I Fiori del Male, Concorso a tema: [Maggio 2020]

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view post Posted on 15/5/2020, 20:06
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Londra, estate





Fissò con cura l’ultimo bottone della soffice camicetta bianca che aveva scelto per quella sera. Il bianco non era il suo colore, tuttavia serviva decisamente qualcosa che creasse un contrasto. Il tessuto nero della gonna, che scivolava morbida fino ad un punto appena sopra il ginocchio, le sottili calze nere dalla lieve trasparenza, le scarpette nere lucide, i lisci capelli corvini che le cadevano come una tranquilla cascata fino al bacino, la tenue oscurità che le luci della sua casa creavano in ogni suo angolo… sì, un contrasto era assolutamente necessario. Il suo gatto nero mezzo addormentato si stiracchiò nel suo angolino. Lo osservò con un sospiro. Beato lui. Lei avrebbe preferito essere in qualunque altro posto, fuorché lì dov’era.

I preparativi erano tutti ultimati. Gli elfi avevano già imbandito la tavola con le migliori pietanze che neanche il miglior cuoco italiano avrebbe potuto eguagliare. I vari centrotavola esibivano ognuno tre rose bianche dall’aspetto freddo e un po' smorto. La casa era stata tirata a lucido, ancor più del solito, se possibile. Si respirava una strana aria frizzante nell’aria. Sua madre aveva indossato il suo miglior vestito d’organza (nero anche quello, ma c’era da specificarlo?) e suo padre sfoggiava uno dei suoi bastoni delle occasioni speciali. Dovevano trovarsi tutti e tre nel salone principale alle 18.55 in punto. Gli ospiti sarebbero arrivati esattamente cinque minuti dopo. Tutto doveva essere perfetto.

Lei e sua madre arrivarono in sala per prime. La donna la guardò dall’alto in basso, come al solito. Talìa non si domandò nemmeno cos’avesse visto che non le quadrava. Si limitò a tenere lo sguardo fisso verso la porta, dalla quale presto sarebbero entrati gli ospiti speciali. Dei passi calpestarono leggeri le scale dopo di loro.

«Sei molto bella.»

A Talìa venne la pelle d’oca.

Quel sussurro privo di inflessioni sembrava esattamente uguale a quello del loro serpente domestico, con l’unica differenza che diceva parole di senso compiuto. Suo padre aveva appena superato l’ultimo scalino e, dopo quella brevissima pausa, si era posizionato vicino alla moglie, perfettamente in linea. Era allo stesso tempo l’uomo più gentile e più inquietante che conoscesse. Nessuno avrebbe saputo stabilire se quel complimento fosse rivolto a sua figlia sedicenne, a sua moglie, o alla tavola imbandita lì vicino.

Finalmente, l’ora giunse. Gli ospiti arrivarono tutti insieme. C’erano due donne, gemelle, accompagnate dai rispettivi consorti, ovvero due signori del Ministero che Talìa aveva già visto in precedenza, un uomo calvo e piuttosto anziano e, infine, un uomo che lei avrebbe definito… originale.

Lei e i suoi genitori accolsero ogni ospite con rispetto, porgendo composti saluti ed esibendo i classici sorrisi di facciata. Ognuno aveva già il suo posto in tavola. A Talìa spettò una seduta vicino a sua madre ed esattamente di fronte a quell’uomo particolare che aveva notato. Si chiamava Hawthorn, era un uomo piuttosto giovane, intorno alla trentina, aveva capelli molto corti color dell’argento, barba incolta della stessa tonalità e occhi cinerei simili ai suoi. Quelli dell’uomo, però, non erano gelidi e distaccati, ma ardenti e incredibilmente vivaci. All’apparenza, sembrava fuori posto in quell’ambiente così… perfetto. I suoi vestiti davano l’idea di essere piuttosto trasandati, la camicia color porpora che indossava non era completamente abbottonata, inoltre aveva un numero decisamente esagerato di anelli e orecchini. Uno strano tatuaggio gli copriva il collo e sembrava gli arrivasse fin sotto il petto, o almeno questo era quello che poteva essere intuito dallo spacco della sua camicia: il tatuaggio rappresentava una specie di groviglio vegetale, ma nascosti qui e là sembravano esserci strani occhi che somigliavano a quelli delle capre, con quella particolare pupilla orizzontale. Talìa si perse in quel groviglio per sette o otto minuti.

