“ Let there be light SCHEDA PG ✕ 20 y.o. ✕ Outfit Jolene White
something happened there,
the smell of the grass or maybe the airFin dal loro primo incontro era subito emersa, disarmante, la spontaneità con cui Ariel affrontava le conversazioni. Per questo motivo, vedendola bloccarsi all'improvviso nel mezzo di uno scambio di battute, Jolene prese a domandarsi che cosa avesse detto di tanto spiazzante da lasciarla senza parole. Ricambiò il suo sguardo con titubanza, incerta su cosa aspettarsi: una correzione della sua pronuncia francese, forse, visto che alle orecchie di una madrelingua doveva suonare piuttosto penosa. Alcuni secondi trascorsero in silenzio, caricando un'atmosfera irreale che testimoniava quanto entrambe fossero ancora scosse. Infine la risposta venne, e non solo non si trattava di un rimprovero, ma custodiva nella sua semplicità una bellezza che fece nascere sul volto della rossa la curva di un sorriso. «Deve essere incantevole.» Immaginò come sarebbe stato vivere con l'incarnazione di uno dei quadri di Monet dietro a casa: le acque placide di uno stagno punteggiato dalle corone delicate delle ninfee, i riflessi ora dei raggi del sole, ora dell'ombra verdeggiante gettata dai salici che contornavano quella piccola nicchia dedicata alla contemplazione. A ben pensarci, un'esperienza non poi così diversa da quella che stavano sperimentando in quel momento, nella chiesa adibita a giardino. Mancavano la freschezza di una distesa d'acqua e i fiori dai colori ricchi, che erano piaciuti al pittore tanto da spingerlo a costruire un giardino che fiorisse l'interno anno. Nonostante ciò, tuttavia, credeva che gli sarebbe piaciuto poter trasferire sulla tela St Dunstain in the East.
Era tipico di Jolene lasciarsi sedurre da visioni come quelle, immergersi in ciò che la circondava o in ciò che poteva immaginare, e farlo fino a perdere il contatto con i dettagli più semplici e immediati della realtà. Mai, nemmeno per un istante, aveva pensato di presentarsi, quasi fosse convinta che il riconoscimento viaggiasse sempre nelle due direzioni. Capire il suo errore la fece ammutolire per l'imbarazzo, lasciando che la conferma della sua identità arrivasse all'altra attraverso un sorriso accennato e un gesto della testa. Il suo lato razionale, finalmente destato, prese ad arguire che in effetti le due si erano viste una sola volta prima di allora. Dimenticare o confondere l'aspetto singolare di Ariel era pressoché impossibile, ma Jolene non si distingueva con altrettanta forza per modo di vestire o di presenza. Le circostanze attuali, per di più, erano a dir poco confusionarie; eppure, sul momento si risentì del fatto che il riconoscimento arrivasse solo allora, emozione che tuttavia venne sopita dalla ben più preponderante sorpresa nel constatare che Ariel avrebbe trattato con la stessa gentilezza qualsiasi sconosciuta le fosse cascata addosso dal cielo.
Dimenticò del tutto la faccenda una volta che venne assorbita dalla curiosità per gli scatti: inconsapevolmente protese il busto in avanti, una mano poggiata sul ginocchio e l'altra a terra, quasi volesse sbirciare anche lei dietro all'obiettivo. Non aveva la minima idea di che cosa stesse facendo Ariel con i pulsanti e le levette, non aveva mai avuto una macchina fotografica, magica o babbana che fosse. Ne era affascinata, si domandava che cosa, esattamente, vedesse l'occhio della francese quando si barricava dietro a Claude. In quel momento stava ripercorrendo la trasformazione? Ma no, a giudicare dalla spiegazione della bionda non poteva vedere nulla prima di sviluppare il rullino. Raddrizzò la schiena, retrocedendo sotto all'influsso di una punta di delusione: le sarebbe piaciuto vedere subito.
Il suo atteggiamento dovette essere malinteso da Ariel, perché questa prese a scusarsi. Jolene si affrettò a rassicurarla: «Non c'è nessun problema, davvero. Anzi, sono tanto curiosa di vedere le foto quando le svilupperai. La prima, della trasformazione...», agitò le mani davanti a sé, cercando attraverso i gesti di dare una forma concreta alla propria impazienza – il risultato, inutile dirlo, fu ancora più confusionario. «Ci terrei tanto ad averla.»
Avrebbe voluto aggiungere qualcosa di più – che non c'era necessità di controllare l'economia delle parole, ad esempio, o sentirsi in colpa per il proprio modo di essere –, ma i suoi propri ripensamenti intervennero a frenarle la lingua. L'autocommiserazione, in cui era tanto facile cadere, si invischiava intorno ai suoi pensieri, alle emozioni che la smuovevano, e li cristallizzava in forme dolorose. Ariel riuscì a rassicurarla solo in parte, confermandole quanto la sua percezione, o forse la sua sensibilità, fosse diversa da quella della maggioranza. Naturalmente, non era da escludersi che volesse solo confortarla, e che dentro di sé la considerasse avventata e irragionevole; per qualche ragione, però, Jolene non riusciva a credere ad una discrepanza così marcata tra l'interiorità della ragazza e le sue parole. Non si trattava solo della spontaneità nei suoi modi, ma soprattutto dello sguardo: nello scorgerli fugacemente prima di abbassare il proprio, Jolene constatò ancora una volta come Ariel avesse gli occhi di una bambina. Bastava guardarli per convincersi che non avrebbe mai mentito, e poco importava che una simile assunzione fosse tremendamente azzardata.
Se li ritrovò di fronte, ancora, quando il tocco della sua mano la riportò in superficie, strappandola al gorgo di pensieri. Guardò un momento quel contatto – dita pallide su dita pallide, una trama eterea che, nondimeno, le trasmetteva il suo calore –, prima di posare lo sguardo sul volto dell'altra. L'espressione di Jolene, che da poco si era visibilmente spenta, in quel momento riacquistò vitalità. La luce baluginò un istante tra le pupille nere, e già i tratti sembravano più morbidi, addolciti dalla curva delle labbra. Pacata e melodiosa, la voce di Ariel aveva agito da calmante, ma più di tutto, su Jolene influiva l'intenzione benevola che leggeva nel comportamento della donna. Desiderò adattarvisi, entrare in sintonia con la sua leggerezza, così che entrambe diventassero belle attraverso i propri gesti.
«Va bene. Facciamo così: io non mi sento in colpa e tu dici quello che vuoi, senza chiedermi scusa.» Stava proponendo di accantonare la paura continua di stare sbagliando: si trovavano in un posto fuori dal tempo, sembrava la condizione perfetta per lasciarsi alle spalle qualche abitudine deleteria, almeno per qualche tempo. «D'accordo?» Un sorriso complice, poi fece per alzarsi in piedi. Il ginocchio le doleva, ma non le avrebbe impedito di camminare. Si mosse con lentezza, per evitare nuovi capogiri, e avrebbe aspettato che anche Ariel si fosse alzata prima di avviarsi verso il cornicione dove si era posata la rondine. Solo in quel momento si accorse che le mancava una scarpa: con una smorfia di disappunto guardò in basso, verso il calzino che accompagnava l'unica converse superstite in una desolante asimmetria. Decise di lasciar perdere, non era importante.
«Dunque» si scosse, intenzionata a rendere più piacevole l'improvvisato controllo medico. «Immagino che tu abbia già sentito parlare di Animagia, vero?»✕ schema role by psiche