Mai come in quella circostanza sentì di attingere a tutto il coraggio del proprio cuore, nel crescendo di un timore giustificato per davvero. Il petto gli doleva allo sforzo dei battiti estremi e al respiro trattenuto, l'adrenalina scorreva sottopelle mista ad una sensazione di pura, incredibile euforia. Forse, si diceva, quello era l'ultimo pregio di chi aveva osato, e per un attimo l'idea della fine gli sembrò tingersi di una nota dolcissima. Se quello fosse stato il suo modo di congedarsi, non sarebbe stato poi chissà quale oltraggio – un sacrificio, una promessa mantenuta, una conclusione che potesse dirsi tale. Quello che più gli premeva, d'altronde, si esprimeva nell'aspetto salvifico che aveva coinvolto il nutrito gruppetto di Elfi Domestici. Posti che fossero stati al sicuro, null'altro avrebbe avuto valore – un compito che si evinceva come partenza e come traguardo, un dovere etico nonché personale: il C.r.e.p.a. giungeva a compimento, adempiendo a sua volta alla parola che già anni addietro aveva pronunciato. Mentre l'ultimo vessillo runico si adagiava fiammeggiante sulla superficie del container, Oliver volgeva i pensieri al passato, come spesso gli accadeva – paradossalmente – nei momenti in cui il futuro appariva in bilico. Pensieri di un incontro esordiente, di appena pochi studenti; pensieri di archivi offuscati di polvere, le pagine dalle pieghe continue, così dimenticate nel corso del tempo; pensieri di una battaglia versatile, sotto più aspetti, la stessa che aveva condotto l'uno e l'altro proprio lì, al porto londinese. Forse, si ripeté, il prezzo di una vita ne realizzava il compromesso per tante altre – il volto di Prim, l'ultima tra le creature magiche che aveva conosciuto, si svelò nitidamente nei ricordi appena formatisi. Anche a lei, a proprio modo, aveva fatto una promessa. Anche
da lei aveva preteso fiducia, guidandola all'esterno del container come ambasciatrice di sventura. Perché, impossibile negarlo, una parte di lui verteva al pessimismo, all'idea di non uscirne indenne a sua volta: il fervore della realtà circostante, purtroppo, scalfiva ogni speranza. Cercò di dare il massimo, appellandosi al senso di una vita intera. Nella solitudine che aveva ottenuto, per scelta fondamentale, il container gli si ritorse contro nell'immaginario di una bocca famelica. Una voragine, un pozzo senza fondo: gli si formò un nodo in gola, mentre sospirava freneticamente alla memoria di un simile malessere. Sotto di sé, il pavimento tremava come all'inizio di un torpore che andava smantellandosi, ora che i suoi prigionieri non v'erano più. Ne era così convinto, in effetti, da accorgersi soltanto in ritardo di come di per sé si trattasse appena di un'illusione, di un brutto scherzo dei suoi stessi sensi in allerta. A tremare, infatti, non era il cubicolo. A tremare era proprio lui.
Uno sguardo indietro, un brivido serpeggiante lungo la schiena – sapeva che non vi fossero altri Elfi Domestici, le catene spezzate di netto dalle loro caviglie giacevano tra tavoli, sedie e lampade sullo sfondo come dettagli di un quadro destinato all'orribile testimonianza della storia. Eppure temeva che l'impazienza di mettersi in salvo e di concludere quella vicenda potesse compromettere l'importante lucidità che gli restava. Assicurarsi che non stesse commettendo un grave, irreversibile errore, allora, segnò la decisione vera e propria. L'attimo seguente, di nuovo trattenendo il respiro, si gettò oltre il varco velato di trasfigurazione. Nello slancio desiderò essere assolutamente risoluto, invano tuttavia poté ignorare il tumulto che governava il suo animo. La certezza di voler vivere, la certezza di voler
esserci, tutto cambiò in uno scacco contro il tempo.
Jolene. Un nome, un grido. Già sfiorandola sentì il sollievo districare ogni presa d'assedio: quando Ansuz, il Comando, lasciò impavidamente la sua bocca, lui non era più da solo. Il respiro bruciò ogni resistenza, condensandosi nelle ombre di una Materializzazione Congiunta oramai in atto. Al suo contatto, tornava a vivere.
