta, Beth. È il nostro quarto trasloco, comincia a essere... Difficile.»
La bambina tacque. Aveva sentito mamma e papà discutere tante volte, lo sapeva che era colpa sua. Il labbro inferiore le tremò.
La mamma le ravviò una ciocca di capelli, ancorandola dietro l'orecchio. «Questa volta devi fare la brava, ok?»
«Mamma, io ci provo!» proruppe Elizabeth, la voce incrinata e gli occhi colmi di lacrime. «Ci provo, davvero.»
«Devi provarci di più!» sbottò la donna.
«S-scusa m-mam-ma. Io n-on l-loo fac-cio a-appos-ta, te lo g-giu-ro.» singhiozzò la bambina.
La mamma la abbracciò: «Va bene, piccola, ho capito, non vuoi fare quelle cose.»
«N-no m-am-ma.»
La mamma si scostò da lei, tirò fuori un fazzoletto e le tamponò il viso.
Elizabeth serrò gli occhi, li strinse più forte che poteva. La sentiva, sentiva la cosa che cresceva: doveva ricacciarla giù, o avrebbe fatto di nuovo qualcosa di brutto.
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Elizabeth scosse la testa, allontanò dalla mente il volto di sua madre. Concluse il gesto lasciato a metà e lasciò ricadere la maglietta a terra abbandonando le braccia lungo il corpo. Ora poteva vedere il profilo dello sterno, il seno minuto, le clavicole che si allungavano verso le spalle ossute. Elizabeth si voltò, esponendo allo specchio il fianco destro. La fenice e l'obscurus non si vedevano più, mentre al centro della scena la pantera, acquattata sulla pelle, discendeva minacciosa verso il gomito. Elizabeth fletté il braccio per poi distenderlo davanti a sé e studiò i muscoli della pantera, tesi sotto al manto nero, guizzare insieme al suo bicipite.
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Lo stanzone era sempre illuminato a giorno grazie all'Incantesimo Atmosferico e il pavimento era incantato per simulare una dozzina di terreni diversi. Elizabeth, i piedi saldamente piantati su una porzione di cemento, fronteggiava uno dei sacchi disseminati per la stanza. Diretto, jab, diretto, schivata, montante. L'insegnante, un mago alto dai lunghi capelli grigi legati in una coda, le si accostò. Elizabeth si sforzò di non farci caso e di mantenere la concentrazione. Gancio, montante, parata.
«Ti sei scoperta con il montante e hai parato troppo tardi. Arretra, se non puoi essere più rapida.»
Jab, gancio, montante, indietro.
«Mh.»
Elizabeth sbuffò. Avanti, diretto, diretto, montante, diretto.
«Hai anche delle gambe, te ne sei dimenticata?»
Jab, diretto, indietro, circolare medio.
«Mi sembrava di aver spiegato che un calcio circolare, soprattutto per un combattente inesperto, è più spesso controproducente che utile.»
Avanti, gancio, indietro, frontale, avanti, jab, diretto, indietro, laterale, avanti, gancio.
«Forse ti serve uno stimolo in più.»
L'uomo levò la bacchetta e la puntò sul sacco. Sciorinò una lunga formula e il sacco cominciò a contorcersi, assumendo lentamente le sembianze di un fantoccio di legno e gomma piuma, alto quasi due metri e semovente.
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Ripiegò il braccio e affondò la mano tra i capelli, pettinandoli all'indietro. Le catene intrecciate sull'avambraccio le passarono davanti agli occhi e, con esse, il numero che contenevano. Elizabeth non ebbe bisogno di leggerlo: quelle cinque cifre erano incise a fuoco nella sua memoria prima che sul suo corpo.
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Le catene pendevano inerti dai braccioli della sedia. Elizabeth non sapeva se l'avrebbero legata o no e lanciava ai grossi anelli di metallo occhiate ansiose, chiedendosi ogni volta se la loro posizione fosse davvero la stessa di poco prima. Di tanto in tanto si guardava intorno, percorreva con lo sguardo le panche e gli scranni: vesti e gessati ed espressioni serie, gelide, severe, disinteressate. Per lo più, Elizabeth si fissava le ginocchia. «Procedimento numero 26773» Elizabeth guardó in alto: proprio di fronte a lei, poco sotto gli scranni più alti, una donna si era alzata in piedi. Alta e magra, fasciata in un tailleur color crema, capelli corti, poche rughe sul volto, occhiali ovali calati sul naso e una pergamena tra le mani. «Imputata: Elizabeth Mary Ashton. Capi di imputazione: Uso Improprio delle Arti Magiche, violazione dei Regolamenti per il Controllo Regolativo delle Scope, organizzazione di Eventi Magisportivi non autorizzati. Presiede la seduta: Theophilus Claude Julius Bradshaw, Ordine di Merlino-» Elizabeth non ascoltò altro. Sentiva le lacrime pungerle gli occhi, così li fissò a terra. Non potevano rimandarla ad Azkaban. No. Non l'avrebbero fatto. Del resto, perché farla uscire per poi rimandarcela? Non avrebbe avuto senso. Giusto?
