What yields the need, St Dunstan in the East - Privata

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view post Posted on 1/7/2020, 16:17
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Let there be light SCHEDA PG 20 y.o. rondine
Il cielo di luglio era una volta serena di azzurro che avvolgeva l'intera città di Londra. Strade grigie, ingombre di costruzioni massicce e squadrate avevano in qualche modo il privilegio di vedere sopra di sé quello spazio sconfinato, addolcito dal calore estivo. Si trattava già di per sé di un eremo, il rifugio perennemente disponibile per la rondine: ogni qual volta il peso del cemento si faceva troppo grave sotto ai piedi, bastava la confortante consapevolezza di quell'alternativa per far sentire immediatamente il cuore più leggero. Spiccare il volo ormai non richiedeva più lo stesso dolore dei primi tempi, un'esistenza continuamente alternata aveva portato il processo a divenire più semplice, naturale come scivolare in una seconda pelle.
La rondine era molto, molto più di un involucro che potesse essere cambiato secondo il capriccio del momento. Mentre volava sopra alle costruzioni più alte, come in quel momento, la sua era un'esistenza piena, straripante di ogni genere di sensazioni. Qualcuno avrebbe pensato che poco o nulla potesse interrompere la monotonia dell'aria, ma sarebbe stato un chiaro segno di come non l'avesse mai sperimentata sulla propria pelle.
I venti soffiavano capricciosi, tracciando mappe invisibili a cui ci si poteva abbandonare o che, al contrario, sfidavano i muscoli allenati delle ali a contrapporsi alla loro volontà. A volte le nubi offrivano le loro ombre mutevoli, dalla loro forma si poteva intuire se il bel tempo era o meno sul punto di guastarsi. Non c'era scienza esatta che potesse eguagliare l'istinto dell'animale che aveva nel cielo la sua intera vita. Le sfumature stesse della volta celeste erano più ricche, più sature quando non vi era nulla ad interromperne la distesa.
Volare, insomma, era un piacere. Un unico campanello d'allarme suonava sordo da qualche parte sul fondo della coscienza dell'animale, simile al ricordo di un'altra vita. Ma, d'altronde, se era lì, a sorvolare la città, era perché in precedenza qualcun altro aveva scelto di rischiare ‒ perché, si sa, essere liberi porta spesso alla temerarietà.
Non vi furono incidenti lungo il breve percorso che portò la rondine alla sua meta. Vi era arrivata come per caso, ben consapevole che non v'era nulla del genere nell'attrazione magnetica che la larga distesa di verde aveva esercitato su di lei. Scese di quota non appena fu sopra ai primi alberi. Con tutta la semplicità del proprio essere, amava quel luogo. Ricordava il suo piccolo giardino segreto ai confini di Hogsmeade, solo che, anziché una minuscola casupola diroccata, in quel caso la costruzione che era stata circondata dal verde era decisamente più imponente.
Era un piacere giocare tra gli archi, sfidare la prontezza del proprio corpo nell'infilare a grande velocità gli stretti scheletri di quelle che una volta erano state finestre. Si sollevò sopra al corridoio dei folti rami fino ad immergersi nella luce dorata del sole, solo per poi scendere di nuovo, il piumaggio ramato che si tingeva delle tonalità verdognole del fogliame. La grandezza dell'uomo e la maestosità della natura non avrebbero potuto produrre un connubio più incantevole: l'edera ricopriva i muri come cascate, i cespugli crescevano rigogliosi alla base di ciò che rimaneva della costruzione. Quel luogo doveva avere anche un nome e una storia, ma la rondine li aveva dimenticati entrambi.
Stanca dei suoi giochi, finì per posarsi sulla base di una antica finestra. Gli artigli aderirono come meglio poterono alla pietra, e l'animale si scrollò le piume con un'aria di profonda soddisfazione. Gli occhi, di un insolito verde scuro che ben si adattava alle tinte del luogo, sondarono ora a destra, ora a sinistra, accompagnati dagli scatti repentini del collo. Infine andarono a posarsi in basso, e là misero a fuoco una figura di donna. La testa bionda, l'intero corpo pallido e sottile come un giunco, se ne stava in solitaria. Anche lei si godeva la magia del posto, con l'unica differenza che non le erano concesse le ali. La sua presenza esercitò immediatamente un'attrazione insolita sull'animale, richiamando in superficie conoscenze che non sapeva di avere e che faticava ad afferrare con precisione. Girò la testa ora da una parte, ora dall'altra, osservandola alternativamente con un occhio e poi un altro. Non si trattava di un vero riconoscimento, quanto piuttosto di un'intuizione dai contorni nebulosi e, nondimeno, era impossibile da ignorare. Cos'aveva di speciale?
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Edited by Jolene White - 1/7/2020, 20:13
 
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view post Posted on 5/7/2020, 16:57
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if vagabonds you will follow, long paths to be swallowed. SCHEDA PG 23 y.o. OUTFIT #1, #2


Ariel A. Vinstav
"The pattern of the Lonely People"
Se qualcuno le avesse chiesto perché era lì, avrebbe sicuramente risposto che il vento ce l'aveva portata.
Non che fosse tecnicamente vero, visto che il vento non porta proprio nessuno da qualche parte, ma a conti fatti Ariel non aveva proprio idea di come ci fosse arrivata lì; quindi se doveva dare a "qualcuno" la colpa, il vento era sembrato un ottimo capro espiatorio e per la sua cultura, anche altamente credibile.
Sotto sotto, poi, era davvero convinta c'entrasse la corrente: come spiegare l'improvviso desiderio di imboccare una strada sconosciuta, se non additando la brezza estiva che si era sollevata dal nulla da quella direzione?

Sua madre, Ragna Vinstav, sarebbe rabbrividita a scoprirla vagabondeggiare per Londra.
Era da incoscienti, una curiosità da bambini che l'avrebbe potuta mettere nei guai e soprattutto un possibile sintomo di una discendenza Banshee che sarebbe stata dura vedere risvegliarsi in sua figlia.
C'erano tanti motivi, insomma, per i quali non sarebbe stato giusto accontentare il proprio istinto.

Eppure, ora, era lì. Distesa sulla balaustra di una delle finestra della Chiesa di St. Dunstan dell'Est, abbandonata alla natura dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiali e riaperta al pubblico come giardino.
Il caldo estivo aveva visto i turisti e cittadini londinesi spostarsi verso i monumenti più in voga, lungo il Tamigi e nei locali ventilati per far scorta di scones e tè.
Ariel, invece, aveva deciso di rimanere lì, invece che tornare a casa con la metropolvere.
Nella solitudine dell'interno della Chiesa aveva trovato il modo migliore per ricaricarsi dalla frenesia del lavoro e il continuo contatto umano a cui il suo lavoro la sottopone.

