Effimera Leggerezza, Privata

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view post Posted on 12/10/2019, 11:48
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Oh, instincts are misleading.You shouldn't think what you're feeling.They don't tell you what you know you should want.
Pensieri sparsi. Non aveva mai avuto un buon rapporto col tempo. Passato, presente e futuro controllavano l'andamento delle sue emozioni, così come la luna governa le maree. Aveva provato per molto tempo, nella sua più totale ingenuità, a capovolgere i ruoli: era lei l'amministratrice del suo tempo, lei la regina dei secondi che scandivano le sue ore. Ma il tempo non era mai del tutto suo, anche se si trattava della sua vita. Era solo una concessione, un favore fatto da chissà chi che richiedeva a tratti tanto malessere. Il passato coi suoi rimpianti martellanti e la vergogna di cui era denso, il futuro che non dava mai certezze, e soprattutto il presente, scivoloso come un'anguilla fra le mani, che le instillava sempre la paura di non riuscire ad afferrarlo e a viverlo appieno.

Tutti dicevano che lei era una ragazza forte e matura. Si dava da fare, era vero. Era anche pigra, ma detestava esserlo, e si lasciava dunque vincere con più facilità dalla paura di vivere in maniera inconcludente. Poi c'erano i problemi di soldi, i problemi dell'orfanotrofio che lei detestava ma di cui non poteva fare a meno - e il pensiero di compiere la maggiore età e di non poterlo più considerare un'ancora aggravava la sua ansia giorno dopo giorno. C'erano problemi, tanti problemi. Casey era un problema vivente, o almeno era quello che credeva lei. Sentiva di non avere tempo, o di non essere capace di possederlo, ed è una cosa terribile da sentir dire da una quindicenne. Proprio nel periodo in cui ogni giorno dovrebbe essere una benedizione e la scusa migliore per vivere di gioia, lei si sentiva oppressa dallo scorrere del tempo. Sentiva una costante ansia. Doveva alzarsi dalla sedia e muoversi, doveva correre affinché le cose non le sfuggissero di mano. Si parla del lavoro da Sinister, fra i ratti e la polvere, di un qualsiasi tipo di entrata che sarebbe andata a rimpolpare il gruzzolo messo da parte per il futuro, e della scuola ovviamente. Essere prefetto e studente non era cosa semplice, ed era un impegno sia fisico che mentale. Pretendeva troppo da se stessa, ma pensava fosse la cosa più normale e giusta da fare. Però non bastava mai.

Quando aveva visto gli occhi di Oliver Brior irrorarsi del sangue dei capillari, la sua pelle spezzarsi sotto il peso di una pressione inavvertibile, molte certezze erano crollate. L'inspiegabile era venuto a bussare alla sua porta con al seguito tanti incappucciati, i dubbi mai risolti, per invaderle la casa, e da allora lo scorrere dei giorni si era fatto mesto, anziché tremulo d'ansia. Forse doveva arrendersi a quel nulla, al fatto che nulla era certo e che nulla poteva essere controllato. Era così doloroso, dopo una vita passata in quel modo, doversi rassegnare a un'esistenza in cui la felicità non sarebbe mai potuta essere una linea retta ed eterna.

Strinse i pugni. I contorni dell'Ars Arcana, dalla sua prospettiva, sembravano emanare il fascino della tenda di una cartomante zingara in una fiera. Gli arabeschi lignei e le sculture colorate di vivo delle piante orientali lo facevano spiccare in mezzo ai comuni palazzi della Londra Magica, un po' come i Tiri Vispi per la loro eccentrica visionarietà, ma nulla a che vedere con lo sghembo sfarzo della Gringotts. Tutto sembrava curato nei minimi particolari: dall'entasi delle colonnine delle decorazioni al candido lucore dei vetri a mosaico delle piccole feritoie. Doveva esserci poca luce lì dentro, ma in fondo era contenta che lei lavorasse in un posto così bello e non in uno come Magie Sinister. La bellezza fa tanto, non passa inosservata nemmeno quando hai le nubi in testa, ti alleggerisce il lavoro e il cuore.

I passanti la schivavano. Una piccola massa di felpa e capelli tinti mal tagliati, ancor più corti di prima, che le scendevano sulla fronte sbucando dal cappuccio, raggomitolata sul pizzo del basso marciapiede di fronte al negozio. Continuava a giocare con lo zippo per smorzare la tensione e a pizzicare con la lingua il filtro della sigarettina. Non l'avrebbe ancora accesa, altrimenti si sarebbe spenta al momento sbagliato, e odiava rimanere con un mozzicone spento in bocca prima che l'attesa fosse finita.
Non era certa in realtà di cosa stesse aspettando. Il suo cuore, in fondo, sì, perché accanto a lei c'erano un sacchettino di plastica pieno di muffin e due caffè caldi. Forse avrebbe dovuto tenerli nello zaino, forse era stato un pensiero stupido, si era detta. Stava cominciando un po' a fare i conti con la sua stupidità, ad abituarcisi. Fare figuracce, in primis con il suo grande giudice interno, era diventata una prassi ormai inevitabile.

    "Vado in cerca di una persona", disse al giudice. "Di lei". Ma perché? "Perché ho bisogno di stare meglio". Adesso sembra tutto molto più chiaro, però solitamente, Casey, tu hai sempre una risposta più dettagliata per tutto, non ami le risposte incomplete, non ti accontenti di un'effimera leggerezza.

La risposta rimase incompleta perché non volle continuare a parlarne. Fu una momentanea vittoria, se vogliamo proprio dirlo, la prima in assoluto contro quella voce. Le motivazioni in realtà erano tante, e ragionavano per lo più con l'impalpabilità delle sensazioni. Quei pugni chiusi stretti attorno al nulla ne erano la sintesi, l'angoscia dell'incertezza l'espansione. La sua vita era diventata l'estensione delle emozioni provate quella sera al ballo, dai primi momenti di rabbia e incompatibilità con l'esterno allo smarrimento nel caos, passando per la mancanza di un contatto e della realizzazione ultima di un pensiero.

La porta dell'Ars si aprì. Una serie di incantesimi, non appena la chioma corvina si liberò dalle grinfia dell'oscurità del negozio, fecero scattare mille serrature. Alzò le testa, si mise in piedi e un piccolo tuffo al cuore le fece uscire istintivamente le mani dalle tasche della felpa. Rimase per alcuni secondi in silenzio prima che lei voltasse le spalle, nel tentativo di ordinare le proprie mosse e i pensieri. Poi si schiarì la gola e la chiamò.

« Megan? »
Ivory lines lead.
LIGHTNESS


La role è ambientata in estate, dopo il Ballo delle Rose e delle Spine e la profezia di Oliver e fra le vicende del Labirinthus con Camillo e l'inizio della scuola.
L'Ars è a Diagon, ma abbiamo deciso di aprire direttamente a Londra perché ci sposteremo lì a breve.
 
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view post Posted on 12/11/2019, 23:37
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A lifeless face.

Non c'è luce che penetra attraverso le grandi finestre. La luna è celata dalle dense nubi nere che macchiano la volta celeste.
Silenzio. Nessun sussurro nella foresta. Il vento riposa. Lei?
Gocce di sudore le sfiorano la pelle come fiamme. Gli occhi si sforzano. La testa si muove agitata mentre le mani afferrano le coperte.
Di nuovo. Ancora. È lì.
«Oliver!»
«Fate qualcosa! Non lo vedete? Sta morendo!»
«Aiutatelo!»

