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view post Posted on 10/8/2018, 00:58
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Ocean eyes.

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1st part.
Aveva appena varcato la soglia quando un lieve spostamento d’aria gelida le tagliò il volto. Non sentiva nulla se non l’incessante desiderio di potersi svegliare da ciò che sperava essere solamente un brutto sogno.
Londra era il posto che aveva sempre considerato casa, dove era nata e cresciuta, con il grigiore e la pioggia che la rendevano così tremendamente cupa e bella allo stesso tempo, da stupire chiunque la visitasse. Tuttavia quel giorno la Capitale del Regno Unito aveva per Megan un aspetto del tutto estraneo, ed il temporale che l’aveva colta d’improvviso lasciava cadere i suoi tuoni che si diffondevano spaccando il terreno.
Sentiva il tintinnio delle gocce sbattere contro il vetro della grande finestra del salone, la luce cupa illuminava appena la stanza ed il silenzio iniziava a farle sempre più paura. Nonostante tutto in lei c’era ancora quel briciolo di speranza nel poter scorgere da una di quelle porte il volto di sua madre e di suo padre, di poterli toccare ancora. Cosa avrebbe dato anche per un solo momento, le sarebbe bastato per dirgli ciò che non aveva mai detto: che era fiera di loro, che era grata di tutto quello che per lei avevano sempre fatto.
I sensi di colpa poi non tardarono ad arrivare, troppo poche erano le volte in cui si era concessa in un abbraccio e ad un “ti voglio bene”. Non era mai stata brava con le parole eppure ad oggi riusciva a capire quanto a volte fossero necessarie e non riusciva a perdonarselo, si struggeva dentro lasciandosi trasportare da quello che sarebbe stato il suo unico appiglio e la sua unica distruzione: il dolore.

Aveva abbandonato da qualche minuto il castello, lasciandosi alle spalle mille domande a cui avrebbe dovuto rispondere ma ritrovandosi ad affrontare le proprie, non aveva idea di cosa l’aspettava e si spingeva a passi lenti lasciando che l’ansia la divorasse.
Poggiava le mani lungo le pareti bianche, l’odore del legno antico le invadeva le narici dandole la nausea e la stanchezza la faceva barcollare. Stringeva ripetutamente gli occhi cercando di svegliarsi da quello che credeva essere un incubo, uno di quelli che sembrano così veri da non riuscire a distinguere la realtà dalla finzione; così si pizzicò il braccio, provando ancora una volta a tornare nella sua stanza, nel suo letto, avvolta dalle morbide coperte ma fu inutile. Avrebbe dovuto accettare che ciò che stava affrontando era una tremenda verità e che reagire sarebbe stata l'unica soluzione.

Attraversava quella casa a lei totalmente sconosciuta, come lo era la persona che vi abitava. Troppo tempo era passato dall’ultima volta che aveva visto sua nonna, anni, e di lei non restava che un lontanissimo ricordo. Non riusciva ad immaginare cosa avrebbe dovuto aspettarsi e mille pensieri avevano iniziato ad affollarle la mente andando ad unirsi alle numerose domande cui avrebbe presto o tardi ricevuto risposta.
Fece ancora qualche passo in avanti, con lo sguardo osservò ogni dettaglio di quella che sembrava un posto troppo vuoto e silenzioso. Da quel che ricordava Elizabeth amava la musica, eppure l’unico suono che si percepiva era il vento che con forza cercava di penetrare attraverso finestre e porte. Amava il silenzio ma in quel momento lo percepiva come una lama tagliente che fende la pelle al solo tocco lieve e che mano mano affonda cercando di uccidere lentamente: avrebbe voluto urlare, tirare fuori la rabbia ma non ce la faceva, si bloccava in gola in una morsa troppo stretta da liberare.
Sapeva che non sarebbe servito a nulla trattenersi, che presto o tardi ciò che aveva dentro sarebbe venuto fuori con più forza, tuttavia non riusciva a fare diversamente.
Deglutì, prima di varcare definitivamente il salotto; era entrata in quella casa senza nessuno ad accoglierla e si sentiva sola, abbandonata non solo da qualsiasi aspettativa che la sua mente aveva creato ma anche dal mondo stesso che sembrava essersi rivendicato su di lei per qualcosa che non conosceva affatto e si chiedeva quale fosse il motivo: Perché proprio lei?
Ora la leggera luce del mattino, ovattata dal cielo terso, le illuminò il volto: chiunque fosse stato in quella stanza in quel momento l’avrebbe vista.


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« Grazie. Sì. Grazie. Nulla. Buonanotte. »
Poche parole dettate a un fuoco ormai spento e la Casa tornò ad illuminarsi del solo Buio. Elizabeth Levitt dovette poggiarsi al bracciolo del divano per riuscire ad ignorare l’improvviso giramento di testa. Il Silenzio di quella dimora parve lottare contro se stesso avvertendo il proprio peso gravare su quel momento. Una macchina sfrecciò poco distante dall’abitazione, guidando agli albori di quella nuova giornata. Solo per un attimo, a Elizabeth, parve di intravedere la luce dei fari, al massimo della loro capacità, infrangersi sulle pareti del lussuoso salotto. Gli occhi acquosi, chiari, si posarono sulla carta da parati grigia.
Sorrise, triste.
A quel punto, ora che il rombo dello sconosciuto motore restava solo un fugace eco, non v’era nulla ad impedirle di farsi schiacciare dalla segretezza di quella tragica notizia. Lasciando scivolare, faticosamente, il palmo raggrinzito sull’orlo legnoso del canapè, l’anziana si lasciò cadere sul cuscino e, chiudendo gli occhi, sprofondò nel vuoto che le era appena stato lasciato.
Parte di lei, lo aveva sempre temuto.
Parte di lei, lo aveva sempre saputo.
Era quello il destino che toccava ai buoni di cuore, agli altruisti, a quelli che sacrificano se stessi per gli altri. Come madre di una simile persona, doveva esserne fiera. Oh, Eli, tua figlia è proprio a modo!, le dicevano quando l’oro ancora bagnava i suoi lunghi capelli e le rughe erano un problema da rimandare, Così compassionevole e gentile! Tutta sua madre!. Lei, nascondendo la verità che l’amareggiava, sorrideva e ringraziava. Eloise non le somigliava per nulla; era identica a suo padre e non solo per i capelli di quel dolce nocciola ma anche per il temperamento audace, per la testardaggine.
Quando la Magia Oscura si era estesa sul Mondo Magico, avviluppandolo inesorabilmente tra i tentacoli violenti ed affamati, Elizabeth Levitt aveva già capito che sua figlia avrebbe dovuto lottare per affermarsi. Non era questo che, tuttavia, preoccupava la giovane madre, Eloise non avrebbe avuto alcun problema in tal senso: così fiera, così coraggiosa e determinata! Il suo carattere invece… Era e sarebbe stato quello a delinearne il meno fortuito destino.
S’era dunque impegnata, mentre la giovane Strega cresceva e affermava la sua forte personalità, ad indirizzarla verso una strada migliore, più sicura. Si scontravano, litigavano e lei, Eli, spesso urlava imponendosi con voce ferma ed autoritaria. Molte volte aveva creduto di leggere odio negli occhi della sua bambina e, ogni notte, prima di andare a letto, mancando il rimbocco delle coperte, si diceva che era per il suo bene. Era l’unico modo per proteggerla…
Sorrise. Una lacrima sfiorò a fatica la guancia rugosa e si spense sul candore della pelle lentigginosa, sul braccio scosso da tremolii.
Aveva fallito. Non l’aveva protetta, non le aveva insegnato nulla. L’aveva persa e le uniche cose che aveva guadagnato erano indifferenza e odio.
Sorrise perché, mentre osservava il camino colorarsi appena di verde, si rese conto che, dopo anni, avrebbe rivisto sua nipote. Non la conosceva. Non conosceva sua nipote perché, se c’era una cosa, un’unica cosa che aveva passato alla bambina, alla sua Eloise, era l’ostinazione nel proteggere sua figlia. Si ritrovò a pensare di non aver fatto abbastanza; con la fronte poggiata sulla mano tremante, si rivide infastidita dalla presenza di quella creatura, di Megan. Come biasimarla? Era stata lei, la sua nascita, a creare la lunga concatenazione di eventi che li avevano condotti fino a quel punto.
Era davvero giusto incolpare una ragazzina ignara?
Era leale prendersela con la vita che Eloise aveva protetto, pagando tal innocente fio con la propria morte?
Il verde nel camino crebbe di intensità, illuminando malamente il volto vecchio di una donna distrutta. Così, Eli si costrinse ad alzarsi; non voleva essere lì, non voleva farsi vedere a quel modo. Con uno scatto, ricordo di tempi migliori, si alzò e si diresse nella cucina confinante.
Spalle al salotto, la lunga vestaglia bianca s’univa al candore del mobilio. I primi raggi, la luce dell’alba, s’abbatterono prepotentemente contro l’ampia finestra che dava sul volto di Elizabeth. I capelli cinerei erano raccolti in una lunga treccia che cadeva sulla spalla sinistra. La mano destra andò a stringere le punte della chioma costretta. Sorrise ancora una volta.
Madre, non tagliare mai i capelli! Nemmeno quando fai tanti anni! Saranno lunghi e d’argento! Non corti e riccci, come quelli della signora barboncino che mi tira sempre le guance!; nei suoi ricordi, Eloise bambina rideva sempre e la guardava come se fosse la cosa più preziosa del suo piccolo, felice mondo.


