Londra, la Ciminiera.Le prime luci dell'alba, le ultime ombre della notte: sgusciano insieme, di pari passo, in un incontro così scandito nel tempo da non ammettere ordine casuale; un saluto sfuggente, l'attimo di un bagliore che si consuma fino alla fine, nulla di più. Le strade silenziose, il ferro battuto di un fabbro restio al suo operato, il profumo del pane già in forno: un idillio dal gusto mattutino, soltanto per pochi, mentre il risveglio sbadiglia a sua volta. Tra le finestre si scorgono figure in movimento: le madri al lavoro, le colazioni ormai quasi pronte, il latte tiepido, la cioccolata a dispetto della calura estiva; le diete di mezza stagione, le promesse di un nuovo inizio, l'epilogo degli sbagli appena commessi. Un postino che consegna la posta del giorno, le ultime notizie sul giornale fresco di stampa, infine un colpo secco ai portoni di legno di villette a schiera, un quartiere qualsiasi, uno qualunque, sembrano l'una la copia dell'altro; un padre che giunge all'uscio, lì fermo alla porta, un gradino in famiglia e il successivo già fuori, mentre una moglie, un bambino, una figlia, perfino l'abbaiare di un piccolo cane lo riportano indietro, all'interno, ancora una volta. Non andare, non c'è fretta. Le tazze di caffè fumante - una zolletta di zucchero, cara; per me amaro, basta così -, poggiate alla rinfusa su tavoli di riunione antica, che richiama ed invoca un affetto. Non c'è fretta, non c'è fretta. Londra sfila le sue lunghe coperte; è un sonno leggero, a tratti infranto, e il dormiveglia si delinea nella sua stessa penombra. Mamma, sussurra qualcuno. Una manina paffuta, le dita tutte aperte, sporche di arancio: la nonna sorride dall'altro lato, sulla poltrona, mentre nasconde un barattolo di marmellata alle albicocche, è solo per suo nipote. Mamma, mamma. Ancora una volta, la gonna tirata con impazienza, l'espressione distratta; un vestito di taffetà azzurro, lungo fino alle gambe, non trova però i sandali bianchi. Mamma, mamma. Un sospiro di palese fastidio, quelle quattro mura si riempiono di grida, di voci, di conversazioni sospese: è l'inizio, si dice, è soltanto un altro giorno. Strappa l'abito già macchiato di marmellata, scocca un'occhiata punitiva al piccolo, e infine abbandona il calendario: l'ultimo giorno di Agosto.
Una frase, una richiesta, le pagine scivolano tra le sue dita.
Non ha più tempo, è una mamma.
Mamma, mamma.
Si risveglia anche lei.
Una Chiesa.I passetti leggeri di una donna avanti con gli anni, i capelli tirati all'indietro e poi in alto, a mo' di una crocchia severa; le gambe tozze, i tacchi bassi scricchiolano sul pavimento in pietra battuta, lì nella Cattedrale di Santo Stefano; le rughe le solcano il viso, è uno sguardo - il suo - che ne ha viste molte, e che ancora molte potrà vedere: il suo unico ragazzo slittato altrove in un banale, folle incidente stradale, la ricorrenza, l'odio viscerale per la fine di Agosto, più di qualsiasi altro periodo dell'anno. Si stringe all'accenno di un brivido di freddo, le mura sono così imponenti, il tetto altissimo, tutto in quella Chiesa impone un rigore assoluto; i mosaici brillano ai primi tenui raggi di sole, è una luce tanto fioca, è spenta, la donna vi si ritrova pienamente. Più avanza lungo la navata principale, più tiene gli occhi rivolti verso il basso; non ha bisogno di studiare ancora, una Chiesa vale l'altra, tenta di convincersi, ma quella - quella è più importante: mentre sfila accanto all'altare del Redentore come figura minuta, quasi impercettibile, non ha attenzione neanche per il Creato. Non è meritevole, non quel giorno, e il ricordo di una bara in mogano - «mogano, signora, scelga il mogano, è un legno resistente», le avevano saputo soltanto dire - le fa trattenere il respiro. Le mani trafficano rapide, esperte, di continuo: una moneta argentea nel cerchio delle offerte, un lumino acceso per un'altra anima, lì nel blocco dei caduti. Si disperde in quel modo la sua attenzione, mentre la candela brucia di una fiammella solitaria, e poi divampa, imperterrita. Socchiude gli occhi, una perla di cera scivola sulla mano - e li vede, uno ad uno, angeli dispersi. Sussulta, all'attenzione del Cielo.
«Non farlo, mio Dio. Non di nuovo.»
Li vede, e non riesce a dire altro.
