La Sala dell'Inchiostro, Privata.

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view post Posted on 5/11/2018, 17:49
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entropia.

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Astaroth era tornata a turbare la sfera emotiva di Nieve con prepotenza, un giorno che una commissione ne aveva imposto la presenza a Londra.
In ossequio alla preghiera epistolare di Grimilde, pur scossa dalla prospettiva di imbattersi nello stesso clima che si era lasciata alle spalle il giorno della partenza per Hogwarts, la Rigos aveva accondisceso malvolentieri a una sosta presso casa. Era stata piacevolmente smentita: seduti al tavolo della cucina, Nieve, Julian, Grimilde e i nonni avevano sorseggiato il tè e servito un dolce fatto in casa — nessuna ramanzina, nessuno scontro, nessuna frecciatina. Contro ogni previsione, sollevata, Nieve era perfino riuscita a mangiucchiare una fetta di torta; dopodiché, si era alzata per stringere le spalle del nonno in un abbraccio, inspirando la forte essenza di dopobarba ad occhi chiusi.
Era stato il riferimento ai preparativi per il suo diciassettesimo compleanno a infrangere la bolla di armonia familiare nella quale si era crogiolata, creando un immediato collegamento con la vicenda che, su tutte, più aveva inciso l’emotività di Nieve. Il programma elaborato con Astaroth per celebrare il raggiungimento della maggiore età, lontane dalle limitazioni che Hogwarts imponeva al loro rapporto, era sopraggiunto a stagliarsi con nitore tra le pieghe della sua memoria. D’un tratto, mesi di progettazioni e scuse erano caracollati al suolo col clangore dell’inutilità nella cucina di casa di Grimilde. Non aveva bisogno di mentire alla sua famiglia perché Astaroth non faceva più parte della sua vita.
Nieve aveva asciato l’appartamento a due piani prima che il pianto potesse conquistare la superficie e cercato rifugio presso l’angolo più vicino. Incurante dei passanti, aveva poggiato la schiena a un muro di mattoni rossi con le braccia raccolte attorno al corpo. Spronata dal desiderio di spegnersi, allora, aveva imboccato la via che conduceva al Black Skull e tentato di rivivere l’esperienza di Agosto, ma infruttuosamente. Semmai, la capatina presso il locale era servita a evidenziare il suo grado di inesperienza nel settore e a rimarcare quali e quanti insegnamenti ancora Astaroth avesse mancato di impartirle. Non voleva sembrare disperata, eppure lo era. Aveva ripiegato sull’alcol, allo sbando, perché le ottundesse i sensi quanto bastava ad allentare — se non proprio eliminare — l’angoscia che le stringeva il petto.
Il tocco freddo del septum sulle nocche, mentre asciugava una lacrima solitaria, le aveva suggerito la via che portava al Barcelona’s.

«Voglio farmi un tatuaggio! Mi sono decisa, finalmente. Non sei contento?!»

Aveva salutato Nando con un sorriso freddo e impersonale, estraniata. Si fosse vista dalla prospettiva del tatuatore — con gli occhi resi liquidi dal dolore, dalla Goblingrappa e dal pianto e la posa di chi trattiene a stento il calore corporeo —, avrebbe dubitato delle sue capacità di attrice e ne avrebbe decifrato puntualmente la perplessità. L’uomo si era limitato ad annuire di fronte alla sua richiesta febbrile, l’aveva indirizzata nella porzione più oscura della sala d’attesa e le aveva suggerito di fissare lo sguardo sul soffitto incantato. Dunque, inebetita dai vortici che riproducevano il suo turbamento, Nieve aveva sentito il caos che aveva dentro quietarsi.
Quando, infine, le era stato intimato di raggiungere la Sala dell’Inchiostro, non aveva opposto resistenza.

Sfilò il maglioncino da sopra la testa, incurante del fatto che altri sconosciuti fossero presenti nella stanza. Aveva vagamente intuito quale fosse il meccanismo alla base del suo funzionamento, oltre la smania di annullarsi: la magia che imbeveva la sala favoriva la convergenza tra il desiderio del cliente e la mano del tatuatore, suggerendo disegno e posizione a chiunque avesse incontrato difficoltà nel mettere insieme le idee. Nieve percepì il tocco gelido dell’inchiostro sfiorarle il fianco nudo, poi il centro della colonna vertebrale, ancora il mento — la stava studiando. Non trovò il coraggio di schiudere le palpebre. Invece, lasciò cadere sul pavimento il pullover e seguì con le dita i contorni del reggiseno. Una spirale fredda le avvolse il polso sinistro, facendola rabbrividire.
Aprì gli occhi nell’udire il commento di un ragazzo. Infrangendo la regola di assoluta immobilità suggerita da Nando per facilitare la magia della stanza, si era mosso verso Nieve. La Rigos lo osservò nella penombra psichedelica della camera senza vederlo: non era che uno stratagemma privo di valore per tacitare il silenzio assordante che le frastornava l’anima. Gli sorrise, allusiva. Poi, l’inchiostro tornò a toccarle la parte bassa della schiena e Nieve sobbalzò, arcuando il corpo all’indietro per assecondare il brivido amplificato dagli effetti della Goblingrappa.

Si sentì perduta.



Il Barcelona's ti dà il benvenuto! :zalve:
 
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view post Posted on 7/11/2018, 23:52
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“Cambiare”.
Quanto timore e che stimolo riesce a portare con sé questo verbo. Sì, perché l’idea di abbandonare delle abitudini, degli schemi, dei loop in cui incautamente ci si imprigiona, spaventa. E per quanto ce la si voglia raccontare, per quanto si possa tentare di addolcire una pillola che non solo è amara, ma anche acida, spesso il processo non è semplice né immediato. Ci si prende tempo, si pondera, si valutano tutti i pro e i contro del caso. Ci si illude di avere qualche potere a riguardo e si razionalizza. Poi, un giorno succede e basta. Il cervello viene folgorato da una qualche illuminazione divina che riesce a farti vedere come, per quanto tu voglia rimanere fermo e ancorato nella posizione che hai assunto fin’ora, il contesto inizi a remarti contro. Arriva un momento in cui cambiare non diventa più scelta, ma necessità.

Erano passate circa due settimane dal suo ultimo incidente con la Pozione della Pace; ci era ricaduta. Per l’ennesima volta, il suo piede aveva sbattuto contro quel maledetto gradino che voleva fingere di non vedere, andando a distruggere anni di progressi. “Una volta soltanto. Un’ultima volta per darle l’addio che non le ho mai dato e poi l’abbandonerò per sempre.” Questa frase però, era diventata un mantra che si ripeteva ogni giorno per giustificare il suo comportamento e validare la voce che le suggeriva di anestetizzarsi. Il vizio si era riproposto, insinuandosi nella sua mente e seducendola. La Pozione era un’amante subdola, una di quelle che c’è sempre per te, che non ti molla mai e per quanto possa farti del male, tu la vuoi. Continui a sbattere tra due poli opposti di odio viscerale e amore incondizionato, senza passare nel mezzo.

