In the memory of living
is placed the life of the Dead.
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La superficie del Lago era stata abbagliata dai riflessi dorati di una nuova alba. Tacite, le acque danzavano alla lieve brezza di quella primavera ormai sbocciata e nel loro placido cantare, gli uccelli intonavano il proprio risveglio.
I dardi di luce non riuscivano a penetrare gli abissi e per quanto ci provasse, il Sole, furente, nulla poteva se non incidere sulle sue sfumature, percettibili soltanto a chi, privilegiato dal poterne godere la vista, si era ormai abituato al mutare dei suoi colori.
Emily non trovava più alcuna sorpresa nell'osservare la profondità del Lago Nero al suo ridestarsi e con gli occhi cinerei ad indagarne, distratti, i contorni oltre le ampie finestre umide, aveva ormai imparato a tradurne l’aspetto: l’ennesima giornata di sole l’avrebbe accompagnata nella monotonia delle sue interminabili ore, nel ritmo ormai costante e mai mutevole di ciò che quel giorno aveva in serbo per lei.
Si vestì, gli occhi spenti e assonnati che a tentoni cercavano la divisa e la scartavano in cerca di un maglioncino senape; raccolse i capelli in una coda anonima e si diresse verso le fiamme al centro della sala comune per riscaldarsi le mani, tinte dal freddo e dall'umidità che, prepotente, regnava da sempre nella sua sala comune.
Arrivò a tardi a colazione, passando tra il fiume di studenti e le loro voci concitate, ignorandoli, persa tra pensieri assenti, assorta nel turbinio dell’apatia che l’aveva incontrata al risveglio.
Il tavolo l’accolse insieme agli ultimi ritardatari e lei rispose con un sorriso tirato ai primi saluti, scavalcando la panca e mostrandosi per nulla incline a consumare il primo pasto di quella giornata, per nulla diversa dalle altre ma che, in qualche modo, la vedeva più disattenta, sbadata.
Distante.Non ebbe neppure modo o ragione di organizzarsi il fine settimana. La meticolosità con cui, da sempre, si era dedicata allo studio l’aveva abbandonata da un pezzo. Si trovava, spesso e volentieri, a fare il minimo indispensabile svuotando così, se possibile, ancor di più quei giorni che tentava in tutti i modi di riempire tra distrazioni e libri letti fin troppe volte.
Raggiunse nuovamente la sala comune, puntando al baldacchino rifatto, come speranzosa di poter discoprire lì, tra il freddo delle lenzuola tirate e il baule in confusione, la capacità di rendersi produttiva e trovarsi da fare da lì alle prossime dieci ore.
Si sedette sul letto, con un tonfo leggero, e avvertì un lento movimento alla sua sinistra. Prima ancora che gli occhi potessero metterne a fuoco i contorni, una busta da lettere le sfiorò il dorso della mano, scivolando dal cuscino dove era stata poggiata con cura.
La prese, voltandola da un lato, per identificarne il mittente. Che fosse la risposta di Cassia al suo regalo? Si disse di non esser pronta, in quel caso, a registrarne il contenuto trascritto come imprecazioni e future, futili minacce. Tuttavia non vi trovò nulla e tornò a fissarne il davanti, i polpastrelli a sfiorare il marchio di ceralacca minuziosamente ricamato dal calore.
Il sigillo ufficiale del San Mungo la colse di sorpresa e rimase interdetta nel fissarlo per qualche secondo, incapace di immaginarne il contenuto.
Era passato fin troppo tempo da quando aveva chiuso dietro di sé la porta della stanza dell’Ospedale, stringendosi nel dolore della sua perdita. Hisa le mancava ancora, ancora troppo per far sì che lo scorrere dei mesi potesse in qualche modo alleviarne la ferita. Sentì pizzicare il naso e, invano, tentò di allontanare il ricordo di lei, acciambellata sul letto che stirava le zampe al suo ritorno.
Le dita affusolate spezzarono la cera con un solo movimento, impazienti di catturarne l’implicito, divenuto ora venefica distrazione. Gli occhi scivolarono veloci sulle poche righe e vi tornarono, ancora e ancora, come incapaci di metterne in ordine le parole, le frasi, il significato.
Gettò la busta da un lato, agguantando il sottile strato di pergamena con entrambe le mani, rileggendo oltre mentre una vastità di quesiti prendevano forma nella sua mente annullandosi a vicenda nel loro caotico, superbo avanzare.
Lilian Anne Gordon. Si bagnò le labbra di quel nome ma non riuscì ad associarvi un volto e dovette chiudere gli occhi per cercare di legarvi, quanto meno, un ricordo.
Il calore si aggrappò al suo volto, colorandone gli zigomi alti. Il profumo del carbone ardente del dormitorio perse enfasi e, quasi impercettibile, giunse un odore diverso a carezzarle i sensi.