Mugugnava le note di canzone sotto l'ombra dell'arco di marmo, mentre la mano sinistra accarezzava le foglie smeraldinee di un nodo d'edera, lo stesso che si arrampicava lungo la struttura della finestra, sostituendo le vetrate da tempo scomparse in una tenda di boccioli imbruniti.
«We’re far away from home, a broken family...»
Poi cominciò a cantare. Le parole lasciavano la bocca a fior di labbra, come sussurri che seguivano una melodia lenta.
Sarebbe stato scorretto definirla un talento del canto, ma la voce era intonata e riusciva a trasmettere chiaramente una calma contagiosa, quanto una nota di melanconia che si rispecchiava nello sguardo perso nel vuoto.
Le iridi cerulee si erano fatte più chiare durante la stagione estiva, assumendo note grigie che esaltavano il pallore della pelle e la chiarezza dei capelli biondi. Questi ultimi erano stati scostati oltre il suo improvvisato scranno di marmo, facendoli ricadere in onde accennate fra i rampicanti: erano lunghi abbastanza da poterle superare le spalle, tranne che nella zona della fronte dove una frangetta sbarazzina frastagliava il volto.

«I don’t know where we are, but we’re safe here….»

Il tono della voce si era fatto più alto, abbastanza da costringerla a sollevare appena la testa dalla balaustra su cui era distesa per poter reggere la nota.
Proprio in quel momento, un'ombra le superò il volto.
Chiuse di scatto l'occhio sinistro, succube del cambiamento improvviso di luce, per poi scoprire alla sua riapertura una rondinella.

Inclinò il capo di lato, aprendo e chiudendo più volte gli occhi grandi in un accenno di stupore e curiosità.
Sarebbe potuta sembrare una ragazzina, una giovane adulta che forse forse aveva appena strappato il diploma a castello, piuttosto che una ventitreenne in carriera.

Le labbra si tesero in un sorriso, non ampio come i suoi soliti, ma comunque genuino.
I piedi nudi si mossero lungo la pietra, scivolando uno sul praticello del giardino e l'altro sul lastricato della pietra. Si tirò su aiutandosi con le mani.
Erano movimenti lenti: non voleva spaventare l'animale.
Si chinò sul posto verso la sua borsa, una tracolla di pelle consunta, cercando di estrarre da questa la propria macchina fotografica.

Si guardò attorno, ancora, stavolta in cerca di babbani: un bene che in quella giornata di luglio non ci fosse troppa gente, perché la zona della Chiesa era pressoché desolata, lasciando la rondine alla mercé della sua attenzione senza il rischio che altri potessero mandarla via.

La luce e perfetta: fra i rami le ombre dipingevano le zona più chiare del manto della rondine e la luce esaltava le sue note di colore, saturandole.
*E' un'immagine simbolica*
Si ritrovò a pensare, mentre rimaneva col naso all'insù a osservare l'animale.
Non aveva tutti i torti, stavolta: una rondine, libera e spensierata, fra i rami di un albero sorto ai piedi di una Chiesa abbandonata dopo la guerra.
Era l'antitesi di passato e presente, di una Natura che si rincorre e un ciclo della vita che non si fermava davanti a niente e nessuno.

Erano simboli contorti quelli che Ariel vedeva, fatti di emozioni profonde e ragionamenti intricati, ma per lei erano chiari e palesi, associazioni di idee immediate.

Se normalmente quel luogo le trasmetteva, al ricordo di ciò che aveva dovuto subire, un’angoscia latente, Jolene in quella sua forma era una boccata d'aria fresca che non sapeva nemmeno di aver bisogno. Un palliativo ad una stretta al cuore che non riesce ad allentare.
«Non hai idea di quanto avessi bisogno di vedere qualcuno di così bello.»
Lo mormorò per sé, inconsapevole di come l'animale potesse chiaramente capirla e per la solitudine del luogo anche capirla.
Sollevò a quel punto la macchina fotografica, occultando dietro l'obbiettivo il proprio corpo.
Non scattò subito la foto, preoccupandosi prima di trovare l'angolazione giusta.
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view post Posted on 9/7/2020, 13:51
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Let there be light SCHEDA PG 20 y.o. Outfit Jolene White
something happened there,
the smell of the grass or maybe the air
Il giardino si fece d'un tratto silenzioso, senza il canto della donna. A quel punto rimase solo il leggero stormire del vento tra le fronde ad animare l'atmosfera, attraverso cui rondine ed essere umano si osservavano a vicenda. Fu uno scambio importante, l'animale lo percepì chiaramente: in esso correvano meraviglia e curiosità, tanto simili quanto profondamente diverse nell'esperienza di due esseri che, apparentemente, avevano poco da spartire.
La donna poi si mosse lentamente, con cautela, sempre sotto allo sguardo vigile delle pietre tonde e scure che erano gli occhi della rondine. Questa si scrollò le piume, in attesa di vedere che cosa avrebbe fatto. Qualcosa sul fondo della sua coscienza continuava a rimestare, chiedendo con sempre maggiore insistenza di emergere dalla nebbia dell'esistenza così semplice dell'animale. Pur rimanendo inarticolato, riuscì a costringere le ali all'immobilità, battendo così l'istinto che le portava a fuggire ogni contatto troppo ravvicinato con gli esseri umani. Le fu così possibile vedere quel particolare esemplare far comparire un aggeggio strano ed ingombrante, per sollevarlo poi in sua direzione. Forse fu quella nuova associazione – la donna che non era più semplice figura, ma aveva ora un segno di riconoscimento, qualcosa che rimandava ad un incontro precedente – a far scattare la molla della consapevolezza. O, ancora, forse si trattò della voce, che si mostrò nel suo timbro singolare, per la prima volta senza che il canto potesse interferire a distorcerlo. Fatto sta che il pensiero ebbe appena il tempo di formarsi nella sua mente – Ariel –, che già la rondine non era più se stessa: l'equilibrio si spezzò d'improvviso, senza prendersi la sbriga di lanciare alcun avvertimento.
Il contorno delle piume sfumò in qualcosa di indefinito, la figura minuta del volatile crebbe, si allungò, ramificandosi in anatomia umana. Fu questione di pochi istanti prima che il mutamento fosse completo, e a quel punto il corpo aveva già cominciato a cadere, incapace di trovare un appiglio sufficiente per la propria mole. La struttura sottile della finestra non offrì alcun sostegno a Jolene, che cadde come corpo morto cade. Come una pera matura cascata dal ramo. Insomma, senza nessun attributo che si avvicinasse neanche lontanamente alla grazia, o alla bellezza che Ariel aveva appena fatto in tempo a decantare.
Probabilmente Ariel avrebbe avuto giusto un istante per rendersi conto della macchia indistinta di bianco, rosso e blu che le si precipitava addosso. E no, non era una bandiera della sua amata patria: magari, almeno quella non pesava cinquanta chili. Se non avesse avuto la prontezza di scostarsi, nulla avrebbe impedito a Jolene di cascarle sopra, sgraziata e scomposta nell'improvvisa vertigine di ritrovarsi con un altro corpo e un'intera altra esistenza.
«Ouch.» Questo il primo cinguettio, espressione articolata e solenne di quel momento tanto ricco. I primi, simpatici fiori dei lividi stavano già sbocciando, allegri come sotto al più caldo sole primaverile. Che bella entrata in scena – emozionante, vertiginosa, piena di pathos!
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view post Posted on 16/7/2020, 03:33
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Ariel A. Vinstav
"The pattern of the Lonely People"
L'obiettivo fotografico venne fatto ruotare lentamente in senso orario, rapportando lo zoom alla distanza rondine-albero. Aggrottò la fronte da dietro la macchina, stringendo gli occhi nel cercare l'angolazione giusta.
La fotografia era uno di quei campi che la vedeva capace di concentrarsi e lasciarsi andare allo stesso tempo: la fronte corrugata dalle rughe d'espressione, era accordata a guance parzialmente gonfie nello sforzo di una smorfia bambinesca fatta di labbra strette e la punta della lingua che ne fuoriusciva appena.
Bastava guardarla per capire quanto fosse presa dal momento.
Poi ... eccola la luce giusta! La bocca si stese in un sorriso, ampio abbastanza da lasciar intravedere la dentatura.
La parziale protezione delle fronde d'albero creava un filtro naturale per accentuare i pigmenti bluastri dell'animale, creando un contrasto di saturazioni e ombre che definiva perfettamente la silhouette dell'animale, distinguendola dall'ambiente naturale che nell'inclinare leggermente di lato la macchina aveva deciso di mettere parzialmente a fuoco.
In termini tecnici si sarebbe detto che Ariel aveva appena ottenuto una perfetta resa delle alte luci del suo soggetto: tutti i punti che la luce naturale poteva mettere in risalto sembravano essere lì - o per lo meno al suo occhio, ancora non abbastanza esperto, sembrava essere così.
Tlac.
Scattò una singola foto con il primo pulsante, imprimendo in parte della carta fotografica il ritratto della rondine.
L'indice scivolò verso il basso, andando a toccare una piccola levetta sottostante il tasto appena schiacciato
Le bastò piegare questa con la punta della dita perché l'obiettivo si chiudesse e riaprisse in un battito di ciglia.
Questa volta tenne premuto il tasto, pronta a scattare una foto in movimento dell'uccelletto, imprimendo sulla carta Lumière segmenti preziosi.
Non poté evitare di allargare la bocca in un sorriso estasiato quando si rese conto che il suo soggetto si stava voltando verso di sé, probabilmente incuriosito dal suono leggero e anomalo prodotto dalla macchina fotografica.
*Questa foto potrebbe venire anche meglio della prima.*
Lo spostamento delle ali la potrò a rizzare le sopracciglia, mentre la mano sinistra d'istinto acuì la presa sulla base della macchina per costringersi ad una posizione immobile nonostante l'improvvisa scarica d'adrenalina che quello spostamento le aveva trasmesso.
*Posso fotografare il volo! Mio padre sarà felicissimo*
Einar avrebbe ricevuto una foto di una certa qualità.
E le avrebbe chiesto sicuramente cosa ci facesse una signorina nella foto.