«Vi prego!»
«Svegliati, forza!»

È trasparente l’immagine.
È chiaro il suono delle grida.
Le rose ricamate sul vestito posano a terra, si diramano intorno all’esile corpo accovacciato e tremolante. La mano si allunga, tocca il terreno, afferra le radici e si bagna di sangue.
Alza la testa. Non c’è nessuno. È sola. L’eco delle sue grida silenziose rimbomba nello spazio, nella quiete che d’improvviso la invade.

«Dove sei?» sussurra. Le dita raccolgono il vuoto, gli occhi fissano la pelle sporca. Sente freddo ma non ha niente per coprirsi, solo strati di rose appassite.
Lentamente si alza in piedi. Respira a fatica. Lo sente il peso opprimere il petto, il cuore rallentare i battiti e la sensazione di terrore invadere il suo spazio.

«C’è nessuno?» chiede. La voce trema, l’eco risponde.
Ora cammina, un piede dopo l’altro, verso una strada non definita dove già da tempo vaga. Persa.
Un fitto bosco, è quel che sembra. Gli alberi si vedono a malapena e c'è un muro di nebbia davanti, dietro, intorno a lei. Nient'altro.

Uno scenario inesistente. Un luogo familiare.

Le spine le pungono i piedi ma non le sente. Sanguina ma non se ne preoccupa. L’aria è rarefatta, quel fumo denso la fa boccheggiare. Non si ferma, cammina e basta.

«L’hai fatto» dice una voce improvvisa. Oliver.

«Cosa?»

«Mi hai lasciato.»
Un ultimo passo e un morso alla gola la costringe a portare una mano sul collo.
«È ciò che sai fare meglio, non è vero?»
Nessuna risposta, rimane in silenzio a fissare il vuoto.

«Se sono morto è colpa tua. Se loro lo sono è colpa tua» tagliente. Il cuore ora sanguina.

«Sta zitto!» grida, mentre afferra la testa fra le mani e la scuote. Vattene. Il mento verso l’alto, le labbra schiuse cercando di far entrare aria nei polmoni. Non ci riesce, quel peso la soffoca, quelle parole la distruggono. Sono vere, come l’immagine che le appartiene, e fa male.
Lacrime calde le tagliano il viso adesso, come lame affilate solcano la pelle mutandone il colore. Il riflesso della luce offuscata dalla spessa bruma le illumina il volto, lo scopre della tristezza da cui è sopraffatto. Poi una luce fioca lampeggia davanti a lei; fra lo strato di nebbia si apre un varco che la invita ad avanzare. Un passo dopo l’altro e gli occhi si abituano a quel calore; solo quando l’ha quasi raggiunto si spegne improvvisamente, lasciando alle tenebre il potere di abbracciarla. Nell'ultimo istante di chiarore, la propria immagine trionfa riflessa fronte ai propri occhi come vincitrice del Regno e le spine la stringono senza farle alcun male.




Uno scatto e Megan si sollevò dal letto. Il cuore batteva forte e risuonava nel petto, nelle ossa, senza avere intenzione di fermarsi. Non voleva vedere oltre, non voleva rimanere ancora. Nascose la testa fra le mani e cercò di trovare la calma mentre controllava il respiro. È solo un incubo, un dannatissimo incubo, ripeteva mentre dentro di lei le ferite sanguinavano ancora.

«Va tutto bene Miss Haven?» la voce della compagna di stanza lasciò che tutto si concretizzasse. Era sveglia, non doveva più temere di vedere altro, di percepire altro.
Tirò su il viso scoprendo parzialmente il volto; le lunghe ciocche corvine si appiccicarono sulla cute, bagnandosi di sale. Cercò lo sguardo della giovane ragazza al proprio fianco, le sorrise e annuì. Sarebbe stato facile non crederle, le parole rappresentavano ciò che visibilmente non era. Tuttavia, fintanto che nessuno si fosse spinto oltre lei avrebbe continuato a camminare in quella direzione.

«Va tutto bene, non preoccuparti» tornò supina a guardare il soffitto. Da quella sera, la notte del Ballo, gli incubi avevano preso ancora una volta a tormentarla e Oliver aveva iniziato a farne parte. Sospirò un’ultima volta prima di provare a dormire ma non avrebbe più chiuso occhio.


–––



Il ticchettio degli orologi scandiva ogni minuto che passava. Lento e inesorabile il tempo non lasciava mutare niente nella vita di Megan e da anni s’era fermato lasciandola in balia del vuoto più totale. Si sentiva come una macchia di petrolio in un oceano: galleggiava andando lentamente affondo, intossicando chiunque provasse a toccarla. La sofferenza che pesava sul cuore adesso si era quasi del tutto annullata, spenta da una parete spessa che circondava il cuore stanco di pompare dolore. Come si sentisse non era chiaro nemmeno a se stessa, che combatteva ogni giorno con i suoi demoni convinta di potersene liberare. C’era sempre un briciolo di speranza che provava a farsi largo nella sua anima ma era più facile non lasciarlo passare. Codarda, egoista, erano gli aggettivi che gli altri le avrebbero attribuito; qualcuno lo aveva già fatto rinunciando, altri si erano solo fatti del male provando a combattere.

Un battito di ciglia aveva interrotto lo stato di ipnosi in cui si trovava in quel momento e, nello stesso istante, la porta dell’Ars Arcana si aprì. Un'anziana donna le sorrise e lei si sforzò a fare altrettanto indossando una maschera perfetta. Poteva fingere di essere la persona che non era in quel luogo; a volte si dimenticava dei demoni che aveva dentro e mostrava una serenità teatrale impeccabile. Riprese così a sistemare gli ultimi oggetti arrivati, posizionandoli con attenzione sul bancone. Toccava a lei il magazzino quel giorno.
«Mi scusi, volevo fare un regalo a mia nipote cosa mi consiglia? Ha sette anni» chiese la donna. Megan alzò lo sguardo e aggrottò le sopracciglia. «Non abbiamo molto per bambini ma credo che può andare benissimo un amuleto, o un talismano» rispose prelevando da sotto il bancone un contenitore in legno con le pietre all’interno.
«Prego, scelga pure. Ah, qui può trovare le catenine» indicò il piccolo stand alla sua sinistra. Aveva posato così gli occhi sulla donna con molta più attenzione adesso, fantasticando su quanto potesse essere orgogliosa di sua nipote. Sorrise involontariamente, pezzi di ricordi affioravano confusi. Elizabeth. Un abbraccio. Un sorriso. Gli occhi blu ancora acerbi che incontravano il mare stanco delle tempeste, ma che splendeva ugualmente per non scoraggiare chiunque lo attraversasse. Ora era tutto diverso: c’era ghiaccio in quel mare e poteva solo ferire.
Le domande riaffioravano ogni qualvolta ci pensava ed era frustrante non poter avere alcuna risposta. Megan così spostò lo sguardo e iniziò a scrivere sul registro, concentrarsi su altro era la cosa migliore.
La donna qualche minuto più tardi varcò l’uscita con il regalo e a scandirne l’azione il cuculo risuonò stabilendo l’orario di chiusura. Così, dopo aver sistemato l’ultimo scatolone sullo scaffale alla destra del locale, accanto alle anfore, Megan lasciò il negozio.

