▵18 ▵Tired ▵ Headboy ▵ clothes ▵ Lentamente, Horus alzò il capo dalle braccia. I suoi occhi stanchi, ancora velati dal sonno che l’aveva colto alla sprovvista, impiegarono qualche attimo per mettere a fuoco la pergamena srotolata che aspettava intonsa sul tavolo. La biblioteca era ancora immersa nel silenzio, anche quando il ragazzo raddrizzò la schiena, allungando le braccia verso l’alto e trattenendo a stento uno sbadiglio.
Si era addormentato così, senza alcuna pretesa, con il viso nascosto fra le braccia raccolte, con l’unica scusa di riposare solamente qualche istante la vista affaticata. Senza rendersene conto, quell'assenza di suono l’aveva cullato, facendolo scivolare fra le sue braccia sinuose senza possibilità di replica. Non aveva idea di quanto avesse dormito e nonostante l’occhiata rivolta al quadrante dell’orologio da polso, Horus non fu in grado di stabilire un orario—e nemmeno gli importava. Per quanto ne sapeva, poteva esser rimasto lì per ore. Ruotò quindi il viso verso la grande finestra bifora verso cui era rivolto il suo tavolo e la candida luce della neve lo abbagliò, costringendolo a schermarsi le pallide iridi con la mano. Forse, si disse osservando con apatia i fiocchi di neve che scendevano cheti dalla coltre di nubi, doveva seriamente smettere di studiare e dedicarsi a qualcosa di più produttivo. Tipo schiacciare un pisolino a modo, nel letto e non incurvato sul tavolo.
Era gennaio e il suo quarto anno era —veramente— agli sgoccioli: Storia della Magia, la materia in cui era rimasto più indietro, continuava ad ingombrare la sua mente e le sue ore libere, ma di questo Horus era grato. Anche quel sabato, nonostante fosse libero del turno all’Ars Arcana, s’era dovuto mettere sui libri senza però riuscire a ricavarne un bel niente. Coprendosi la bocca per censurare lo sbadiglio che, infine, aveva vinto contro di lui, Horus si alzò, raccogliendo piuma e pergamena e infilandole di malavoglia nella tracolla. Si buttò quindi la borsa in spalla e abbandonò la biblioteca deserta, immettendosi nel corridoio altrettanto vuoto. La neve, che da quella mattina non aveva interrotto la sua avanzata, immergeva l’intero Castello in una bolla impalpabile di silenzio e tranquillità. Benché stanco, Horus si sentiva completamente avviluppato da una sensazione ovattata che inibiva i suoi sensi, rallentandoli come quelli di un animale in letargo. Persino il suo cuore sembrava essersi ammutolito, moderando il suo battito, quasi non avesse voluto disturbare la serenità della Scuola. Ma mentre si avvicinava alle scale, dove qualche studente bighellonava lasciandosi trasportare dalla volubilità del Castello, Horus rabbrividì. Il brivido nacque dalla base della nuca e gli penetrò sin dentro le ossa della spina dorsale, facendolo tremare da capo a piedi. Solo in quel momento, liberatosi allora dalla coltre del sonno, il Tassino si rese conto di quanto freddo facesse. Si strinse nel suo maglione, rammaricandosi di non essersi portato una sciarpa per coprire la gola lasciata scoperta dal collo largo dell’indumento; alzando lo sguardo verso l’alto e seguendo con gli occhi le scale sopra di lui, il desiderio di crogiolarsi nella vasca del Bagno dei Prefetti emerse spontaneo. Rinfrancato dalla prospettiva di una schiuma profumata e dell’acqua calda a rilassargli i muscoli intorpiditi dalla dormita scomposta, Horus deviò il proprio cammino, diretto al quinto piano. Era più che sicuro che a quell’ora del mattino non avrebbe mai trovato occupato,
Ed infatti, sul pianerottolo incontrò solamente un paio di Tassorosso che salutò con un cenno del capo e mentre aumentava la propria andatura, massaggiandosi distrattamente il collo, Horus si chiese se fosse stata in programma una visita per Hogsmeade, vista l’assenza di studenti.