*Eh?*
Ebbe giusto il tempo di allontanare le dita dal pulsante e far scattare per l'ultima volta la macchina, prima che la figura di Jolene le cadesse addosso.
Aveva appena immortalato una de-trasfigurazione aerea di un Animagus.
Prima, però, doveva riprendersi dalla botta.

«Ouch.»
«Lamiatesta.»
Al lamento dell'infermiera fece eco quello a denti stretti della giornalista, la stessa che aveva offerto involontariamente il proprio corpo come piattaforma d'atterraggio. L'impatto l'aveva vista perdere l'equilibrio oltre la balaustra di marmo della finestra, vedendola ricadere di una dozzina di centimetri sul lastricato della chiesa, portando con sé la maga.
La mano sinistra che reggeva la base della macchina fotografica era sollevata, mantenendo quest'ultima con l'obiettivo verso l'alto.
La mano destra, invece, si era istintivamente posta a protezione proprio della ragazza sopra di sé, circondandole i fianchi con l'avambraccio e mantenendo la mano contro quello destro altrui: così le aveva possibilmente evitato di ruzzolare all'interno della sala.
Non riusciva a metterla a fuoco, confusa dalla botta, quanto dalla chioma rossa che le ricadeva contro il volto.
La tracolla della macchina fotografica fra i due corpi la portava a dover mantenere il collo più rigido di quanto già non fosse, per evitare si strozzasse.
Insomma, fra occhi chiusi per la confusione e corpo irrigidito, aveva perso totale iniziativa e possibilità di reazione, lasciando a Jolene libertà d'azione.