***
Comparve più lontano, il petto bruciante di uno sforzo al quale continuava ad essere sottoposto. Non avrebbe resistito un istante di più, ne era sempre più razionalmente convinto: non aveva temuto neanche una volta che Jolene potesse giungere in ritardo nel compromesso che si era instaurato, era stata la totale fiducia nei suoi riguardi a guidare ogni sua ultima decisione. Quello che aveva scalfito i suoi pensieri, invece, si esauriva nella preoccupazione di non fare in tempo – lui, prima che chiunque altri. Nella fuga improvvisa dal container, paventava il rischio di restarne vittima: e il fuoco, indomabile com'era, non avrebbe perdonato. Scoprì tuttavia il petto sollevarsi come in preda ad uno spasmo, e nella vertigine che colse i suoi stessi movimenti – un passo avanti, soltanto uno – l'istinto gli diede conferma di essere in salvo. Di scatto, allora, portò il volto in alto: verso il container, verso quello che immaginava sfumare in prigione di ferro e di fiamme. Nel mancato, funesto epilogo che aveva considerato, sentì le restanti forze mancargli rapidamente – le gambe cedevano, le mani tremavano, perfino l'Abete acquietava l'antica magia alla quale aveva appena saputo attingere. Non funziona, si diceva.
Non funziona. L'impulso di tornare lì, di girare su di sé per materializzarsi ancora fino al container, sferzò terribilmente ogni battito incessante del proprio cuore: la mancata promessa, tanto per loro quanto per l'orologiaio, tutto gli apparve come una forma di rimorso. Non funziona, ripeteva. Inerme, questione di attimi, già volgeva di nuovo verso Jolene, lo sguardo astratto di chi sentiva di essere in imbarazzo, di chi percepiva la colpa fare breccia fin nel profondo. Uno scoppio, un secondo, la porta divelta, il
grido funesto delle fiamme. Non si girò, non subito – assaporava in quel modo la memoria di un'esperienza simile, i suoni di una tragedia che circoscriveva quegli stessi confini, e quelli di una vicenda poco lontana nel tempo. Era lì, l'incendio era lì. Ora sì,
ora funziona – lasciò che la visuale si accendesse delle scintille, delle tempere vermiglie, delle ceneri e degli sbuffi di fumo:
lentamente, ruotando ancora sul posto, come a gustare il momento. Quando il container si rese triste nella sua desolazione, e quando il cielo gli parve tingersi di sangue alle danze tribali del fuoco, tutto acquisì ineguagliabile incanto. Allora, com'era stato per la Veela, pensò di nuovo che nulla al mondo potesse mai reggere simile visibilio: la tragedia, d'altronde, custodiva bellezza.
Nel fugace cenno d'abbraccio di Jolene, nelle sue parole a rendere tangibile ogni presente, anche lui tornava alla realtà, il sospiro infine a sciogliere il sigillo di labbra velate di malizia. Perché lo sentiva,
lo sentiva: provava l'estasi di chi aveva compiuto giustizia da sé, con le proprie mani e i propri strumenti. Completava in quel modo la promessa che aveva fatto anche a lui, e per un attimo, soltanto un attimo, tutto gli sembrò attingere ad un equilibrio maggiore. Nel contatto delle mani di Jolene, nella sua vicinanza, riscoprì il desiderio di voler esserci, di voler vivere per davvero. Un cenno del capo come lieve conferma, un sorrisetto che non poté celare.
«Fuoco chiama fuoco.» È una lunga storia, si sentì aggiungere un attimo dopo. Una storia che non avrebbe fatto a meno di raccontarle fin nei dettagli: la scoperta dell'interno del container, le condizioni degli Elfi Domestici nei quali si era imbattuto, il tentativo collegato alle Rune, il modo in cui le stesse potenziali armi della Veela si erano ritorte contro le sue creazioni, e le sue macchinazioni macchiate di perfidia. Era qualcosa che avrebbe condiviso, più con i suoi attivisti che con il Ministero della Magia. Sollevando il piede scalzo, e riprendendo a camminare verso il gruppetto che aveva intravisto, concluse con tono sufficientemente ironico per sdrammatizzare la tensione che ancora provava così intensamente.