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Non era mai stata così sicura come in quel momento di voler abbandonare tutto ed andarsene, tanto nessuno l’avrebbe cercata, non più, perché lei non aveva nient’altro che se stessa ora e avrebbe dovuto imparare a convivere con questa consapevolezza nel tempo.
Così, mentre attraversava l’ampio salone, aveva pensato di tornare indietro, di non andare oltre quel dolore. Aveva paura di subirne altro, di crollare a terra più di quanto non lo stesse già facendo. Per qualche esiguo secondo aveva guardato le ampie porte che dividevano le stanze di quella casa, forse alla sua destra avrebbe trovato il corridoio che l’avrebbe condotta fuori di lì, nel bel mezzo del traffico cittadino, nell’alba di quella città ormai per lei non più la stessa. Forse si sarebbe persa e non si sarebbe più ritrovata o, forse, avrebbe potuto ricominciare, avere una vita diversa, una nuova identità. Eppure qualcosa, in un piccolo luogo nascosto dentro di sé, non riusciva a farle fare quel passo definitivo per andare via, per scappare. Aveva fissato a lungo quello spiraglio di luce proveniente dalla finestra di fronte a lei, meditato sull’avvicinarsi, inoltrandosi nel silenzio doloroso che quelle mura emanavano. Poi aveva visto qualcuno, sua nonna, Elizabeth, a pochi metri da lei: aveva osservato le sue esili spalle curve ed i suoi lunghi capelli cirenei legati in una treccia perfetta. Era lei ne era sicura ed inevitabilmente si chiese per quale motivo non l’avesse accolta, sapeva del suo arrivo eppure…
Le sarebbe bastato un abbraccio in fondo ma non ebbe che il silenzio ed il dolore come unica alternativa, che andarono sgretolare gli ultimi pezzi di un cuore ormai diviso a metà. L’aveva osservata e aveva esitato a lungo, la difficoltà era presente ed era l’ultima cosa che avrebbe voluto provare in quel cumulo di sensazioni, eppure la sentiva forte ed insistente. Persino il Preside era stato capace di avere parole di conforto, non riusciva a capire perché non sua nonna fosse così lontana soprattutto in un momento così difficile della sua vita, della vita di entrambe. Avrebbe dovuto essere lei la colonna portante in quella situazione ed invece il marmo aveva iniziato a sgretolarsi lentamente e Megan presto sarebbe precipitata a terra, nel vuoto, definitivamente.
Si sentiva persa, come un bambino che esplora per la prima volta una stanza vuota e scura, preda del panico e della disperazione. Troppi pensieri affollavano la sua mente, troppi da poter controllare e gestire; talmente tanti, pieni di interrogativi da perderne le tracce ogni volta che si sovrapponevano gli uni agli altri.
Nella sua vita, in quegli anni, aveva costruito molto: aveva visto nascere parti di sé e con esse la voglia di superare i propri limiti e definire al meglio le sue capacità. Oh…era stata così felice, perché quello che vedeva in se stessa era un continuo crescere, maturare, sotto ogni aspetto; tanto da renderla così orgogliosa, tanto da aver visto i suoi genitori così felici, così fieri di lei.
La felicità però, che aveva toccato picchi intensi, si era ripresa tutto, troppo. E sebbene la ferita fosse ancora fresca, sebbene il dolore fosse così intenso da non riuscire più a sopportarlo, a soffocarlo, non era ancora cosciente del fatto che dopo sarebbe stato ancora peggio. Era lì che avrebbe dovuto lottare, era la mancanza la parte più dura, quella che inevitabilmente l’avrebbe intrappolata in una morsa troppo forte che rischiava di costringerla a rimanere al buio, nell’oscurità, senza possibilità di riemergere.

Il peso nella sua anima aveva iniziato ad essere sempre più presente, la soffocava. Quando prese coraggio avvicinandosi all’ entrata di quella che era la cucina, la nausea la colse d’improvviso costringendola a portare istintivamente la mano sulla bocca. I suoi occhi umidi si erano stretti man mano che la luce diveniva sempre più forte, più vicina, ormai abituati al buio di quella dimora.
Elizabeth era a pochi metri da lei adesso e Megan la osservava co attenzione, mentre nel suo cuore sperava che non si fosse accorta del suo arrivo e che una volta vista le avrebbe dato quell’abbraccio di cui aveva tanto bisogno.