Quel giorno si trovava a camminare per Tottenham Court Road, osservando un centinaio di turisti cercare di farsi largo tra la folla, utilizzando le borse di carta marchiate Primark come fossero manganelli. Ma era stato il blu ad attirare la sua attenzione. Un golfino blu elettrico che avvolgeva un’anziana signora dallo sguardo perso e spaesato. La gente le passava davanti, ignorando le sue richieste di aiuto e non soffermandosi su quel volto che, apparentemente, era uno dei tanti. Le sue parole si perdevano nei suoni provocati dalla moltitudine di lingue e accenti diversi che rimbalzavano tra i muri e l’asfalto, e le persone la vedevano, la vedevano eccome, ma nessuno si fermava a guardarla. Le mani le tremavano, come tremavano quelle caviglie così sottili da rendere fisicamente inspiegabile il fatto che riuscisse a stare in piedi. Drinky, mossa da un’ondata di pena e compassione, le si avvicinò.
Signora, va tutto bene?
Il suo sguardo si scontrò con quello acquoso della vecchia, che sembrava ancor più spaventata e intimorita dal contatto. Un contatto che, in realtà, poco prima sembrava stesse cercando.
Mio figlio, era qui un minuto fa e adesso...adesso...
Drinky si guardò intorno, cercando un uomo che avesse almeno trenta o quarant’anni, ma era più per scena che per effettiva speranza di trovare un singolo individuo che corrispondesse all’immagine mentale che si era creata riguardo questo fantomatico figlio. Con tutto quel via vai di persone, una ricerca del genere si prospettava un’impresa infattibile.
Senta, se vuole posso aiutarla a cercarlo. Com’è fatto suo figlio?
L’erba, devo trovare l’erba. Quella verde.
Intende l’erba che cresce per terra?
*Ma che...*
Sì, quella verde.
Però, da quelle parti, non c’era l’ombra di vegetazione. Forse, quella vecchina stava semplicemente delirando. Ed era una stretta al cuore sentire quella voce roca che prima parlava di un figlio e poi dell’erba. Magari suo figlio era morto. Magari era un figlio che non c’era mai stato. Si era dipinta diversi scenari in mente, ma tutti portavano ad un unica risposta: quella lì, stava fuori come un balcone.
Signora, mi dispiace, ma qui non c’è erba.
Cercò di usare il tono più dolce e gentile che potesse trovare, conscia del fatto che forse, colei con cui stava parlando, difficilmente si sarebbe resa conto delle parole che le aveva appena pronunciato.
L’erba con la casetta bianca al centro.
Non aveva minimamente senso. Figlio? Erba? Casetta? Le si strinse nuovamente il cuore nel constatare che, probabilmente, non avrebbe potuto aiutare quell’anima in pena. E, una parte di sé, ringraziava di non essere al suo posto; di non essere qualcuno che aveva perso il senno, disorientata e disorientante. Finché un’immagine prese vita nella sua testa in maniera del tutto incontrollata. Per una strana sequenza di pensieri, riuscì a visualizzare un prato verde con una casetta bianca posta proprio al centro.
*Soho Square! Quindi non sta dicendo cose a caso!*
Intende Soho Square? E’ lì che si trova suo figlio? Se vuole posso accompagnarla.
L’anziana le sorrise e annuì più volte, con un movimento rapido simile a uno spasmo. Il piccolo parco si trovava a pochi minuti di distanza da loro e, per quanto sarebbe stato noioso dover badare a qualcuno e farsi strada tra tutta quella gente, uno spirito altruistico ed eroico si era impossessato di lei. Era proprio così che si sentiva mentre si faceva strada, con il contenuto di quel golfiono blu appresso, dribblando turisti e non. A passo normale ci avrebbero messo circa quattro minuti, ma era costretta a camminare fastidiosamente piano, per non smarrire la persona a cui “stava dando un passaggio”. Più si avvicinavano alla meta, più il suo ego si caricava. Era forse questo il significato intrinseco dell’altruismo? Fare del bene per sentirsi pieni e potenti? Forse sì. Forse l’altruismo era un concetto abusato, il cui vero significato equivaleva a egoismo funzionale. Egoismo sano.

Arrivarono a destinazione e Drinky sorrise alla signora, voltandosi verso di lei e dando alle spalle al parco che, stranamente, non accoglieva poi tanta gente, nonostante l’ora.
Eccoci qui, siamo arrivate. Ora cerchiamo suo figlio.
Ma la signora non rispose. Le stava sorridendo di rimando, sì, ma non proferiva parola. Sembrava un fermo immagine, lo sguardo fisso ma completamente assente, congelata in una smorfia felice e un po’ inquietante.
Finché, Gertrude - non si chiamava Gertrude, ma per Drinky il suo volto si accostava bene a quel nome, dunque l’aveva tacitamente ribattezzata così - si accucciò con lentezza, tirando fuori dalla borsa con stampa a fiori, una scatola di croccantini per gatti. Iniziò ad agitarla, producendo il classico suono che tanto avrebbe attirato anche Oscar, il gatto di sua proprietà. Non sapeva bene come comportarsi davanti a quella scena: le sue emozioni erano un misto di imbarazzo, pena e di malinconia. Dov’era finita quella sensazione di onnipotenza che poco prima l’aveva invasa?
Qualcosa le sfiorò il polpaccio, provocandole un brivido. Abbassò lo sguardo e vide un gattone dal manto grigio e arruffato, camminare lento verso Gertie. Gli occhi della vecchietta, da spaesati e terrificati che erano fino a qualche minuto prima, erano mutati sensibilmente. Era entusiasta, biascicava parole senza senso e aveva cominciato ad accarezzare quel gatto con una delicatezza che di solito si riserva a una creatura indifesa, a un neonato.
Grazie signorina. Lo abbiamo trovato.
Non sapeva cosa rispondere. Da una parte era basita ma dall’altra l’avrebbe abbracciata e vederla così soddisfatta, vedere Gertrude così gioiosa, le stava facendo riassaggiare la sapidità gustosa dell’aver fatto qualcosa di buono. Che importanza aveva che non si trattasse di un vero figlio, ma di un gatto? Che peso aveva, in tutto ciò, il fatto che forse quella vecchina avesse perso completamente il contatto con la realtà? Adesso era felice, così felice. Rimase ad osservarla per qualche secondo, ma sentiva di non poter far più parte di quel quadro. Dunque, decise di lasciarli lì. Il golfino blu elettrico e il suo gatto.

