« we are the blood of the underground, we are a chosen seed so they will come for us, we are the sons of a fallen race. »
N
on gli era mai piaciuto venire trattato come un ragazzino. Consapevole di aver sempre avuto una maturità diversa da quella dei suoi coetanei, Horus si era sempre sentito molto più grande della sua età. Era, in un certo senso, una forma di difesa che aveva adottato sin da quando si era ritrovato a confrontarsi con gli altri. Cresciuto in disparte, tra le mura domestiche e con pochissimi contatti con vicini e amici di famiglia, la sua diversità era sempre stata una lama a doppio taglio. Ripetersi che andava bene così e che, piuttosto, era in grado di dire, fare e pensare molto più di un qualsiasi altro ragazzino era una consolazione per un bambino solitario. A volte, forse, una consolazione un po’ troppo forzata. Col tempo era poi diventata un’aspettativa da dover rispettare, qualcosa da dimostrare a se stesso e agli altri e si era evoluta come una catena che gli aveva tarpato le ali. Generata dall’insofferenza, alla fine, quella superbia era sfociata in un tratto del suo carattere che l’aveva quasi trasformato in
qualcosa in cui non si riconosceva. Lui, s’era detto un giorno, non era così: lui era molto di più. Aveva allora accettato la sua natura e benché non fosse uno sciocco, e considerasse se stesso al di sopra di molti altri, Horus aveva imparato che errare era umano e lui lo era molto più di quanto avesse sempre ammesso con se stesso. Era e rimaneva un ragazzino che aveva tanto da imparare, nonostante tutto. Perciò affrontare uno degli ultimi ostacoli per quell’accettazione fu come liberarsi di un peso. Benché ancora appollaiato sopra il tetto della casa, con le gambe penzoloni giù dalla grondaia, Horus si sentì improvvisamente più leggero, come se stesse in realtà ancora volando. Parlare di quel fatto con una sconosciuta —nonostante le presentazioni— lo fece sentire paradossalmente meglio. Allora si strinse nelle spalle, abbozzando un sorriso colpevole quando lei lo riconobbe.
« Sì, ero io. » Annuì col capo.
« Sekhmeth… il cognome impronunciabile. » Aggiunse lievemente imbarazzato, passandosi la mano dietro la nuca. Ora che Elizabeth stava ripercorrendo l’accaduto, Horus si domandò come avesse fatto ad essere tanto ingenuo. Socchiuse gli occhi, abbandonando la figura della ragazza, e rivide se stesso, piccolo e infagottato nel mantello, mentre si dirigeva alla Testa di Porco convinto da Winston e Crowell. Che razza di imbecille, pensò con una smorfia. Osservò con distrazione i piccoli rivoli di fumo che si liberavano dalle labbra di lei e poi spalancò gli occhi. Serrò le labbra mentre un fiume di parole (ed insulti) si affollava sulla punta della sua lingua: man a mano che ne parlava, tutto assumeva senso e la figura di Tobias diveniva sempre più solida. Poi ispirò dal naso e l’aria fredda gli fece pizzicare le narici; c’era un vago sentore di sigaretta e fumo di caminetto nell’aria, ma non gli dispiacque dopotutto.
Poi, colto da un’improvvisa illuminazione, corrugò la fronte e la guardò per un momento con aria confusa.
« Aspetta un secondo… come fai a conoscere il mio nome? Nessuno sapeva niente di me, la Gazzetta non aveva fatto nomi e il Preside si era ben guardato di far sapere a tutti della nostra espulsione dal campionato. » Ricordava la vergogna che aveva provato e la delusione negli occhi di Peverell, allora anche Capocasa Tassorosso, quando l’aveva convocato nel suo ufficio. Ma quel pensiero non durò a lungo: si era rifatto, dopotutto, no?
Comunque sia, la sua esperienza doveva esser stata davvero una stupidaggine, in confronto a quello che doveva aver vissuto Elizabeth Ashton. La guardò curioso, ma senza alcuna traccia di compassione negli occhi chiari, quando lei rivelò un dettaglio della vicenda che le era costata l’espulsione. Aveva fatto notizia e benché i nomi fossero stati oscurati anche in quell’occasione, il fatto era stato così eclatante che tutti nella Scuola avevano saputo chi era stato espulso. In quel momento si chiese cosa doveva aver spinto una ragazza come lei a giocarsi il tutto e per tutto per delle corse clandestine: adrenalina? Amicizie? Noia? Galeoni?
Nel pensarci, Horus si sorprese di non biasimarla affatto e, anzi, di provare una punta di ammirazione; non per il gesto sconsiderato, ma per quella libertà che Elizabeth sembrava urlare a tutti quanti, anche lì, sopra il tetto di una casa di Hogsmeade, mentre fumava la sua sigaretta.
« Credo che a Winston facesse comodo perché quella contro Corvonero era la mia… seconda partita, mi pare. Ero molto in ansia e sotto pressione, la partita precedente avevo sbagliato un gol per colpa di una… uhm… rivale. » Abbassò lo sguardo mentre ricordava. Il vuoto sotto di sé non gli fece venire alcuna vertigine e, anzi, fu tentato di abbandonarvisi e volare via come falco.
« Mi ero convinto che avrei giocato contro di te e quello stronzo ha fatto leva su questo, per convincermi a coprire lui e gli altri. E poiché mi vergognavo della mia stessa paura, non l’avevo detto a nessuno. Mi aveva visto guardarti sul campo e poi mi aveva aspettato fuori gli spogliatoi. È così che mi ha detto che ti conosceva e tutto il resto. » Nonostante fossero passati tanti anni, una punta di rossore gli colorò le guance pallide. Non c’era niente di male, si ripeté, ad ammettere di averla temuta, nonostante non si fossero mai parlati (e quella fosse stata l’unica occasione in cui l’aveva vista). Ed ora che rialzava lo sguardo su di lei, sottile e sicura di sé, Horus rivide la stessa ragazza che volava via con fluidità e destrezza, quel giorno di sette anni prima. Dopo l’inseguimento di quella mattina, Horus dovette ammettere che non aveva nulla da biasimarsi per aver temuto lo scontro con lei.
« I tempi? » La domanda scivolò fuori dalle sue labbra senza che lui potesse frenarla. Si morse l’interno della guancia, stupito dalla sua curiosità, ma dopo un primo momento di indecisione, Horus decise di non trattenerla. Non aveva sentito bene; nonostante il silenzio che li circondava la voce sommessa di lei non gli aveva permesso di comprendere il contesto. Poteva esserci altro, sotto tutta quella storia?
« Cosa intendi? » Chiese infine e si protese leggermente verso di lei, poggiando gli avambracci sulle gambe, lo sguardo ostinato aggrappato al suo viso sottile.