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view post Posted on 7/9/2018, 23:13
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Se c'era una cosa che Elizabeth odiava, era sentirsi a disagio nella propria casa. Dopo gli anni passati in cheta solitudine, quel luogo era divenuto come una difesa dalle disgrazie che l'aveva coinvolta.
Poteva dirsi ancora così?
Dopo quanto era appena accaduto, non aveva il coraggio, né la forza, di crederci.
Ad onor del vero, una parte di lei, così enorme che a stento riusciva a ignorare, conosceva già la risposta; Elizabeth sapeva, senza nemmeno aver avuto ancora il tempo di provarci, che quell'ultimo scherzo del Destino l'avrebbe rovinata per sempre.
Non mi resta nulla, sentiva ripetere nella propria mente da una malsana, isterica vocina mentre ricordi felici si sovrapponevano ad essa, forse per l'ultima volta.
Elizabeth era sempre stata una donna forte, sempre in grado di appigliarsi a qualcosa per resistere a certe lacune, certe mancanze. Ma come si può sopravvivere ad una notizia del genere? Come si poteva andare avanti, sperando in tempi migliori?
Nessun genitore dovrebbe ritrovarsi a convivere con la morte di un figlio. Per alcuni è tra i più grandi dolori del nostro crudele mondo.
Il Fato che nulla aveva a che fare con le reazioni scatenate dai comportamenti umani, osservava la scena dall’alto, protetto dalla tragedia, come lo spettatore di una falsa scena da palcoscenico. Aprendosi sotto ai suoi onniscienti occhi, oscurati solo talvolta dal potere del Caos, diveniva parte di quell’incontro che, deludendo le aspettative della più giovane, non aveva nulla di tenero.
Sconosciute, legate soltanto da qualche goccia di sangue e una sciagura, le due donne di una famiglia in pezzi, si ritrovarono a condividere la stessa stanza. Il silenzio era palpabile così come il disagio. Paure ed aspettative si alternavano in una crescente danza accompagnate dal dolore; un ballo cadenzato che man mano cresceva d’intensità per culminare in un momento catartico.
Osservando l’alba che si rischiarava nell’azzurro turbinoso di una giornata nuvolosa, Elizabeth trattenne il fiato. Aveva udito i silenziosi, estranei passi farsi avanti ma, chiudendo gli occhi al lieve riverbero, non ebbe il coraggio di voltarsi. Una lacrima le sfiorò con sorpresa la guancia e l’anziana spalancò gli occhi, colta alla sprovvista. Rilasciò lo sterno e con esso il fiato ma la pesantezza, quella che s’era appisolata comodamente sul suo petto, rimase lì; non se ne sarebbe mai andata.
« Mi dispiace rivederci in un momento come questo. », furono le uniche parole che riuscì, a stento, a mormorare. Non fece nemmeno lo sforzo di dare alla sua voce una parvenza di verità: aveva detto quanto le sue labbra volevano proferire ma, in realtà, non ne risultava cosciente.
Per anni aveva evitato di far accomodare gente nella propria dimora, nel proprio angolo di pace, lì dove poteva essere se stessa e ritrovarsi ogni qualvolta l’odio e la sofferenza le intimavano di perdersi. In un momento così tragico, la compagnia, persino quella di una nipote assente, diveniva deleteria.
Eli avrebbe voluto piangere il suo dolore, avrebbe voluto che il Tempo le concedesse la capacità di prendere atto di quanto era accaduto. Non ne aveva la possibilità e, anche per questo, non sapeva come comportarsi.
Per un momento, un piccolo istante che si andò delineando lontano dagli accadimenti del passato, le venne voglia di girarsi e guardarla, di comprendere cosa stesse provando in quel momento. Era pur sempre una giovane ragazza che aveva perso entrambi i genitori. Un’orfana considerando che lei, Elizabeth, non poteva dirsi parte della famiglia da tanto tempo.
Ancora una volta, tuttavia, non ci riuscì.
La pena, la consapevolezza, la colpirono come un fulmine a ciel sereno, cibandosi di quel momento di debolezza.
Con la destra al petto, vicina al cuore lento e stanco, la donna si lasciò andare ad un sussulto e all’ennesima, fredda lacrima.

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view post Posted on 18/9/2018, 21:25
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Il suo corpo, sorretto dallo stipite della grande porta in legno ora tremava, in preda all’ansia e al freddo che percepiva non solo lungo tutta la sua epidermide, per il clima di quella stanza, ma anche nella sua anima. Guardava la figura davanti a lei come si osserva qualcosa di cui non si conosce forma e volume, un’entità sconosciuta, cercando di capire come avrebbe dovuto comportarsi e cosa avrebbe dovuto fare.
Ci stava provando con tutta se stessa, benché ogni passo che faceva verso la probabile verità era per lei come continuare a mettere i piedi sopra un tappeto di vetri rotti; sanguinava e man mano i tagli divenivano sempre più profondi ed il sangue sempre più denso.
Tuttavia, nonostante gli sforzi, non riuscì a fare altro se non rimanere in silenzio, in attesa. Era sempre stata coraggiosa ma non questa volta, ora aveva paura e non riusciva a provare altro se non un cumulo di sentimenti negativi cui avrebbe voluto vedere la fine ma che non vedeva arrivare e che non avrebbe visto per molto tempo ancora. Era solo l’inizio di quella guerra, dove si trovava a combattere contro se stessa.
In quegli attimi di assenza, Megan pregò che Elizabeth parlasse, che le rivolgesse parola. La testa le girava, la confusione era ormai giunta al culmine. Gli occhi rossi bruciavano, appannandole la vista, rendendole sempre più faticoso concentrarsi, ma in quello stato continuava comunque a sperare di uscire da quell’orribile incubo che l’aveva condotta lì, in quella situazione.
Non riusciva ad immaginare che tutto quello che le stava accadendo fosse vero. Sebbene una parte di lei lo sapesse, si convinceva che non fosse così e che ben presto avrebbe aperto gli occhi incrociando lo sguardo di Damon, o il soffitto blu del dormitorio. Si pizzicò il braccio continuando a sperare di svegliarsi e neppure quando arrivò a lasciarsi un livido sull’avambraccio si convinse che quel che stava vivendo era la dura realtà. Poi le parole della donna, dure e gelide, pungenti come spilli, le trapassarono la pelle scuotendola come il vento forte fa con gli alberi provando a sradicarne le radici. Sentì il battito del suo cuore rimbombare nel suo corpo, forte, come se volesse uscirle dal petto, poi di nuovo la nausea salirle in gola mentre in volto impallidiva sempre più velocemente. Stava male ma non riusciva nemmeno vagamente ad immaginare quanto fosse sola in quel momento, quanto le parole di Elizabeth fossero così distanti da lei, lontane da qualsiasi forma di comprensione, dolcezza. Cercava di vederne il buono, sebbene esse le avessero perforato il petto più di quanto quel maledetto silenzio non avesse già fatto.
Per quanto a lungo la speranza l’avrebbe portata a crollare sempre più in basso?
Più i minuti passavano, continuando ad alimentare il dolore, più si sentiva morire ma riusciva a giustificare ogni azione, anche se la consapevolezza ormai si era fatta sempre più avanti e lei sapeva di continuare a riempirsi di inutili bugie.
D’improvviso però ci fu l’impulso di dover reagire: se dapprima il lungo silenzio e successivamente le parole della donna l’avevano ferita, ora sentì la rabbia salire con violenza. Come poteva sua nonna non guardarla in faccia? Come poteva essere così crudele da lasciarla lì abbandonata a se stessa?
Iniziò a tremare, strinse i pugni cercando di controllare l’impulso di sfogare la sua ira compiendo qualche mossa azzardata.
«Potresti almeno voltarti e guardarmi.» disse, impassibile.
In quelle parole usò la stessa freddezza con cui si rivolse a lei Elizabeth, senza alcun timore di reazione.
D’altronde cosa c’era da temere più dell’assenza?
Improvvisamente la razionalità si fece spazio dandole modo di opporsi; tirò fuori l’angoscia, la sofferenza e la rabbia che fino a quel momento aveva trattenuto, ma inevitabilmente le lacrime iniziarono a rigarle il volto e non ebbe la forza di frenarle. Queste ultime scorrevano lungo le sue gote e una dopo l’altra iniziarono a macchiare il pavimento, confondendosi con il riflesso della luce, ormai sempre più presente, che penetrava dai vetri della finestra. Se in quel momento Elizabeth si fosse voltata avrebbe visto cosa quella giovane ragazzina stava provando.