Il vento estivo lasciava sempre un odore buono. I fiori sulle finestre delle botteghe inebriavano con le loro numerose fragranze. Il venticello fresco e il sole, ancora alto nel tardo pomeriggio, permettevano di poter godere del panorama che agli occhi riservavano. Diagon Alley era poco affollata, la maggior parte delle persone se ne stava seduta nei locali a sorseggiare qualcosa di fresco, o in vacanza in qualche luogo sperduto del mondo.
Un ultimo incastro e la porta si chiuse definitivamente. La ragazza poté tirare un sospiro di sollievo e raccogliere lo zaino poggiato a terra.
«Megan?»
Si senti chiamare e lo sguardo cercò quella voce.
«Casey?» strinse gli occhi. «Cosa ci fai qui? Ho appena chiuso. Se ti serviva qualcosa» alzò le spalle, «Troppo tardi
Era dalla sera del Ballo che non aveva notizie della Grifondoro e vederla lì, in quel momento, la portò negli attimi precedenti al caos.
«Passa domani, trovi Horus» aggiunse infine, abbozzando un sorriso di circostanza.



Shadows settle on the place that you left.
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view post Posted on 4/4/2020, 14:32
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Le onde del prato apparivano pietrificate lungo tutti i vialetti del labirinto. Dopo un'ultima folata di vento, fatale forse, l'erba era stata calpestata da mille piedi in corsa verso l'epicentro del terremoto. Le voci colme di disperazione chiamavano ancora quel nome - "Oliver, Oliver!" - e le otturavano i sensi, prima l'udito, poi la vista, poi la percezione del suo corpo. Le rose non erano mai sembrate tanto indelicate in un giardino, aveva riflettuto con amarezza, e poi si punì mentalmente per aver generato un tal pensiero. Provò a districarsi da quel nero, a calmare i suoi battiti, a muovere un passo, ma era come se le spine dei roseti le si fossero aggrovigliate attorno ai muscoli e ai legamenti fino a conficcarlesi nel cuore.

So this is the new year
And I don't feel any difference

La porta dell'infermeria del secondo piano era sempre rimasta aperta. Mille visitatori, fra parenti, studenti, professori e affezionati, avevano varcato la sua soglia con doni, sorrisi e promesse, senza nemmeno un attimo di esitazione. In sala comune nell'arco dell'ultima settimana di giugno, poco prima della partenza per Londra, non si era parlato d'altro che dell'andirivieni di volti mai visti a Hogwarts, tutti lì per il loro amato Caposcuola. I regali, le cioccorane, le gelatine Tutti i Gusti +1, i fiori - sempre di cattivo gusto per una vittima ancora in vita, persino se spezzata in un giardino di rose - non erano mai abbastanza a giudizio dei concasati. Non facevano che chiamarla per partecipare a delle collette mirate a far trovare ai piedi del letto di Brior novità giornaliere, affinché il suo morale ne traesse giovamento. Sfuggendo ad ogni inseguimento per apporre una firma ad una dedica qui e mettere un galeone lì, aveva fatto con tutti loro la figura di una menefreghista priva di cuore e gratitudine nei confronti del dedicatario, suo superiore e presunto amico. Era un dolore ancor più grande di tanto altro sentirsi considerata in questa maniera, ma mai quanto il non riuscire a dimostrare il suo malessere di fondo: il sapere che quella porta, tante volte volte schiusa da estranei e conoscenti, celava dietro la sua anta solo un brandello di Oliver, un corpo dilaniato dalle ferite e straziato dall'ignoto.

The clanking of crystal
Explosions off in the distance

Quando Oliver aveva preso a levitare sulla folla di corpi danzanti le sue intuizioni volarono subito a uno di quei clichè da quattro soldi per re e reginette della festa. La coppia si sarebbe alzata, fluttuante fra il tulle e i fiorellini di raso tanto a tema, e allora tutti sarebbero stati costretti ad ammirarli interrompendo quanto stavano facendo per poi seguirli in pista - pur sempre qualche metro d'aria più in basso, rimarcando così la loro nomina ufficiale. Ma non vi era stato alcun ballo, e non aveva visto Megan fluttuare al suo fianco. Oliver era caduto ai suoi piedi in preda alle convulsioni, i capillari gli si erano spezzati sotto il panico degli astanti. Se la visione era rimasta indelebile nella sua di mente, ragionò, quella della Corvonero doveva esserne stata ineluttabilmente segnata. Non aveva avuto modo di chiedere, né il coraggio, proprio come non ce l'aveva avuto per fare una visita al suo caposcuola. Dopo la loro discussione, dopo esser corsa incontro a Nieve, dopo che l'orrore era divenuto asfissia, la forza di curarsi di un altro oltre a se stessa non c'era stata. Con gran rimorso, aveva cercato il suo vestito ricamato di rose e i capelli finemente acconciati in onde e trecce fra le mille teste dei corvonero che risalivano fino alla Torre di Divinazione, anche solo per scrutarla da lontano e assicurarsi che il suo volto non fosse stato del tutto avvolto dal pallore dello spavento, ma non l'aveva trovata. Non l'aveva mai considerata priva di robustezza in generale - i prefetti erano stati sempre il nerbo principale dell'intero staff di casata coi primini - anche se le occasioni in cui lo aveva constatato non erano mai state così dirette e intime.

Un tris di muffin ai cereali, col cuore di crema, ciliegia e nocciola, non doveva essere il modo più efficace per offrire il proprio supporto. Era stupido e infantile anche solo pensare che fosse possibile renderli adeguati collanti del buon umore dopo un evento del genere e il più totale silenzio. Avrebbe potuto scriverle, chiederle come stava o intercettarla sul treno per King's Cross, ma ogni volta che ci aveva riflettuto era giunta alla conclusione che fosse altrettanto insensato cercare di esser così pressante con una persona che si conosceva appena; e ovviamente, dopo un mese annegato nel rimuginare, la soluzione più semplice al problema era stata quella di appostarsi all'Ars per placcarla a fine turno.
«T-troppo tardi? Ah, ma intendevi...» Per un attimo pensò che Megan le fosse entrata nella testa. La confusione e la solitudine dettate da quel periodo ormai l'avevano talmente abituata al solo riecheggiare della sua voce interna che in alcuni momenti era persino in grado di illudersi della sua coincidenza col mondo esterno. «Ma io non sono qui per fare degli acquisti» disse abbozzando un sorriso nell'intento di risultar simpatica.
Impacciata - i muscoli sembravano vibrare per tutto quell'imbarazzo - incastrò la sigaretta spenta fra le labbra per mettersi a rovistare dentro il sacchetto. Man mano che prendeva coscienza di ciò che aveva combinato nel presentarsi lì in quel modo, ogni movimento si risultava sempre più ingarbugliato. Dopo essersi scottata - con la paralisi già impostale dalla situazione non le risultò difficile far finta di nulla - e aver rischiato di versare il caffè sui dolci, prese il bicchierone da passeggio e lo porse a Megan. Il braccio disteso verso di lei, il sorrisino stretto attorno al filtro - i muscoli tesi quanto corde di violino - e il senso di disagio crebbe ancor di più incrociando lo sguardo perplesso dell'altra. «Ti va un muffin?» chiese, a corto di buoni spunti per una spiegazione. Sperava solo che la realtà non traesse spunto dalle sue elucubrazioni di quell'estate, e soprattutto Megan.

