17 anni ¬ Prefetto Corvonero ¬ III Anno
Megan M. Haven
La pioggerellina scendeva copiosa su Notting Hill, bagnava le variopinte mura delle case spegnendo il loro colore vivace che, nelle rare giornate apriche, veniva messo in risalto dal sole. Tuttavia il grigiore delle nuvole e la luce spenta, opaca, non riuscivano ad affievolire la bellezza di quel quartiere e della città inglese. Sotto centinaia di ombrelli vivaci, K-way di tela cerata, la gente passeggiava indisturbata: chi parlava al telefono, chi s’incontrava per un caffè e chi, come di consueto, ogni mattina si recava al mercato. Ed era lì, fra il caos cittadino, nascosti sotto un ombrello bianco, che Megan e Carl camminavano.
Un ricordo chiaro, nitido, come fosse passato solo giorno. Contrariamente sette lunghi anni erano trascorsi ma Megan si ritrovava sempre lì, persa fra i suoi ricordi. Nel presente, se chiudeva gli occhi per qualche attimo, percorreva momenti tra le memorie celate nella sua mente e nel suo cuore. Queste ultime erano le uniche che riuscivano a scaldarla e a farla tornare ciò che era un tempo anche se per poco, ma le bastava. Fino a che avrebbe potuto afferrarle avrebbe mantenuto accesa la luce, quella che fievole ad ogni soffio rischiava di spegnersi.
A distanza di qualche anno, in assenza della sua famiglia, si trovava a percorrere la propria strada confusa, colmata dalla rabbia e dalla paura, circondata da una corazza impenetrabile dura e fredda come il marmo più pregiato al mondo. Ciò che ora non sapeva però, era che con il tempo tutto si sarebbe definito in maniera chiara. Ogni passo che aveva compiuto dall’accaduto, ogni singola scelta che avrebbe fatto, avrebbe determinato ciò che sarebbe stata, ciò che probabilmente non avrebbero mai immaginato di poter vedere i suoi genitori. Tuttavia ora, però, non poteva fare altro che guardarsi fallire nel trattenere il controllo: era proprio andando fuori da ogni schema che riusciva a sentirsi viva e lo aveva sperimentato più volte da averne oggi la certezza assoluta.
«Papà ma quante sono?» le dita minute indicavano le vetrine di “AllSaints”, il famoso negozio di abbigliamento, dove migliaia di antiche macchine da cucire decoravano l’intera parete.
Carl voltò lo sguardo seguendo l’indice di sua figlia.
«Tantissime tesoro e sono tutte da collezione! Pensa che è un negozio di vestiti.»
«Che idea buffa, sembra un negozio che vende questa roba antica più che vestiti. Mh, non mi piace!» scosse la testa accompagnando la frase finale.
«Meg, è proprio questa la cosa magnifica. Sono pezzi antichi, valgono tantissimo e rappresentano un frammento di storia. Per esempio quella è una Salmoiraghi del 1781, fu la prima azienda italiana a produrre macchine da cucire. Questi signori hanno avuto un’idea geniale: invitano la gente a entrare incuriosendola e alla fine qualcuno esce con dei loro articoli. Guarda lì!» fece cenno alla piccola di osservare una coppia di turisti che avevano alcune buste stracolme di vestiti e sorridevano soddisfatti. Megan li aveva guardati storcendo la bocca e Carl si era lasciato andare a una risata di gusto nell’osservare la sua espressione di totale disapprovazione.
«Proprio non ti piace eh?! Dai andiamo che devo comprare qualche articolo da Alice’s e tu mi aiuterai a scegliere. Ho quell’angolino dello studio del tutto spoglio non riesco a vederlo così. Forza!»
«Una macchina da cucire sarebbe perfetta!» ghignò incrociando lo sguardo di suo padre che, complice, le sorrise scuotendo la testa.