Sollevò il busto, tornando in posizione eretta, avanzando a passi lenti, ora stava andando incontro al dolore e se non poteva sfuggirle scappando, si convinse che affrontandolo, forse, sarebbe uscita con meno lividi.
Chiuse per un istante gli occhi, respirando profondamente, il desiderio di avere Wolfgang al suo fianco la pervase. Non aveva che quella luce come punto di riferimento oramai e provava a nutrirsene ogni qualvolta il pensiero si concentrava sul ragazzo. Desiderava stringergli la mano, prendere la forza dalle sue parole, che trovavano sempre modo di tranquillizzarla, ma si chiedeva se lui sarebbe stato capace di essergli vicino anche in quella situazione. Subito il pensiero di dover coinvolgere il ragazzo nella sua battaglia la pervase, sapeva che inevitabilmente lo avrebbe visto soffrire di riflesso e quella era l’ultima cosa che avrebbe voluto vedere, lo aveva già fatto soffrire abbastanza e le era bastato.
Iniziò a mettere in discussione tutto, non solo se stessa, ed era cosciente che una volta tornata al castello, se così fosse stato, avrebbe solamente cercato di rifugiarsi nella sua solitudine perché era quello che le riusciva meglio fare. Il dolore l’avrebbe portata a ferire gli altri anche involontariamente, perché il suo carattere estremamente impulsivo ed egoista creava dei vuoti talmente profondi da non farla ragionare, anche se cercava di mettercela tutta per far sì che non accadesse mai. Così, pur sapendo che avrebbe ferito Wolfgang andando via, se si fosse allontanata definitivamente, scelse il male minore… in quel modo gli avrebbe fatto meno male.
Spalancò gli occhi cercando di far sparire ogni pensiero ora che la distanza era più corta.
«Voltati.»
La voce si fece più alta, decisa ad impartire quell’ordine, carica di rabbia: Megan doveva guardare il volto di chi un tempo aveva considerato sua nonna.




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Elizabeth Levitt aveva davvero degli obblighi nei confronti di sua nipote?
La verità è che la domanda non le era nemmeno lontanamente balenata in testa. Lei era sua nonna, certo, o almeno, si poteva definire così solo teoricamente. Era sua parente - forse era più giusto e corretto dirlo con queste parole. L’anziana non aveva mai cucinato biscotti in attesa della visita dei nipotini, né li aveva viziati o aveva delle caramelle in borsa in attesa che i pargoli avanzassero pretese.
Elizabeth era semplicemente una donna sola e, per volontà del Fato, consapevole fautrice della propria solitudine.
Le parole della Corvonero, così come la sua reazione, avrebbero dovuto pungerla sul vivo ma ciò non accadde. In tutta risposta, la donna rimase impassibile, forse ancora legata al fuggevole ricordo che l’aveva fatta sorridere.
Riaperti gli occhi al riverbero del Sole che s’affacciava prepotentemente sul mondo, Eli non reagì all’orgoglio della nipote. Con i palmi che stringevano i bordi della lussuosa muratura, sperò che nemmeno un muscolo la tradisse da quella stasi.
Non poteva rivolgerle lo sguardo, altrimenti tutto sarebbe sembrato vero.
Non poteva guardare quella bambina ora cresciuta, non voleva trovarvi dolorose somiglianze.
Soprattutto, non poteva confortarla.
Non sapeva come si faceva.
Quel dolore stava dilaniando anche lei.
La sua bambina…
Chinando il capo cinereo, l’anziana tentò di scacciare via le minute lacrime che avevano arrossato gli occhi stanchi e fu solo quando udì i lenti passi cadenzati della ragazzina che vi riuscì, colta alla sprovvista da quell’improvvisa vicinanza. Che intenzioni aveva? Corrugando la fronte, si risentì di quell’atteggiamento.
« Voltati. »
Fu forse per quel sonoro richiamo, per il tono aggressivo che l’aveva colpita o semplicemente per l’insieme delle emozioni discordanti che l’avvolgevano, Elizabeth si voltò.
Quel movimento fu così repentino che la lunga treccia cadde sulla schiena e una ciocca scomposta le oscurò gli zigomi dolci, rovinati solo da un addolorato, incattivito sguardo.
« Come ti permetti? »
Più che urlare, la donna ringhiò in direzione della nipote. Cosa pretendeva?
I suoi occhi tradirono tanta severità nel momento in cui incrociarono il volto della Corvina e, in quello stesso istante, il dolore che lei tentava di controllare, la sbeffeggiò di riflesso.
Quella penosa ombra che aveva dipinto il volto raggrinzito, memore di una bellezza ormai spenta, tuttavia si disperse quasi immediatamente.
Il quesito rimase a soppesare l’aria tesa.
Non c’era nulla che potesse fare per lei, né Megan per se stessa e sarebbe stato meglio che la nipote lo comprendesse fin dal principio.
Dopotutto, era colpa sua. Era sempre stato così.

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La tensione la teneva incollata al pavimento, immobile, mentre la rabbia e la paura giocavano una partita dalla quale, probabilmente, non sarebbe uscito alcun vincitore. Difatti, nessuna delle due avrebbe prevalso sull’altra, camminavano pari passo, ed era sempre più chiaro quanto Megan non riuscisse a farne a meno. Rischiare era diventato un gioco e per quanto quello che aveva appena fatto potesse essere catalogato come una mancanza di rispetto, che fino a qualche tempo fa nemmeno si sarebbe sognata di fare, dentro di sé sentiva la voglia di ripeterlo ancora. Era ferita e voleva ferire, non le interessavano le conseguenze, benché meno voler assumere un altro atteggiamento che fosse diverso da quello che stava utilizzando in quel momento. Dannazione però se faceva male, le righe sul suo volto lasciavano veder chiaramente quanto ogni azione fosse inevitabilmente dolorosa, aggravata da un principio sempre meno tollerato. Ma cosa sarebbe stato peggio dell’essere sola? Perché lo era. Elizabeth, di certo, le aveva chiaramente mostrato quanto poco avesse a cuore i suoi sentimenti, e sebbene fosse palese, una parte di lei la giustificava ancora.
Quella donna aveva perso una figlia, non poteva discutere del dolore che stava provando in quel momento: immenso, troppo pesante da poter sorreggere. Era semplicemente una madre fra tante che avrebbe voluto vedere sua figlia continuare a realizzarsi, fino a che non sarebbe diventata troppo vecchia per continuare ad essere partecipe della sua vita.
Megan stava provando le stesse orribili emozioni, un dolore insopportabile, seppur si trovasse dalla parte opposta. Lei era una figlia che aveva perso i propri genitori, come accade nella vita, ma ci sono situazioni dove quest’ultima colpisce troppo presto, crudele, senza alcuna esitazione ed è proprio lì che si tocca l’oblio, lì si lotta per non farsi inghiottire o ci si lascia andare inermi. Megan era consapevole del fatto che un domani sarebbe rimasta sola, certamente, però, non avrebbe mai immaginato che tutto questo sarebbe potuto succedere a soli quindici anni. Nessuno sarebbe stato pronto a ricevere questo duro colpo, soprattutto in giovane età, e lei continuava a chiedersi cosa avesse fatto di male per meritare così tanta sofferenza, a farsene una colpa come se non avesse dato e fatto abbastanza, come se fosse stata punita per qualcosa di cui non conosceva le origini.
Continuava a fissare quella donna, chiuse gli occhi per un momento cercando di immaginare come sarebbe andata se tutto avesse preso una piega diversa, come aveva immaginato.
Aveva sperato di ricevere quell’abbraccio che l’avrebbe fatta crollare a terra ma che, allo stesso tempo, le avrebbe scaldato il cuore, perché dopotutto lei era solo una ragazzina e sua nonna avrebbe dovuto comprendere che da sola non ce l’avrebbe mai fatta, che aveva bisogno di qualcuno o si sarebbe persa. Ma a Elizabeth non importava affatto e Megan continuava a sentirsi una stupida per essersi illusa. Ci aveva provato, era entrata con tutte le buone intenzioni del mondo e si sentiva una completa idiota per essersi costruita aspettative, per aver permesso alla sua mente di viaggiare affinché tutto potesse essere la perfetta copia di un atto drammatico, con un lieto fine raffigurante un’impeccabile cornice familiare riunita. Come aveva potuto credere che avrebbe trovato qualcosa di diverso da ciò che in quel momento si trovava davanti ai suoi occhi. Una donna da sempre assente nella sua vita improvvisamente avrebbe dovuto fare la parte della nonna? Cosa aveva sognato?
Un sorriso vuoto, turbato, si dipinse sul suo volto non appena Elizabeth si voltò rivolgendole parola. Gli occhi andarono a scrutare con attenzione l’anziana donna che non vedeva da tanto, troppo tempo. E se ne stava immobile, stabile nella sua posizione che la vedeva a pochi passi da quella figura estranea, continuando a sostenere un fardello enorme che presto avrebbe eliminato, o almeno così si sarebbe convinta, senza mezze misure. Un autodifesa chiara, un annullamento in parte volontario, che nel tempo avrebbe inciso le sue controindicazioni.
«Come- mi- permetto.»
Il sorriso non mutò in alcun modo, divenne più inquietante e quelle parole uscirono lente e ben scandite dalle sue labbra. Rise appena, con gli occhi persi nel vuoto, troppo spaesata per poter comprendere quali azioni stava compiendo in quegli istanti.
Seriamente le aveva rivolto quelle parola? Ma, soprattutto, credeva davvero che meritasse una risposta?
Elizabeth non si trovava nel giusto e questo sembrava essere chiaro solo a Megan. Forse avrebbe dovuto guardarsi allo specchio in quel momento, vedere quanto fosse estremamente distaccata e quanto le stesse facendo del male. Ma, probabilmente, non se ne era accorta, o forse non le importava affatto.
Fissava gli occhi blu di quella donna che avevano lo stesso colore ed espressione dei suoi: lo sguardo spento, i lineamenti delicati sebbene fossero rovinati dal tempo. Forse, un giorno, sarebbe stata l’esatta copia di sua nonna.