So this is the new year
And I have no resolutions
For self assigned penance
For problems with easy solutions.
Ivory lines lead.
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Edited by Keyser Söze. - 4/4/2020, 15:47
 
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Portò le dita a scansare una ciocca che le aveva sfiorato il naso. La leggera brezza estiva si faceva largo tra i vicoli, spostando le poche nuvole nel cielo violaceo che si preparava ad accogliere il tramonto. Gli occhi fissi sulla Grifondoro in attesa di una risposta. Megan la osservava e nell’incertezza dei gesti, delle parole, rivisse il loro primo incontro.
Non era stata che una semplice chiacchierata prima del caos ma se ci pensava bene, le poche frasi dette avevano avuto un certo peso. Era passato poco più di un mese ormai, eppure se ripensava a quei momenti, il terrore continuava ad accerchiarla.
Fu tentata a dirle di no, a fuggire da lì. Sapeva che sarebbe caduta in trappola, che in qualche modo tutto ciò che era accaduto le sarebbe di nuovo piombato sulle spalle. E cosa avrebbe dovuto fare? Come avrebbe dovuto mostrarsi di fronte a Casey?
La sera del Ballo, l’unica persona che davvero aveva avuto a cuore la sua situazione era stata Emily. Ma chi era lei per giudicare? Non era nemmeno andata a trovare Oliver!
Si era data della codarda e tutt’ora lo pensava. Se avesse dovuto cercare una giustificazione a quelle azioni probabilmente non l’avrebbe mai trovata; aveva avuto paura.


Avanzò qualche passo per accorciare le distanze, lo zaino, ora, pendeva lungo la schiena. La guardò, studiò le iridi muschio provando a sondarne la profondità. Era imbarazzo quello che vedeva? Lo stesso che colorò le proprie guance sorpresa da quel gesto. Doveva dirle di no e basta, ma proprio nel momento in cui abbassò le palpebre sul lastricato, schiudendo le labbra, le parole della studentessa di Godric le tornarono chiare nella mente.
«Più cerco di andare incontro alle cose, più esse si allontanano. Più amo ciò che amo, più mi ferisce. Più cerco di non annegare, più le onde si alzano», le aveva detto e nella confusione lei aveva dimenticato. Poteva quasi sentire il senso di colpa colmarla. Quella frase, quell’incontro nato per puro divertimento, il suo. Cosa le aveva realmente lasciato dentro? Aveva visto qualcosa nella ragazza, qualcosa che in qualche modo – in un intreccio di fili aggrovigliati – l’avvicinava a lei. Era forse la solitudine? La voglia di voler provare ad essere diversi e non averne le possibilità, o la capacità? La rabbia.
Però Megan era stata capace. Qualcosa le aveva detto, qualcosa che lei stessa non era stata in grado di seguire. Poi…
Alzò la testa e di nuovo le labbra si incurvarono a mostrare un leggero sorriso. «Perdonami, credevo che fossi qui per...» rivolse lo sguardo alla porta dell’ Ars Arcana, «prendere qualcosa, ecco».
Allungò la mano e afferrò il caffè. «Grazie» disse subito dopo annuendo, poi scosse leggermente il capo, strinse le palpebre e la fronte si corrugò mostrando un’espressione confusa. «Ma perché?» infine chiese. Non le piaceva rimanere in balia dei dubbi, diventava matta ogni volta che veniva costretta a starci. Voleva dare un senso a qualsiasi cosa, sempre. Razionalizzare. Quel gesto sapeva che non veniva dal nulla: cosa voleva Casey da lei?
Successivamente, le iridi blu si posarono sul bicchierone di carta, era ancora caldo. Inebriata dal profumo che il liquido bruno emanava, chiuse gli occhi portando la bevanda alle labbra. Un sorso, due.
Qualche istante più tardi avrebbe invitato la studentessa a seguirl; Londra avrebbe aperto loro ben presto le porte. C’era qualcosa che andava conclusa, o semplicemente affrontata? Non sarebbe stato facile per Megan consentire a Casey di avvicinarsi ma la ragazza non sarebbe stata né la prima né l’ultima. La fiducia era una prezzo che faceva pagare moltissimo.
In quell’incontro l’unico visibile lato positivo, adesso, era l’intrattenersi fuori casa più del previsto. Elizabeth non avrebbe dato peso alla sua assenza, alla pari di quello che dava alla sua presenza. Megan era solo la copia esatta della madre troppo giovane, che portava alla donna solamente dolore ogni volta che ne incrociava le iridi cobalto.

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Con un certo nervosismo, liberate le mani dal caffè dato a Megan, si risistemò la sigaretta fra le labbra e cercò di accenderla. Un'azione che sembrò ancor più complicata di quella di recuperare il caffè dal sacchetto senza rovesciarlo sui muffin. I polpastrelli sudati scivolavano sulla rotellina senza alcun attrito, producendo al posto della fiammella solo un pizzico di frustrazione. Ad ogni modo il primo passo era stato fatto: Megan sembrava aver accettato di buon grado la bevanda, e non l'aveva mandata via in barba ai suoi tentativi di fare la gentile per l'esser rispuntata a caso un giorno d'estate a un mese di silenzio dal disastro.
Dopo una decina di tentativi e un sospiro, finalmente riuscì ad accendere il mozzicone, e tirò. La strategia di concentrarsi su altro per apparire il più a suo agio possibile la rese piuttosto iperattiva, così cominciò a risistemarsi la felpa e il ciuffo di capelli dentro il cappuccio; poi, tanto per non continuare a pettinarsi il ciuffo con le dita nel rischio di figurare una gran vanitosa, ritentò la sorte col caffè nel sacchetto, di cui riuscì a rovesciare qualche goccia sul marciapiede.
Megan aveva accettato la sua offerta di un break crepuscolare, ma ciò non voleva dire che fosse stupida. KC si sarebbe dovuta aspettare quella domanda, e prepararsi una risposta adeguata al tipo di maschera che secondo dopo secondo stava tentando di indossare. Invece, colta impreparata, ne fu investita mentre si infilava per la terza volta lo zippo nel taschino esterno dello zaino.

So everybody put your best suit or dress on
Let's make believe that we are wealthy for just this once

«Perché no?» Alcuni secondi di silenzio, e rispose alla domanda con un'altra semplice domanda. Le sorrise, e la guardò finalmente negli occhi. Un piccolo tremore si impossessò di un angolo della sua bocca, frutto dell'intuizione di star percorrendo una strada pericolosa. Al Ballo delle Rose e delle Spine aveva avuto l'assaggio di un carattere inaspettatamente mordace nella Corvonero, e lei non era giunta sul suo posto di lavoro per attaccar briga o andarsene punta nel vivo e col rammarico di non aver dato a entrambe la possibilità di trascorrere una serata tranquilla. Sentiva l'eco del Giudice ripercuotere le sottili membrane dei suoi pensieri, anche se più lievemente; ma com'è lecito in ogni lotta interna, era servito solo a dar maggior rilievo ai suoi impulsi più reazionari. Disciolse in breve tempo quel sorrisetto nervosamente gioviale in un'espressione neutra, arresa alle necessità che l'avevano mossa fin lì, e trovò delle parole ben più chiare per esprimere le sue motivazioni. «Volevo solo ritagliarmi un po' di quiete, non volevo disturbarti.»
Essere sinceri sulle proprie sensazioni non era un lavoro semplice per la Bell. A dirla tutta, comunicare in generale era qualcosa di estremamente complesso dal suo punto di vista. Lo aveva capito dal garbuglio di incomprensioni creatisi con le persone a lei più vicine, come Camillo, che prevedevano l'inevitabile scoppio finale del senso di colpa sotto forma d'ira. L'esperienza insegna, è vero, ma la tendenza di un carattere è dura a morire, e soprattutto la paura di trovarsi alle strette di fronte all'ammissione dei propri difetti o al loro cedimento.