Si avviò in direzione opposta, tornando verso Tottenham Court Road e dimenticandosi perché vi si fosse inizialmente recata. Ora, quella sensazione di benessere era diventata il suo motore: aveva compiuto una “buona azione” e non poteva non sentirsi speciale.
*Caspita, potrei iscrivermi nei corpi di pace. O partire con Green Peace per salvare le balene!*
Era strano, ma la botta di autostima che quella parentesi le aveva infuso, aveva acceso anche altri pensieri, creando un effetto domino inaspettato. Se voleva, poteva diventare una persona migliore. Ne era stata la prova quell’incontro non programmato. Ne era stata la prova quel sentirsi straordinaria nell’aver dato ad una sconosciuta, in evidente bisogno d’aiuto, la possibilità di riabbracciare il suo gatto. E se poteva essere una persona migliore, poteva anche smetterla con la Pozione della Pace. Un nuovo ideale si era insinuato nella sua mente: un trascinante bisogno di cambiamento. Testa a posto, crescita personale, abbandono delle cattive abitudini. Basta cibo preconfezionato, basta ritmi circadiani sballati, basta cazzate, basta annebbiamento. Un semplice incontro aveva avuto una tale potenza da spingerla - o illuderla - di avere il coraggio per modificare la piega che stava riassumendo la sua vita.
*Sei un’adulta ormai. Hai una pseudo figlia. Comportati da tale.*
Ma come si segna un cambiamento? Quando si attraversa un processo simile, le persone sentono spesso il bisogno di esternarlo, quasi a voler gridare al mondo: “Ehi! Guardatemi! Mi sto evolvendo, sto cambiando!”
La scelta d’elezione in questi casi, per le donne, è simboleggiata da un taglio di capelli, come se l’immagine della propria capigliatura fosse un teatro o un contenitore di emozioni. Però Drinky non se la sentiva di orientarsi in quel senso. No. Non era nel suo stile - e i capelli erano un bene troppo prezioso. Aveva bisogno di sentire, di provare una sensazione fisica più intensa, cavalcando quell’onda di ottimismo che l’aveva travolta, innalzandola e rendendo rosea qualsiasi ipotesi il suo cervello si mettesse a partorire.


Qualcuno gliene aveva parlato bene, del Barcelona’s. Non riusciva a identificarne né il viso né la voce, eppure riusciva a ricordarsi con quanta accuratezza le fosse stato descritto come arrivarci. Nonostante vivesse a Londra da venticinque anni, era sempre piacevole scoprire stradine inesplorate e bearsi di quegli scorci che solo la capitale inglese era in grado di regalare. Poteva vantare un unico tatuaggio nel suo corpo, eseguito in uno studio babbano, con il classico metodo di discussione dell’idea, prenotazione, attesa di qualche settimana, stencil e ago. E dopo, tonnellate di pomata.
Ma quel giorno non aveva idee: ignorava il soggetto che avrebbe voluto veder comparire sotto la propria pelle. Era alla ricerca di una sensazione, e come si può disegnare una cosa che già a parole risulta difficoltoso descrivere? Per quello aveva scelto di dirigersi in quel luogo. Le era stato detto di come, in quel particolare posto, ci fosse la possibilità di permettere all’inchiostro stesso di “leggere” il mago: esso avrebbe capito dove posizionarsi e che forma assumere. Non c’erano scelte da compiere o decisioni da prendere. Quello scarico di responsabilità nei confronti del proprio corpo, la elettrizzava. Avrebbe potuto semplicemente abbandonarsi alle mani di qualcuno, facendosi coccolare da quel piccolo e piacevolissiomo dolore di pelle graffiata e bruciante. E dopo, ne sarebbe uscita cambiata. Tutti avrebbero visto il suo cambiamento.
Spinse la porta con violenza, curiosa di vedere che spettacolo le si sarebbe parato davanti.

Per quanto cupo potesse sembrare, l’entusiasmo che l’animava le fece sgranare gli occhi davanti al soffitto incantato e dal tono psichedelico. Non era l’unica a tenere il naso all’insù, lasciando che i vortici si confondessero l’uno con l’altro, carpendo l’attenzione della clientela. Sentì una strana sensazione di vertigine e, per quanto destabilizzante, ciò non la disturbava affatto.
*Caspita, quanto vorrei che il soffito della mia camera fosse così.*
Con gli occhi ancora meravigliati, andò a scannerizzare le figure che aveva davanti: due giovani ragazzi, entrambi vestiti da alternativi tanto da sembrare l’uno la copia dell’altro, stavano chiaccherando a voce bassa. Musica? Politica? Era difficile carpire il contenuto del discorso. Alla loro destra, una donna dai capelli lunghi fino alla vita, fissava esasiata il soffitto a sua volta.
*No, davvero. Questo soffito è assurdo.*
Sicuramente non erano loro le figure a cui si sarebbe potuta rivolgere per chiedere informazioni. Lo sguardo poi, quasi automaticamente, andò a posarsi su un uomo di statura media e dalla carnagione olivastra che la stava fissando con fare interrogativo, con entrambe le mani poggiate ad un bancone di legno.
Ok ascolti. Io devo farmi un tatuaggio. So che di solito bisogna prenotare, ma ha presente quando sente che una cosa o la fa adesso...o la fa adesso?
L’uomo se ne stava zitto. Inarcò un sopracciglio con fare interrogatorio, al che Drinky sospirò e aggiunse:
Posso pagare.
E come per magia, l’espressione dell’uomo mutò in un sorriso accogliente, quasi si trovasse davanti qualche vecchia parente che non vedeva da tempo. Le fece cenno di seguirla con la testa e, insieme, si diressero verso una sala leggermente più buia.
Ah, complimenti per il soffitto eh!

Al suo interno vi erano altre persone, alcune sedute in sgabelli di metallo, altre in piedi che attendevano il proprio turno. Dall’altro lato della stanza, vi era una sedia in pelle con delle parti ricoperte di cellophane e un lettino, anch’esso in pelle e parzialmente “impermeabilizzato”. Il proprietario le disse di scegliersi un posto ed attendere il suo turno. Si sistemò di fianco ad un ragazzo, probabilmente ventenne e dalla testa rasata. La sua attenzione, però, fu catturata da una bolla che galleggiava a pochi centimetri da lei - al suo interno, se ne stavano sospesi strumenti di vario genere, tra cui aghi e pistole. Non era l’unica bolla presente nella stanza: una identica si trovava proprio tra la poltrona e il lettino incellophanato.
*Toccali.*
L’impulso di infilare una mano dentro quell’alone e di toccare gli oggetti che conteneva era quasi incontrollabile. Razionalmente, cercava di placarla e di spiegarle che, forse, non fosse proprio un’idea più brillante.
*Toccali e vedi che succede.*
Provò a distrarsi da quell’istinto insensato concentrandosi sulla ragazza che il proprietario aveva condotto nella stanza, lì con loro. Era difficile definirne l’età. Sicuramente era più giovane di lei, ma il fatto di trovarsi in un luogo del genere la categorizzava già nell’insieme di persone maggiorenni. Un’aria strana, quasi assente e persa, non rendeva giustizia alla bellezza del suo viso. Forse era drogata, ubriaca o, per qualche altro motivo, priva di lucidità.

