Schiera, l'Accolito.Lo scoppio di una finestra giunse come inaspettato, un colpo premeditato e così duraturo da propagarsi nel misero appartamento più del dovuto. La stanza affacciava sulla piazza centrale del Sobborgo Magico e di gran lunga la stessa posizione custodiva logica per l'abitante, ancor più che per l'ambiente. Mentre sul pavimento in mattonelle si accumulavano frammenti lucidi, il gruppetto di tre intrusi si arrestava di scatto; ad eccezione dell'uomo sull'estrema destra, accanto alla finestra pochi attimi prima, nessun altro era stato ferito: uno scintillio scarlatto, il sangue già rappreso all'ordine di una Guarigione, non appena la bacchetta del Mago vi si adagiò impercettibilmente, e tutto parve passare in secondo piano. Seguì uno scambio incerto di sguardi, la rabbia pulsante sul volto del più alto dei tre.
«Cosa diamine hai fatto?»La domanda sospesa, il triumvirato bloccato.
Non una risposta, alla confusione crescente si stirò un tremito di fastidio; non era stato lui, non avrebbe potuto.
«Non sono così idiota.» Continuò in quel senso, l'espressione offesa. Non era arrivato fin lì inutilmente, non avrebbe compromesso la visita per sua colpa. Un fruscio spento, appena leggero, superò il cicaleccio di voci che già si alzava all'esterno della finestra divelta; la bacchetta dello Stregone apparentemente a capo del gruppetto si rivolse verso l'alto, ad altezza viso. Intimò il silenzio con la mano libera, e nella pausa l'unico suono che giunse parve quello di un singhiozzo.
«Revelio.»Scandì la formula lentamente, ad alta voce, ai movimenti esatti richiesti. Apparve come un'illusione infranta, un velo sfilato in delicata misura: lentamente, come una sposa, fino a rivelarsi in modo pieno. Tra la mobilia spicciola e il divanetto scucito, una coperta piegata alla rinfusa e un paio di piatti in ceramica su un tavolino in legno, ovunque nel giro di quei pochi metri si rese nitida una schiera di candele: le une accanto alle altre, in processione e traboccanti di cera, dalle forme disparate - alcune lunghe e tozze, altre più corte e larghe, in bicchieri o in ciotole di porcellana, piegate e sospese. Facevano da panorama ad un appartamentino di poche monete, e lo innalzavano all'onta di un tacito sacrilegio, di un simulacro, di un luogo malcelato. C'era qualcosa, nell'aria. Qualcosa di percettibile fin nel profondo. L'uomo al centro si strinse nelle spalle, era un movimento convulso, affrettato.
«Non - muovetevi.»Una richiesta che si impose come necessità,
ancor prima di essere ordine.
Oceano, l'Amante.Si lasciò spogliare al riverbero dei baci sulla pelle. Prima le braccia, dalle spalle ai polsi, mentre la bocca dell'altro diveniva scintilla; raccolse le mani, le piegò a coppa, e le strofinò sul volto tranquillo, mentre il proprio assumeva i contorni rigidi dell'imbarazzo. Avvampò pienamente, le gote scarlatte, non appena la camicia spiegazzata scivolò via dal busto, e la schiena accolse un tremito come di freddo, un brivido che aveva imparato a conoscere, e ancor più ad apprezzare. Quando tutto il resto fu dimenticato - la borsa a tracolla, gli abiti, perfino la giacca che aveva portato elegantemente con sé -, si sentì ad un tratto vulnerabile come mai prima di allora. In difetto, alla presenza dell'altro; in crescente disagio, al riflesso della sua figura nell'unico specchio avvolto tra le pareti del bagno. Piegò le braccia al petto, nascondendosi alla vista dell'amante, e quando lo sguardo dell'altro punse il suo orgoglio, rivelando la peccaminosa sensazione dell'insofferenza in quei momenti, finalmente trasse un respiro di sollievo a sua volta. Strinse la mano del ragazzo e si lasciò guidare nella vasca da bagno, mentre il profumo di fiori e candele, di miele e di essenze primaverili, interamente avvolgeva ogni più intima parte del proprio corpo. L'estensione dell'acqua permeò ogni lembo di pelle e così si concesse al sentore di essere nel giusto, di non essere sbagliato, di non essere più una delusione.
«Sei così-»Non si pentì di aver interrotto le parole dell'altro, l'indice sulle sue labbra. Calarono insieme, nell'acqua già in onde disparate, e in quell'equilibrio spezzato riuscirono a ritrovarsi, l'uno con l'altro. Lo scoppio di vetri al piano inferiore nulla poté contro la loro attenzione, e il secondo - e il successivo ancora - li colse impreparati. Riemersero insieme, dall'ampia vasca, e si mostrarono distrattamente abbracciati: la mano dell'altro contro la sua schiena, le sue dita adagiate sul velo dell'acqua. Il vetro impazzì così distante, ma quando se ne accorsero, iniziò ad essere troppo tardi.