La maga l'avrebbe riconosciuta, a sollevarsi, come una figura giovane e familiare col capo incorniciato da una cascata di capelli bianchi (non aveva smesso di abusare di pozioni schiarenti), sparsi lungo il marmo di St. Dunstan.
L'addome era scoperto, delineando il profilo incavato del costato e la demarcatura degli addominali.
Era snella, ma allenata: proporzionata quanto bastasse da rendere una generale magrezza una caratteristica e non un problema di salute.
Ariel aveva optato per abiti leggeri, approfittando del caldo estivo: un top sportivo verde acqua (la cui zona superiore si tingeva di note più scure lime) e una gonna di tulle dello stesso colore, decorata ai fianchi da una fascia di tessuto ceruleo, come gli occhi che occasionalmente provavano ad aprirsi.
Sfarfallava le ciglia chiare, mentre le palpebre degli occhi bianchi fremevano al sopraggiungere fastidioso della luce.
«Ditemi che Claude sta bene.»
Lamentò a mezza voce, tradendo una teatralità del tono che lasciava intuire come stesse cercando di suonare drammatica a sproposito.
«Claude, la mia macchina fotografica.»
L'aveva specificato da sola, perché almeno sotto sotto lo sapeva pure lei che nessuno capiva mai le sue associazioni di idee, figuriamoci aspettarsi e capire avesse chiamato una macchina fotografica ''Claude''.
Jolene poteva approfittare avesse ancora gli occhi chiusi per fare una fuga strategica: Ariel aveva già qualche problema anche prima di battere la testa, forse la situazione era appena stata peggiorata.
*Ho bisogno di uno shot.*
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view post Posted on 20/7/2020, 20:15
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Dovevano offrire uno spettacolo pietoso: due corpi malamente scomposti a terra, un intrico di braccia e gambe quasi ugualmente pallide. Di certo, in quel momento Jolene si sentiva uno schifo. Le girava la testa e il ginocchio sinistro, che aveva sbattuto contro il lastricato a dispetto della presenza di Ariel ad attutire il colpo, le faceva male tanto da farle temere che si sarebbe spaccato da un momento all'altro. Inizialmente, non capì nemmeno di essere atterrata non sulla nuda terra, bensì su un'altra persona: le sensazioni erano confuse, arrivavano alla sua coscienza filtrate attraverso un martellio continuo e violento. Il primo lamento le scappò involontariamente, svuotando i polmoni dell'ultimo fiato sopravvissuto all'impatto. A quel punto inspirò brevemente, cercando di capire se avesse dolori al costato. Fortunatamente, non sentì niente. Era talmente concentrata sul proprio corpo, sforzandosi, ad occhi chiusi, di sentirne i punti doloranti e di valutare la gravità della situazione, che la voce di Ariel la fece trasalire.
«Lamiatesta.»
Jolene aprì di scatto gli occhi, facendo al contempo uno sforzo per riportare una certa coordinazione ai propri arti. Si puntellò con le mani a terra e, facendo leva su quelle, riuscì a sollevare il busto quel tanto che bastava per non schiacciare più la povera Ariel. I lunghi capelli rossi solleticarono per qualche istante il viso e il collo della francese, prima che Jolene si scostasse di lato, sedendosi per terra con un po' troppa pesantezza. Il movimento peggiorò momentaneamente il giramento di testa, costringendola a bloccarsi nella posizione appena assunta: la schiena reclinata all'indietro, le braccia tese a sostenerne il peso, le gambe distese di fronte a sé; il ginocchio sinistro appariva ammaccato, si stava già gonfiando.
«Ditemi che Claude sta bene.»
Il nuovo lamento portò Jolene ad abbassare lo sguardo su Ariel, che riuscì un'altra volta a riconoscere pienamente. Giaceva sulla schiena, un braccio sollevato quasi trionfalmente nel reggere la macchina fotografica. I capelli, chiarissimi come la sua intera figura, erano sparsi intorno alla sua testa come un'aureola disordinata. La luce giocava su di lei mentre il vento mutava il mosaico delle fronde: a guardarla così, immersa in quel luogo antico e bellissimo, Jolene pensò che fosse un soggetto perfetto per la sua stessa macchina fotografica. Solo che, certo, Ariel non era in posa. Ariel doveva avere un male cane a tutte le ossa.
«Claude, la mia macchina fotografica.»
«Io non sono Cla... Ah.» I riflessi, che pure non erano mai stati il suo forte, dovevano essersi definitivamente guastati, perché le ci volle un tempo irragionevole per connettere il suono delle parole al loro significato. Quando lo fece, però, si ritrovò ad accigliarsi: «Perché proprio Claude?»
Qualche altro secondo, e riuscì perfino a definire delle priorità: la nebbia che le aveva invaso la testa cominciò a dissiparsi, facendola tornare gradualmente in sé.
«Stai bene? Riesci ad alzarti? Vieni, ti aiuto.»
Con una spinta riuscì ad accovacciarsi: poggiò il ginocchio sano per terra, tenendo leggermente sollevato l'altro. Non pensava di potersi permettere una posizione totalmente eretta, non ancora, ma già così si trovava sopraelevata rispetto ad Ariel. Le tese dunque la mano destra, così da aiutarla a mettersi seduta. Se lei l'avesse accettata, avrebbe tirato dapprima gentilmente, poi con maggiore forza, fino a quando non si sarebbero fronteggiate più o meno alla stessa altezza.
Era ancora troppo tramortita per sentire pienamente i morsi del senso di colpa ma, quasi automaticamente, si ritrovò a dire: «Scusami. Di solito non è così, quando cado non c'è nessuno sotto».
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view post Posted on 29/7/2020, 22:05
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Ariel A. Vinstav
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Sarebbe stato utile se una di loro fosse stata un Legilimens, esperto abbastanza da potersi far strada nel percorso intricato dei loro pensieri.
Il primo che avrebbe fatto capolino nella testa di Ariel, una volta messa a fuoco ciò che si trovava di fronte a sé, sarebbe stato un nitido "E' bellissima" che risuonò nella sua testa come sognante e sorpreso, quasi come se non potesse crederci.
Il sole di Luglio tentava di nascondersi dietro le fronde degli alberi dei Giardini o lo scheletro abbandonato della Chiesa, ma la sua intensità era forte abbastanza da superare gli archi spogli e illuminare le navate, scontrandosi con il corpo di Jolene e disegnando per contrasto una cornice d'oro attorno al suo corpo.
Sentì le ciocche ramate sfiorarle il volto e scivolare in basso contro gli incavi del collo, pizzicandoli e portandola a scostarsi impercettibilmente per istinto, proprio mentre l'altra si allontanava.
Ne incontrò lo sguardo rapita, rimase immobile per qualche attimo.
Come uno specchio, le proprie menti ragionavano su pattern simili con l'eccezione che a differenza di Jolene, Ariel aveva davvero una macchina fotografica.
L'attenzione rivolta a Jolene era stata utile a darle il tempo necessario per superare il dolore sordo alla schiena e riprendere coscienza del luogo in cui si trovavano. E' così che a scoppio ritardato riuscì a mettere a fuoco con la coda dell'occhio il proprio braccio e Claude, la macchina fotografica, retta trionfalmente verso il cielo.
«Uh!» Non se lo fece ripetere due volte. Mentre Jolene la studiava, Ariel provò a portare contro il volto la propria macchina. Schiacciò il pulsante laterale due volte consecutivamente con l'indice, portando l'obiettivo a settare nuovamente la messa a fuoco del soggetto: Jolene circondata dalla luce calda d'estate, capelli leggermente scomposti (quel "messy" che poteva apparire come volontario, studiato) per la caduta e la de-trasfigurazione e occhi grandi, dilatati un po' dal dolore, un po' dalla luce a cui si stava ancora abituando.
Un primo piano bellissimo che avrebbe tenuto stretto a sé.
TLAC!
Sempre se Jolene le avesse permesso di fotografarla ... di nuovo!
«Come Claude Monet, un pittore babbano di fine 800.»
Il nome scivolava naturalmente fra le labbra, nonostante il tono ancora lamentoso con cui si esprimeva. Provò a muoversi, tentando di aiutarsi con una spinta di fianchi e spalle per tirarsi su a sedere, ma una fitta la ancorò al terreno. Irrigidì le labbra e chiuse di scatto gli occhi.
«Gli impressionisti babbani volevano "registrare" frammenti di realtà e verità nei loro dipinti, catturando luce e movimento come le fotografie non magiche non potevano fare.»
Parlava a mezza voce, quasi come a non voler rovinare la sacralità del luogo e la calma dei Giardini. In realtà era perché le faceva male la base della testa e alzare il tono di voce avrebbe rischiato di rendere da subito insopportabile l'incipit di un'emicrania da record. «Non piantiamo ninfee, ma io e Claude non siamo tanto diversi da Monet»