La osservò mentre faceva cadere ai suoi piedi il pullover che fino a qualche secondo prima l’avvolgeva, incurante che lo sguardo di tutti i presenti fosse puntato su di lei.
*Ok, questa è sicuramente fatta.*
La osservò mentre, con gli occhi chiusi, si lasciava sfiorare dall’inchiostro, in una danza impercettibile e confusa. Il ragazzo con la testa rasata, sicuramente si stava godendo a pieno lo spettacolo, tanto che se ne uscì con un commento non particolarmente ricco di savoir faire. Ci stava provando in maniera plateale e con una certa rozzezza, ma la cosa che a Drinky dava più fastidio, era che ci stesse provando con una ragazza visibilmente alterata, quasi a volersene approfittare.
*Ma quanto mi fai schifo. Fai veramente schifo.*
Provò un misto di rabbia e di acido nello stomaco davanti a quella scena. La ragazza stessa aveva aperto gli occhi, sorridendogli ammiccante, e ciò non faceva sì che buttare benzina sul fuoco nello spirito di Drinky.
Odiava chi si approfittava di situazioni del genere. E sentiva l’irrefrenabile impulso di proteggerla. Ma cosa avrebbe potuto fare? Non poteva spostarsi - le regole che il proprietario aveva inizialmente fornito, erano state chiare, nonostante lo stesso ragazzo le stesse infrangendo. Non poteva nemmeno esprimere il suo dissenso a voce alta perché...beh, non sapeva perché.

Poi, la sua mano si trovò a sentire del materiale freddo stretto nel palmo. Involontariamente, aveva inserito tutto L’avambraccio in quella bolla, afferrando una delle pistolette e stringendola con forza. La bolla scoppiò e si dissolse come fumo, mentre tutti gli strumenti si infransero per terra creando un frastuono che ruppe violentemente il silenzio che era da poco tornato a calare su di loro.
*Oh cazzo!*
Mi scusi tantissimo, oddio. Adesso tiro su tutto, tutto quanto.

Non sapeva giustificare quel gesto. Aveva semplicemente agito d’istinto senza alcuna causa apparente, se non una grande curiosità, o l’aveva fatto per interrompere quello spettacolo?



Edited by Drinky - 8/11/2018, 00:12
 
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view post Posted on 20/12/2018, 19:05
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La Sala aveva scelto e l’Inchiostro aveva fatto la sua parte, quando le luci si accesero e la figura di Nando attraversò la stanza a passo trafelato. Eppure Nieve, che non aveva il controllo di sé, dimenticò la ragione della capatina al Barcelona’s e, laddove altri si erano radunati in una cauta serpentina che mirava all'uscita, pensò bene di rimanere e godersi la scena.
Osservò Nando riappropriarsi della piccola pistola ad aghi e liberarla dalla stretta della malfattrice. Oltre l'inebetimento dato dalla Goblingrappa, ripescò un racconto risalente ad alcuni mesi prima: gli oggetti presenti nella Sala dell’Inchiostro, a quanto pareva, erano strumenti recuperati da alcuni colleghi babbani e tenuti lì in mera veste espositiva. Alla luce del trattamento riservato alla sconosciuta, Nieve comprese per esperienza diretta — pur ignorandone i motivi — quanto l'uomo vi fosse legato. Incosciente, mosse un passo in direzione del duo, del tutto dimentica del maglioncino.
«Tieni le mani a posto, brutta Yankee,» sbraitò Nando, paonazzo, all’indirizzo della donna. Lì per lì, a Nieve scappò un sorriso tutto denti nel cogliere l’accento latino del tatuatore macchiarsi di rabbia. «Alla tua età, non sai ancora comportarti. Non ti vergogni?»
Una rotazione di bacchetta più tardi, gli strumenti levitavano dietro le spalle di lui, che non aveva smesso di rivolgere alla sua interlocutrice quell’espressione sdegnata che gli aveva suscitato l’accaduto. Era stupefacente notarne il cambiamento, rifletté la sedicenne: di Nando, Nieve aveva conosciuto i modi sopra le righe, la professionalità sul campo e l’elasticità mentale necessaria a fare del proprio mestiere un’arte. Non era sicura di trovare altrettanto piacente quella versione caustica e prepotente.
«Mi pare che tu ci stia andando giù un po’ pesante.»
Non si accorse di aver parlato se non quando il suo sguardo incrociò quello dell’uomo. Era sorpreso in un modo che esulava dal contesto della mera intromissione.
«Perché sei mezza nuda?» le chiese, voltandosi per fronteggiarla.
Nieve, allora, chinò lo sguardo per fissarlo sul proprio petto. «Oh,» esordì, sorpresa sua volta, e ridacchiò. «Non ne ho idea,» ammise, facendo spallucce. Nando ebbe la premura di restituirle magicamente il maglione, che le planò tra le mani. «Ma, uh, non ho ancora visto il tatuaggio!» D’un tratto, l’ordine delle sue priorità tornò a stagliarsi con chiarezza al cospetto di una razionalità compromessa. Nieve scandagliò la pelle delle braccia, del torace, dei fianchi, infine gettò un’occhiata alla schiena. «Tu vedi qualcosa?»
Il braccio di Nando tornò a pendere mollemente lungo i fianchi. Mentre avanzava in direzione della studentessa, gli occhi seguivano i contorni netti tracciati dall’inchiostro. Inaspettatamente, stante la brevità della seduta, la Sala aveva trovato il modo di agire sul corpo di Nieve: linee sottili, pulite seguivano la curva naturale creata da una serie studiatamente simmetrica di cicatrici, che procedevano da scapola a scapola. Il nero del disegno le sfiorava senza mai coprirle, poi scendeva in basso lungo la spina dorsale — un arco che incocca una freccia. I polpastrelli di Nando toccarono la superficie ispessita della pelle nel punto in cui era stata lesa, sui lineamenti un’espressione che non aveva legami con quella rivolta alla cliente cui doveva lo sfogo di prima.
Nieve sobbalzò. «Allora, c’è! Dimmi cos’è, daidaidai lo supplicò, facendo lo sforzo di spingere il mento appena oltre la spalla. Intravide qualcosa, ma non le riuscì di decifrare il senso del disegno. «Avanti, dimmelo. Se è bello, puoi ripassarlo con la bacchetta.» E, tuttavia, Nando tacque. Col capo d’abbigliamento ancora stretto tra le mani, Nieve gli rivolse un’occhiata truce, prima di oltrepassarlo. Raggiunse la sola anima che fosse rimasta nella Sala, la persona colpevole di un’interruzione a dir poco fragorosa. «Scusa il disturbo,» le disse senza curarsi del modo in cui le sue maniere si abbinavano alle circostanze. Aveva ancora gli occhi grandi velati di una perdizione liquida, che addolciva le sue reazioni più aspre con una sfumatura inafferrabile d’estasi. «Ma… ti spiacerebbe dirmi cos’ho disegnato sulla schiena? Quel maledetto bacucco ha la bocca cucita, quindi o fa assolutamente schifo, o è pieno di oscenità, o lo hai fatto talmente arrabbiare che non vuole più avere a che fare neppure con me.» Nel parlare, aveva esposto la schiena allo sguardo dell’altra e raccolto i capelli su una spalla. Per assicurarsene la collaborazione, si premurò di guardarla negli occhi quando aggiunse sottovoce: «Metto una buona parola per te, se mi dai una mano.»

