| Ariel A. Vinstav 22 anni • a different kind of human • CS « I wandered lonely as a cloud | that floats on high o'er vales and hills | when all at once I saw a crowd, | a host, of golden daffodils » "Strana" è forse il termine più banale, quanto più azzeccato che le è stato accreditato nel cercare di descrivere come gli altri possano percepirla. "Fuori dalla norma", "Ambigua", "Sognatrice a occhi aperti", "Troppo distratta", "Folle". Le parole su di lei avevano perso forma e concretezza, davanti all'abuso sotto il quale anche solo semplici passanti l'avevano sottoposta. Abuso, si sottintende, della lingua in sè. Del resto sarebbe stato oltremodo riprorevole se proprio lei, fra tutti, non percepisse cruciali - fondamentali, persino - le sfumature del significato. Forse era per questo che sostava ferma al bancone, senza un piatto e un bicchiere a portata di mano e col barista che ormai si era fatto schivo, lontano da quella cliente che non sembrava per nulla interessata a far conversazione - o anche solo accennare alla sua ordinazione. Si era persa nell'oceano del mondo, come si era solito fare quando si era bambini e ogni input sembrava ridestare correnti di pensiero contrastanti e con essa immagini, sapori, odori e vibrazioni al tatto. La dolce perdizione quel giorno era fatta di fiati, percussioni e la voce calda da crooner del soft jazz che d'un tratto si era impossessato della sala. Le labbra si erano lasciate andare, morbide e prive di pressione dei nervi, come quando si è cullati dal sonno. Ogni tanto però, leggeri spostamenti e contrazioni potevano far denotare l'accennato scandire di parole a cui ora non da voce. "Amore", "mar", erano parole banalissime che alle sue orecchie avevano più senso ed erano ben più facile capiremerito della vicinanza con la propria madrelingua - il francese. Non cantava, ma decantava. La musica era forse una delle forme più comuni e sottovalutate di espressione che lei amava da troppo tempo, qualunque potesse essere l'accezione di amore che un uomo potesse dare a questa. Non fiatava, non si perdeva in parole: non sarebbero state utili al momento. Si faceva trasportare dalla climax musicale facendo oscillare lentamente il capo a destra e manca, scandendo il tempo come un metronomo. I piedi che sfioravano i poggi dello sgabello erano stati liberi delle scarpe (stivaletti bordeaux), non era ben chiaro quando o come, ma le aveva sfilate durante la performance per permetterle di sentire e con esse le mani erano state trasportate dai canti degli strumenti e la voce profonda di Joe. Come un direttore d'orchestra, andava pizzicando l'aria con le dita, ripercorrendo il ritmo della musica con scossoni di braccia e poi gradualmente anche con l'alzare e abbassare del capo. Se la musica aumentava in potenza, così faceva il movimento del corpo; un equalizzatore musicale vivente. «L’amour fait les plus grandes douceurs et les plus sensibles infortunes de la vie.» Era la prima espressione che le lasciava la bocca. Aveva un tono di voce leggiadro, delicato che faceva suonare il tutto come un sospiro, fiato di vento che prendeva vita; non aveva un'impronta vocalica che sembrava capace di saper aggredire, o apparire incisiva. Era tutto trascendentale con lei, persino lì fra i tavoli e i piatti fumanti di pasta da Pancino's. Non aveva avuto il tempo necessario a cogliere pienamente come il mondo a torno a lei aveva ripreso a muoversi e che Maurizio - o Joe, in arte - si era avvicinato a lei e quindi, nemmeno aveva avuto l'acutezza di cogliere come all'introduzione del cantante, quel pezzo fosse presumibilmente dedicato a lei. Persa nel proprio mondo, non v'era facilmente qualcosa che potesse destarla... o per lo meno non più della musica. «Pomodoro.» Non evitava di 'peccare' dell'accento francese che ne addolciva la voce. Sollevava il capo, ruotandolo lentamente per mettere pienamente a fuoco la figura robusta dello sconosciuto commensale. Sbatacchiò le ciglia lunghe, chiarissime che parevano costellate di sfumature dorate sotto le luci calde del locale. Sarebbe stato esagerato descriverla come