Hogsmeade, il Villaggio.Alla distanza necessaria dalla Londra Babbana, come la seconda faccia di una medaglia consunta nel tempo, sorgeva una ragnatela intricata di vicoli, viottoli, ciottoli e stradine laterali: il Sobborgo più antico del luogo, la Storia di carta ed inchiostro che diveniva reale. C'era un'atmosfera pacata, tra quei dintorni: gli ultimi passanti coloravano di tanto in tanto gli angoli più trafficati, alcuni entrando e uscendo dai negozietti più in voga, sulla scia dei fermenti per l'indomani: l'aspettativa del vicino primo di Settembre si percepiva nell'aria, gli studenti in arrivo avrebbero posto fine alle vacanze estive e dato così inizio ad un nuovo anno scolastico. Hogwarts si diroccava poco distante, in effetti, e dalla Stazione ci sarebbe stato finalmente fermento. Agosto, tuttavia, si faceva forza nel suo ultimo slancio: il tepore estivo, il cielo azzurro, soltanto uno sbuffo di nuvole di tanto in tanto. Una giornata qualsiasi, a tratti astratta, se non fosse stato per una pattuglia di passaggio - Stregoni in osservazione, lo sguardo del Ministero come un velo impercettibile sul Villaggio vivace. Non avevano attirato alcuna attenzione, si aggiravano con cautela, e tuttavia erano pronti al momento opportuno. La voce,
quella voce, aveva raggiunto chi di dovuto, e tanto bastava per prevenire ogni pericolo. Non c'era nulla fuori luogo, non ancora, e la vita scorreva nel più semplice dei suoi percorsi. Di fronte la vetrina di Mielandia, infatti, si intravedeva una fila di clienti golosi come di solito, e al suo lato opposto si concentrava un venditore ambulante - uno dei tanti, uno dei soliti, forse senza permesso -, che distribuiva a destra e sinistra mazzolini di fiori a soli cinque falci l'uno. Un omaggio floreale per il bentornato ad Hogwarts dell'indomani, un gesto gentile, magari l'uno e l'altra cosa; il prezzo era tanto basso da coinvolgere perfino i più giovani e in quel cicaleccio ogni voce si perdeva, e diveniva tavolozza di colori di un dipinto fuorviato di petali. Un ragazzo di bell'aspetto attese il suo turno con più pazienza del solito e quando recuperò cinque bouquet di fiori, si affrettò a pagare il prima possibile. Non voleva rose né girasoli, erano i più gettonati quel giorno, ma non per lui.
Narcisi, precisò. Soltanto narcisi.
All'occhiata incuriosita del venditore, aggiunse un galeone di mancia e si rituffò via, a colpi di bracciate e di imprecazioni.
Per fortuna, si disse, non abitava lontano.
Una Vasca da Bagno.Stringeva tra le mani tutti quei narcisi, il giallo e l'ocra in sovrapposizione, il bianco del centro come una corona luminosa; nella lunga borsa a tracolla che scendeva dalla spalla destra aveva raccolto i primi barattoli di miele d'api, infine una candela al profumo dei cedri estivi. Sapeva ogni cosa, e ne era felice più di sempre, perché il ragazzo - il suo ragazzo, si sorprese anche solo a pensare - aveva finalmente acconsentito all'incontro: in quell'alone di mistero, mentre il giovanotto si sporgeva all'indietro, ad ambo lati, si realizzava allo stesso modo un'eccitazione tutta originale, tutta nuova, anche per lui. Un tratto romantico non avrebbe guastato, non ne era esperto, ma i fiori, e le candele, e il luogo scelto, forse nell'insieme avrebbero potuto fare per davvero una bella scena. Si allontanò dai passanti del Villaggio, diretto a passo rapido verso un palazzo in disuso, dall'aspetto abbandonato; non si era mai soffermato più del dovuto a studiarne l'edificio, ma avrebbe dovuto ammettere che non fosse un granché, affatto. Un condominio, più o meno, con pochi inquilini: salì la prima di tre rampe di scale e si ritrovò la strada bloccata. Tre uomini vestiti di nero erano fermi su una porta chiusa, li guardò di sfuggita e si chiese cosa volessero, chi fossero: non li aveva mai incrociati prima di quella volta. Chiedendo permesso, continuò ancora per i gradini di cemento dimesso, e ancor prima di sparire di lato, si volse indietro. Indicò la porta, l'appartamento chiuso.
«Se cercate Aminia, è in vacanza dai suoi.»In risposta il triumvirato parve soltanto infastidito, uno di loro grugnì con insistenza e poi spinse le nocche della mano destra contro la porta; nessuna risposta, e il suono si disperse al vuoto. Senza rimetterci più del dovuto, il ragazzo abbandonò tutti loro. Alla porta del suo abitacolo, recuperò le chiavi e fece scattare la serratura: il profumo degli incensi lo accolse come un vecchio amante e senza ripensarci, febbrilmente, iniziò a spogliarsi. Il miele nella borsa, i narcisi tra le mani, si diresse così verso la vasca da bagno.
Ed era pace,
una giornata tranquilla,
la fine di un mese, l'ultimo di Agosto.
Trentuno, mamma. Trentuno.
Tra il cicaleccio di voci, il turbinio di colori,
i fiori in vendita e gli osservatori in attesa.
Accadde tutto di sfuggita, tutto di scatto.
Una Chiesa - la donna che piangeva all'altare.
Una Vasca - i narcisi sminuzzati in petali.
Una Porta - abbattuta di forza.
C'era ordine al Sobborgo,
e tuttavia, tuttavia
iniziava.
Il Futuro così diveniva Presente.
«Prima del fischio del Treno in arrivo, la Cera esigerà il pegno di un patto;
tra le dolcezze del vecchio Sobborgo, ciò che è pagato resterà pagato,
così il solo Edificio dai cinque e più piani sarà preso d'assalto,
di pietra viva sarà profanato, e di cenere a fondo rivestirà i suoi abitanti.»