Non c'è luce che penetra attraverso le grandi finestre. La luna è celata dalle dense nubi nere che macchiano la volta celeste.
Silenzio. Nessun sussurro nella foresta. Il vento riposa. Lei?
Gocce di sudore le sfiorano la pelle come fiamme. Gli occhi si sforzano. La testa si muove agitata mentre le mani afferrano le coperte.
Di nuovo. Ancora. È lì.
«Oliver!»
«Fate qualcosa! Non lo vedete? Sta morendo!»
«Aiutatelo!»
«Vi prego!»
«Svegliati, forza!»È trasparente l’immagine.
È chiaro il suono delle grida.
Le rose ricamate sul vestito posano a terra, si diramano intorno all’esile corpo accovacciato e tremolante. La mano si allunga, tocca il terreno, afferra le radici e si bagna di sangue.
Alza la testa. Non c’è nessuno. È sola. L’eco delle sue grida silenziose rimbomba nello spazio, nella quiete che d’improvviso la invade.
«
Dove sei?» sussurra. Le dita raccolgono il vuoto, gli occhi fissano la pelle sporca. Sente freddo ma non ha niente per coprirsi, solo strati di rose appassite.
Lentamente si alza in piedi. Respira a fatica. Lo sente il peso opprimere il petto, il cuore rallentare i battiti e la sensazione di terrore invadere il suo spazio.
«
C’è nessuno?» chiede. La voce trema, l’eco risponde.
Ora cammina, un piede dopo l’altro, verso una strada non definita dove già da tempo vaga. Persa.
Un fitto bosco, è quel che sembra. Gli alberi si vedono a malapena e c'è un muro di nebbia davanti, dietro, intorno a lei. Nient'altro.
Uno scenario inesistente. Un luogo familiare.
Le spine le pungono i piedi ma non le sente. Sanguina ma non se ne preoccupa. L’aria è rarefatta, quel fumo denso la fa boccheggiare. Non si ferma, cammina e basta.
«L’hai fatto» dice una voce improvvisa. Oliver.
«
Cosa?»
«Mi hai lasciato.»Un ultimo passo e un morso alla gola la costringe a portare una mano sul collo.
«È ciò che sai fare meglio, non è vero?»Nessuna risposta, rimane in silenzio a fissare il vuoto.
«Se sono morto è colpa tua. Se loro lo sono è colpa tua» tagliente. Il cuore ora sanguina.
«
Sta zitto!» grida, mentre afferra la testa fra le mani e la scuote.
Vattene. Il mento verso l’alto, le labbra schiuse cercando di far entrare aria nei polmoni. Non ci riesce, quel peso la soffoca, quelle parole la distruggono. Sono vere, come l’immagine che le appartiene, e fa male.
Lacrime calde le tagliano il viso adesso, come lame affilate solcano la pelle mutandone il colore. Il riflesso della luce offuscata dalla spessa bruma le illumina il volto, lo scopre della tristezza da cui è sopraffatto. Poi una luce fioca lampeggia davanti a lei; fra lo strato di nebbia si apre un varco che la invita ad avanzare. Un passo dopo l’altro e gli occhi si abituano a quel calore; solo quando l’ha quasi raggiunto si spegne improvvisamente, lasciando alle tenebre il potere di abbracciarla. Nell'ultimo istante di chiarore, la propria immagine trionfa riflessa fronte ai propri occhi come vincitrice del Regno e le spine la stringono senza farle alcun male.
Uno scatto e Megan si sollevò dal letto. Il cuore batteva forte e risuonava nel petto, nelle ossa, senza avere intenzione di fermarsi. Non voleva vedere oltre, non voleva rimanere ancora. Nascose la testa fra le mani e cercò di trovare la calma mentre controllava il respiro.
È solo un incubo, un dannatissimo incubo, ripeteva mentre dentro di lei le ferite sanguinavano ancora.
«Va tutto bene Miss Haven?» la voce della compagna di stanza lasciò che tutto si concretizzasse. Era sveglia, non doveva più temere di vedere altro, di percepire altro.
Tirò su il viso scoprendo parzialmente il volto; le lunghe ciocche corvine si appiccicarono sulla cute, bagnandosi di sale. Cercò lo sguardo della giovane ragazza al proprio fianco, le sorrise e annuì. Sarebbe stato facile non crederle, le parole rappresentavano ciò che visibilmente non era. Tuttavia, fintanto che nessuno si fosse spinto oltre lei avrebbe continuato a camminare in quella direzione.