stupita, per quanto con gli occhi grandi e un po' incavati che si ritrovava poteva apparir come tale. Era lo sguardo del bambino che voleva scoprire il mondo, il suo, nonostante alla sua età in quel mondo cruento che era quello Magico, ben pochi suoi coetanei amavano ancora circondasi dei sogni, schiacciati dalle preoccupazioni della vita adulta. Non era il suo caso, però. Anche in Maurizio c'era un mondo da scoprire. «Volevo una pizza» Inclinò il capo di lato, puntando lo sguardo sui capelli altrui e poi discendendo sulla linea della mascella, dove la barba curata doveva tracciare un pattern definito sulla pelle. «Perché ha dentro il pomodoro.»Eccessivi erano i dettagli che coglieva alla vista e questi rendevano la sua parlata più scostante, discontinua e quindi opportunamente lenta, come se si fosse effettivamente dimenticata di star parlando con qualcuno. «Ma credo sarebbe strano averla al bancone» Concludeva poco dopo, prima di vederla scoccare un'occhiata a Carmelo, il povero barista che interdetto non aveva potuto evitare di squadrarla sottecchi, preso in contropiede dall'improvvisa presa di vita della cliente che - per un lasso di tempo piuttosto lungo per la media - era stata lì ad ascoltare i suoni del locale, piuttosto che del suo stomaco. «E non potrei mangiare pomodoro intero. O almeno. Potrei, ma non sarei sazia, lo stesso se lo bevessi. Ma ...» E le parole si perdevano ancora, mentre quella sognante si fermava ancora dal parlare. Le mani che pendavano ai lati si erano d'un tratto sollevate a passare i polpastrelli e i palmi sul tessuto morbido della gonna plissettata nera, lunga fino a coprirle le ginocchia. «... non posso tenere i piedi così, se son seduta.» Lo constatava, mentre sollevava appena le gambe, mostrando piedi inscuriti dai collant, nudi, privi degli stivaletti abbandonati sotto il proprio sgabello. No, non si era ancora rimessa le scarpe ed evidentemente non sembrava intenzionata a farlo. «Volevo anche una piuma nuova» Lo sguardo si era portato già verso il soffitto, soffermandosi sulle intercapedini di questo. Stralunata, potrebbe già dire qualcuno, a vederla così facile alla distrazione dello sguardo. «Ma non credo che lei desideri davvero ciò che brama ogni prossimo con cui prova a parlare, oui?» Le sfuggiva occasionalmente la madrelingua, almeno in biechi intercalari che si era abituata per troppi anni ad usare. «O bramerebbe la morte e la vita alla stessa portata. O il sesso. O i broccoli. O il fertilizzante che piace a mio padre. Tutte insieme.» Inclinava ancora il capo, ma stavolta dall'altro lato, apriva e chiudeva gli occhi sognanti, riportandoli ora sul volto di Maurizio, soffermandosi prima sulle labbra e poi sugli occhi scuri, scrutandoli. Tanto faceva, tanto era immersiva la sui analisi che si ritrovò con l'allungare il busto verso di lui e facendo pressione dei piedi sulle basi dello sgabello, tirarsi appena su, tentando ai vvicinare il volto a quello dell'altro. Più vicino era, meglio lo poteva guardare. E i muscoli che erano flesusosi, ma di certo non incastonati in un corpo robusto come quello del Pisciottu, si erano già fatti visibili, trasportati dall'allungarsi di un sottile maglioncino prugna, puntellato qua e là da sottilissimi punti luce (glitter, forse?) che si era parzialmente sollevato, rivelando un addome piatto e un costato esposto parzialmente nel profilo; era magra, parecchio, seppur mai al punto da farla apparire emaciata - è semplicemente di costituzione fragile. I capelli chiarissimi le incorniciavano il viso in ciocche frontali lasciate libere, più vaporose di quelle posteriori, nascoste fra il collo del maglioncino e l'incavatura delle spalle. Forse era davvero strana o troppo distratta. «Ordini ciò che vuole Signor D'Angelo. Non serve far così se vuol parlare con me.» O pure tutto il contrario, troppo attenta. Così tornerebbe a sedere sul posto, non dimenica di muovere le punte dei piedi su e giù, dimostrando sempre quella punta di infantilità che il proprio aspetto giovane, rendeva splendidamente.
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