Lighting firecrackers off on the front lawn
As thirty dialogs bleed into one.

«Vorrei poter essere sincera con te, Megan.» Lo sguardo tornò sulla brodaglia scura che lentamente perdeva il suo calore. Non era un sospirato desiderio quello, ma la richiesta di un permesso. Chiaramente nulla le impediva di essere sincera a prescindere dalla risposta di chi aveva davanti; l'espressione voleva permetterle di capire se anche Megan, come lei, sentisse il bisogno di togliersi un peso dal cuore. E molti ribadiscono che è più semplice farlo con qualcuno che si conosce appena piuttosto che con un legame di lunga data.
«Mi chiedevo come stessi» disse, guardandola per alcuni istanti con la coda dell'occhio, cominciando a incamminarsi. «Perché non ti ho più vista al castello dopo...» Lasciò che le parole sfumassero nel pigro chiacchiericcio dei passanti che tornavano a casa. Molte cose avrebbe voluto dire, e fare un elenco di ognuno di quei pensieri ammucchiati in maniera confusa, come tasselli di un puzzle che non era in grado di rimettere insieme. Era troppo presto, e comunque non avrebbe voluto forzare Megan ad aiutarla in quel compito. «Non voglio rivangare quel giorno» continuò dunque. «Anzi, volevo ringraziarti. Tornando a prima del... ciò che mi hai detto mi ha rianimata.» Picchiettò con la bacchetta il mattone di un muro, fra i bidoni e un lampione, e vennero inondate dall'olezzo di una mistura di burrobirra e sugo di fagioli. «Non sono riuscita a dirtelo prima. Senza di te non avrei avuto nemmeno la forza di riunire i miei concasati per tornare al castello.»
Un'ombra calò sui suoi occhi, mentre si faceva largo fra i frequentatori serali del Paiolo Magico per raggiungere l'uscita sul Mondo Babbano. La voce si era costretta in un timbro più rauco nel pronunciare quelle parole, ma non si trattava di orgoglio. Anzi, provò un certo piacere nel sopprimerlo, come se parlarle così apertamente potesse purificarla dell'autocommiserazione. Il Giudice si ritrovò dunque in un attimo di sospensione, e stette a guardare come il suo Opposto tentasse di seguire quel filo così effimero per rievocare l'euforia di un momento già vissuto.

I wish the world was flat like the old days
Then I could travel just by folding a map
No more airplanes, or speed trains, or freeways
There'd be no distance that could hold us back.
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Il piccolo suono prodotto dalla rotellina metallica, distrasse Megan da quel breve momento di quiete. Un ultimo sorso e si staccò dal bicchiere, mordendosi velocemente il labbro per non far cadere una goccia di caffè lungo il mento. Tornò così a guardare Casey con interesse, curiosa di sapere cosa l’avesse portata da quelle parti: di fronte all’Ars, ad aspettare la fine del suo turno. I gesti della Grifondoro furono tesi, tanto che fronte a un primo silenzio Megan cambiò espressione. Gli occhi si chiusero appena e le sopracciglia s’incurvarono pensierose fino al manifestarsi della domanda.
Sorrise. Incrociò gli occhi verdi e non distolse lo sguardo in alcun modo. «Perché dovresti disturbare?» con il gesto appena accennato della mano portò il caffè verso di lei, «Non avrei accettato» concluse. Un mezzo riso mise in evidenza la fossetta sulla guancia sinistra, mentre rimaneva a fissarla in attesa. Di cosa?
All’inizio del discorso Megan mimò la stessa azione della ragazza. Lo sguardo si perse lungo la strada nella staticità di quell’attimo. Neppure la leggera brezza veniva percepita dalle piante nelle fioriere, nessun accenno di movimento. Non stava guardando veramente.
Così, nel silenzio accettava quella richiesta; consapevole.
«Mi chiedevo come stessi. Perché non ti ho più vista al castello dopo...»
Un battito accelerato cambiò in in pochi istanti il suo stato d’animo. Megan era decisamente sorpresa. Ricordare il Ballo di quell’estate lasciava vivere gli ultimi istanti, il terrore provato e i sensi di colpa. Seguì i passi della Grifondoro respirando profondamente, poi disse: «La strada verso Londra è lunga» abbozzando un sorriso nervoso. A seguire il silenzio fra di loro venne interrotto da alcuni passanti, che nella parte opposta della strada avanzavano indisturbati tra una chiacchiera e l’altra. Megan li guardò appena, il tempo di un desiderio: avere la stessa spensieratezza.
Successivamente, le parole avanzate dal Prefetto la costrinsero a voltarsi. L’espressione che si manifestò sul volto fu indecifrabile, persino lei stessa fu colta alla sprovvista. Non sapeva bene come rispondere alla domanda, né come recidere la corda sempre più tesa.
Il picchiettio della bacchetta sul muro e l’ingresso nel Paiolo sancirono il vero inizio, le parole di Casey cessavano e davano spazio a una reazione vicina. Megan passò fra i clienti che affollavano quel posto e poco prima di varcare la soglia d’uscita posò gli occhi sul tavolo che, l’anno precedente, l’aveva ospitata insieme alla Tassorosso Thalia. Le veniva quasi da ridere mentre i ricordi ricostruivano quei momenti, quella sera, il livore provato verso quella ragazza non avrebbe mai cessato di farsi largo dentro di lei.
«Sto bene» parlò finalmente. Era davvero così? Non le importava. Gli eventi che nel tempo l’avevano plasmata, l’avevano altresì condotta verso un solo punto finale, uno scopo. Così, lasciava il presente guidarla dove avrebbe voluto che andasse. Tutti i momenti passati con ogni singola persona davano spazio a inevitabili emozioni che racchiudevano pochi ma definiti attimi. Cosa avrebbe rappresentato per lei quel giorno? E Casey?
«È tutto okay!» si premurò di confermare dopo quei pochi secondi di silenzio. Il suono deciso di quelle ultime tre parole sembrarono stabilire un punto, Poi, però, parlò di nuovo: «Spero che anche Oliver stia bene. Per il resto, non devi ringraziarmi è stato divertente» ghignò in ultima battuta.
I lampioni accesi, nonostante il cielo avesse ancora i colori dell’indaco, facevano strada alle due ragazze lungo Charing Cross Road. Il traffico babbano a quell’ora aveva diminuito il caos cittadino e Londra accoglieva l’inizio della vicina notte: locali e movida estiva.
«Passiamo per di qua, vieni!» la invitò con un cenno della mano. La strada verso l’entrata dell Hyde Park era lunga, circa mezz’ora dal punto in cui si trovavano; tre fermate di metro.
Sorpassata la vicina Leicester Square Station, svoltarono in direzione della lunga Cranbourn Street. La folla di turisti – che campeggiavano di fronte a ristoranti, fast food e lungo la via – li travolse; la stessa Megan fu costretta a spostarsi più volte per non incappare in qualche scontro spiacevole.
«E tu Casey? Come stai?» chiese infine rallentando il passo. Che fosse una domanda fatta date le circostanze, o da un vero e proprio interesse verso la Grifondoro ancora non lo sapeva; le uscì spontanea per interrompere un lungo probabile silenzio. Il lungo tragitto le attendeva senza troppi impedimenti, o almeno così era scontato pensare.
Nei pensieri di Megan albergava il contrasto di emozioni che provavano a far calare la maschera, a mostrare chi fosse realmente, a lasciare andare totalmente le sensazioni provate. La razionalità e l’irrazionalità. Tuttavia, la scelta era unicamente la sua, stabilire un rapporto e classificarlo in un lungo elenco già stabilito. Dove avrebbe collocato Casey? E perché?
C’era qualcosa che il Ballo le aveva portato, oltre al terrore, alla rabbia e al risentimento: Emily Claire Rose, un legame.