«
Va tutto bene, non preoccuparti» tornò supina a guardare il soffitto. Da quella sera, la notte del Ballo, gli incubi avevano preso ancora una volta a tormentarla e Oliver aveva iniziato a farne parte. Sospirò un’ultima volta prima di provare a dormire ma non avrebbe più chiuso occhio.
–––
Il ticchettio degli orologi scandiva ogni minuto che passava. Lento e inesorabile il tempo non lasciava mutare niente nella vita di Megan e da anni s’era fermato lasciandola in balia del vuoto più totale. Si sentiva come una macchia di petrolio in un oceano: galleggiava andando lentamente affondo, intossicando chiunque provasse a toccarla. La sofferenza che pesava sul cuore adesso si era quasi del tutto annullata, spenta da una parete spessa che circondava il cuore stanco di pompare dolore. Come si sentisse non era chiaro nemmeno a se stessa, che combatteva ogni giorno con i suoi demoni convinta di potersene liberare. C’era sempre un briciolo di speranza che provava a farsi largo nella sua anima ma era più facile non lasciarlo passare. Codarda, egoista, erano gli aggettivi che gli altri le avrebbero attribuito; qualcuno lo aveva già fatto rinunciando, altri si erano solo fatti del male provando a combattere.
Un battito di ciglia aveva interrotto lo stato di ipnosi in cui si trovava in quel momento e, nello stesso istante, la porta dell’Ars Arcana si aprì. Un'anziana donna le sorrise e lei si sforzò a fare altrettanto indossando una maschera perfetta. Poteva fingere di essere la persona che non era in quel luogo; a volte si dimenticava dei demoni che aveva dentro e mostrava una serenità teatrale impeccabile. Riprese così a sistemare gli ultimi oggetti arrivati, posizionandoli con attenzione sul bancone. Toccava a lei il magazzino quel giorno.
«Mi scusi, volevo fare un regalo a mia nipote cosa mi consiglia? Ha sette anni» chiese la donna. Megan alzò lo sguardo e aggrottò le sopracciglia. «
Non abbiamo molto per bambini ma credo che può andare benissimo un amuleto, o un talismano» rispose prelevando da sotto il bancone un contenitore in legno con le pietre all’interno.
«
Prego, scelga pure. Ah, qui può trovare le catenine» indicò il piccolo stand alla sua sinistra. Aveva posato così gli occhi sulla donna con molta più attenzione adesso, fantasticando su quanto potesse essere orgogliosa di sua nipote. Sorrise involontariamente, pezzi di ricordi affioravano confusi. Elizabeth. Un abbraccio. Un sorriso. Gli occhi blu ancora acerbi che incontravano il mare stanco delle tempeste, ma che splendeva ugualmente per non scoraggiare chiunque lo attraversasse. Ora era tutto diverso: c’era ghiaccio in quel mare e poteva solo ferire.
Le domande riaffioravano ogni qualvolta ci pensava ed era frustrante non poter avere alcuna risposta. Megan così spostò lo sguardo e iniziò a scrivere sul registro, concentrarsi su altro era la cosa migliore.
La donna qualche minuto più tardi varcò l’uscita con il regalo e a scandirne l’azione il cuculo risuonò stabilendo l’orario di chiusura. Così, dopo aver sistemato l’ultimo scatolone sullo scaffale alla destra del locale, accanto alle anfore, Megan lasciò il negozio.
Il vento estivo lasciava sempre un odore buono. I fiori sulle finestre delle botteghe inebriavano con le loro numerose fragranze. Il venticello fresco e il sole, ancora alto nel tardo pomeriggio, permettevano di poter godere del panorama che agli occhi riservavano. Diagon Alley era poco affollata, la maggior parte delle persone se ne stava seduta nei locali a sorseggiare qualcosa di fresco, o in vacanza in qualche luogo sperduto del mondo.
Un ultimo incastro e la porta si chiuse definitivamente. La ragazza poté tirare un sospiro di sollievo e raccogliere lo zaino poggiato a terra.
«Megan?»Si senti chiamare e lo sguardo cercò quella voce.
«
Casey?» strinse gli occhi. «
Cosa ci fai qui? Ho appena chiuso. Se ti serviva qualcosa» alzò le spalle, «
Troppo tardi.»
Era dalla sera del Ballo che non aveva notizie della Grifondoro e vederla lì, in quel momento, la portò negli attimi precedenti al caos.
«
Passa domani, trovi Horus» aggiunse infine, abbozzando un sorriso di circostanza.