L’attimo di silenzio che le avvolse sembrò interminabile, fino a che Megan non ebbe di nuovo il coraggio di parlare, con più lucidità questa volta. Smise di sorridere, tornando ad avere uno sguardo serio e impassibile, schiuse le labbra poi emanò un lungo respiro.
«Voglio avere delle risposte. Risposte che non ho avuto nemmeno da chi mi ha riportato la notizia.- »
Nessuna “scusa”, se era quello che si aspettava sua nonna, ma solamente la pretesa di sapere perché la sua vita fosse stata stravolta in quel modo. Voleva mettersi l’anima in pace, scoprire la verità.
«-Cosa è successo a mia madre e a mio padre? Sai qualcosa vero?»
Teneva i pugni stretti non permettendo, così, al sangue di defluire bene lungo le dita. Ora stava tremando, perché la paura aveva allungato il passo e la situazione era ancora troppo calda. Quante ore erano passate dalla notizia?
In quei momenti aveva attraversato, e continuava a farlo, un cumulo di emozioni, alcune delle quali mai provate prima. Quel controllo latitante, quel camminare tra il buio e la luce, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, la terrorizzava; tuttavia non sarebbe mai stato abbastanza.
Ora, cosa sarebbe accaduto?


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Nell’osservare la nipote, Elizabeth si finse completamente impassibile al suo repentino cambio d’espressione. L’aveva guardata mentre le lacrime rigavano la sua minuta sconfitta pur tenendo fede all’incredibile forza che doveva aver ereditato dalla madre, e nello stesso modo, con la medesima indifferenza, la fissava ora mentre si lasciava andare tra le spire della dolorosa follia.
Un sorriso inquietante, emblema di una mente persa, di un’anima in pena, aveva delineato il volto delicato della Corvonero e lei, Elizabeth, non seppe come reagire. Aveva apprezzato l’immediato silenzio alla sua domanda, almeno avrebbe potuto considerare quel teatrino concluso; non si sarebbe detta disposta a vedersi riversare addosso tutta l’ira e il dolore di una ragazzina che non conosceva, nemmeno se, sulla carta, era sua nipote. Non aveva la minima intenzione di fare la figura forte che l’avrebbe consolata e consigliata perché, alla fine dei conti, erano null’altro che due sconosciute accomunate da un dolore troppo diverso affinché venisse compreso.
Elizabeth, inoltre, aveva sempre visto nella gioia della nascita di Megan, il prologo di quel che stava accadendo in quel momento. Razionalmente, sapeva che non era colpa della bambina e lo aveva sempre saputo. Nemmeno poteva puntare il dito contro l’amore che Eloise provava per lei: una madre farebbe di tutto per i propri figli.
Accarezzando il cobalto fiero con cui la nipote sosteneva il suo sguardo stanco, quasi le sembrò di rivederla, Eloise. Lì accanto a lei mentre con cipiglio cocciuto e severo le chiedeva cosa avrebbe fatto lei al suo posto. “Non ti saresti comportata allo stesso modo per proteggermi?”
« Cosa è successo a mia madre e a mio padre? Sai qualcosa vero? »
Senza rendersene conto, aveva spostato lo sguardo dal viso di Megan ad un punto indefinito al suo fianco e solo quando la fanciulla ebbe l’ardire di porgerle quella domanda, Elizabeth tornò a fissarla, accigliata, severa, In colpa.
« Cosa ti fa pensare che io ne sappia più di te? », e voltandosi oltre la finestra le regalò la schiena. Per quanto comprendesse quell’atteggiamento, non lo tollerava.
« Smettila di fare la sciocca e di prendertela con chi ha perso a sua volta qualcuno. », sospirò e chiuse gli occhi, il peso della bugia che le gravava inaspettatamente sul petto.
« Fossi in te non indugerei su queste cose. I tuoi genitori… Mia figlia… Sono morti perché ciecamente devoti ai loro ideali e al loro lavoro. Vanne fiera e smettila di infangare la loro memoria comportandoti come una capricciosa bambina arrogante. »