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Il Paiolo Magico aveva sempre ricordato a Casey le cucine del Saint Vincent, dove un'affaccendata Suor Agnese, la cuoca dell'istituto, sventrava e disossava polli e cuoceva le sue pietanze insipide. Il caos generato dal barista Tom era più o meno simile a quello della mensa dell'orfanotrofio, anche se fatto di stoviglie svolazzanti e tavoli autopulenti. L'odore di fagioli bruciati era lo stesso, così come il parlottare proveniente dalle camere dei piani superiori era simile agli schiamazzi dei ragazzini in attesa del pranzo e della cena dopo le lezioni.
Odiava tutto ciò. I richiami dell'orfanotrofio non le infondevano alcuna nostalgia, motivo per cui luoghi caotici e con la pretesa di sembrar casalinghi la mettevano parecchio a disagio. Per tutto il tragitto, dall'uscita all'entrata sul mondo babbano, Casey mantenne lo sguardo sui suoi piedi, incurante delle stranezze e dei piatti-dischi volanti che le sfrecciavano a un pelo dalla testa.
Probabilmente il senso di disagio sarebbe stato meno intenso se Megan non avesse scansato in quel modo la sua domanda. Alla constatazione della corva sulla distanza che le separava da Londra le venne voglia di mettersi a correre per scomparire il prima possibile fra i vicoli, blindarsi al Saint Vincent e aspettare il rientro dalle vacanze. Se si fossero riviste al castello, cosa molto probabile, avrebbe fatto finta di nulla, ed era sicura, a tal punto, che Megan avrebbe fatto la stessa cosa.

Per quale motivo Megan avrebbe dovuto chiarirle il suo stato di salute? Per quale invece lei stessa ne era interessata? Continuò a guardarsi i piedi, finché la risposta più scontata e di cortesia non le venne messa in mano a mo di mancia per essersi presa il disturbo di chiedere.
«Mi fa piacere che tu stia bene» disse con tono chiuso, più diretta al pavimento che alla sua interlocutrice. Dov'era adesso tutta quella leggerezza che andava cercando? Invece di scappare a gambe levate continuò a seguirla fino a Charing Cross Road, dove i lampioni babbani sparavano luce artificiale sui loro volti mentre il suo si scuriva pian piano.
Evidentemente quel permesso le era stato negato, ma il suo sviare il discorso le aveva fatto intendere che per Megan non era realmente tutto ok. In effetti lei non risultava altro che una mera conoscenza per la corvonero, un prefetto di un'altra casata con cui qualche volta aveva collaborato, uno sporadico incrocio durante le ronde notturne. Poi c'era stato quel momento in cui, al ballo, avevano parlato e per Casey, forse, era stato più intenso del normale. Lo sapeva benissimo anche lei: quando era in preda alle emozioni ogni cosa si ingigantiva, e il dramma era un copione già bell'e pronto da recitare. Al solito lei vedeva spiragli dove le porte, invece, erano sigillate, al solito sbagliava persona a cui attribuire determinate emozioni. Ma davvero era un'esagerazione? Se era andata fino ad Ars Arcana per aspettarla doveva esserci una motivazione ben più profonda. Voleva essere sincera, lo aveva dichiarato a Megan poco prima, con lei ma soprattutto con se stessa, senza avvalersi di elaborate coperture per non ammettere a parole chiare le proprie intenzioni.
Alzò gli occhi d'asfalto e la guardò di nuovo, chiedendosi dove risiedessero le sue motivazioni e quali fossero quelle intenzioni. Da qualche mese la risposta ad ogni domanda che si poneva e che le veniva posta era un vuoto "non lo so".

"Casey, cosa è successo al Ballo delle Rose e delle Spine?"
"Non lo so."
"Cosa ti ha spinta a non andare a trovare Oliver Brior in infermeria dopo tutto ciò che ha fatto per te?"
"Non lo so"
"Perché pensi e ripensi alla Haven ed eviti di parlare con Millo?"
"Non lo so"