«Ho perso una scarpa, un piccolo prezzo da pagare.»Non si scoprì sorpreso di scorgere gli altri rappresentanti del C.r.e.p.a., ne risultò invece finalmente sollevato: com'erano partiti insieme tutti loro, infine si ritrovavano. Avrebbe giurato che anche le loro avventure non fossero state pacifiche, aveva imparato sulla propria pelle che partire in missione per il Comitato equivalesse quasi sempre a scontrarsi in uno e più pericoli. Ma erano lì, erano tutti lì – cercò di stringere l'avambraccio di
Juliet in una carezza leggera, a riprova di essere di nuovo insieme, e di essere finalmente al sicuro; rivolse poi un sorriso carico di gentilezza nei riguardi di
Mìreen, le sue parole lasciarono il segno in un moto d'affetto che sentiva già di ricambiare. Si scoprì così felice e ancor più grato di essere con tutti loro e di aver portato a termine un traguardo tanto importante. Mìreen aveva ragione: situazioni come quelle dovevano essere all'ordine del Ministero della Magia, la prigionia degli Elfi Domestici non era una condizione fortuita, non era un'unica circostanza come quella. Avrebbe potuto elencare una lista tristemente lunga di simili vicende, e in effetti tutto sarebbe cambiato se solo avessero avuto un punto di riferimento alla sede della giustizia magica: un progetto, quello, che avrebbe impiegato Oliver giorno e notte, al pari dello stesso C.r.e.p.a. e dei suoi attivisti, fino alla riuscita. Quella missione, allora, gli apparve come una partenza: una prova, una testimonianza, una certezza di non poter più stare fermi. Nei mesi seguenti, tutto sarebbe cambiato. Il nome di Stig sarebbe stato per lui come una destinazione, e
mai si sarebbe fermato. Avevano ottenuto una vittoria dolceamara, ne era consapevole: la Veela risultava tuttora dispersa, vi erano altri Elfi Domestici ancora in difficoltà, la stessa promessa che avevano compiuto verso Larsen restava in parte aperta. Non era finita, lo sapeva:
non era finita. Soltanto quando gli altri conclusero i loro interventi, Oliver cercò di prendere a sua volta parola: un passo lento, il corpo affaticato dai continui spostamenti che aveva compiuto fino ad allora, l'andamento claudicante per l'assenza di una scarpa, e forse un aspetto che di per sé non desiderò vedere nell'immediato. Volgeva verso il Ministeriale e sua moglie, la mano destra – la bacchetta magica ancora stretta come al timore di nuovi pericoli – già sul petto. La voce guidò gentilezza nel modo migliore che poté riscontrare. Il suo volto, di nuovo, esprimeva l'infinita gratitudine nei loro riguardi.
«Proprio così, la cartellina ci è stata assegnata da Larsen e quando siamo arrivati mi è scivolata dalle mani, siamo stati attaccati dal Goblin.» Una nota sprezzante, non cercò tuttavia l'infido Trott – aveva visto che fosse ancora vivo, e che fosse lì con loro: se da un lato ne era stato sollevato, dall'altro continuò a sentire l'impulso di stringerlo di nuovo nelle più impossibili catene magiche. Ad ogni modo non era più compito loro, e riprese con più empatia.
«Non ci sono parole per ringraziarvi.» Sorrise alla coppia.
«Questa situazione è paradossale, il Comitato del C.r.e.p.a. non si fermerà, disponete della nostra assoluta collaborazione. La nostra sede attuale è ad Hogwarts, ma abbiamo progetti per estendere le nostre sedi e in tal senso, Mr Habbott.» Un guizzo di pura aspettativa.
«Ben presto potremo essere ancor più d'aiuto per offrire la migliore sistemazione per gli Elfi Domestici, fino ad allora resteremo in contatto e la ringrazio con tutto il cuore.» Si abbassò leggermente, le mani infine scivolarono a loro volta. Cercava le Creature che erano lì con loro, soppesando in quel modo il volto dapprima di Prim e di Grimsti – il loro ritrovo fraterno come un toccasana per lui – e subito dopo quello di Jinky.
«Ringrazio anche voi, perché avete coraggio e perché.» Cosa, si disse. Cosa poteva aggiungere. La voce andò allora affievolendosi, e il nodo alla gola spinse Oliver a non continuare: la mano destra, ora che l'Abete era tornato nella manica della camicia, si dischiuse come corolla di un fiore ad accogliere una promessa, un contatto, una stretta. Quando risultò il momento di andare via, la sua mano si strinse a quella di Jinky – la mano di un ragazzo, la mano di un Elfo Domestico, com'era stato in principio di quella vicenda e com'era alla sua conclusione. Sollevò gli occhi verso Mr Habbott.
«Larsen, l'orologiaio.» Un peso impossibile, un vivido rimorso.
«Attende nostre notizie, Mr Habbott. Io... non sono ferito. Se per Jinky va bene, posso tornare da lui e parlargli, e promettergli che non ci fermeremo fin quando il suo Stig non sarà di nuovo con lui. E poi tornerò da voi, al San Mungo.» Verso gli altri, fino alla concasata.
«E magari torneremo ad Hogwarts prima di sera.» Un occhiolino, un cenno di genuina speranza. Nell'imperterrita malinconia in cui versava, sentiva che non tutto fosse andato perduto, e che non tutto fosse stato infine vano – quel giorno erano riusciti dove nessun altro aveva potuto fino ad allora, e già soltanto essere vivi, già soltanto
avere un piano svegliava il suo cuore da ogni torpore. Era pronto, si disse: un cenno d'assenso verso Jinky, un altro verso gli amici. Che fosse stato al San Mungo, a Londra, ad Hogwarts, dall'orologiaio oppure già altrove, era davvero pronto. Lo era allora, e lo sarebbe stato sempre. Una promessa che aveva fatto anche per sé. La voce di Prim tornò fin nel cuore, e l'accolse come il senso di tutte le cose.
D'altronde, aveva ragione: lui era Oliver,
amico-degli-Elfi.