La serata si rivelò, non contrariamente alle aspettative, piuttosto noiosa. Le conversazioni fatte fino a quel momento non le interessavano più di tanto, aveva sentito quelle storie almeno dieci volte nella sua vita. Ospiti e anfitrioni continuavano a disquisire di affari, politica e talvolta Quidditch. A stento, la ragazza trattenne una dozzina di sbadigli.

Finalmente, però, qualcosa cambiò quando quell’uomo strano prese la parola. Egli raccontò di essere un viaggiatore, di aver abbandonato la sua casa appena finita la scuola, di aver visitato dei luoghi incredibili sparsi per tutto il mondo, di aver addirittura cavalcato dei draghi! Era particolarmente appassionato di erbologia e botanica, aveva scoperto varietà di fiori e piante mai viste fino a quel momento. Pur di arricchire i suoi archivi, si era spinto oltre molti limiti convenzionali imposti dalle società, o dal buon senso. Cominciò a raccontare vicende assurde, impossibili ma assolutamente vere, e l’intero tavolo iniziò a divorare ogni sua parola come un branco di bestie affamate.
«La cosa più incredibile» disse, guardando lei per la prima volta dritto negli occhi, «accadde quella volta a Tokyo dove…» e così continuò la vicenda rivolgendosi anche a tutti gli altri. Talìa restò affascinata, rapita anche lei da quel fiume di parole che per la prima volta in tutta la serata la stava coinvolgendo davvero. Il culmine avvenne quando, a conclusione del suo straordinario monologo, l’uomo posò nuovamente il suo sguardo penetrante su di lei, stavolta però in maniera quasi invadente, dicendo:«…proprio così. È in quei luoghi sepolti che puoi trovare le migliori delizie.» Un silenzio inaspettato colmò l’aria.

Dopo quella che sembrò un’attonita eternità, qualcuno spezzò l’atmosfera. Una delle due gemelle deviò il discorso su tutt’altra piega, e la serata per la giovane tornò ad assumere il consueto velo di noia. Dopo circa una mezz’ora, Talìa notò con “sincero” dispiacere che l’ora per lei si era fatta tarda e che avrebbe dovuto ritirarsi. Tutti la salutarono con educazione e lei si congedò, senza rivolgere alcuno sguardo all’uomo dei luoghi esotici. Salendo le scale, Talìa udì i suoi genitori proporre agli ospiti una piccola gita nei loro famosi “Sotterranei”. La proposta venne apparentemente accolta con gioia da tutti i partecipanti e Talìa, ormai giunta nella sua stanza, udì le scarpe degli ospiti che si muovevano come quelle di tanti soldatini verso la visita all’incantevole fiore all’occhiello di casa Blackstorm: il Laboratorio.

Nella sua stanza, Talìa rimosse i piccoli orecchini che indossava, liberò il primo e il secondo bottone della sua camicia e si tolse le scarpe. Prim’ancora di potersi domandare come avrebbe reagito il tizio tatuato alla visita speciale, una voce alle sue spalle la fece trasalire:
«Noioso il vecchio Rupert, eh?»

Talìa afferrò d’istinto la sua bacchetta e di scatto si voltò verso la fonte della voce che, come aveva già intuito, apparteneva proprio a Hawthorn. «Esci subito dalla mia stanza.» Il tono gentile e servizievole che Talìa aveva dovuto esibire fino a quel momento si era bruciato non appena aveva varcato la soglia della propria camera, uno dei pochi luoghi in cui le era consentito essere sempre se stessa senz’alcuna limitazione. Da buon felino, Azrael iniziò a soffiare in direzione della porta contro l’ospite indesiderato che stava invadendo il suo territorio.

«Caspita… un fiorellino abbastanza spinoso.»

