“Cambiare”.
Quanto timore e che stimolo riesce a portare con sé questo verbo. Sì, perché l’idea di abbandonare delle abitudini, degli schemi, dei loop in cui incautamente ci si imprigiona, spaventa. E per quanto ce la si voglia raccontare, per quanto si possa tentare di addolcire una pillola che non solo è amara, ma anche acida, spesso il processo non è semplice né immediato. Ci si prende tempo, si pondera, si valutano tutti i pro e i contro del caso. Ci si illude di avere qualche potere a riguardo e si razionalizza. Poi, un giorno succede e basta. Il cervello viene folgorato da una qualche illuminazione divina che riesce a farti vedere come, per quanto tu voglia rimanere fermo e ancorato nella posizione che hai assunto fin’ora, il contesto inizi a remarti contro. Arriva un momento in cui cambiare non diventa più scelta, ma necessità.
Erano passate circa due settimane dal suo ultimo incidente con la Pozione della Pace; ci era ricaduta. Per l’ennesima volta, il suo piede aveva sbattuto contro quel maledetto gradino che voleva fingere di non vedere, andando a distruggere anni di progressi. “Una volta soltanto. Un’ultima volta per darle l’addio che non le ho mai dato e poi l’abbandonerò per sempre.” Questa frase però, era diventata un mantra che si ripeteva ogni giorno per giustificare il suo comportamento e validare la voce che le suggeriva di anestetizzarsi. Il vizio si era riproposto, insinuandosi nella sua mente e seducendola. La Pozione era un’amante subdola, una di quelle che c’è sempre per te, che non ti molla mai e per quanto possa farti del male, tu la vuoi. Continui a sbattere tra due poli opposti di odio viscerale e amore incondizionato, senza passare nel mezzo.
Quel giorno si trovava a camminare per Tottenham Court Road, osservando un centinaio di turisti cercare di farsi largo tra la folla, utilizzando le borse di carta marchiate Primark come fossero manganelli. Ma era stato il blu ad attirare la sua attenzione. Un golfino blu elettrico che avvolgeva un’anziana signora dallo sguardo perso e spaesato. La gente le passava davanti, ignorando le sue richieste di aiuto e non soffermandosi su quel volto che, apparentemente, era uno dei tanti. Le sue parole si perdevano nei suoni provocati dalla moltitudine di lingue e accenti diversi che rimbalzavano tra i muri e l’asfalto, e le persone la vedevano, la vedevano eccome, ma nessuno si fermava a guardarla. Le mani le tremavano, come tremavano quelle caviglie così sottili da rendere fisicamente inspiegabile il fatto che riuscisse a stare in piedi. Drinky, mossa da un’ondata di pena e compassione, le si avvicinò.
Signora, va tutto bene?
Il suo sguardo si scontrò con quello acquoso della vecchia, che sembrava ancor più spaventata e intimorita dal contatto. Un contatto che, in realtà, poco prima sembrava stesse cercando.
Mio figlio, era qui un minuto fa e adesso...adesso...
Drinky si guardò intorno, cercando un uomo che avesse almeno trenta o quarant’anni, ma era più per scena che per effettiva speranza di trovare un singolo individuo che corrispondesse all’immagine mentale che si era creata riguardo questo fantomatico figlio. Con tutto quel via vai di persone, una ricerca del genere si prospettava un’impresa infattibile.
Senta, se vuole posso aiutarla a cercarlo. Com’è fatto suo figlio?
L’erba, devo trovare l’erba. Quella verde.
Intende l’erba che cresce per terra?
*Ma che...*
Sì, quella verde.
Però, da quelle parti, non c’era l’ombra di vegetazione. Forse, quella vecchina stava semplicemente delirando. Ed era una stretta al cuore sentire quella voce roca che prima parlava di un figlio e poi dell’erba. Magari suo figlio era morto. Magari era un figlio che non c’era mai stato. Si era dipinta diversi scenari in mente, ma tutti portavano ad un unica risposta: quella lì, stava fuori come un balcone.
Signora, mi dispiace, ma qui non c’è erba.
Cercò di usare il tono più dolce e gentile che potesse trovare, conscia del fatto che forse, colei con cui stava parlando, difficilmente si sarebbe resa conto delle parole che le aveva appena pronunciato.
L’erba con la casetta bianca al centro.