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Gli occhi si erano incontrati solo per qualche istante, poi Elizabeth era tornata a fissare il vuoto. Megan non provava nulla per quella donna se non indifferenza, rabbia e la totale delusione nei confronti delle aspettative. Avrebbe voluto tanto che i suoi genitori fossero presenti, in modo tale da mostrare loro quanto male avevano lasciato. Era così arrabbiata, così ferita che avrebbe voluto distruggere qualsiasi cosa, bruciare ogni angolo di quella casa di cui non conosceva niente e di cui solo l’odore le provocava il voltastomaco.
Si sentiva tradita, come se il mondo in cui era cresciuta fino a quel momento non fosse stato solo che una bugia, una favola piena di illusioni cui retroscena celavano qualcosa di terribile. Continuava a camminare a piedi nudi su quel tappeto di vetri rotti senza percepirne il dolore questa volta, come se si fosse abituata a quella sensazione perché troppo profonda e importante era la ferita.
Non ci credeva, non credeva davvero che Elizabeth potesse dirle tutte quelle cose e in quel modo. Come poteva non starle accanto e lasciare che il dolore la distruggesse del tutto? Lentamente stava morendo e la paura che la parte intatta del suo cuore finisse per diventare un blocco di pietra era sempre più viva. Sapeva di non poter sfuggire al dolore, esso aveva già esteso le sue radici che con il tempo si sarebbero calcificate lasciando solo ed unicamente il vuoto di un battito privo di emozioni. Chi sarebbe diventata? Cosa sarebbe successo? C’era qualcosa che stava scattando in lei e sebbene fosse ancora presto per stabilire un profilo esatto, le sensazioni che sentiva erano tutt'altro che positive.
Non rimaneva che aspettare, perché quello che avrebbe fatto sarebbe stato lasciarsi trasportare da ciò che sarebbe avvenuto nel tempo. Sapeva già cosa fare, seppure le sue decisioni l’avrebbero portata a soffrire ancora di più: non avrebbe più coinvolto nessuno nella sua vita, non avrebbe unito il suo dolore rischiando di distruggere un’altra persona. Voleva stare sola, voleva liberarsi della responsabilità di un male che avrebbe potuto distruggere chi amava, chi aveva di più caro al mondo. Avrebbe scelto presto la via più facile sebbene, forse, rischiava di non essere capita. Per una volta voleva essere egoista nel modo giusto, nel modo che credeva più esatto per lei e per gli altri. Sapeva che non era nessuno per scegliere delle vite altrui ma questo non l'avrebbe fermata in alcun modo. Lei era così, troppo istintiva nel bene e nel male, presto o tardi avrebbe pagato il prezzo di ogni sua azione.
Avanzò verso la donna, per un attimo la voglia di afferrarla la pervase ma decise di trattenersi, di gestire quella calma che le stava sfuggendo dalle mani. Il silenzio che avvolgeva quel momento aveva il suono di una bomba che esplode nel cuore: tutto taceva ma tutto urlava. Come avrebbe potuto farlo smettere? Non poteva, niente era più lo stesso e non lo sarebbe mai più stato.
Si avvicinò al tavolo con estrema calma mentre il tremolio sul suo corpo aveva iniziato nuovamente a viaggiare indisturbato. Come poteva fermarlo?
 Con un scatto diede un calcio alla sedia: avrebbe lasciato che questa rovinasse a terra rimbombando nel silenzio. L'attenzione doveva tornare su di lei in qualche modo, non le importava delle modalità.

«Me la prendo con chi mente.»

Fredde, totalmente distaccate, quelle parole colme di disprezzo avrebbero percorso l’intera cucina. Come un cumulo di neve che si stacca da una montagna provocando una valanga.
Avrebbe fatto di tutto pur di scavare affondo, pur di sapere. Perché l'idea che ci fosse qualcosa di più sotto a tutto la tormentava, e se tutti pensavano - Waldegrave, Peverell, Elizabeth - di riempirla di gloriose bugie, doveva far capire che queste non avrebbero mai funzionato, che non ci avrebbe mai creduto.

Bramava la verità e l'avrebbe ottenuta a qualsiasi prezzo.



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Inaspettato, il rumore si infranse sul pavimento. Seguì un sussulto delle spalle fragili, mani che si stringevano al banco lucido della cucina e poi il silenzio.
Elizabeth poteva ancora udire l'eco del legno che veniva calciato con forza e si riversava, perdendo un paio di schegge invisibili. Gli occhi della vecchia vennero piegati in basso nemmeno avessero potuto indagare sull'entità del danno.
Sperò che non si fossero rovinate le intarsiature: Julius ci aveva lavorato con tanta cura e non v'era molto che le rimanesse di lui.
La distrazione durò poco e la voce di Megan la riportò alla realtà, al fio di quella taciuta colpa.
« Sai, in molti credevano che tuo nonno fosse un abile Negromante »
La voce della donna, ridotta a un sibilo lontano, accarezzò l'aria colma di tensione. Si voltò, studiando con sguardo corrucciato la sedia e le pregiate, intatte decorazioni, grata che non avessero subito sfregi.
« Ma lui era abile solo con il legno. E tu hai appena preso a calci uno dei suoi ultimi lavori. Anche se... »
Incrociò le braccia al petto, le labbra tremarono appena ma tornarono poi sicure, leste nell'occultare il timore che la pervadeva.
« ... Dovresti metterci più forza, così è pressocché inutile. »
Un sorriso e il coraggio di guardare quegli occhi chiari non venne a mancare. Fissò quel volto sconosciuto eppur familiare e l'ombra dell'ardore, lo stesso con cui Eloise sbatteva i piedi a terra quando qualcosa non le andava bene, ne colorò gli alti zigomi.
« Non so cosa ti aspetti che ti dica. Vuoi delle storie? Vuoi sapere quante volte tua madre se ne stava lì, dove sei tu, e mi guardava in cagnesco quando pretendeva qualcosa? »
Sapeva cosa voleva, voleva la verità ma non poteva, non avrebbe osato nel commettere un errore così grande e meschino. Meschino perché sarebbe stato più facile, più semplice calmarla e tenerla a bada, in quel momento che a stento riusciva a reggersi in piedi.
La frustrazione e la prepotenza della nipote, tuttavia, stavano sicuramente aiutando: la pena infliggeva meno dolore richiedendo impegno e fermezza nel celare la bugia di cui, Megan, avvertiva il peso pur non conoscendone l'entità.
« Primo piano, terza porta a sinistra: fatti un bagno, per allora qualcuno avrà mandato il tuo baule. Ci sono troppe cose di cui devo occuparmi ora. »
Gli occhi chiari indugiarono con forza sulla ragazza, come a volerla spingere verso la conclusione di quel capriccioso teatrino.
Non c'era altro da dire, la testa vorticava, i ricordi annebbiavano la Ragione e la poca forza che la donna aveva, veniva consumata dai secondi che passavano e che l'avvicinavano, inesorabile, all'ennessima bara da richiudere.



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Con lo sguardo perso nel vuoto, colmo di una rabbia ancora assopita, la giovane ragazza aveva udito ogni frase e dato peso a ciascuna sillaba pronunciata. Il tono calmo e pacato dell'anziana figura non sembrava calmarla in alcun modo anzi, lasciava ribollire con più veemenza il sangue nelle vene. Aveva abbassato gli occhi sulla sedia di suo nonno Julius, quando le venne detto che era di sua manifattura, e sorriso con disprezzo prima di tornare a guardare Elizabeth. Quella donna poteva pensare ciò che voleva, dire altrettanto, a Megan non sarebbe importato comunque; perché di fatto nulla contava se non riuscire ad ottenere delle risposte.
«Non voglio delle storie, credo di essere stata chiara fin dall'inizio. Ma d'altronde cosa posso aspettarmi da una persona che non conosco affatto,» alzò le spalle e scosse la testa rigida. «che molta probabilità non conosceva nemmeno mia madre.» finì per puntualizzare con l'intento di ferirla.
«Se la tua intenzione è proteggermi, fare la nonna adesso, beh stai facendo peggio. Non ho bisogno di niente: né di te, né di nessun altro. » concluse.
Non era davvero così, perché se fino a quel momento nella solitudine aveva trovato un luogo sereno dove dare vita a idee e cullarsi nel silenzio, adesso? Ora la quiete, il totale isolamento avrebbe dato inizio a qualcosa che non avrebbe presto saputo controllare. Il lento sbriciolarsi pezzo dopo pezzo – come detriti di un vecchio casolare abbandonato – avrebbe reso difficile a chiunque salvarla, persino a se stessa. In realtà non avrebbe voluto alcuna mano ad afferrarla e questa sua consapevolezza, ora ancora acerba, era ciò spaventava di più.
*Eppure, un tempo volevo essere proprio come te, ti volevo bene mentre ora non so chi sei.*
Avanzò passando accanto alla sedia, senza raccoglierla, lo sguardo questa volta fu rivolto in direzione dei mobili che occupavano lo spazio circostante senza posarsi più su Elizabeth. Megan era sicura di non poter ottenere nulla, di non avere alcuna possibilità di ricavare qualche informazione in più e che, dunque, avrebbe dovuto ottenere ciò che desiderava a suo modo.
Superò la soglia e si spinse verso la lunga scala stile impero in muratura. La mano sinistra strinse il corrimano laccato in oro e i primi passi furono eseguiti con estrema calma. Con incertezza attraversava quel luogo, finché ricordi di brevi istanti trascorsi fra quelle mura riaffiorarono davanti a lei.