 
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view post Posted on 24/12/2018, 15:41
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Ehi, señor burrito y guacamole! Non sono una “Yankee” e no, evidentemente non so comportarmi. Però nemmeno lei sa prendersi correttamente cura dei suoi clienti, né è in grado di richiamarli verbalmente quando è chiaro che se ne escano con commenti non adatti.
Si sarebbe sporta in avanti, impettorita, muovendo qualche passo che nella sua testa sarebbe stato riconducibile ad una danza di sfida. Spesso, in certi contesti, si dimenticava che la sua prestanza fisica non fosse propriamente adatta agli scontri e in quei precisi istanti, una dose di onnipotenza ed invincibilità, le pervadeva il corpo. Si percepiva più alta, più forte, più furba. Sviluppava questa idea di sé in forte contrasto con la realtà.
Dunque, quelle sarebbero state le cose che avrebbe voluto dirgli e l’atteggiamento che avrebbe desiderato adottare. Se si fosse lasciata andare, gli avrebbe fatto cadere addosso altri insulti per testarlo e vedere fino a dove sarebbe stato capace di spingersi. Ma non lo fece. Non disse nulla di tutto ciò. Perché se ci avesse provato, se avesse lasciato vincere l’istinto, avrebbe mandato in frantumi il buon proposito che l’aveva condotta fino a lì. Sarebbe stata sbattuta fuori dal negozio o, ancora peggio, si sarebbe ritrovata con qualche tatuaggio inopportuno in faccia, vittima di una deturpazione che, forse, sarebbe stata pure meritata.

Strinse la mascella mentre sentiva i richiami investirla e la pistola che le veniva strappata dalla mano.
Mi scusi, veramente. È che...lasciamo perdere. Comunque, scusi.
Cercò di evitare il contatto visivo, abbassando la testa e fissando il pavimento: sembrava fosse stata messa in punizione e sperava soltanto che l’uomo si allontanasse da lei ignorandola, riprendendo a fare ciò che doveva fare. Solo l’intervento della ragazza dai capelli chiari le fece alzare il capo. Aveva apostrofato il tizio, il capo del Barcelona’s, con un tono che una semplice cliente casuale non si sarebbe potuta permettere. Ipotizzò che fossero amici, che si conoscessero già, altrimenti non poteva spiegarsi quell’atteggiamento. Osservò la loro interazione e gli elementi che raccolse andarono a confermare la tesi. Si erano allontanati di poco da lei, ma non abbastanza da rendere le immagini sfuocate o le voci troppo flebili per essere udite. La ragazza teneva stretto il pullover tra le mani e continuava a girare il volto, attenta a scorgere le linee apparse sulla sua schiena. Il soggetto si vedeva chiaramente: un arco con una freccia. A catturare l’attenzione di Drinky, però, furono le cicatrici che le costellavano la parte più alta del dorso. Non capiva se fossero il risultato di una ferita o di un’ustione, ma dall’aspetto di quelle morse quasi cheloidee, immaginò che la spiegazione non dovesse essere piacevole. Era una ragazza così giovane. Cosa doveva esserle successo perché il suo corpo portasse già con sé quel tipo di “tatuaggi”?
Incidenti. Abusi. Audacia. Imprudenza. Le spiegazioni potevano essere molteplici e la voglia di scorprire, di saperne di più, stava pian piano montando. Divenne praticamente intrascurabile quando, il corpo che le indossava, si trovò così vicino a lei. Adesso poteva vederle meglio, ne poteva osservare i contorni e il colore che, su quella pelle così chiara, pareva acrilico rosso su una tela bianca e immacolata. Senza premurarsi troppo, la giovane le si era avvicinata chiedendole di riferirle quale soggetto la stanza avesse deciso di trasferirle addosso. La rossa faticava a capire se, ciò che l’aveva spinta a mostrarsi seminuda ad una sconosciuta, domandandole informazioni senza alcun tipo di imbarazzo, si trattasse sfrontatezza o pura ingenuità. O se, il tutto, fosse imputabile al suo apparire visibilmente alterata da qualche sostanza. Eppure non le dispiaceva avere la possibilità di rivolgerle la parola, specie se ciò l’avesse davvero aiutata a riscattarasi, uscendo dalla posizione scomoda in cui si era ficcata, con quella testa calda del tatuatore.

Nessun disturbo, figurati! Ma ehi, fossi in te, non vorrei mai quello tatuato sulla mia pelle...
Curvò leggermente la testa, come se stesse osservando un quadro di difficile comprensione: uno di quelli con le prospettive strane che fanno venire il torcicollo a furia di piegarlo, alla ricerca del giusto angolo di osservazione.
Insomma, penso sia addirittura illegale girare con una cosa del genere.
Aggiunse con un tono serio e grave. Non sapeva nemmeno lei perché lo stesse facendo, perché le fosse venuta voglia di scherzare in quel modo che non era poi così spiritoso o divertente. Ma le era uscito in maniera naturale, incontrollabile. Si infastidiva da sola quando faceva così però, allo stesso tempo, non poteva fermarsi.
Sì, è un soggetto decisamente volgare.
*Ma, seria? Smettila.*
Si sentì messa in imbarazzo dalla sua stessa coscienza e quindi, dopo aver espirato, sorrise cercando di mascherare quel senso di vergogna.
Sto scherzando! È un arco. Hai la parte dell’impugnatura che va da una parte all’altra...
E con il dito, tracciò una mezzaluna in aria, vicina alla pelle della ragazza ma non abbastanza da sfiorarla.
...e poi c’è una freccia che scende in basso. È molto bello comunque. Ti ci rivedi? Lo senti adatto?
I suoi occhi incontrarono di nuovo le cicatrici; lanciò uno sguardo fulmineo verso l’uomo per poi riportarlo sulle macchie scure. Capì perché non avesse proferito parola, costringendo la ragazza a cercare risposte da chiunque altro, e avrebbe tanto, tanto voluto scoprire di più. Tuttavia, era consapevole di non potere, di non essere legittimata ad indagare nei confronti di qualcuno di cui nemmeno sapeva il nome.
Non erano affari suoi.
Ma, scusa un attimo...
*Taci.*
No, niente. È davvero molto figo, sì.