Hawthorn parlava con la stessa voce melliflua e affascinante di poco prima, ma le sue parole stavolta erano rivolte direttamente a lei senza possibili fraintendimenti. Talìa era indecisa se odiasse quel tono con tutta se stessa o se lo trovasse incredibilmente magnetico come poco prima. Una cosa era certa, però: lui in quella stanza non doveva starci. Eppure aveva già oltrepassato più della metà dello spazio che li separava, e la bacchetta della giovane era sempre più vicina al suo collo. Entrambi tuttavia sapevano che sarebbe rimasta soltanto un misero pezzo di legno in mezzo a due corpi.

«Vattene.»

«Sei… molto bella. Lo sai?»

A Talìa venne la pelle d’oca, ma per un motivo diverso rispetto a quello che gliel’aveva provocata prima della cena. La voce di lui non era inquietante e gelida come quella di suo padre. Era tiepida e avvolgente come un bagno caldo con una tisana tra le mani, e morbida come un letto fatto di mille cuscini.
La ragazza non riuscì a rispondere. Voleva ancora che se ne andasse? La mano di Hawthorn si avvicinò alle sue labbra, sfiorandole appena con la punta dell’indice.

«Candida come un oleandro bianco.»

Gli occhi della giovane erano ora non più grandi di due fessure. Restò in silenzio per qualche istante e lui rimase immobile a quel modo, non avrebbe saputo dire per quanto.

L’uomo sembrò accennare un sorriso. Il suo corpo era imponente rispetto a quello della ragazza. La sua ombra la sovrastava. Da quella posizione, Talìa aveva una visione ancor più chiara del singolare tatuaggio. Senz’allontanarsi dal suo corpo, rivolto più a se stesso che a lei, l’uomo cominciò a borbottare qualcosa tipo:

«Un oleandro bianco ora, già… ma il colore… il colore… serve un po’ di colore. Tu… oh sì, forse…»

Nel mentre cominciò a muovere la mano. La spostò sulla propria tasca posteriore dei jeans, come a cercare qualcosa al suo interno. La tasca sembrava minuscola alla vista, ma dava l'idea di contenere un'infinità di cose, a giudicare da quanto tempo Hawthorn stava impiegando per trovare ciò che voleva. Talìa era confusa. Aggrottò la fronte. Quel tizio sembrava ancor più fuori di testa di lei e di molti altri che conosceva. Non era prudente fare mosse azzardate contro uno sconosciuto. Avrebbe atteso la sua mossa.

«Ecco, sì! Questo!» Esclamò.

Dalla tasca, con delicatezza, l’uomo tirò fuori qualcosa d'inaspettato. Era una minuscola ampolla di vetro, con un singolo fiore all’interno. Talìa l’osservò, tentando in ogni modo di reprimere la curiosità che si stava affacciando. Il piccolo fiore era di un colore rosso acceso, quasi sanguigno, e l’acqua in cui si trovava il suo stelo aveva quello stesso identico pigmento.
«Oh, nulla di speciale in realtà. Tranne il colore. Piuttosto singolare, per un giusquiamo. L’ho trovato in India, sai?» Come se gliel’avesse chiesto.

Talìa osservò il fiore, poi tornò con gli occhi su quelli dell’uomo. Era incuriosita, ma non pietrificata. Qualcosa scattò dentro di lei, come una barriera naturale contro ciò che emanava calore. Con la mano libera dalla bacchetta, spinse l’uomo lontano dal suo corpo.
«Ho. Detto. Vattene.» In quell’istante, la piccola ampolla col fiore scivolò dalle mani di Hawthorn e fece un piccolo tonfo a terra. Contrariamente a quanto si aspettava, il vetro non si frantumò del tutto, tuttavia si scheggiò trasversalmente e una stilla del liquido rosso ne fuoriuscì. Hawthorn raccolse l’ampolla, la osservò con un leggero sorriso, poi la consegnò a Talìa.

«Lo affido a te. Ogni fiore ha bisogno di cure e dedizione. Non perderlo di vista, o morirà.»