Non aveva minimamente senso. Figlio? Erba? Casetta? Le si strinse nuovamente il cuore nel constatare che, probabilmente, non avrebbe potuto aiutare quell’anima in pena. E, una parte di sé, ringraziava di non essere al suo posto; di non essere qualcuno che aveva perso il senno, disorientata e disorientante. Finché un’immagine prese vita nella sua testa in maniera del tutto incontrollata. Per una strana sequenza di pensieri, riuscì a visualizzare un prato verde con una casetta bianca posta proprio al centro.
*Soho Square! Quindi non sta dicendo cose a caso!*
Intende Soho Square? E’ lì che si trova suo figlio? Se vuole posso accompagnarla.
L’anziana le sorrise e annuì più volte, con un movimento rapido simile a uno spasmo. Il piccolo parco si trovava a pochi minuti di distanza da loro e, per quanto sarebbe stato noioso dover badare a qualcuno e farsi strada tra tutta quella gente, uno spirito altruistico ed eroico si era impossessato di lei. Era proprio così che si sentiva mentre si faceva strada, con il contenuto di quel golfiono blu appresso, dribblando turisti e non. A passo normale ci avrebbero messo circa quattro minuti, ma era costretta a camminare fastidiosamente piano, per non smarrire la persona a cui “stava dando un passaggio”. Più si avvicinavano alla meta, più il suo ego si caricava. Era forse questo il significato intrinseco dell’altruismo? Fare del bene per sentirsi pieni e potenti? Forse sì. Forse l’altruismo era un concetto abusato, il cui vero significato equivaleva a egoismo funzionale. Egoismo sano.
Arrivarono a destinazione e Drinky sorrise alla signora, voltandosi verso di lei e dando alle spalle al parco che, stranamente, non accoglieva poi tanta gente, nonostante l’ora.
Eccoci qui, siamo arrivate. Ora cerchiamo suo figlio.
Ma la signora non rispose. Le stava sorridendo di rimando, sì, ma non proferiva parola. Sembrava un fermo immagine, lo sguardo fisso ma completamente assente, congelata in una smorfia felice e un po’ inquietante.
Finché, Gertrude - non si chiamava Gertrude, ma per Drinky il suo volto si accostava bene a quel nome, dunque l’aveva tacitamente ribattezzata così - si accucciò con lentezza, tirando fuori dalla borsa con stampa a fiori, una scatola di croccantini per gatti. Iniziò ad agitarla, producendo il classico suono che tanto avrebbe attirato anche Oscar, il gatto di sua proprietà. Non sapeva bene come comportarsi davanti a quella scena: le sue emozioni erano un misto di imbarazzo, pena e di malinconia. Dov’era finita quella sensazione di onnipotenza che poco prima l’aveva invasa?
Qualcosa le sfiorò il polpaccio, provocandole un brivido. Abbassò lo sguardo e vide un gattone dal manto grigio e arruffato, camminare lento verso Gertie. Gli occhi della vecchietta, da spaesati e terrificati che erano fino a qualche minuto prima, erano mutati sensibilmente. Era entusiasta, biascicava parole senza senso e aveva cominciato ad accarezzare quel gatto con una delicatezza che di solito si riserva a una creatura indifesa, a un neonato.
Grazie signorina. Lo abbiamo trovato.
Non sapeva cosa rispondere. Da una parte era basita ma dall’altra l’avrebbe abbracciata e vederla così soddisfatta, vedere Gertrude così gioiosa, le stava facendo riassaggiare la sapidità gustosa dell’aver fatto qualcosa di buono. Che importanza aveva che non si trattasse di un vero figlio, ma di un gatto? Che peso aveva, in tutto ciò, il fatto che forse quella vecchina avesse perso completamente il contatto con la realtà? Adesso era felice, così felice. Rimase ad osservarla per qualche secondo, ma sentiva di non poter far più parte di quel quadro. Dunque, decise di lasciarli lì. Il golfino blu elettrico e il suo gatto.
Si avviò in direzione opposta, tornando verso Tottenham Court Road e dimenticandosi perché vi si fosse inizialmente recata. Ora, quella sensazione di benessere era diventata il suo motore: aveva compiuto una “buona azione” e non poteva non sentirsi speciale.