 
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view post Posted on 29/12/2018, 18:01
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«IllegaleIl tono di voce caricò la domanda di una punta d’allarme, che l’alcol fece suonare come stupore. E, invero, Nieve provava una certa sensazione di curiosità verso la prospettiva di scoprire cosa la Stanza avesse letto dentro di lei per dargli quella forma. «Cioè? Parla, parla!»

Sbuffò, imbronciata, quando la sconosciuta distrusse le congetture in divenire che la notizia aveva stimolato. Le lanciò un’occhiata contrariata, salvo poi tornare a sorridere. Era un bene, infatti, che Nieve possedesse l’onestà intellettuale necessaria ad appellarsi all’equità. Probabilmente, nella sua posizione, avrebbe colto al balzo un’occasione tanto ghiotta. Non avrebbe mai rimproverato a qualcun altro gli effetti di una condotta nella quale avrebbe indugiato a sua volta.
Ridacchiò, pertanto, e le rifilò una lieve spinta alla spalla.

«Sei una truffa,» le disse con fare confidenziale.
«Sei sicura di volerlo ripassare?» La voce di Nando interruppe quello scambio di battute, assorbendo completamente l’attenzione di Nieve. Aveva compiuto qualche passo nella loro direzione e ripristinato l'ordine dell'angolo espositivo: adesso, gli utensili babbani levitavano al loro posto come se nulla fosse mai accaduto. «È bello grande. Non è una cosa che puoi nascondere più di tanto, ma…» E qui si prese il tempo di una breve risata. «Ho come l’impressione di averti già fatto questo discorsetto ai tempi del septum.»
Nieve annuì, sfiorando il piercing con fierezza. «Proprio così, vecchietto! Cominci ad essere un po’ ripetitivo, non ti pare?» Lieta che Nando avesse recuperato l’aplomb del passato e soprasseduto l’inconveniente con la cliente, proseguì: «E direi che più guai del septum non può causarmi. Sicuramente, riuscirei a nasconderlo più facilmente e per più tempo, prima di veder Grimilde dare di matto.»
«Niente è troppo appariscente per Nieve Rigos, non è così?»
«Propriamente!»
Nando ridacchiò. Fosse stata sobria, Nieve avrebbe colto la sfumatura cupa che gli adombrava il volto smilzo. Invece, si limitò a osservarlo col solito piglio malandrino.
L’uomo sospirò. «Facciamo che vado a prendere la macchina fotografica e te lo mostro per bene. Poi, discutiamo se sia il caso di ripassarlo o meno.»
L’attenzione, a quel punto, tornò a focalizzarsi sulla rossa.
«Aspetta a cacciarla, ché devo chiederle una cosa.»

Dall’espressione che rivolse a entrambe, era evidente che Nando esitasse a farle una concessione simile. Chi non avrebbe avuto delle perplessità, del resto? Non era chiaro, al netto della situazione presente, chi avesse più bisogno di supervisione tra le due: se Nieve, che emanava un lieve sentore di alcol e faticava a tenersi i vestiti addosso; o la sconosciuta, che non sembrava in grado di tenere le mani a freno.
Infine, cedette con un rapido movimento della mano e si avviò oltre la porta. Sicuramente, avrebbe evitato soste che potessero ritardare il suo ritorno.

«Quiiiiiindi,» fece Nieve, esibendosi in una giravolta, «cos’è che avresti immaginato di osceno e addirittura illegale al posto dell’arco? Sono proprio curiosa!»

 
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view post Posted on 19/1/2019, 23:51
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Nel sentirsi appellare “truffa” dopo essere stata leggermente spintonata, le venne naturale sorridere. Il latente timore di aver potuto infastidire la ragazza con la sua ironia, si era smorzato definitivamente e anzi, l’aver trovato qualcuno che si stava rivelando quasi complice, le aveva acceso qualcosa. Difficile identificare cosa ma, in un angolo buio e remoto del suo cervello, un lumino si era messo a brillare.
Oh, mi sento gravemente offesa da questa tua illazione.
Aveva ribattuto, adottando nuovamente lo stesso modo di fare che si era impossessato di lei quando era stato il momento di descrivere il tatuaggio.
Mr. Enchiladas si era intromesso in quella breve interazione, riportando Drinky alla realtà e catturando l’attenzione della sua interlocutrice. Riacquisì dunque il suo ruolo da spettattrice, ascoltandone i discorsi ma non tenendo lo sguardo fisso su di loro - non voleva apparire come una terza in comodo, quindi, la cosa più ovvia, risultava essere quella di guardarsi intorno, estraniandosi dalla scena. L’udito però, rimaneva incentrato sulle loro voci.
Nieve Rigos.
La bionda aveva anche un nome. E non un nome comune. Tutto sommato, osservando la purezza dei suoi toni, le si addiceva alla perfezione per quanto fosse inusuale. Magari, anche il suo era stato un errore. Esistono dei discorsievergreen in ogni famiglia. Aneddoti che, ciclicamente, vengono tirati fuori a cena e raccontati sempre allo stesso modo, con le stesse identiche parole. Uno dei più gettonati, era l’episodio “il nome di Drinky”. L’aveva sentito talmente tante volte da far sì che la sua mente avesse creato delle immagini perfettamente nitide. Vedeva sua mamma nella sala post parto tenerla in braccio. Suo padre che arrivava trafelato da una cena aziendale nella quale erano scorsi litri su litri di birra, provocandogli un leggero annebbiamento cognitivo. Poi, l’inquadratura si spostava sempre sul capofamiglia, fuori nel corridoio, che, euforico, rispondeva alle domande delle infermiere per la registrazione della sua seconda figlia. Lo vedeva firmare un registro, impaziente di ricongiungersi alla moglie e al fagotto rosso.
Cambio di scena: mamma, papà e bambina riuniti in questa piccola stanza ospedaliera. Con la giusta musica di sottofondo e una dissolvenza a stella, sarebbe stata una perfetta pubblicità anni ‘90. E dopo, un’altra infermiera, sarebbe giunta per prelevare la nuova Anser con la scusa di sottoporla ad ulteriori esami di routine. Era venuta a prelevare Dinky Anser.
Ma no, non l’aveva chiamata “Dinky”. Nel pronunciare il nome della neonata, aveva aggiunto una “r” di troppo - forse, era alticcia anche lei. I coniugi si erano guardati sorridendo e, dopo un cenno d’intesa, l’avrebbero corretta. L’infermiera, stizzita, avrebbe mostrato loro il registro nel quale si poteva leggere una grafia famigliare e tremolante che no, non aveva scritto “Dinky”... Aveva segnato “Drinky”. Risate multiple. Intenzione di modificarlo in un secondo momento. Un momento che non era destinato a giungere mai.
Morale della favola: l’alcol provoca sempre delle vittime.
Chissà, magari anche lei era stata appunto vittima di un genitore brillo al momento della sua nascita. Cominciò a raccogliere quanti più elementi possibili su questa Nieve, che andava a disporre in una lista immaginaria. Una vocina dentro di lei, desiderava saperne di più. Un’altra vocina, non riusciva a spiegarsi perché ne volesse sapere di più, perché si fosse acceso un lumino. Pur non comprendendone il motivo, sperava che la loro interazione non si fosse interrotta definitivamente e, quando la vide tornare verso di lei annunciando di volerle chiedere una cosa, sentì il sangue scorrerle nelle vene e il lumino diventare torcia.
*Oh no.*
Panico. Le aveva domandato, con tono un po’ canzonatorio, cosa avesse immaginato al posto dell’arco. La rossa, però, non aveva immaginato un bel niente. Aveva detto cose a caso solo per fare la galletta, per pungolarla, senza fornire un corrispettivo visivo a quegli aggettivi.
*Ok. Sii sagace. Preparati. Droga? La Regina Elisabetta nuda? Parolacce scritte con grossolani errori ortografici?*
Ehm... Un labrador...?
*MA ALLORA IO A COSA TI SERVO?!*
Un labrador cattivo però.
Era imbarazzata fino all’inverosimile. Non si era aspettata una domanda del genere, né che sarebbe stata messa in difficoltà. Voleva, doveva risponderle a tono, per quanto, l’aver trovato qualcuno in grado di metterla in quella posizione, le provocava un insolito piacere.
Eeeeh, senti, Nebbia. Ti rigiro la domanda. Cosa ti eri immaginata tu, dopo aver sentito le mie parole?
*Brava ad averla chiamata “Nebbia”. Riprendi il bastone del potere e falle sentire chi comanda, tzé.*