Riaprì solo l'occhio sinistro che Jolene si era portata a sedere.
Accettò la mano in silenzio, richiudendo gli occhi quando avvertì i muscoli delle spalle tendersi e la schiena farsi calda. Si fece forza, piantando le piante dei piedi contro il lastricato.
«Ugh.» La testa ciondolò pesante in avanti, finendo con lo sfiorare con i capelli la spalla di Jolene. Le mani poggiarono in terra per aiutarla a tenersi ferma e dritta. Claude era rimasto a terra contro il suo fianco. «Un po' dolorante, ma ho avuto di peggio.» Borbottò. L'accento francese le macchiava le parole, rendendo più dolci e scorrevoli anche le osservazioni più dure.
Non sembrava offesa o in qualche modo indignata dall'incidente, quanto eccessivamente tranquilla.
Risollevò il capo lentamente, accompagnandolo con la gamba destra che sollevò, portando il ginocchio contro la base del mento, fornendogli un appoggio. Ruotò il capo di lato, così da poterla guardare in volto.
Gli occhi azzurri erano grandi e per la giornata di sole, percorsi lungo la sua corona da pagliuzze grige. Ad esser attenti si sarebbe facilmente potuti notare curiosità e interesse fare capolino nel suo sguardo.
«Ne ho guadagnato foto stupende, se per avere un soggetto così bello devo cadere, va bene. Almeno non ti sei fatta troppo male, così.» Osò fare spallucce, quasi come a voler sottolineare la sua indifferenza.
Una fitta le risalì la schiena, costringendola a serrare la mascella e tenere gli occhi aperti, così da evitare di far rotolare sulle guance la coltre di lacrime che vi si era improvvisamente raccolta. «Mipentodituttocomenondetto.»
"Dite a papà che gli ho voluto tanto bene."
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view post Posted on 9/8/2020, 18:24
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Era sorprendente la rapidità con cui i pensieri di Jolene si tradussero nelle azioni non sue – poiché, banalmente, non disponeva di una macchina fotografica –, bensì di Ariel. Improvvisamente di fronte all'obiettivo, Jolene non ebbe il tempo di muoversi in qualsivoglia verso: né per scostarsi né, al contrario, per offrire una posa diversa da quella spontanea di chi non si aspetta nemmeno di essere guardato con insistenza, men che meno immortalato. Ricambiò l'attenzione della macchina fotografica – di Claude –, cercando di scorgere il viso di Ariel quando questa allontanò l'obiettivo. Una parte di lei sapeva che si stavano comportando in maniera irrazionale, ma era impossibile ignorare la suggestività dell'ambiente. Immerse nella luce vivace e sovrastate da un intrico di rami e antiche trame architettoniche, le due ne portavano la bellezza sulla propria pelle, tramutandosi a loro volta in qualcosa che si voleva ammirare, immobilizzare nel raro attimo di un'illuminazione perfetta.
La voce stessa di Ariel si amalgamava graziosamente all'insieme, facendo vibrare l'aria delle sue note melodiose da oltre-Manica. Jolene si sorprese ad annuire, come se la serie di eventi che le aveva portate fino a lì poteva solo condurre, infine, ad una disquisizione sull'impressionismo. «Lo conosco» affermò, leggermente sovrappensiero. «Ho un dettaglio di un suo quadro appeso in camera. Harmonie verte. Uno dei tanti delle famose ninfee.»
Capiva a che cosa avesse pensato Ariel, quando aveva scelto quel nome. Come Monet, che aveva dipinto innumerevoli tele nel tentativo di catturare la perfetta angolazione della luce – serie e serie dei medesimi soggetti, sempre sorprendenti nella varietà che un momento della giornata piuttosto che un altro riusciva a strappare alle loro forme –, allo stesso modo Ariel cercava di imprimere sulla propria pellicola i colori meravigliosi del pomeriggio. «È un bel nome per una macchina fotografica», concluse, sancendo definitivamente la sua approvazione.
Era facile, in quei momenti dall'alone quasi incantato, dimenticare la gravità della stupida, stupida azione che l'aveva portata fino a lì. Jolene cominciò a ricordarsene man mano che riacquistava completo controllo della sua mente, dopo che era stata annebbiata dalla trasformazione improvvisa e la conseguente caduta. Aveva volato nelle zone frequentate dai Babbani, uno dei rischi più irragionevoli che un Animagus alle prime armi come lei potesse assumersi. Non aveva il controllo perfetto sull'abilità, lo aveva appena dimostrato. Solo una fortuna sfacciata le aveva messo sulla strada Ariel nel momento più critico, invece di un qualsiasi Babbano che si fosse trovato nei paraggi. Non c'era nessuno in vista, tuttavia non aveva mai avuto la garanzia che sarebbe stato così: si era gettata a capofitto in una bravata che sarebbe potuta finire con la chiamata urgente di una squadra di Obliviatori. Jolene era sempre stata una personalità prudente, poche volte cedeva all'impulsività. Qualcosa, però, era cambiato negli ultimi mesi, poiché l'Animagia le si era dischiusa dinanzi portandole non una ventata d'aria fresca, ma un intero cielo completamente a sua disposizione. Aveva sempre avuto il gusto dell'avventura, ma per la maggior parte del tempo si era limitata a viverla come una possibilità remota, in grado di solleticarle l'immaginazione, ma non di smuoverle il corpo. Ora, invece, tutto sembrava più vicino: i posti meravigliosi che avrebbe voluto visitare, la possibilità di agire senza pianificazione, di cedere parte del controllo che normalmente esercitava su se stessa contro l'imprevedibilità, che questa nascesse da impulsi positivi o negativi. Prima, quando si sentiva ingabbiata si rifugiava nei libri; ora aveva preso l'abitudine di vagabondare, umana o rondine che fosse, e si stava scoprendo a tratti temeraria.
O forse dopo quattro anni che sono uscita da Corvonero sto diventando una perfetta idiota. Il rimorso era rapido ad impadronirsi di lei, specialmente quando aveva di fronte agli occhi la figura dolorante di Ariel. La francese accettò la sua mano, e riuscì ad alzarsi a sedere. Jolene sentì il solletico dei capelli chiarissimi contro la spalla, le distanze erano molto accorciate rispetto a quelle a cui la rossa era abituata con i suoi conoscenti. Si fosse trattato di una persona diversa, l'intera situazione l'avrebbe messa profondamente a disagio, a partire dall'entrata in scena a dir poco disastrosa con cui aveva dato spettacolo. C'era in Ariel una qualità insolita che portava Jolene a non temere il suo giudizio; forse si trattava della sua leggerezza, quell'aria quasi effimera che si rispecchiava tanto nella figura diafana quanto nei modi svagati e la voce da bambina. D'altra parte, Ariel per prima era una calamita per i giudizi delle persone cariche del cosiddetto buon senso e, così come Jolene non si sarebbe mai sognata di guardarla con gli occhi della gente comune, credeva che lo stesso valesse anche per lei.
«Ne ho guadagnato foto stupende, se per avere un soggetto così bello devo cadere, va bene.»
L'affermazione portò il colorito di Jolene ad animarsi impercettibilmente. Ancora non era abituata alla schiettezza disarmante che caratterizzava la bionda. «È per Claude che ti ho riconosciuto, prima, quando ti guardavo dalla cornice» spiegò, apparentemente senza una vera connessione. «Stavi facendo degli scatti quando ho perso del tutto il controllo sulla trasformazione. Per caso si vede quel momento?» C'era genuina curiosità in quella domanda, nata dalla possibilità di assistere attraverso uno sguardo esterno a qualcosa che poteva vivere solo da dentro: sapeva fin troppo bene come ci si sentiva, ma non aveva idea di come fosse il processo visivamente – spettacolare, terrificante?
La vena di egocentrismo lasciò presto spazio alla rinnovata preoccupazione per lo stato di Ariel: «Dove senti male?», domandò. Sollevò gli angoli delle labbra in un sorriso amaro: «Ti è caduta addosso un'infermiera, pensa un po' che fortuna». Poi, come se non l'avesse già ribadito: «Mi dispiace. Mi dispiace moltissimo, ho fatto una stupidata e ora ne paghi tu le conseguenze».
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Ariel A. Vinstav
"The pattern of the Lonely People"
Ad Ariel bastava essere consapevole della suggestività del luogo, del ruolo di Jolene al suo interno e dell'irripetibilità dell'incontro per cogliere il valore di quel momento: quante altre volte le sarebbe capitato di vivere una situazione del genere in un posto come quello?
Era giusto optare per un approccio impulsivo e irrazionale, perché era più adatto ad una situazione come quella, nata proprio dal caso e dall'istinto.
Ariel con la sua personalità era riuscita a diventare razionale persino nei confronti della propria irrazionalità.
E sì, suonava come un paradosso astruso e inconcepibile.