«No.»
Sentì rimbombare una voce nel silenzio assordante di quella casa, e quando alzò gli occhi in direzione degli ultimi gradini si vide chiaramente.
Aveva all'incirca poco più di sei anni, se ne stava seduta sul primo gradino in marmo vicino a suo padre Carl, con le braccia conserte e il viso imbronciato.
«Meg, per favore, dobbiamo andare. » affermava l’uomo con gentilezza poggiando la mano grande sulle spalle esili della sua bambina.
«Perché dobbiamo? Io non voglio andarmene, Papà! » aveva replicato la piccola con voce tremolante.
«Un giorno capirai, tesoro.» si alzò afferrandole il braccio, un invito a seguirla.
Megan si era avvicinata a quel ricordo, aveva proteso il braccio verso suo padre, stretto le dita in un pugno raccogliendo il vuoto, mentre tutto sfumava via lentamente. Lo aveva guardato, si era soffermata su ogni dettaglio, sperato di non dimenticare niente di lui: gli occhi, il volto, la voce. Le lacrime scesero copiosamente, il cuore pulsava con violenza. Compì gli ultimi passi raggiungendo il primo gradino al vertice della lunga e torreggiante scala. Respirò a fatica, il peso del dolore non cessava e più andava avanti maggiore lo sentiva premere con forza, schiacciandole i polmoni, impedendole di respirare.
Si voltò un’ultima volta prima di percorrere il lungo corridoio. Riuscì a scorgere il volto giovane di sua nonna, le braccia conserte e l’espressione indecifrabile mentre guardava lei, sua figlia Eloise e Carl andare via.
«Nonna!» un grido e poi il vuoto del presente.

Chiuse gli occhi cercando di allontanare quegli sprazzi di ricordi caotici a cui non sapeva dare una spiegazione. Era certa che un tempo aveva vissuto quella casa, aveva trascorso del tempo con Elizabeth, ma non ricordava cosa avesse spinto Carl ed Eloise a portarla lontana da lì. Quella però non era stata l’ultima volta che aveva visto sua nonna, tuttavia era certa che non aveva messo più piede in quella casa.
Si spinse lungo il corridoio e - al contrario di ciò che le era stato detto - arrestò la sua camminata di fronte alla prima porta. Un profondo respiro accompagnò la mano dominante che andò ad afferrare la maniglia: non sapeva cosa si celasse al di là ma avrebbe perlustrato ogni singola stanza alla ricerca di qualcosa, senza lasciare alcun dettaglio. Era, così, avvolta dalla speranza di ottenere delle risposte, di ricostruire un passato e parte del presente a lei del tutto sconosciuti.



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Era solo una ragazzina ferita e doveva pur trovare qualcuno contro cui sfogare la propria rabbia. Per quanto Eli provasse a ripeterselo nella mente stanca e annebbiata dal sonno e dal dolore, non riuscì ad impedire che le parole di Megan sortissero un qualche effetto. Piegato il capo mentre la nipote si allontanava, dovette aggrapparsi con forza al bancone della cucina per non crollare sotto il suo stesso peso. Non poteva biasimarla e non poteva sgridare lei per il comportamento riservatole: raccontarle cosa facevano i suoi e perché, era fuori questione. Era ancora troppo giovane per badare a certe cose, troppo innocente per serbare odio e rancore.
Sospirò nel sentire passi silenti che risalivano i gradini e si voltò verso la teiera per metter su un tè caldo prima di entrare in contatto con chi di dovere e trovare la forza di allestire l'ennesima cerimonia funebre. A quel pensiero, con la mano al petto, Elizabeth si accorse di una dimenticanza, l'unica cosa importante che doveva riferire alla nipote sperando che lei fosse in grado di reggere la notizia. Il Ministero aveva da poco comunicato che, dei due coniugi, non era stato possibile reperire il corpo.

La carta da parati candida, ornata da fiori color mais, diedero il benvenuto alla Corvonero. La finestra socchiusa lasciava entrare l'aria umida del mattino e nonostante l'ordine che regnava in quella camera, il letto appariva malamente disfatto. Elizabeth doveva essersi svegliata di soprassalto, rimanendo a lungo tra le lenzuola, voltandosi di continuo come chi non riesce ad addormentarsi e cerca pace.
Il baldacchino, incorniciato da leggere tende di cotone bianco, sostava contro una parete, alla sua sinistra. Davanti a lei, accanto alla finestra dischiusa, v'era uno scrittoio dall'antica manifattura; due cassetti simmetrici sotto al piano lucido, una pila di pergamene nuove e due calamai pieni, accennavano al suo frequente utilizzo. La camera, mobiliata con semplicità, ospitava poche altre cose: un armadio a tre ante difronte al letto, un tappetto morbido ai piedi di quest'ultimo e due comodini ai lati, uno più consunto dell'altro, macchiato da contorni di tazze lasciate lì durante le notti insonni.
Nulla di essenziale lasciava intendere che Megan potesse trovarvi qualcosa d'interessante, ma cos'è che cercava, dopotutto? Risposte? A cosa?
Con la porta aperta a fare da corrente, una prepotente folata di vento, bagnata da umida rugiada, scompigliò i fogli ben impilati e il fruscio tuonò come una benedizione in quella casa troppo silenziosa. Richiudendo la porta alla sue spalle, la raffica improvvisa sarebbe cessata e un unico foglio, vuoto, sarebbe caduto sulla sedia accanto allo scrittoio come ad annunciare, in quella sua vibrazione, un inequivocabile manifestazione pronta ad essere svelata.