Leggerezza. L'unica cosa che sapeva era che voleva un briciolo di leggerezza, per quanto effimera, e di privarsi di tutta la pesantezza di quelle domande. Chiedere a Megan come stava non era stato il passo migliore per trovarne un po', ma anche solo la sua presenza e il ricordo degli attimi antecedenti l'istante 0, in cui finalmente si era sentita il cuore meno pesante e costretto grazie a lei, le permetteva di dimenticare tutto.
«Come sto?» chiese di rimando a mezza voce mentre l'altra domanda, che già Megan le aveva posto, riverberava nel suo cervello: "Perché sei lì?". Si sforzò di non rispondere alla solita maniera. Batté le palpebre come per rimuovere la patina scura che le era calata sugli occhi e osservò le onde dei capelli corvini danzare sulle spalle di Megan, che le precedeva il passo in direzione di Hyde Park.
Leggera non era solo la sua figura femminile, nonostante la sua aura eterea si fosse macchiata della vista dell'orrore. Rappresentava quello ai suoi occhi, una brezza in grado di carezzare ma anche una folata in grado di trascinare via. Leggera era il modo in cui se la raffigurava e il modo in cui lei sarebbe voluta essere, in ogni cosa. La leggerezza forse era ciò che tanto voleva evocare in quel possibile nuovo rapporto che desiderava avviare per poi assimilarla, ma che tipo di leggerezza?
«Mi sveglio ogni mattina credendo di avere le mani sporche di sangue.»
Voleva essere sincera, lo aveva detto. Si convinse che facendo lei il primo passo forse anche l'altra si sarebbe avvicinata.
«E' stato terribile vedere qualcuno che ti sta così vicino, quasi ogni giorno, spezzarsi in quel modo. Mi ricordo tutto come se fosse ieri e non riesco a dimenticarlo.»
Ricercare leggerezza poteva anche essere sinonimo di ricercare qualcuno con cui parlare e sciogliere il peso che si tiene nel petto.
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Chiuse gli occhi. La brezza estiva le accarezzò la pelle e brividi intensi avvolsero l’esile corpo; Megan invece di sentirne la delicatezza avvertì migliaia di aghi freddi e appuntiti trafiggere l’epidermide, che di fatto rimaneva intatta alla vista. Aveva smesso di respirare per qualche secondo, il petto rispose a quell’impulso agitandosi. Il cuore sembrava non produrre alcun suono ma se si concentrava – nella quiete di quegli attimi – lo sentiva battere lontano, come se il ghiaccio improvviso avesse intaccato il miocardio iniziando a bloccarne le capacità di propulsione. Casey stava portando alla luce la paura, il dolore e i sensi di colpa.
La mano strinse il contenitore e il tappo in plastica si sollevò cadendo a terra. Furono attimi fugaci e chiari segnali. La Grifondoro non poteva immaginare cosa realmente significasse avere le mani sporche di sangue, lo shock provato e l’incapacità di fare un passo verso chi ha bisogno di un aiuto, il tuo. Sì, era stato terribile e ancora le notti insonni la perseguitavano. Chiudere le palpebre e immaginare di svegliarsi la mattina seguente senza che gli incubi facessero la loro entrata, alterando in tal modo il sonno, era diventato impossibile. Passerà, tutto passa. Si era detta più volte mentre il sudore impregnava le morbide coperte di lino, colava lungo la fronte e il cuore scoppiava nella cassa toracica seguendo il tumulto di un respiro in affanno.
Così, Megan tornò a guardare Casey non curandosi del resto. La guardò senza dar peso a quanto in quel momento aveva dato a vedere, conscia di sapersi difendere. «Non credo di riuscire a parlarne» disse. Il tono era apparentemente calmo, non rispettava lo stato d’animo che s’era posato su di lei: un velo scuro che le aveva adombrato il viso pallido e le iridi blu, ora di un grigio morte. Lo sguardo, poi, si abbassò andando a posarsi sulle linee irregolari del terreno. «È stato orribile» aggiunse, la voce nel pronunciare le ultime sillabe si era spezzata. Era una confessione quella? O semplicemente una conferma?
L’immagine che cercava di reprimere con tutte le sue forze tornò a proiettarsi davanti a lei. Era notte e ballava, si sentiva leggera. Ballava e il resto delle figure attorno prendevano sfumature irregolari sotto il chiarore della luna piena. Linee infinite, veloci sotto il vorticare di quella danza. Le mani di Oliver, la presa che aveva su di lei e poi il vuoto. Se avesse dovuto descrivere quegli attimi non sarebbe stata in grado di definirne le particolarità. Ricordava il volto di Oliver, il sangue, quella voce e le urla. Il senso di nausea risalì dallo stomaco, Megan fu costretta bere un altro sorso di caffè caldo per cercare di respingerlo. Le iridi tornarono a guardare avanti a sé, il passo riprese la regolare andatura e un respiro profondo si liberò nell’aria. «È qualcosa che non dimenticheremo, Casey. Non resta che lasciare che passi e lentamente farà meno male. È difficile, lo so, ma prima o poi ci si fa l’abitudine.» Era sfuggita. Se Casey aveva pensato di averla afferrata e stretta a sé, condividendo quel momento, l’aveva persa ancora. La presa non era stata abbastanza salda, le dita avevano perso attrito sulla fune tesa che, lentamente, si allungava di nuovo aumentando le distanze.
Probabilmente la ragazza non si aspettava una simile risposta, eppure Megan non avrebbe potuto dirle qualcosa di diverso. Cosa cercava Casey Bell in lei? Un conforto? O era semplicemente curiosa di sapere cosa avesse provato davanti a quella scena raccapricciante? Oppure le importava davvero sapere come si sentisse? Megan non parlava mai, un enigma difficile da affrontare, comprendere. Eppure, c’era qualcosa che la Grifondoro poteva intuire nei suoi gesti, nelle sue parole cui note a tratti mancavano di potenza e precisione. Doveva scavare più affondo, toccare le corde tese che da tempo vibravano vuote in assenza di suono e nient'altro.

La sera scendeva e le luci dei negozi e dei lampioni illuminavano la lunga strada che le ospitava. Erano a Coventry St. ora, pochi metri, un centinaio o poco più, e avrebbero raggiunto Picadilly Circus poi proseguito dritto, sorpassando i grandi schermi a led e la statua di Eros. Megan camminava ancora qualche passo avanti a Casey, era attenta a sentirne la presenza alla proprie spalle, di tanto in tanto abbassava lo sguardo per coglierne il passo incerto. Bevve un altro sorso di caffè, il liquido nero era tiepido adesso.



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Fra le emozioni e i contrasti, le paure e i pensieri, le parole erano scivolate via dando senso solo a quanto detto e non a quanto in realtà era. La confusione l'aveva spinta a rispondere in una certa maniera, a tirare in ballo ricordi poco piacevoli pur di parlare, quando le sue intenzioni erano altre. Megan si era voltata verso di lei - il coperchio del caffè era caduto, la rigidità del corpo parlava al suo posto - e le aveva risposto con un velo oscuro sugli occhi, rendendo chiaro che la discussione stava volgendo verso una piega indesiderata, che Casey non aveva nemmeno preso in considerazione.
La Grifondoro si soffermò sui suoi occhi blu, e le parve che all'improvviso l'oceano si fosse solidificato in una lastra di ghiaccio aguzza. Si sentì cedere sulle ginocchia e il fiato le si congelò in gola nonostante il caldo asfissiante dell'estate. Aveva sbagliato tutto, cominciato col piede sbagliato e scivolato in uno strapiombo.
Ingenua, idiota, incapace. Ciò che le era uscito dalla bocca erano solo stralci di pensieri, guazzabugli di parole dal significato apparente, schermi della paura di risultare sconclusionata, incurante e, probabilmente, tanto ordinaria e insulsa da scivolare via, sotto lo sguardo dell'altra. Voleva leggerezza ma aveva rimarcato dolori, voleva avvicinarsi ma adesso voleva solo allontanarsi per non sbagliare ancora.
«Mi dispiace.»
Una volta aperta bocca, la sua voce sfumò nel silenzio. Continuò a guardarla negli occhi, lasciando scivolare l'umore e le palpebre assieme a sé nel baratro. Un gemito le si spezzò in gola al pensiero di aver forzato la mano con Megan. Ci riusciva sempre, con tutti, e rovinava sempre tutto. Distruggeva i rapporti, allontanava le persone, perdeva le staffe. Ma non fu in grado di arrabbiarsi in quel momento: provò tristezza e frustrazione per aver fatto provare quelle stesse emozioni a lei.
Quel che Casey aveva detto era che ogni notte, in sogno, percepiva le sue mani sporche di sangue. Quel che Megan non sapeva e che non avrebbe mai potuto sapere era che il sangue che Casey vedeva apparteneva a lei stessa, e che forse proprio in quel sangue risiedeva l'ermetica risposta ad ogni domanda cui aveva sempre risposto "non lo so".

"Casey, perché non sei andata a visitare Brior in infermeria?"
"Perché ho paura che ciò che gli è accaduto possa accadere anche a me."


Il sangue le sgorgava dagli occhi. I capillari si erano rotti e lei urlava di dolore, pronunciava parole senza senso. Non era mai riuscita a darne uno a ciò che era accaduto, e questo si rifletteva nei suoi sogni, nelle sue paure. C'erano stati dei sussurri lungo il corridoio dell'Hogwarts Express alcuni giorni dopo il Ballo delle Rose e delle Spine, e l'illogicità dei fatti cresceva, cresceva quanto la sua paura. La notte si svegliava spaventata, percependo un cappio attorno alla gola. Si tastava gli occhi ma nemmeno una goccia di sangue; sotto le dita, sul materasso, sentiva i cocci dei cristalli taglienti dei bicchieri esplosi, imporporati e resi viscosi dal sangue, ma non vi era niente.
Aveva paura, e basta, dell'ignoto.