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Lo specchio ormai era del tutto appannato, l'acqua doveva essere calda. Elizabeth si voltò, si sporse nella doccia e allungò il palmo sinistro fin sotto il getto d'acqua, per saggiarne la temperatura. L'ostacolo improvviso dirottò qualche goccia sul corpo di Elizabeth, sul viso, sul busto, ma soprattutto sul braccio. Piccole perle d'acqua ricoprirono il cielo notturno e il manico di scopa sull'avambraccio: era come guardarli da una finestra in un giorno di pioggia.
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La strega si chinò in avanti, il busto quasi aderente al legno, e la scopa scattò in avanti. Una breve occhiata dietro di sé, soltanto una frazione di secondo: gli avversari più vicini erano a diversi metri da lei, i più lenti neanche li vedeva più. Elizabeth sorrise. Non importava chi fosse davanti alla partenza: lei seminava sempre tutti nel tratto tra gli alberi. Si inclinava fulminea a destra o a sinistra, cambiando la traiettoria di quei pochi gradi sufficienti ad evitare i tronchi di appena qualche centimetro. Non rallentava per evitare i rami che le tagliavano la strada: scendeva o saliva di quota di mezzo metro, oppure si capovolgeva in volo, o si raccoglieva tutta sulla scopa per sporgere il meno possibile. Nessuno poteva attraversare quel breve tratto di foresta alla velocità con cui lo faceva lei. Non senza schiantarsi.
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Sì, era calda. Elizabeth agganciò con i pollici gli slip, li fece scivolare morbidi lungo le gambe: bacino, fianchi, le scintille blu, cosce, la bacchetta, cosce, ginocchia, tibie, caviglie. Sollevò prima un piede e poi l'altro per liberarli dall'indumento. Elizabeth chinò la testa e i capelli le coprirono gli occhi. Raccolse le ciocche dietro l'orecchio spostandole in punta di dita e lasciò che quella carezza proseguisse lungo il collo, superasse la clavicola, scendesse fino alla sommità della coscia, a sfiorare delicatamente il disegno. Sarebbero bastate due parole, un movimento di bacchetta, per far tremare le particelle d'inchiostro, farle muovere e scivolare sulla pelle fino a comporre qualcosa di completamente diverso. Ma quelle parole e quel movimento Elizabeth non aveva mai voluto impararli.
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Aprì gli occhi e immediatamente li richiuse, accecata dal biancore asettico delle lenzuola e delle tende. L'infermeria. Agrottò le sopracciglia, si umettò le labbra secche. Improvvisamente ricordò e spalancò gli occhi. Si sollevò a sedere gettando di lato le lenzuola e poi rimase immobile, a fissare la coscia nuda. Sulla pelle candida spiccava il disegno di una bacchetta magica: non era molto accurato, ma si capiva quale fosse il soggetto. Dalla punta della bacchetta usciva un getto di scintille color zaffiro.
La tenda venne scostata, l'infermiere della scuola si accostò al letto. Elizabeth spostò su di lui gli occhi sgranati.
«Ho pensato che così fosse più carino.» spiegò l'uomo con un sorriso. Tornò serio, accostò uno sgabello al giaciglio e vi si sedette. Prese la mano di Elizabeth tra le proprie: «Mi dispiace molto, cara: purtroppo non ho potuto cancellarlo. Erano passate troppe ore e con quel tipo di magia... Ho potuto solo camuffarlo, con un Rivela Incanto riprende la forma originale. Almeno, però, non avrai sempre sotto gli occhi quell'orribile scritta.»
Elizabeth batté le palpebre per ricacciare indietro le lacrime. «Io-» cominciò. Si schiarì la voce. «La ringrazio molto, davvero. È-» Espirò, si costrinse a sorridere. «È bello, ora. Va bene. Grazie».
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Elizabeth entrò nella doccia, tirò la tenda e si mise sotto il getto. Lasciò che l'acqua bollente le scorresse sui capelli, sulle spalle. Chinò la testa in avanti e le ciocche bagnate scivolarono in avanti, lasciando scoperta la schiena. L'acqua martellava sulla rosa dei venti, accarezzava le rose, solcava le facce dei dadi.
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Era già in piedi nel camino, una manciata di Polvere Volante nel pugno chiuso e una sacca con le sue poche cose stretta nell'altra mano, l'indirizzo di destinazione chiaro nella mente. Il tatuaggio sulla schiena, fresco di pochi giorni, le prudeva terribilmente. Quando l'impulso di grattarsi diventava insopprimibile, seppelliva il disegno sotto uno spesso strato del composto cicatrizzante e idratante che le aveva preparato Rigel. Era bravo in quel genere di cose, se fosse andato ad Hogwarts probabilmente sarebbe diventato Medimago. Il ragazzo le stava appunto porgendo un altro grosso barattolo, che Elizabeth incastrò goffamente sotto il braccio. «Ancora?» gli disse con un sorriso. «Quello vecchio è ancora quasi pieno!»
«Non posso sapere quanti altri tatuaggi farai prima che ci rivediamo.» ribatté prontamente lui. «Scommetto che tra un anno mi implorerai di preparartene ancora.»
Elizabeth gli mostrò la lingua e Rigel sorrise e indietreggiò, tornando vicino agli altri.
Eccoli lì, uno accanto all'altro in una linea scomposta di fronte al camino che avrebbe portato via Elizabeth.
Marcie, Jules, Dewie, Shedir, Rigel, Herm.
Eccoli lì, per salutarla, tutti e sei. E con lei sette.
Sette, come le rose indelebili sulla pelle di Elizabeth.
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