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Spinse la maniglia verso il basso e una sensazione di angoscia la pervase. La luce del mattino penetrò negli occhi blu cobalto e le pupille si strinsero abbandonando l’oscurità, avvolte dal chiarore di una mattina appena sbocciata. Prese un lungo respiro prima di varcare la soglia e si lasciò colmare dall’odore d’umido che invase le sue narici. La porta con un leggero cigolio si chiuse alle spalle mentre lo sguardo si perdeva in quel nuovo ambiente, analizzando ogni dettaglio. Avanzò nel nulla e fu colmata dalla sua essenza: paura, rabbia e profonda tristezza si mescolarono ma il vuoto che provava adesso non ne palesava più gli effetti. Aveva esternato ogni emozione e ora le stava soffocando inevitabilmente. Una condizione che si sarebbe portata dentro nel tempo, che avrebbe manifestato i risultati senza alcuna possibilità di risollevarsi. Tanto forte quanto fragile, la sua vita era cambiata e l’obbligo di un destino che non voleva, che non era previsto e che non avrebbe mai accettato, scriveva la sua storia. Quanto a lungo avrebbe portato dentro quel dolore?
Frenò le lacrime alzando il viso verso il soffitto, mentre le mani asciugavano le linee umide che le avevano macchiato il volto. Respirò ancora, gonfiando il petto, cercando di frenare la voglia di piangere. Un mugolio fuoriuscì dalle labbra che strinse con forza, mentre l’espressione di dolore si alleggeriva cercando di afferrare il coraggio per resistere. Un soffio di vento e il rumore di un foglio di carta, che con leggerezza si posò sul pavimento, richiamarono la sua attenzione. Un brivido l’avvolse e un sorriso amaro nacque sul proprio viso. Per un breve istante credette di non essere sola, di percepire qualcuno affianco a lei, e il desiderio che quella sensazione fosse reale manifestava l’amara illusione. Siete qui? chiese silenziosamente per poi sentirsi una stupida. A quante cose si sarebbe aggrappata nel tempo? Per quanto avrebbe vissuto nei ricordi dimenticandosi del presente? Scosse la testa cercando di riprendere lucidità, spostando lo sguardo dalla finestra. Una pila di pergamene poggiava sul ripiano lucido dello scrittoio di antica manifattura a pochi passi da lei. Avanzò schiacciando la carta bianca, non curandosi di raccoglierla; le mani poggiarono sulla sedia a sostenersi per poi spostarsi in direzione dei cassetti. Uno alla volta li avrebbe aperti entrambi con la speranza, sempre viva in lei, di trovare qualunque cosa. Aspettative forti riempivano in quegli istanti il suo cuore che pompava agitato, dopotutto l’unica scelta era quella di continuare a cercare risposte con la speranza di trovarle. Se così fosse stato cosa avrebbe potuto fare? Le domande non cessavano di tormentarla.



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I cassetti, aperti, non emisero alcun rumore, a prova di quanto detto prima dalla donna ora intenta a fare i conti su cos'altro, quell'imminente funerale, le sarebbe costato.
I primi due scrigni risultarono pressoché vuoti: qualche vecchia spilla, un paio di forcine, una spazzola di legno scuro con delle iniziali e finemente ricavata... Nulla che potesse dare una risposta, nulla che lasciasse presagire che ve ne fossero.
In preda allo sconforto, alla rabbia e all'adrenalina che le scorreva nelle vene, intenta com'era nel suo illegale piano, Megan andava avanti, gli occhi chiari che scivolavano su qualsiasi oggetto, soffermandosi per qualche secondo, come in attesa della rivelazione di un improbabile mistero.
All'ultimo cassetto, la Corvonero aveva ripreso a respirare con calma: era giunta alla fine di quell'atto di coraggio, di speranza, e se anche la nonna l'avesse scoperta, non avrebbe potuto dirle nulla: Megan era rimasta sola, non doveva più niente a nessuno. In lei, forse proprio in quell'istante, si sarebbe fatta avanti la consapevolezza che, da quel momento in poi, ogni scelta, ogni decisione, sarebbe stata sua e sua soltanto, così come ogni prezzo da pagare. Se stessa, ecco cosa le era rimasto.
L'ultimo cassetto si aprì emettendo, al di là di ogni aspettativa, un sonoro scricchiolio: a differenza degli altri, non veniva evidentemente aperto da molto tempo.
Il cuore della giovane Corvina riprese a battere con impeto, forse a causa dell'eco prodotto da quel peccaminoso rumore, forse perché aveva capito che non tutto era perduto.
All'interno del tiretto impolverato, giaceva un piccolo scrigno preziosamente decorato. La serratura visibile lasciò intendere che fosse chiuso ma non v'era alcuna chiave, non lì almeno.

Le dita rugose andarono a stringere gli occhi da troppo fissi sulla somma richiesta. I galeoni non erano un problema, ciò che più le premeva risolvere era quanto sarebbe accaduto da quel maledetto funerale in poi. Cosa avrebbe fatto la nipote? Erano passati tanti anni da quando si era presa cura di un essere umano, non era pronta per questo, non era pronta per lei. I genitori avevano nominato qualcuno che potesse prenderla con sé? Poteva essere possibile, dopotutto sua figlia era a conoscenza dei pericoli, delle conseguenze delle sue scelte; poteva, doveva, aver previsto quella fine.
Un rumore, trascinatosi giù per le pareti silenziose, catturò la sua attenzione.
« Tutto bene, lì? »
Tentò.

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Frugare in tutta quella roba la allontanò da ogni pensiero. Megan non sentiva più niente se non il desiderio di capire se qualcosa – fra le tante cianfrusaglie che scopriva e posava sul pavimento – potesse avvicinarla alla verità. In realtà analizzare la situazione con un minimo di lucidità non era affatto facile. Le mani grattavano il fondo dei tiretti senza alcun senso logico e tiravano fuori oggetti comuni; niente poteva darle alcuna informazione utile.
Si sentì una stupida. La rabbia scavava nelle viscere e si manifestava con più forza ad ogni scoperta inutile. Una vecchia spilla, un paio di forcine, una spazzola di legno… Ciascun minuto speso in quella vana ricerca aumentava in lei la frustrazione. Si adagiò sui talloni, le mani, poggiate sul bordo del secondo cassetto, sostenevano un peso assente. Era l’inizio del crollo; quello che sentiva non avrebbe smesso di provarlo in futuro. Il tempo avrebbe amplificato le emozioni fino al momento in cui non avrebbe fatto altro che celarle dietro a una maschera.
Un respiro profondo, Megan provò a prendere aria. In quella posizione il sole che penetrava dalle finestre baciava i suoi occhi ancora umidi che di riflesso chiuse. Le labbra tremavano trattenendo a fatica i singhiozzi che, inevitabili, pulsavano nel petto e nella gola.
Nel momento in cui trovò il pieno controllo, seppur breve, delle proprie emozioni tornò a guardare le mani. Le staccò dal bordo ligneo e aprì il terzo cassetto; un’ultima speranza si fece spazio nella mente.
Il cigolio fece vibrare i timpani, tanto che si trovò costretta a stringere le palpebre e a serrare le labbra con forza.
Il cuore iniziò ad agitarsi. Il pensiero che Elizabeth avesse potuto sentirla la preoccupava; sarebbe stata costretta a terminare le ricerche e in tutta fretta a eliminare ogni traccia del suo passaggio in quella stanza.
Nel breve silenzio che si propagò nell’ambiente Megan individuò qualcosa. Le iridi zaffiro, fin dal principio, posarono su un piccolo scrigno e fu sorpresa dalle rifiniture che con eleganza decoravano la superficie.
Prima ancora di prendere qualsiasi decisione fu interrotta dalla voce della nonna al piano inferiore: aveva sentito quel fracasso e si chiedeva se fosse tutto apposto. Megan tremò, per qualche secondo il panico sopraggiunse e ripose nei cassetti ciò che aveva tirato fuori, lasciando ogni cosa proprio come l’aveva trovata. Tranne lo scrigno, lo teneva stretto fra le dita come fosse la cosa più preziosa al mondo, pur non sapendo in realtà cosa fosse.
«Sì. Sto bene. Cercavo una coperta!» Si era avvicinata all’uscio della porta e il controllo in quelle parole fu sorprendente. Attese qualche attimo e poi non ebbe più alcuna esitazione: L’attenzione tornò all’oggetto, tentò di aprirlo facendo pressione con le dita lungo i bordi che separavano la parte inferiore da quella superiore. Vi era una serratura e nessuna chiave, rimaneva la speranza che fosse aperto.




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