 
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view post Posted on 8/2/2019, 13:58
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Nieve rise, gettando il capo all’indietro in preda al trasporto. L’alcol aveva amplificato a tal punto ciò che sentiva che, con la testa reclinata di settantacinque gradi e i capelli che pendevano mollemente verso il pavimento, cedette al bisogno di chiudere gli occhi senza sollevare obiezioni. L’immagine di un labrador inciso d’inchiostro sulla sua pelle la divertiva e continuò a farlo perfino quando la sconosciuta le suggerì una correzione: il musetto dell'animale, da dolce che era, venne improvvisamente costretto a ringhiare. Nell’uno come nell’altro caso, Nieve trovò il tatuaggio potenzialmente azzeccato. Il suo modo d’essere in quel periodo oscillava tra il pasticcione e il rabbioso, rendendola difficile da gestire quanto la proiezione canina di cui stavano discutendo.
Tornò a soffermarsi sulla rossa, ora con espressione perplessa.

«Nebbia?» chiese col sorriso che ancora le inclinava le labbra. «Tu sei un po’ strana, lo sai?» Le parlò con tono neutrale, dando alla sua frase l’aspetto di una constatazione ovvia ma priva di giudizio. Sistemò malamente il pullover sulla spalla. «Io…» fece poi e assunse una posa riflessiva. Aveva incrociato le braccia e l’indice della mano destra picchiettava sul mento con cadenza ritmica. I ricordi delle lezioni di seduzione nell’ufficio di Astaroth aggiunsero alla sua espressione una nota malinconica; dopodiché l'inquadratura le permise di accedere a un ambiente di cui rammentava davvero poco, lo stesso nel quale aveva messo in pratica ciò che sapeva sul sesso e le sue infinite sfumature. Arrossì appena. «Non ho immaginato nulla di illegale, né di esplicito in verità.» Le sensazioni che aveva sperimentato quella sera tornarono a solleticarla, strappandole un brivido, mentre gli occhi sondavano le profondità dello sguardo dell’altra. «Immaginavo delle mani che sfioravano la schiena di un corpo nudo,» spiegò, la voce appena più bassa, «partendo da un fianco per risalire la linea della spina dorsale.»

Perse la connessione col reale, trasportata dalla Goblingrappa, e si lasciò travolgere dall’intensità dell’episodio che l’aveva spinta fino al Black Skull, quella sera d'estate. Si era sentita implodere per tutto il tempo, favorita dall’inesperienza, e le era parso che ogni più piccola porzione del suo corpo fosse stata esposta, e saggiata, e scoperta da una miriade di tocchi sempre diversi. E, quando al sapore dell’alcol si era infine sostituito quello dell’altro, il vuoto che l’aveva a lungo affannata aveva smesso di farle paura. L’umanità di un contatto senza pretese, ancora una volta, le aveva ricordato quanto il bisogno di amore e accettazione affamasse il suo cuore. Dunque, era fuggita.

«Ma, ehi, vuoi mettere un Labrador cattivo?!» Ridacchiò, canzonandola con quel modo di fare spontaneo che la Moran soleva rimproverarle bonariamente. Fece un passo in avanti, riducendo la distanza che le separava, e la osservò con curiosità: prima in volto, poi giù fino ai piedi, infine ancora in viso. «Sei piccolina,» sentenziò. «E sei davvero super strana per essere piccolina. Dov’è che le tieni tutte queste stranezze, mh?» Dimentica del motivo che l’aveva condotta al Barcelona’s, indossò il maglioncino. «Però, mi piace molto il tuo piercing. L’hai fatto qui?»