«Non volevo riportarti a quel giorno.»
Non fu in grado di staccare le pupille dalle sue. La guardava e si sentiva morire dentro. Era chiaro che affondare il coltello nella piaga chiarendole le sue paure sarebbe solo stato peggio. Ma anche se voleva fuggire, lasciando che una grande porzione di spazio governata dalla vergogna le separasse, i suoi piedi erano ancorati al terreno. La statua di Eros la derideva, dall'alto, puntandole l'arco privo di freccia con fare ironico proprio dritto al cuore. Odiava quei putti col sedere al vento.
«Sono venuta da te perché...» Megan si era di nuovo voltata per riprendere a camminare, scivolando via dall'ombra del dio greco. Casey, ormai decisa, alzò il tono della voce, sovrastando il brusio proveniente dai bistrot di Piccadilly Circus. «Perché voglio che tu sappia che se tu volessi mai parlarmi, di questo, di qualsiasi cosa, io vorrei provare a capirti.»
Adesso aveva chiuso gli occhi. Strizzava le palpebre, deglutiva, stringeva le braccia al tronco, sentiva l'oro dell'Anello bruciarle l'attaccatura del dito alla mano. Quello era un grosso errore, lo sapeva dal più profondo del suo cuore infilzato da angioletti e lastre di ghiaccio.
Sorrise, anzi, trattenne un riso. Adesso era imbarazzata, e si sentiva ancora più stupida. Ormai era andata, ma forse non era troppo tardi per cambiare finalmente argomento. Appena Megan si sarebbe voltata, avrebbe alzato i palmi al cielo - il sacchettino dei muffin penzolante da uno di essi continuava a scricchiolare e a gocciolare caffè. «Così come vorrei finalmente capire come funziona lo specchietto degli orari delle ronde e delle gite ad Hogwarts. Non credi anche tu che è un vero casino?»
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Il respiro aveva iniziato a riprendere il proprio meccanismo regolare. Lo sguardo si perse tra la folla e Megan, nel bel mezzo del caos, si sentì protetta. Lì, in quel preciso istante, rappresentava un individuo in mezzo a tanti altri individui e nessuno faceva caso a lei, nessuno sapeva chi realmente fosse, quale carica rappresentasse e, soprattutto, cosa avesse affrontato nella propria vita. Questo era ciò che amava di più quando tornava a Londra, la libertà di non doversi preoccupare di niente e nessuno; rinchiudersi nel proprio mondo, invalicabile.
Casey Bell si trovava alle sue spalle, la seguiva, camminava con lei e doveva ammettere – per quanto volesse con tutta se stessa reprimere quel senso di quiete provata – che si sentiva piacevolmente confortata dalla sua presenza. Si morse le labbra mentre un leggero senso di colpa si riversò nello stomaco. Il modo in cui la ragazza l’aveva guardata poco prima, lasciando intravedere il dispiacere provato, gli occhi verdi mutati in uno sguardo assente, colpevole, l’aveva spiazzata. Sì, Megan aveva visto come aveva sostenuto il suo sguardo; come aveva battuto una mano invisibile sul proprio petto addossandosi delle colpe per aver chiesto, per aver parlato troppo. Una parte di lei avrebbe voluto fare un passo indietro, l’altra aveva agito diversamente. Quel che non sapeva Casey, però, e che in Megan aveva lasciato accendere una leggera fiammella. Il freddo che aveva sentito poc’anzi s’era affievolito; lo sguardo che dapprima era parso scostante, colmo di dolore ed ira, ora – nascosto agli occhi della Grifondoro – era triste. Così, seppur l’aver sentito quelle sensazioni aveva lasciato in lei un senso di leggerezza, aveva deciso comunque di voltarsi e allungare il passo. Nel silenzio, nel punto esatto del suo “io” più profondo, aveva compreso che non avrebbe voluto che la ragazza andasse via, doveva solo portarlo alla luce.
«Sono venuta da te perché… Perché voglio che tu sappia che se tu volessi mai parlarmi, di questo, di qualsiasi cosa, io vorrei provare a capirti.»
Al suono di quelle parole si unirono gli sguardi delle persone che, attorno a lei, si erano fermate ad osservare le due giovani, anche se solamente per una manciata di secondi. Il tono di Casey si era elevato sopra al trambusto generale, coprendo le chiacchiere della gente che era di passaggio o sostava a pochi metri di distanza. Megan si bloccò, il cuore iniziò a battere. Respirò profondamente. La consapevolezza di aver trovato qualcun altro disposto a non andare via causò in lei un fremito che le attraversò il corpo dalla testa ai piedi. La sensazione di una piacevole carezza, di un tocco leggero, e una mano tesa ad afferrarla. Allo stesso modo Megan sentì la responsabilità di un nuovo rapporto, la difficoltà che avrebbe potuto riscontrarvi e il dolore. Tuttavia, nel silenzio di quell’attimo, si ritrovò a non dare ascolto alle proprie fragilità bensì chiuse gli occhi prima di voltarsi e si beò della leggerezza che l’aveva avvolta. Effimera ma intensa. Decise di tenersi stretta a quella presa, di non chiedere alcuna motivazione. Lasciarsi semplicemente andare senza capire realmente quale fosse la causa, la propria.
Quando incontrò finalmente gli occhi di Casey, Megan fu colta da un imbarazzo fugace. Sorrise e socchiuse appena le palpebre in un grazie silenzioso ma chiaro. Le labbra curve all’insù scoppiarono in una risata sincera, mostrando la luminosità del suo sorriso. Vederla lì con un sacchetto dondolante fra le mani in un’espressione che a lei parve colma di imbarazzo la tranquillizzò.
«Così come vorrei finalmente capire come funziona lo specchietto degli orari delle ronde e delle gite ad Hogwarts. Non credi anche tu che è un vero casino?» Le aveva chiesto; in quelle parole la Corvonero percepì un velo di ironia.
C’era riuscita Casey, era riuscita a mettere una pietra sopra ad un argomento che apriva una ferita ancora troppo fresca. L’aveva toccata piano, sfiorata con delicatezza. Forse aveva capito che se doveva arrivare a comprendere cosa realmente Megan nascondesse dentro di lei – dolore, rabbia, risentimento –, solo il tempo e la vicinanza l’avrebbero aiutata.
Così, nella confusione di uno sfondo ora sfuocato, che parve non esistere in quegli istanti decisivi, Megan avanzò verso di lei. Un ultimo sorso di caffè e gettò il cartone in uno dei cestini poco distanti, allungando semplicemente il braccio. «Cosa hai lì?» le chiese curiosa mentre con il suo permesso afferrava il sacchetto tra le dita scoprendone il contento. La guardò in tralice scuotendo il capo «Hai pensato proprio a tutto, non è così?», afferrò un muffin avvolto in uno dei fazzoletti e ne assaggiò un pezzo con golosità. «Santo cielo, sì. Penso che i turni siano un vero casino e che questi muffin sono buonissimi!» affermò poco dopo. Non aveva avuto nemmeno il tempo di inghiottire il cibo tanto che nella spontaneità dell’azione quasi se ne vergognò. Posò il dorso della mano sulle labbra e scosse la testa «Perdonami», rise.
Quello pareva essere un vero e proprio inizio. Megan le stava dando una possibilità.

Lasciando Picadilly Circus alle proprie spalle entrambe avrebbero proseguito condividendo ciò che rimaneva del loro tempo insieme, prima di vedere la notte posare il proprio velo sulla città, fino al giorno in cui il treno le avrebbe fatte rincontrare.
Come?



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