Le dita strinsero, aggrappandosi a quel biglietto, a quel nome.
Aggrappandosi a Lei. Ai narcisi in fiore.
E scattò in piedi.
Non credeva di avere la forza di tornare tra quei corridoi, tra quelle stanze eppure i passi veloci la trassero in inganno e l’urgenza del richiamo l’aveva condotta a rispondere all’appello senza incertezza alcuna. I pensieri affollavano la sua mente, vorticando e premendo di essere ascoltati. Il cuore, schiavo della tensione, le intimava di fare attenzione, di fermarsi a comprendere la conseguenza di quel suo furente avanzare. Lei non l’ascoltava. La paura, liberatasi dai limiti entro cui andava confinata, era motore e movente di quella sua corsa.
E se fosse stato un inganno? Se non vi fosse stato nessuno ad aspettarla lì?
E se quella lettera fosse arrivata troppo tardi?
Non poteva aspettare.
Lilian Anne Gordon.
Deve essere lei. Deve essere qui. Continuava a ripetersi ad ogni passo, ad ogni respiro reso possibile dalla necessita di trovarla.
Si fermò, rendendosi solo allora conto di essere giunta a Londra, di aver oltrepassato la barriera di mattoni rossi che l’aveva condotta nell’atrio principale e di trovarsi all’interno del San Mungo.
Il piano terra l’accolse nel peggiore dei modi. Il comitato di benvenuto, conosciuto proprio per la sua capacità di essere tutt’altro che accogliente, l’aveva quasi bloccata sul posto appena entrata, per chiederle il motivo della sua visita. La sua attenzione, mentre tentava di mettere insieme due parole che avessero senso, venne subito catturata dall’ampia sala che si prestava al primo soccorso. Maghi, Streghe e, presumibilmente, Babbani erano sparsi ovunque, contro pareti, su sedie rachitiche, assistiti da Guaritori calmi e affaccendati. Dall’ultima volta, sembrava che il San Mungo avesse finalmente visto tempi migliori ma lei era troppo occupata a scrollarsi di dosso la sicurezza del posto per farci caso.
Era lì per un motivo particolare e ben preciso e, a differenza delle volte in cui si era recata in infermeria inventando bugie a spiegarne la ragione, le servì semplicemente dire la verità per passare oltre e dirigersi al quarto piano.
Tutto era stato calcolato. Si era lasciata alle spalle Hogwarts, era arrivata a Londra, si era recata all’ospedale e stava per raggiungere la sua meta.
Ma cosa fare una volta lì? Chi avrebbe trovato? In quali condizioni? Cosa avrebbe potuto dirle?
« Emily Claire Rose. Dovrei vedere il primario del reparto degenza. »Parlò, avvicinandosi al banco informativo, mentre le parole da lei stessa pronunciate prendevano forma e la sua coscienza riusciva finalmente ad afferrarle; come se, per la prima volta, comprendesse davvero cosa aveva letto su quel foglio abbandonato nella tasca dei suoi jeans.
Reparto degenza.
Era dunque costretta a letto, a delle cure. Diveniva ormai impellente il chiedersi perché.
Era lì, in quanto parente più prossima raggiungibile. E più vi ripensava, più il suo cuore s’agitava. Voleva forse dire che v’era qualcun altro in vita. Oppure che lei e la sconosciuta, ora così vicina a lei, erano le uniche rimaste di quella stirpe in rovina.
Le domande tornarono e tornò a crescere l’inquietudine. Da quando aveva risposto a quel richiamo, era la prima volta che si fermava, che l’istinto e l’impulso ricevevano il freno dell’attesa, costretti a sottostare alla pazienza di cui la Serpina sentiva peccare.
Attese, senza rendersi effettivamente conto di chi aveva raccolto la sua richiesta, uomo o donna. Strinse i mani al di sotto al bancone per poi portare la sinistra al viso, scostare una ciocca fastidiosa, strofinarsi il naso col il dorso del pollice.
La monotonia di quella giornata era stata spezzata via ma qualcosa di antico era stato ripristinato: l’urgenza di avere una famiglia, anche solo il bisogno di sapere che era esistita, da qualche parte, e che avevano saputo di lei, anche se non c’era più nessuno ad aver cura del suo ricordo.
La speranza si rendeva ora tangibile, la speranza che vi fosse ancora qualcun altro, oltre a lei, lì fuori. Qualcun altro come Lei, come sua madre, che l’aveva conosciuta, che aveva visto il suo volto, che l’aveva vista crescere, e ridere, e soffrire. Una stilla di cruore a cui aggrapparsi per sentirsi non più l’erede di una famiglia ormai ridotta in polvere o l’ultimo bocciolo di un albero che ha visto da tempo le radici rinsecchire.
L’ultimo barlume per percepire davvero la propria esistenza.