Sapeva che l'istinto avrebbe governato il cosa dire e il cosa fare, ma sapeva che il come era ciò che le veniva ancora difficile gestire.
L'unica cosa probabilmente che le stava impedendo di riempire la povera maga di domande e commenti.
Quello, o fare una pessima figura come suo solito e lasciarsi sfuggire l'occasione di interlacciare un rapporto sano.

Questo spiegava perché non parlasse, ma preferisse ascoltare Jolene, non potendo evitare di aprire e chiudere gli occhi sbigottita al nominare l'Harmonie verte di Monet.
Nemmeno lei avrebbe saputo dire se la reazione era dovuta più all'aver sentito qualcuno dire qualcosa in francese dopo così tanto tempo (senza contare le storpiature di "omelette, bonjour e fromage" fatte dai suoi colleghi per prenderla in giro) o all'aver trovato qualcuno che volesse parlare del pittore con lei.

"Oddio dovrei troppo dirle dello stagno di papà. Nel senso che potrei farle vedere le foto. Però quelle le ho a casa. Non posso invitarla a casa.
Posso invitarla a casa?
Ho la brutta sensazione suoni strambissimo e buffo. Penserà che è una di quelle "cose bizzarre da francesi", non? Meglio se sto zitta"


Ariel sapeva razionalizzare l'irrazionale e stava imparando a gestire l'istinto invadente di gettare le proprie impressioni e sensazioni sugli altri, questo non significa fosse brava in ognuna di quelle.
Registrò troppo tardi il complimento sulla scelta del nome della macchina fotografica, stordita dal suo stesso flusso di pensieri.
O forse era semplicemente troppo stordita dalla caduta?
Poteva suonare una scusa valida, una menzogna, ma comunque buona.

«Oh uhm.»
Jolene 1, Cervello di Ariel 0.

