Passing ships, Universi Alternativi: [Narratore e Personaggio]

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view post Posted on 30/10/2019, 23:39
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Sometimes I can feel my bones straining under the weight of all the lives I'm not living.

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guida alla lettura
Il post è diviso in due parti per differenziare i due punti di vista. Arrivati alla fine della prima parte, cliccare sulla scritta "Binario 9¾" per passare alla seconda parte. Per tornare alla prima basta cliccare sulla scritta "Binario 9".
Senza volerlo sono arrivata a toccare argomenti sensibili che seppur trattati con quanta più delicatezza mi è stata possibile potrebbero comunque urtare qualche lettore.

I
l grigio che aveva tinto il cielo londinese per tutta la durata della sua permanenza in città le si era attaccato addosso come una seconda pelle lasciandole un senso di insoddisfazione che s'agitava senza quiete all'altezza del diaframma.
La stessa irrequietezza le inframmezzava il respiro, stretto e sibilante tra le labbra socchiuse, in antitesi all'indolenza che le aveva contagiato i muscoli.
Sedeva abbandonata allo schienale della panchina, completamente immobile non fosse stato per gli occhi che pigri s'agganciavano per il tempo di un istante appena ora ad un treno di passaggio ora al via vai di persone.
Passava così tanto tempo proprio sulle rotaie, nel limbo tra casa e facoltà, che sarebbe stato naturale pensare che avesse sviluppato —se non un certo affetto— quantomeno una pacifica cordialità nei confronti delle stazioni ferroviarie, trovando una qualche forma di conforto nel modo in cui finivano con l'assomigliarsi l'una con l'altra.
In un certo senso era davvero così.
Le pareva una metafora calzante, una versione tutta particolare di "aspettando Godot": l'assurdità dell'esistenza stessa condensata nella frustrante pulsione al movimento, nell'esigenza di procedere —di arrivare— che si infrangeva inevitabilmente dinanzi alla consapevolezza di non differire da quei criceti che corrono in una ruota per altrui divertimento.
Il modo migliore di impedire ad un prigioniero di scappare, aveva letto una volta, era assicurarsi che non scoprisse di essere in gabbia.
Seguì quel pensiero fino a lasciarsi sedurre dall'idea del totale annichilimento, del completo addormentamento della coscienza al solo scopo di silenziare la richiesta d'aiuto di quella parte di lei che aveva intravisto le sbarre alle finestre e che da allora non si era più data pace, i primi filamenti di pazzia che cominciavano ad intaccare anche il resto della sua essenza.
Senza che neanche se ne rendesse conto, lo sguardo si posò sulla linea di sicurezza e poi sui binari, saggiando un’idea affascinante e terribile al tempo stesso. Nacque vago e crebbe in un’urgenza morbosa contrastata solo dall’inerzia che la teneva legata alla panchina.
Si lasciò cullare dall’idea che, se solo avesse voluto —in qualsiasi momento—, avrebbe potuto alzarsi e camminare fino alla banchina, e poi ancora oltre fino a superare il punto di non ritorno.
Un pensiero, quello, che aveva fatto capolino nella sua testa molte volte nell’ultima decina di giorni. Mossa da abitudine, la ragazza scacciò l’immagine come si farebbe con una mosca fastidiosa, consapevole dell’inutilità di quel tentativo. Presto o tardi sarebbe tornato ad infestare la sua mente, tanto valeva affrontare la realtà.
M. si era buttata.
Si era buttata un lunedì anonimo più di una settimana prima, lasciandosi dietro solo domande ed interrogativi, una vita intera ancora da vivere.
Alla notizia non aveva neanche pianto; non era manco sicura di aver provato qualcosa, qualunque cosa. Era rimasta in silenzio per una manciata di minuti cercando di razionalizzarne le implicazioni, chiedendosi cosa avrebbe dovuto sentire. Quale diritto aveva di starci male, in fondo? Dopo anni che non si vedevano, l’aveva incrociata proprio il weekend precedente alla stazione, appena il tempo di un largo sorriso di riconoscimento prima che la fiumana di pendolari le separasse.
Perché allora continuava a rivivere quello scenario? Perché allora ne modificava i dettagli, eliminava la folla e accorciava le distanze? Perché le proponeva di prendere un caffé per aggiornarsi a vicenda sulle ultime novità? Perché le chiedeva dell’università, del ragazzo, della pallavolo e della sorella?
Perché sentiva avvampare adesso una rabbia nuova, fomentata dalla certezza che appena due anni addietro sarebbe potuto capitare a lei?
Espirò bruscamente, di nuovo presente a sé stessa, e si allungò per tirare fuori il blocco appunti dalla valigia.
Era tempo di processare il tutto nell’unico modo che conosceva. Scrivendo.