Nel consegnarle il piccolo vaso, le due mani si sfiorarono e un brivido le attraversò la schiena. Strizzandole l’occhio, l’uomo fece qualche passo indietro, poi se ne andò lasciandola alla solitudine della sua stanza.

La ragazza restò in piedi con quel piccolo vaso in mano per qualche minuto, senza muoversi. Cos’era appena successo? Con il cervello attraversato da una miriade di pensieri contrastanti, Talìa si sforzò finalmente di darsi una mossa e tornare a fare ciò che stava facendo. Prima, però, avrebbe dovuto ripulire quel poco di liquido rosso che si era riversato a terra quando il vasetto era caduto.

Stava per schioccare le dita per chiamare un elfo, quando una punta di curiosità iniziò a stuzzicarla. Quella strana linfa aveva un profumo particolarmente dolce, inoltre il suo colore…

Si sedette a terra con le gambe da un lato e osservò per qualche istante il liquido. Sembrava proprio sangue. Iniziò a mordicchiarsi il labbro inferiore, con una strana idea in testa. Ma no… non poteva davvero farlo. O almeno, questo le diceva il lato sinistro del suo cervello.
Il dito però sembrò muoversi da solo. Sì, doveva essersi sicuramente mosso da solo. Quale persona razionale lo avrebbe fatto? Non era un animale, doveva controllare quegli impulsi. Eppure il polpastrello dell’indice destro andò a bagnarsi della linfa rossastra e, senza troppi indugi, la condusse verso la bocca, proprio vicino al punto che prima aveva sfiorato l’uomo. Ci passò la lingua sopra e assaporò quello strano liquido con curiosità ed eccitazione insieme.

Il sapore era diverso da quello che aveva immaginato. L’odore dolce e l’aspetto del sangue erano stati decisamente ingannevoli: quella linfa non sapeva né dell’una né dell’altra cosa: era amara. Si rialzò in piedi un po’ delusa e posò il vasetto scheggiato sull’angolo di un grosso mobile antico della sua stanza. Bevve un sorso d’acqua per far scivolare via quel sapore sgradevole e si sedette sul letto.

Non avrebbe saputo dire dopo quanto tempo da quel momento il pavimento aveva iniziato a parlarle. E la cosa più assurda era che non si era neppure chiesta come stesse succedendo! Pensava semplicemente che un pavimento avrebbe dovuto avere cose ben più interessanti da dire, piuttosto che lamentarsi dei mobili che gli pesavano sulla pancia tutti i santi giorni. D’altronde, pensò, da quella posizione tutte le sue mattonelle dovevano avere una visione piuttosto positiva. Certo qualche elfo lavandolo gli avrebbe fatto un po’ di solletico, ma nessun danno che quel polpo sul soffitto non avrebbe saputo consolare. Insomma, era così simpatico, con quelle sue estremità luminose, che neppure il più burbero degli armadi sarebbe rimasto arrabbiato per troppo tempo.


«Che scocciatore.» Sentenziò Azrael leccandosi una zampetta. Talìa trovò la sua voce stranamente profonda e rassicurante. Gli occhi verdi del gatto penetrarono i suoi. «Come fai a cacciarti sempre in situazioni strane?» Per quanto le sue parole sembrassero di rimprovero, il ritmo della frase suggeriva tutt’altro. Era così rilassato e tranquillo che Talìa si chiese perché non si fossero mai scambiati la parola prima. O l’avevano fatto? Doveva imparare ad ascoltarlo più spesso. Un felino sa sempre cos’è meglio per sé. Forse avrebbe dovuto prendere esempio. Ma cosa... ora stava davvero camminando su due gambe? Forse c'era un demone nascosto in lui! Uno particolarmente saggio però. «Eh?» Fu l’unica cosa che riuscì a uscire dalla bocca della ragazza. Con aria di superiorità, quella palla di pelo nera si ritirò in un angolino della stanza e si sedette a mo’ di sfinge, forse pensando che non valeva neppure la pena di sforzarsi con gli umani.