L’aria di quel posto, fra i vicoli più tetri di Londra, nascosto agli occhi dei babbani, rappresentava tutto meno che l’allegra e gioiosa Notting Hill. Tuttavia quel ricordo era stato possibile proprio perché, fra i numerosi banchi e tende, spiccavano oggetti di antica e rara fattura e davanti a una di esse una macchina da cucire faceva da insegna di benvenuto.
«Ti serve qualcosa ragazzina? Quello è solo uno stupido oggetto babbano.»Solo in quel momento Megan con un battito di ciglia tornò nel presente e scuotendo la testa rispose al vecchio dietro al banco.
«Sì, beh, ha ragione. Non ho bisogno di nulla, grazie.» abbozzò un mezzo sorriso proseguendo per la sua strada.
Perché era lì?
Non poco più di una settimana fa Megan si era trovata ad assistere a una conversazione tra Lysander e un suo “cliente speciale”. Tant’è che quando fu nominato il mercato nero, dove ora si trovava, aveva pulito più di una volta gli articoli per rimanere ad ascoltare. Parlavano di oggetti di pregiata composizione, manufatti antichi da far andare su di giri qualsiasi cliente di alto rango. Materiali introvabili, di rarità, creduti perduti e per i quali qualsiasi compratore avrebbe venduto l’anima al diavolo per averli.
Così la curiosità si era spinta verso di lei come un vento d’aria fresca in una giornata afosa e un mezzo sorriso malizioso era comparso sulle sue labbra. Aveva memorizzato ogni frase, ogni indicazione e una volta compreso dove e quando trovare quel posto si promise di farci presto un salto: forse avrebbe trovato qualcosa di utile per lei.
In quegli istanti si addentrava all’interno del mercato, posando gli occhi su ogni oggetto che avrebbe potuto interessarle.
«Basta saper cercare, vecchio mio, ma tu sei in gamba! Voglio dire, guarda cosa hai tirato su! Ricorda solo: ciò che è nascosto è senza dubbio ciò che cerchi. Questa settimana so che arriverà bella roba conviene farci un salto; chiedi di Azariah e digli che ti ho mandato io.» Ricordava chiaramente quelle parole; aveva cercato di seguirne il filo logico ma c'era tantissima roba lì e della maggior parte conosceva poco e niente, tanto da sentirsi totalmente spaesata. Non aveva un’adeguata preparazione né spirito critico in materia: quanti oggetti contraffatti sarebbero potuti capitarle fra le mani? Molti. La probabilità era alta e nessuno le avrebbe suggerito di lasciar perdere e andare avanti. Tuttavia non aveva paura o timore, non era la prima volta che si addentrava in luoghi simili, aveva imparato a fingere, a mimetizzarsi, portando in volto una maschera perfetta. L’unico briciolo d’ansia provata era la probabilità di incontrare Lysander, e allora sì che avrebbe dovuto inventarsi una bella scusa.
Avanzava avvolta dal mantello nero, con il volto coperto dal cappuccio che nell’ombra lasciava intravedere solo gli occhi blu. Una spallata fra la calca la fece vacillare appena ma poco dopo riprese l’equilibrio proseguendo sicura. Pochi passi ancora ed entrò all’interno di una tenda lasciandosi alle spalle la folla che lentamente diveniva sempre più numerosa e ingestibile. Varcò la soglia di tessuto, s’imbatté in numerosi oggetti e non perse occasione nell’avvicinarsi per osservarli con più attenzione.
«Ciò che è nascosto è senza dubbio ciò che cerchi.» farfugliò, ma proprio mentre stava per afferrare il manico di una lanterna dagli intarsi d'orati, fu colta di sorpresa da una voce familiare che, a qualche metro di distanza da lei, aveva appena fatto il suo ingresso. Cercava qualcuno lì dentro ma non vi era nessuno, o almeno così pareva.
«Sembrerebbe di no.» disse con tono piatto, alzando le spalle, dopo qualche secondo di silenzio assoluto. Non le aveva rivolto lo sguardo, le iridi cobalto riflettevamo ancora in direzione dell'oggetto sul bancone spostandosi lentamente verso tutti gli altri.
«Forsan et haec olim meminisse iuvabit.»