*Caspita, potrei iscrivermi nei corpi di pace. O partire con Green Peace per salvare le balene!*
Era strano, ma la botta di autostima che quella parentesi le aveva infuso, aveva acceso anche altri pensieri, creando un effetto domino inaspettato. Se voleva, poteva diventare una persona migliore. Ne era stata la prova quell’incontro non programmato. Ne era stata la prova quel sentirsi straordinaria nell’aver dato ad una sconosciuta, in evidente bisogno d’aiuto, la possibilità di riabbracciare il suo gatto. E se poteva essere una persona migliore, poteva anche smetterla con la Pozione della Pace. Un nuovo ideale si era insinuato nella sua mente: un trascinante bisogno di cambiamento. Testa a posto, crescita personale, abbandono delle cattive abitudini. Basta cibo preconfezionato, basta ritmi circadiani sballati, basta cazzate, basta annebbiamento. Un semplice incontro aveva avuto una tale potenza da spingerla - o illuderla - di avere il coraggio per modificare la piega che stava riassumendo la sua vita.
*Sei un’adulta ormai. Hai una pseudo figlia. Comportati da tale.*
Ma come si segna un cambiamento? Quando si attraversa un processo simile, le persone sentono spesso il bisogno di esternarlo, quasi a voler gridare al mondo: “Ehi! Guardatemi! Mi sto evolvendo, sto cambiando!”
La scelta d’elezione in questi casi, per le donne, è simboleggiata da un taglio di capelli, come se l’immagine della propria capigliatura fosse un teatro o un contenitore di emozioni. Però Drinky non se la sentiva di orientarsi in quel senso. No. Non era nel suo stile - e i capelli erano un bene troppo prezioso. Aveva bisogno di sentire, di provare una sensazione fisica più intensa, cavalcando quell’onda di ottimismo che l’aveva travolta, innalzandola e rendendo rosea qualsiasi ipotesi il suo cervello si mettesse a partorire.
Qualcuno gliene aveva parlato bene, del Barcelona’s. Non riusciva a identificarne né il viso né la voce, eppure riusciva a ricordarsi con quanta accuratezza le fosse stato descritto come arrivarci. Nonostante vivesse a Londra da venticinque anni, era sempre piacevole scoprire stradine inesplorate e bearsi di quegli scorci che solo la capitale inglese era in grado di regalare. Poteva vantare un unico tatuaggio nel suo corpo, eseguito in uno studio babbano, con il classico metodo di discussione dell’idea, prenotazione, attesa di qualche settimana, stencil e ago. E dopo, tonnellate di pomata.
Ma quel giorno non aveva idee: ignorava il soggetto che avrebbe voluto veder comparire sotto la propria pelle. Era alla ricerca di una sensazione, e come si può disegnare una cosa che già a parole risulta difficoltoso descrivere? Per quello aveva scelto di dirigersi in quel luogo. Le era stato detto di come, in quel particolare posto, ci fosse la possibilità di permettere all’inchiostro stesso di “leggere” il mago: esso avrebbe capito dove posizionarsi e che forma assumere. Non c’erano scelte da compiere o decisioni da prendere. Quello scarico di responsabilità nei confronti del proprio corpo, la elettrizzava. Avrebbe potuto semplicemente abbandonarsi alle mani di qualcuno, facendosi coccolare da quel piccolo e piacevolissiomo dolore di pelle graffiata e bruciante. E dopo, ne sarebbe uscita cambiata. Tutti avrebbero visto il suo cambiamento.
Spinse la porta con violenza, curiosa di vedere che spettacolo le si sarebbe parato davanti.
Per quanto cupo potesse sembrare, l’entusiasmo che l’animava le fece sgranare gli occhi davanti al soffitto incantato e dal tono psichedelico. Non era l’unica a tenere il naso all’insù, lasciando che i vortici si confondessero l’uno con l’altro, carpendo l’attenzione della clientela. Sentì una strana sensazione di vertigine e, per quanto destabilizzante, ciò non la disturbava affatto.
*Caspita, quanto vorrei che il soffito della mia camera fosse così.*
Con gli occhi ancora meravigliati, andò a scannerizzare le figure che aveva davanti: due giovani ragazzi, entrambi vestiti da alternativi tanto da sembrare l’uno la copia dell’altro, stavano chiaccherando a voce bassa. Musica? Politica? Era difficile carpire il contenuto del discorso. Alla loro destra, una donna dai capelli lunghi fino alla vita, fissava esasiata il soffitto a sua volta.
*No, davvero. Questo soffito è assurdo.*
Sicuramente non erano loro le figure a cui si sarebbe potuta rivolgere per chiedere informazioni. Lo sguardo poi, quasi automaticamente, andò a posarsi su un uomo di statura media e dalla carnagione olivastra che la stava fissando con fare interrogativo, con entrambe le mani poggiate ad un bancone di legno.