Poco male si rispose, mentre voltava l’angolo: si stava meglio così.
Ma quando, in quella solitudine, si accorse di lei proprio oltre la svolta, Horus preferì di gran lunga trovarsi in un posto molto, molto più affollato.
Rimase immobile, con la mano ancora appoggiata nell’incavo della spalla, gli occhi spalancati verso la donna che, a sorpresa, gli si era parata davanti. Incapace di formulare anche solo un pensiero di senso compiuto, irrigidito dall’incontro, Horus schiuse le labbra.
“Cosa ci fai tu qui?” avrebbe esordito, se solo la voce non gli fosse rimasta impigliata in gola.
Urania aveva tagliato i capelli —le donavano molto di più— ed una mano affusolata era premuta sul petto, forse per il medesimo sconcerto che stava provando lui. Senza rendersene conto, il braccio di lui ricadde lungo il fianco e le sue dita ebbero uno spasmo.
Aveva pensato molto all’eventualità di poter incontrare di nuovo Urania, dopo la sera di Halloween. Non sapeva perché, ma provava rabbia nei suoi confronti, per come lei si era comportata. In fondo però, Horus sapeva che non aveva la minima idea di chi fosse veramente, che non aveva motivo di essere arrabbiato, non per quello che aveva visto, almeno. Eppure, ogni volta che ci pensava (ed accadeva più spesso di quanto avrebbe voluto), si scontrava con lo sguardo felino della barista il cui solo ricordo lo irritava profondamente. Quel “ben ti sta” che sembrava avergli comunicato con gli occhi, come se fosse artefice di chissà quale torto, quella presa di posizione improvvisa, invadenza, quel pararsi fra lui e lei con malizia, quasi avesse temuto… Cosa? Che lui fosse lì per infastidirla, per molestare una donna sola al bancone di un bar? Il solo pensiero gli faceva ribollire le viscere. Allora ripensò al gufo che le aveva inviato e che non aveva ricevuto risposta, ripensò alla sera del ballo estivo, quando si erano incontrati e avevano passeggiato sul molo insieme. Ricordò il sorriso di Urania, la sua affabilità, la sensazione di conoscerla da sempre, la consapevolezza di volerla conoscere meglio, di stringere un’amicizia, un rapporto che non poteva esistere fra altri.
Cosa avrebbe dovuto dirle? Avrebbe dovuto rincorrerla? Chiederle perché non avesse mai risposto?
Cosa ci faceva lì?
Horus serrò la mascella, stringendo i pugni e quando corrugò le sopracciglia, sicuro dell’espressione smarrita sul suo viso, fuggì il suo sguardo, voltando di scatto il capo. I ciuffi rossi, che aveva ravviato poco prima con la mano, gli ricaddero sugli occhi, ma non vi badò.
No, ci aveva provato a venirle incontro e tutto ciò che ci aveva ricavato era un comportamento immaturo; ma se fosse stato il suo suo o quello di lei, Horus non seppe dirlo e preferì non indagare oltre.
Le aveva solo chiesto di parlare, perché reagire così? Perché sparire?
Scartò allora di lato, deciso a non rivolgerle la parola, ma anche se avesse voluto, sentiva la gola stretta in una fastidiosa morsa, le dita del rancore che premevano all’altezza del pomo di Adamo.
Cosa ti ho fatto?
Si rese conto a quel punto di aver trattenuto il respiro e mentre le passava vicino, deciso a superarla, riprese fiato in un appena percettibile sospiro.
Sarebbe andato avanti per la sua strada, come si era ripromesso. Horus R. Sekhmeth ▵ [ sheet ] ▵ Let’s lay down our masks, and be true. [ code by psiche ]