Caos, il Preludio.«Via da qui, subito!»La voce del primo uomo si frappose nella confusione al seguito dell'esplosione del palazzo. I pochi passanti riunitisi in quell'angolo della piazzetta di Hogsmeade si allontanarono in fretta, ignari di cosa fosse accaduto, ancor più inconsapevoli di cosa stesse tuttora prendendo vita. Forse il preavviso mutava in conferma per alcuni presenti, ma non era propriamente finito. Dal piano superiore di un palazzo apparentemente vecchio, e tuttavia non in disuso, risaltò nuovamente uno scoppio di vetri. Altri frammenti piombarono a picco, dall'alto di metri e metri, e questa volta non tutti furono così veloci da restarne illesi. Una giovane donna correva lontana, la mano stretta convulsamente a quella di una bambina, ma quando il vetro colse la sua fuga impreparata, si pose con il corpo a protezione della piccola. Una lastra perlacea le si conficcò nella schiena e cadde così supina, il sangue a macchiare la pelle, il tessuto, la camicetta azzurra. Boccheggiò, perdendo il contatto con la figlia.
«Serve un Medico, serve ora!»Un'altra esplosione, dall'alto, dal secondo piano. Il palazzo si sgretolava su se stesso, come un Domino ormai intimamente compromesso. I primi feriti furono trasportati d'urgenza agli angoli più protetti, mentre qualcuno chiamava tra la folla ancora un Guaritore.
«Maledizione, cosa-»Nel frattempo, la bambina non parve accorgersi della lontananza della madre. Correva, correva ancora. Così le era stato detto. Corri, bambina mia. Corri a più non posso.
«Mamma»Si bloccò di scatto, il grido disumano da una bocca così minuta. L'espressione le si gelò in una morsa senza tempo, la paura primordiale di un abbandono.
«Mamma!» Ripeté ancora, muovendosi senza direzione, mentre la folla si indirizzava ai suoi lati. Ne era travolta, la bambina. Come un tornado in piena, mentre il vetro scoppiava, spezzava, strideva alle sue spalle. Le finestre del terzo piano andarono a quel punto tutte in pezzi, in una pioggia perlacea che attirò ormai l'attenzione dell'intera piazza. Si distribuì il panico, inerme e vivido, pulsante come non si sentiva da lungo andare.
La folla si disperse e amalgamò come un formicaio preso d'assalto: i negozi aprirono i battenti e accolsero i viandanti da ogni direzione. Entrate, dicevano tutti. Al riparo, al riparo. Un grido comune, la voce di un richiamo. Non c'era tempo, non c'era spazio.
«Mamma»La bimba si bloccò al centro della piazza e cominciò a piangere. La voce era flebile, appena un sussurro. Il corpo scosso dai singhiozzi, nascose il volto tra le mani. Apparve come una preghiera, una richiesta d'aiuto, e fra tutti una coppia di
studentesse Tassorosso avrebbe potuto notarla prima di chiunque altri. Un atto di coraggio, un tuffo tra la folla, forse, era quello che già veniva loro richiesto.
Gli Angeli volsero il capo verso quel punto disparato, le ali piegate verso il basso, il piumaggio ad un tratto spento di luce propria: il servizio fotografico non avrebbe dovuto riscontrare ostacoli e fu il Mago a capo della troupe a correre verso una Strega,
Rowena, per chiederle se ci fossero problemi, se fosse un effetto speciale, se anche lei - in comune conoscenza - sapesse qualcosa.
«Dannazione.» Le statue animate si accasciarono ancora, raccolte su se stesse. Il pianto divenne silenzioso, e divenne principio.
«Protego» «Protego Maxima»La schiera di Maghi e Streghe, uomini e donne qualunque, già si univa compatta. Al centro della piazza, le bacchette spianate, lo scintillio di una Protezione che assumeva tratti crescenti, a cupola, argentea e dal tepore sicuro. C'era qualcosa, il palazzo era una mina vagante.
«Serve una mano, serve protezione!»Era l'azione del pronto intervento, l'empatia governava l'animo umano al momento opportuno. Fin quando le finestre avessero colpito in vetro i passanti, fin quando la folla non si fosse del tutto spostata da quel raggio d'azione, nessuno di loro sarebbe stato al sicuro. Occorreva una mano, una mano da parte di tutti.
«Capo Resween.»La prima di tre voci, seguite da altre lì nell'immediato. La pattuglia si rivelava all'ordine di un solo uomo,
vi si avvicinava, si proponeva all'azione. Videro l'Auror dirigersi in fretta verso il palazzo e corsero a loro volta, in modo silenzioso, disparato, e tuttavia attento. In anonimato, così era stato chiesto e così sarebbe stato per il momento. Alle direttive di Resween, sarebbero stati pronti. L'impatto appariva vivido, ma c'erano stati incontri peggiori, momenti perfino più pericolosi. Il vero problema, lo sapevano, era la folla in delirio.
«Il ragazzo è arrivato, Capo.» Un'ultima voce, un'ultima preoccupazione. C'erano state indicazioni anche per quell'aspetto, al primario attecchirsi del tempo in divenire.
«Prima del fischio del Treno in arrivo, la Cera esigerà il pegno di un patto;
tra le dolcezze del vecchio Sobborgo, ciò che è pagato resterà pagato,
così il solo Edificio dai cinque e più piani sarà preso d'assalto,
di pietra viva sarà profanato, e di cenere a fondo rivestirà i suoi abitanti.