«Mio padre mi portò a vedere i suoi quadri da piccola.»
A scoppio ritardato riprese le redini della discussione, dopo aver passato dieci secondi buoni a fissarla come il più tardo dei tardi. «e si è ispirato a qualcuno di questi per fare un piccolo stagno vicino alla serra di casa per coltivare delle ninfee.».
Fece spallucce, mentre finalmente seduta ebbe modo di poter ritornare con lo sguardo sulla macchina fotografica. Sollevò dalla base dell'obiettivo il suo coperchio, allacciato da un piccolo segmento di corda, riportandolo sulla lente per coprirla.
«Tu ... uhm.» Aggrottò la fronte, aprendo e chiudendo gli occhi più volte nell'osservarla. Era chiaro che Jolene l'avesse riconosciuta, tanto quanto che lei dalla sua la trovasse familiare.
La botta contro il pavimento era stato l'unico ostacolo che la portava a ritornare lentamente con i ricordi al loro incontro allo Stadio.
«Oh! Jolene!» sfarfallò le ciglia, ancora sorpresa dall'improvvisa scoperta. Probabilmente si era fatta più male alla testa di quanto si rendesse conto per essere arrivata a riconoscerla solo ora.
«Sì, penso di averlo ... è un problema?» Aggrottò la fronte, improvvisamente preoccupata, mentre alla cieca sollevava la macchina, premendo alcuni pulsanti e una levetta laterale, prima di portarla al volto per poter osservare dietro l'obiettivo.
Annuì lentamente. «Sicuramente ho impresso qualcosa, il rullino ha molto meno spazio, ma dovrei svilupparla qualche volta per essere sicura di aver preso tutto lo spostamento.»
Abbassò Claude, portandola nuovamente sulle gambe. «Sempre se non ci sono problemi. E anche con la foto di prima, eh! Non vorrei aver ... oh no, sono stata impulsiva di nuovo, vero? Perdonami, avrei dovuto chiedere. Aiuta se dico che è deformazione professionale?»
Tirò su le spalle con una velocità tale da far apparire il gesto più simile ad uno spasmo, come se una fitta di dolore le avesse scosso il petto.
Era senso di colpa. Latente, ancora minuscolo, ma comunque presente e vivo nell'allarmismo che si faceva spazio nello sguardo luminoso «Ah! Ho parlato troppo di nuovo, scusa. Oh. Uhm ...» Si guardò attorno, adocchiando il proprio corpo come se fosse la prima volta che lo notasse.
Si era dimenticata di essersi fatta male, sì. Per un attimo la discussione l'aveva colta tanto di scacco e cullata nell'entusiasmo delle sue argomentazioni da aver reso sordo un dolore che ora si faceva sentire, come un indolenzirsi delle gambe e un graduale pulsare della schiena.
«No no, non scusarti. Non sei stata stupida: eri.. eri...» Era cosa? Avventata? Impulsiva? Sconsiderata? Sua madre l'avrebbe additato così un comportamento come quello di Jolene. Più o meno come era solita dire per ogni scelleratezza istintuale portata avanti da Ariel. «Eri una rondine?» Ma i fatti, si sa, fanno più gola al Giornalista che la critica che vi può star dietro. Non perché meno importanti, ma perché fondamentali per strutturare un discorso; era una questione di priorità quella che la vedeva soffermarsi sulla realtà dei fatti (ai sentimentalismi, l'etica e un ramificato commentario dietro l'Animagia di Jolene, tanto, ci sarebbe sicuramente arrivata, ma dopo).
«Le conseguenze della tua caduta sono l'incontro con qualcuno che non sapevo se potevo ricontattare, foto che non pensavo avrei mai potuto scattare e ...»
Si morse quasi la lingua a fermarsi.
"Piaaano con le parole. Piaaano."
«... e poi sei un'infermiera, l'hai detto: sono fortunata.» Lo sguardo si soffermò sulle labbra della ragazza, su quel sorriso amaro che sembrava mal trattenere il senso di colpa e l'istinto di Jolene che la portava come suo solito ad additarsi e criticarsi.
La mano destra scivolò oltre la macchina, sollevandosi senza far troppa strada per cercare di poggiarsi contro il dorso di quella altrui. L'avrebbe percorso con la punta delle dita, lasciandole una carezza leggera. Movimenti circolari e continui che avrebbero accompagnato parole espresse con più lentezza e dolcezza, calma. «Ora respiriamo e ci alziamo, mh? Ci sediamo e giuro che puoi controllarmi la schiena, ma solo se parliamo di cose carine nel mezzo, ok? Non sentirti in colpa» Ed eccola l'empatia, amica e nemica, l'infido supporto di un cuore troppo grande: nemmeno si ricordava più di essere lei quella che stava andando nel panico in primo luogo, ora.
Calmare Jolene era diventata la prima cosa da fare nella scala di priorità.
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view post Posted on 21/8/2020, 16:52
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Fin dal loro primo incontro era subito emersa, disarmante, la spontaneità con cui Ariel affrontava le conversazioni. Per questo motivo, vedendola bloccarsi all'improvviso nel mezzo di uno scambio di battute, Jolene prese a domandarsi che cosa avesse detto di tanto spiazzante da lasciarla senza parole. Ricambiò il suo sguardo con titubanza, incerta su cosa aspettarsi: una correzione della sua pronuncia francese, forse, visto che alle orecchie di una madrelingua doveva suonare piuttosto penosa. Alcuni secondi trascorsero in silenzio, caricando un'atmosfera irreale che testimoniava quanto entrambe fossero ancora scosse. Infine la risposta venne, e non solo non si trattava di un rimprovero, ma custodiva nella sua semplicità una bellezza che fece nascere sul volto della rossa la curva di un sorriso. «Deve essere incantevole.» Immaginò come sarebbe stato vivere con l'incarnazione di uno dei quadri di Monet dietro a casa: le acque placide di uno stagno punteggiato dalle corone delicate delle ninfee, i riflessi ora dei raggi del sole, ora dell'ombra verdeggiante gettata dai salici che contornavano quella piccola nicchia dedicata alla contemplazione. A ben pensarci, un'esperienza non poi così diversa da quella che stavano sperimentando in quel momento, nella chiesa adibita a giardino. Mancavano la freschezza di una distesa d'acqua e i fiori dai colori ricchi, che erano piaciuti al pittore tanto da spingerlo a costruire un giardino che fiorisse l'interno anno. Nonostante ciò, tuttavia, credeva che gli sarebbe piaciuto poter trasferire sulla tela St Dunstain in the East.
Era tipico di Jolene lasciarsi sedurre da visioni come quelle, immergersi in ciò che la circondava o in ciò che poteva immaginare, e farlo fino a perdere il contatto con i dettagli più semplici e immediati della realtà. Mai, nemmeno per un istante, aveva pensato di presentarsi, quasi fosse convinta che il riconoscimento viaggiasse sempre nelle due direzioni. Capire il suo errore la fece ammutolire per l'imbarazzo, lasciando che la conferma della sua identità arrivasse all'altra attraverso un sorriso accennato e un gesto della testa. Il suo lato razionale, finalmente destato, prese ad arguire che in effetti le due si erano viste una sola volta prima di allora. Dimenticare o confondere l'aspetto singolare di Ariel era pressoché impossibile, ma Jolene non si distingueva con altrettanta forza per modo di vestire o di presenza. Le circostanze attuali, per di più, erano a dir poco confusionarie; eppure, sul momento si risentì del fatto che il riconoscimento arrivasse solo allora, emozione che tuttavia venne sopita dalla ben più preponderante sorpresa nel constatare che Ariel avrebbe trattato con la stessa gentilezza qualsiasi sconosciuta le fosse cascata addosso dal cielo.
Dimenticò del tutto la faccenda una volta che venne assorbita dalla curiosità per gli scatti: inconsapevolmente protese il busto in avanti, una mano poggiata sul ginocchio e l'altra a terra, quasi volesse sbirciare anche lei dietro all'obiettivo. Non aveva la minima idea di che cosa stesse facendo Ariel con i pulsanti e le levette, non aveva mai avuto una macchina fotografica, magica o babbana che fosse. Ne era affascinata, si domandava che cosa, esattamente, vedesse l'occhio della francese quando si barricava dietro a Claude. In quel momento stava ripercorrendo la trasformazione? Ma no, a giudicare dalla spiegazione della bionda non poteva vedere nulla prima di sviluppare il rullino. Raddrizzò la schiena, retrocedendo sotto all'influsso di una punta di delusione: le sarebbe piaciuto vedere subito.
Il suo atteggiamento dovette essere malinteso da Ariel, perché questa prese a scusarsi. Jolene si affrettò a rassicurarla: «Non c'è nessun problema, davvero. Anzi, sono tanto curiosa di vedere le foto quando le svilupperai. La prima, della trasformazione...», agitò le mani davanti a sé, cercando attraverso i gesti di dare una forma concreta alla propria impazienza – il risultato, inutile dirlo, fu ancora più confusionario. «Ci terrei tanto ad averla.»
Avrebbe voluto aggiungere qualcosa di più – che non c'era necessità di controllare l'economia delle parole, ad esempio, o sentirsi in colpa per il proprio modo di essere –, ma i suoi propri ripensamenti intervennero a frenarle la lingua. L'autocommiserazione, in cui era tanto facile cadere, si invischiava intorno ai suoi pensieri, alle emozioni che la smuovevano, e li cristallizzava in forme dolorose. Ariel riuscì a rassicurarla solo in parte, confermandole quanto la sua percezione, o forse la sua sensibilità, fosse diversa da quella della maggioranza. Naturalmente, non era da escludersi che volesse solo confortarla, e che dentro di sé la considerasse avventata e irragionevole; per qualche ragione, però, Jolene non riusciva a credere ad una discrepanza così marcata tra l'interiorità della ragazza e le sue parole. Non si trattava solo della spontaneità nei suoi modi, ma soprattutto dello sguardo: nello scorgerli fugacemente prima di abbassare il proprio, Jolene constatò ancora una volta come Ariel avesse gli occhi di una bambina. Bastava guardarli per convincersi che non avrebbe mai mentito, e poco importava che una simile assunzione fosse tremendamente azzardata.
Se li ritrovò di fronte, ancora, quando il tocco della sua mano la riportò in superficie, strappandola al gorgo di pensieri. Guardò un momento quel contatto – dita pallide su dita pallide, una trama eterea che, nondimeno, le trasmetteva il suo calore –, prima di posare lo sguardo sul volto dell'altra. L'espressione di Jolene, che da poco si era visibilmente spenta, in quel momento riacquistò vitalità. La luce baluginò un istante tra le pupille nere, e già i tratti sembravano più morbidi, addolciti dalla curva delle labbra. Pacata e melodiosa, la voce di Ariel aveva agito da calmante, ma più di tutto, su Jolene influiva l'intenzione benevola che leggeva nel comportamento della donna. Desiderò adattarvisi, entrare in sintonia con la sua leggerezza, così che entrambe diventassero belle attraverso i propri gesti.
«Va bene. Facciamo così: io non mi sento in colpa e tu dici quello che vuoi, senza chiedermi scusa.» Stava proponendo di accantonare la paura continua di stare sbagliando: si trovavano in un posto fuori dal tempo, sembrava la condizione perfetta per lasciarsi alle spalle qualche abitudine deleteria, almeno per qualche tempo. «D'accordo?» Un sorriso complice, poi fece per alzarsi in piedi. Il ginocchio le doleva, ma non le avrebbe impedito di camminare. Si mosse con lentezza, per evitare nuovi capogiri, e avrebbe aspettato che anche Ariel si fosse alzata prima di avviarsi verso il cornicione dove si era posata la rondine. Solo in quel momento si accorse che le mancava una scarpa: con una smorfia di disappunto guardò in basso, verso il calzino che accompagnava l'unica converse superstite in una desolante asimmetria. Decise di lasciar perdere, non era importante.
«Dunque» si scosse, intenzionata a rendere più piacevole l'improvvisato controllo medico. «Immagino che tu abbia già sentito parlare di Animagia, vero?»
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view post Posted on 24/8/2020, 16:44
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Le labbra si piegarono in un sorriso ampio, carico di nostalgia.
"A papà piacerebbe tanto sentire questa conversazione"
Era bastato nominare Monet perché la mente tornasse al cottage di famiglia, ai paesaggi della Loira e all'entusiasmo di suo padre fra gli arbusti farfallini e le colture dell'orto. Un flebile sospiro le lasciò il naso, caldo e pesante.
"Gli piacerebbe anche questo posto. Chissà se in una chiesa si potrebbe fare uno stagno."
Scosse leggermente il capo, come a voler far scivolare via dalla mente quei pensieri.
Conoscendosi, era perfettamente consapevole avrebbe rischiato di commuoversi in pochi attimi spezzando l'armonia della conversazione con Jolene, solo perché afflitta dai ricordi di una bell'infanzia che non era più a portata di smaterializzazione.
Non ne valeva la pena. Non sarebbe stato giusto, né per sé né per la ragazza di fronte a lei.
Per concentrarsi nuovamente sui suoi pensieri, governare le emozioni e rimanere in controllo di se stessa non si rese conto del leggero spostamento dell'infermiera, se non quando la vicinanza la portò a percepire la leggera ombra proiettata dalla maga sulla sua macchina fotografica.
"Profuma di rose."
Constatò, portando inavvertitamente il naso verso l'alto e sniff sniff, annusando l'aria fra lei e l'animagus.
"Tipo quelle che si pressano nei libri e si riscoprono solo dopo mesi."
Ecco, si era persa di nuovo nell'analisi di un altro input. Ma diversamente da come ci si poteva aspettare, per quanto creativa e facile all'immaginazione potesse essere, Ariel tendeva sempre ad associare a sensazioni e idee delle immagini concrete e reali.
«Profumi di rose.»
Lo sussurrò a fior di labbra, inclinando di nuovo il capo e sporgendosi appena in avanti verso Jolene. Annusò l'aria, incautamente vicina (troppo) alla ragazza. Annuì lentamente.
«Mi ricorda la sala di Madama Piediburro quando non è affollata. Usa un sacco di infusi a base di fiori. La conosci?»
Terza associazione di idee, destinata ai famosi infusi floreali che aveva potuto assaggiare e vedere preparare nelle poche visite fatte al Villaggio.
Per quanto emotiva, insomma, aveva sempre la tendenza a comunicare rimanendo con i piedi per terra, ancora alla portata del suo interlocutore.
Per la massa sarebbe potuta essere una scoperta sorprendente, visto che con le sue stranezze e il suo comportamento eccentrico da Ariel ci si sarebbe potuto aspettare qualche commento astratto e istrionico, un po' privo di senso logico. come quando si legge un romanzetto rosa scadente con descrizioni come "sapeva di vento, di libertà e promesse spezzate" - na cosa che "mamma mia, abbattetemi".[1]