 
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view post Posted on 22/2/2019, 23:05
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La risata che riecheggiò in quella stanza dimenticata, nascosta nella giungla suburbana della capitale inglese, aveva creato un’atmosfera insolita. Le ricordava la sensazione di quando, dopo aver dormito troppo, le finestre vengono spalancate per far entrare il sole; all’inizio, la luce può lasciare un po’ di sgomento, ma dopo pochi secondi aiuta a lavare via il torpore dalle palpebre. Ed era la spontaneità mostrata dalla ragazza ad evocarle le stesse sensazioni. Dal primo momento in cui la propria attenzione era andata a convergere su di lei, aveva pensato che si trovasse in uno stato di alterazione, ma prima di proporsi come fonte di qualsiasi tipo d’aiuto, voleva tastare il terreno.
Ah, io sarei quella strana?
*Ok non ha funzionato ma bisogna continuare a crederci.*
Se qualcuno l’avesse definita “strana”, probabilmente avrebbe preso quel giudizio come ottima base per costruirci fiumi di paranoie. Avrebbe scandagliato ogni proprio comportamento alla ricerca dell’elemento colpevole di aver disatteso le norme per potersi considerare socialmente accettabili. Se da una parte non le dispiaceva affatto sentirsi differente dalla massa - un po’ come compiace la maggioranza degli esseri umani - dall’altro temeva tantissimo di scoprirsi tangibilmente diversa. In quello specifico caso, però, non se l’era sentito piovere addosso come critica. Il fatto che quella Nieve la considerasse strana le forniva un inconsueto piacere, spingendola a cercare altre vie per poter controbattere e prendere le redini della situazione. O illudersi di riuscirci.
Il candore con cui rispose alla domanda che le aveva lanciato come goffo tentativo di distogliere l’attenzione da un proprio scivolone, l’aveva lasciata spiazzata. Tutto si aspettava, fuorchè la sincerità. Il rossore di cui si dipinsero leggermente le guance della giovane aveva qualcosa di inspiegabilmente magnetico e dolce allo stesso tempo. Le sembrava di essere di fronte auna calla nata ai bordi di uno stagno che avrebbe voluto toccare per sentirne la leggerezza in contrasto con l’asfalto e l'acqua grigia. Eppure, se provava ad allungare una mano per sfiorarla, si rendeva conto di perdere l’equilibrio, rischiando di cadere.
È molto poetica come immagine...
Deglutì, vittima di un leggero imbarazzo. Di solito non avrebbe avuto difficoltà ad affrontare determinati argomenti anche con sconosciuti, senza remore. Credeva che, attraverso il coraggio infuso dalla maschera dell’ironia, si potesse parlare più o meno di qualsiasi cosa. Ma in quell’istante era in visibile difficoltà.
Mentalmente la ringraziò per aver riportato l’attenzione sui labrador. Benedetti labrador.
Infatti! Hai mai visto un labrador cattivo? No, perché solitamente sono sempre allegri e coccolosi. Ed è proprio per quello che un labrador cattivo spaventa, non ne si vedono mai. Cioè, capisci? No ecco, niente.
*Gniiih. Lo senti lo specchio che cerchi di scalare?*
Più la distanza tra loro si accorciava, più sentiva un nodo che dalla gola si stringeva mandandole scosse lungo il collo e le spalle. Doveva e voleva riprendere il controllo di sé, non riuscendo a comprendere perché il proprio corpo avesse deciso di agire in maniera autonoma mandandole segnali in contraddinzione con ciò che la testa le suggeriva di fare.
La mia nonna dice sempre che nella botte piccola c’è il vino buono.
E dopo essersi sentita scandagliata, ripeté a sua volta il gesto imitandola. Era almeno dieci centimetri più alta di lei, se non di più, ma fino a quel momento non se n’era riuscita ad accorgere per davvero.
Tu non lo vedi, ma qui ho un container in cui ho ogni singola stranezza archiviata in ordine alfabetico. Invece dimmi, visto che fai parte di quegli eletti che superano il metro e sessanta: com’è il mondo da lassù?
*Ok, stai recuperando in corsa.*
Grazie! Anche a me piace il tuo.
Disse, osservando l’anellino che andava da narice a narice, sovrastando l’arco di Cupido. Mentre la ragazza si stava ricoprendo la parte superiore, Drinky si trovò a tenere l’estremità interna del proprio piercing incastrata tra i denti - abitudine che, ormai, non l’avrebbe mai abbandonata.
No, non l’ho fatto qui. L’ho fatto in uno di quei classici posti babbani vecchio stile. E, sinceramente, non credo che farò mai nulla qui dentro. Sai, temo ritorsioni...
E sorridendo, con la testa fece un cenno verso il punto in cui, poco prima, a causa del suo gesto, si erano riversati a terra gli strumenti. Chissà cosa le avrebbe potuto fare quell’ispanico incazzato.
Visto che ti sei rivestita, ti va di uscire un secondo da qui? Ho bisogno di fumare un attimo e riflettere per capire da che altro tatuatore potrei andare oggi.

 
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view post Posted on 21/3/2019, 10:49
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Le contraddizioni di Drinky, sottoposte a correzione con un pizzico di stranezza, avrebbero confuso i più. A Nieve invece, che era curiosa ed era stata macchiata dall’onta di una diversità inaccettabile troppo a lungo, strapparono una risata. C’erano buone probabilità che l’alcol stesse facendo la sua parte ma, per essere il narratore della Grifondoro, mi è concesso il lusso di affermare con una certa sicurezza che le cose non sarebbero andate molto diversamente, se Nieve fosse stata sobria. Be’, a parte la semi-nudità, s’intende!

«Uhhhh! Mi piace così tanto il vino elfico,» commentò, percorrendo la scia tracciata dalla rossa e dando un’impronta pragmatica a un detto dal tenore puramente metaforico. Allora sospirò e assunse un’espressione pensosa. «Avrei dovuto prendere quello al Black Skull, ma il fatto è che mi piace assaporare il vino perché…» Perché gliel’aveva insegnato Astaroth e lei ne aveva assimilato a tal punto gli insegnamenti da non sapersene più staccare. Avevano inciso così profondamente il suo animo da rendere inaccessibile per lei l'immagine di come sarebbe stata, se non l’avesse mai conosciuta. Rabbuiata, lasciò la frase a metà e si concesse un rapido battito di palpebre per ricacciare indietro il pianto; del dolore che muoveva ogni suo gesto e intenzione, quando tornò a guardare Drinky, non rimaneva che lo spettro di un lucore aggrappato al bordo delle ciglia. Sorrise. «Perché il mondo quassù è molto raffinato e non so più di cosa stavamo parlando. Te l’ho già detto che mi piace il tuo piercing? Perché mi piace davveeeero molto.»

Pochi minuti dopo, Nieve aveva imboccato la via che conduceva al di fuori della Sala dell’Inchiostro e accondisceso alla richiesta della sconosciuta. Il groviglio di emozioni che stanziava sul suo diaframma, rendendo quasi impossibile ignorare il tarlo nella mente che le recriminava di non aver bevuto abbastanza da spegnere ogni interruttore, la spinse a trovare la via d’uscita a braccia conserte. Aveva già dimenticato la ragione della capatina al Barcelona’s, gli eventi disastrosi che avevano avuto luogo nello stanzino magico, il desiderio di rendere permanente il tatuaggio o perfino il fatto di averne uno lungo tutta la schiena. Non si curò neppure di Nando. Attraversò il corridoio stroboscopico del negozio e, raggiunta la porta, oltrepassò l’uscio.
L’impatto coi rumori della città l’aiutò a rinvenire, spezzando la fitta catena ad anelli che i suoi pensieri avevano usato per legarla a doppio giro a un dolore del quale desiderava liberarsi. Lo strombazzare di un clacson non troppo distante le strappò involontariamente, inspiegabilmente un sorriso. A quel punto, Nieve tornò a incrociare le braccia al petto e chiuse gli occhi per indagare i propri bisogni. Non poteva tornare a casa in quello stato, né a Hogwarts; e non poteva cedere al turbinio di preoccupazioni che affannavano il suo cuore, accelerandone il ritmo. Se solo avesse avuto con sé la Firebolt, pensò con una certa inconsapevole incoscienza, avrebbe potuto sfrecciare su Londra e distrarsi finché il tenore delle sue preoccupazioni non avesse smesso di importunarla. Si carezzò il viso, sbirciando in direzione degli incroci a destra e a sinistra della strada, decisa a imboccarne uno qualsiasi.

Nel percorso tortuoso verso l’illusoria salvezza che cercava da sé stessa, aveva dimenticato anche Drinky.

 
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