Ma chissà perché Hawthorn le aveva dato quel fiore! E perché era andato in camera sua? Magari il vaso in realtà era uscito dal groviglio del suo tatuaggio. Ma soprattutto, quando era successo di preciso? Pochi istanti prima o il giorno in cui era andata a vivere lì con quei due signori? Ma che sciocca! Lei viveva lì da quando era nata e quei due strani individui inquietanti erano i suoi… com’è che si chiamavano? Padre e madre. Insomma, sapeva ci fosse un termine più appropriato per esprimere quel tale grado di parentela eppure… in quel momento proprio non le veniva. Doveva averlo dimenticato per sempre quando si era guardata allo specchio. Cioè, qualche ora prima. Sapeva che gli specchi potevano essere brutte persone: stavano continuamente lì a spiarti e poi, quando cercavi di essere gentile e dirgli qualcosa, subito a farti il verso! Stupidi specchi. Non gli avrebbe più rivolto la parola. A nessuno di loro! Però in fondo… anche uno specchio poteva sentirsi solo, abbandonato, privo d’identità… ma sì, era così bello andare tutti d’accordo! L’avrebbe perdonato, avrebbe detto allo specchio che non importava se era così dispettoso, tutti gli esseri del mondo meritavano di essere amati! Tranne i babbani e i mezzosangue. Loro erano bruuuutte persone. Davvero.

«ELFO CINQUE!» urlò. Ops. *Elfo Cinque!* sussurrò. Cavolo, non doveva fare macello lassù. Quei brutti ceffi lì sotto si sarebbero precipitati a romperle i boccini e lei proprio non aveva voglia di litigare. Non quella sera, che si sentiva così particolarmente affettuosa. E strana. Ma quello era un altro discorso. Doveva essere colpa del polpo luminescente, la stava confondendo. O forse era colpa del groviglio che stava strozzando quell’uomo? Tutti quegli occhi. Troppa luce! Troppi occhi. O forse era colpa di quella goccia di sangue di fiore che aveva leccato? Dannazione sì, doveva essere quella.

Eppure… dopo quella serata incredibilmente noiosa finalmente stava provando qualcosa d’incredibile! L’uomo-tatuaggio era una forza, chissà se poteva rapirlo e tenerlo con sé per tutto il tempo che voleva. O forse no, non ce n’era bisogno, aveva il fiore che le aveva dato! Quel giul… giasqu… be’, quel fiore rosso era davvero bello. Davvero incredibile l’effetto che le stava facendo. Veleno, probabilmente. Ma era davvero divertente.

Si sdraiò sul letto. Il soffitto sembrava confuso, era forse preoccupato per lei? Pensò alla sua vita, a quello che stava succedendo quella sera, ai fiori. Cura e dedizione. Solo così potevano crescere rigogliosi in ambienti ostili. Le giuste accortezze, acqua nel momento di bisogno, attenzione. Un ambiente sbagliato avrebbe potuto far morire un fiore. Ma non se qualcuno se ne prendeva cura. Da piante sane, nascevano fiori sani. E da quelle malate?

Lei dunque era come un fiore? Non era forse stata costretta a vivere in un ambiente ostile sin dalla nascita? Ma chi si era preso cura di lei? Oh, lo sapeva, lo sapeva. Se stessa! Sin da quando ricordava, si era presa cura della propria persona e si era creata delle piccole corazze, delle spine, già. Lei era il fiore nato da una pianta malata, ma si sarebbe salvata da sola, sì. Un fiore reciso poteva riprendersi e continuare a vivere anche lontano dalla sua pianta d’origine, ma con i giusti accorgimenti. Poteva anche far nascere nuove piante, nuovi fiori. Tanti piccoli fiori pieni d’odio, ma almeno sarebbero stati fiori come li voleva lei. Un nuovo inizio, una nuova fioritura.

«Ha bisogno di qualcosa, signora

Disse una vocetta stridula e tremolante ai piedi del letto. Oh già, aveva chiamato un elfo. Ma perché lo aveva fatto?

«Sì, in effetti.»

Rispose lei sforzandosi di sembrare più normale che poteva. Certo quei conigli danzerini che le ballavano in testa non aiutavano. Poi le parole uscirono da sole:

«Un nuovo vaso in cui mettere il mio fiore.»




 
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