A
veva salutato Sam nel parcheggio della stazione di King’s Cross più di venti minuti addietro e da allora aveva bighellonato qui e là in attesa della partenza dell’espresso verso Hogwarts.
Alla fine, dopo essere entrata in tutti i bar e in tutti i negozietti che aveva trovato, non le era rimasto che aspettare le 11 alla piattaforma sulla quale si sarebbe attivato il passaggio per il binario nove e tre quarti.
Lou si era finalmente tranquillizzato e dormiva beatamente nel trasportino. Era stato intrattabile per tutto il tempo finché non aveva ottenuto le attenzioni degli altri passeggeri, inclusa la ragazza seduta poco distante da Niah che gli aveva regalato anche una carezza ruvida sotto al mento.
La Alistine aveva continuato ad osservarla di sottecchi anche quando l'altra era ormai tornata a sedere con gli auricolari di nuovo infilati nelle orecchie. Era piuttosto anonima, si disse, col viso nascosto dalla folta chioma riccia e dagli occhiali dalla montatura sottile che ogni tanto sistemava sul naso —e forse era proprio questo ad attirarla.
Quello oppure la curiosa fissità che l'aveva colta, lo sguardo assente che la contraddistingueva; qualcosa, dovette ammettere, che giudicò fastidiosamente familiare. Appariva così anche lei? Intrappolata nella sua stessa testa? Prigioniera delle sue stesse ossa, vittima dei suoi stessi pensieri.
Provò pena per quella ragazza che neanche conosceva e quell'impulso empatico le fece vibrare il cuore risalendo lungo la spina dorsale e acciambellandosi dietro la nuca. La testa prese a formicolare.
L'osservò aprire il quaderno ed iniziare a scrivere. Sarebbe stata curiosa di leggere non fosse stato per quel formicolio che la distraeva. I sensi di banshee fremevano con dolcezza, ancora mezzo assopiti, e la compassione che le aveva riempito il petto si mescolò ad una nuova sensazione; come di una crosta che va grattata, come il pungolo o l'insoddisfazione di quando c'è qualcosa che non si trova al posto giusto.
Non avrebbe pianto per una sconosciuta, fu il duro ammonimento mentale quando sentì gli occhi pizzicarle. Ma forse, concesse, avrebbe potuto piangere per sé stessa.
In fondo, la pena che provava per l'altra non era che il riflesso della pena che provava per sé.
Ricacciò le lacrime in gola e tentò di cancellare dalla mente il viso di ragazza che era apparso dal nulla; ci riuscì a fatica, non prima di aver notato le iridi screziate di verde, il sorriso solare e quella buffa lentiggine proprio sulla punta del naso. Era in lutto e non avrebbe neanche saputo dire per chi.
Tirò sul col naso, distratta dal movimento delle pagine del quadernetto sul quale stava scribacchiando la ragazza accanto a lei. Due parole catturarono la sua attenzione, “Cadair Idris”.
Come la meta che avrebbero raggiunto quell’autunno lei e una manciata di altri tassorosso sulle tracce del passato di Tosca. Erano ormai mesi che veniva organizzata quell’uscita.
Dimentica delle buone maniere, Niahndra allungò il collo per cogliere altri stralci in quella scrittura tonda e disordinata. “La testa si piegò di scatto all'indietro, la bocca spalancata, e Niah cercò di urlare senza riuscirci: aveva la laringe congelata. Soffocava chiusa nel legno.”
La strega si ritrasse di scatto come bruciata e il movimento calamitò lo sguardo dell’altra su di lei.
Si osservarono per un tempo che le parve infinito: confusa una, mortificata l’altra.
La Alistine stava ancora cercando di mettere insieme i pezzi quando sentì l’altra mormorare un «mi dispiace» a fior di bocca prima di sparire sul treno appena giunto in stazione, il bagaglio al seguito. Non distolse gli occhi neanche quando le porte si chiusero dietro di lei.
Le dispiaceva per cosa, avrebbe voluto gridarle dalla banchina se la bocca non le si fosse seccata.
Per il dolore, l’accanimento? Per averla usata come pallina anti-stress, aver giocato con la sua esistenza al solo scopo di alleviare il fardello della propria?
Allora si ricordò dello specchio. Ripensò alla pena provata e si rese conto che quell’esistenza non le apparteneva, non del tutto. Era un riflesso, mera propaggine di un corpo ben più esteso.
Qualunque cosa le fosse successa, nel bene o nel male, se l’era creata. O l’altra l’aveva creata per lei. Che differenza faceva a quel punto? Era impossibile mantenere una distinzione netta.
Le lacrime che aveva trattenuto iniziarono a scendere.
Non avrebbe pianto per una sconosciuta, ma avrebbe potuto piangere per sé.


ships passing in the night
commonly said about two people who meet for a short time,
share a few words, only to separate and continue on their way,
never to see each other again.
 
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