Ok ascolti. Io devo farmi un tatuaggio. So che di solito bisogna prenotare, ma ha presente quando sente che una cosa o la fa adesso...o la fa adesso?
L’uomo se ne stava zitto. Inarcò un sopracciglio con fare interrogatorio, al che Drinky sospirò e aggiunse:
Posso pagare.
E come per magia, l’espressione dell’uomo mutò in un sorriso accogliente, quasi si trovasse davanti qualche vecchia parente che non vedeva da tempo. Le fece cenno di seguirla con la testa e, insieme, si diressero verso una sala leggermente più buia.
Ah, complimenti per il soffitto eh!
Al suo interno vi erano altre persone, alcune sedute in sgabelli di metallo, altre in piedi che attendevano il proprio turno. Dall’altro lato della stanza, vi era una sedia in pelle con delle parti ricoperte di cellophane e un lettino, anch’esso in pelle e parzialmente “impermeabilizzato”. Il proprietario le disse di scegliersi un posto ed attendere il suo turno. Si sistemò di fianco ad un ragazzo, probabilmente ventenne e dalla testa rasata. La sua attenzione, però, fu catturata da una bolla che galleggiava a pochi centimetri da lei - al suo interno, se ne stavano sospesi strumenti di vario genere, tra cui aghi e pistole. Non era l’unica bolla presente nella stanza: una identica si trovava proprio tra la poltrona e il lettino incellophanato.
*Toccali.*
L’impulso di infilare una mano dentro quell’alone e di toccare gli oggetti che conteneva era quasi incontrollabile. Razionalmente, cercava di placarla e di spiegarle che, forse, non fosse proprio un’idea più brillante.
*Toccali e vedi che succede.*
Provò a distrarsi da quell’istinto insensato concentrandosi sulla ragazza che il proprietario aveva condotto nella stanza, lì con loro. Era difficile definirne l’età. Sicuramente era più giovane di lei, ma il fatto di trovarsi in un luogo del genere la categorizzava già nell’insieme di persone maggiorenni. Un’aria strana, quasi assente e persa, non rendeva giustizia alla bellezza del suo viso. Forse era drogata, ubriaca o, per qualche altro motivo, priva di lucidità.
La osservò mentre faceva cadere ai suoi piedi il pullover che fino a qualche secondo prima l’avvolgeva, incurante che lo sguardo di tutti i presenti fosse puntato su di lei.
*Ok, questa è sicuramente fatta.*
La osservò mentre, con gli occhi chiusi, si lasciava sfiorare dall’inchiostro, in una danza impercettibile e confusa. Il ragazzo con la testa rasata, sicuramente si stava godendo a pieno lo spettacolo, tanto che se ne uscì con un commento non particolarmente ricco di savoir faire. Ci stava provando in maniera plateale e con una certa rozzezza, ma la cosa che a Drinky dava più fastidio, era che ci stesse provando con una ragazza visibilmente alterata, quasi a volersene approfittare.
*Ma quanto mi fai schifo. Fai veramente schifo.*
Provò un misto di rabbia e di acido nello stomaco davanti a quella scena. La ragazza stessa aveva aperto gli occhi, sorridendogli ammiccante, e ciò non faceva sì che buttare benzina sul fuoco nello spirito di Drinky.
Odiava chi si approfittava di situazioni del genere. E sentiva l’irrefrenabile impulso di proteggerla. Ma cosa avrebbe potuto fare? Non poteva spostarsi - le regole che il proprietario aveva inizialmente fornito, erano state chiare, nonostante lo stesso ragazzo le stesse infrangendo. Non poteva nemmeno esprimere il suo dissenso a voce alta perché...beh, non sapeva perché.
Poi, la sua mano si trovò a sentire del materiale freddo stretto nel palmo. Involontariamente, aveva inserito tutto L’avambraccio in quella bolla, afferrando una delle pistolette e stringendola con forza. La bolla scoppiò e si dissolse come fumo, mentre tutti gli strumenti si infransero per terra creando un frastuono che ruppe violentemente il silenzio che era da poco tornato a calare su di loro.
*Oh cazzo!*
Mi scusi tantissimo, oddio. Adesso tiro su tutto, tutto quanto.
Non sapeva giustificare quel gesto. Aveva semplicemente agito d’istinto senza alcuna causa apparente, se non una grande curiosità, o l’aveva fatto per interrompere quello spettacolo?
Edited by Drinky - 8/11/2018, 00:12