Abbandonata la macchina fotografica con lo sguardo, questo era tornato a concentrarsi sul volto di Jolene, ora più vicino.
Si soffermò solo per qualche secondo sulle lentiggini che le tempestavano il volto, per poi risalire lungo il profilo del capo, oltre la fronte, fino a soffermarsi sulla curva assunta dalle radici dei capelli.
La luce rossastra che filtrava dagli archi di St. Dunstain veniva proiettata con cura meticolosa sul capo di Jolene, portando Ariel a inclinare leggermente il capo di lato, cercando in un'angolazione diversa la prospettiva giusta da cui poterla osservare.
Le sfiorò la spalla con i capelli chiari, lasciando che alcune ciocche ricadessero in onde accennate contro quelle rosse e più voluminose dell'infermiera.
La sua era deformazione professionale, probabilmente, o forse solo la reazione istintiva del suo corpo ad una curiosità quasi morbosa.
"Mi chiedo se non le donerebbe meglio uno sfondo blu. Il verde è un classico abusato."
Lo sguardo si illuminò a quella sua osservazione, rinvigorito nell'entusiasmo dalle parole di Jolene.
«D'accord
Il fatto che stesse riuscendo a seguire il flusso dei suoi pensieri e il loro discorso era notevole, ma ne pagava le conseguenze la sua espressione facciale: tendeva a rimanere statica fra una battuta e l'altra, alternando fra il volto contratto per esprimere teatralmente espressioni forti (gioia ed entusiasmo come in questo caso) e quelle più placide e anonime (pacatezza e melanconia).
La nota sognante del suo sguardo e l'ombra costante di un sorriso sul volto potevano diventare nel tempo una presenza quasi plastica agli occhi di Jolene.

Si alzò con qualche scarto di ritardo rispetto all'infermiera, non nascondendo l'improvviso contrarsi delle labbra in una smorfia.
La zona centrale della schiena aveva trasmesso nuovamente una fitta di dolore. Era tollerabile, ma comunque spiacevole. La mano destra, unica libera, si portò contro la pelle bianca, oltre il bordo della gonna plissettata cercando di raggiungere il punto dove probabilmente si sarebbe formato un livido di lì a poco.

Raggiungendo nuovamente il cornicione in marmo, Jolene potrebbe aver notato a sua volta come le scarpe di Ariel fossero state abbandonate poco più in là, vicino al principio di un'infestazione d'edera: erano scarpe di tela blu con suola, punta e lacci bianchi; ricordavano delle Converse babbane nel modello, anche se non vantavano lo stesso marchio.
Ariel era abituata ad andare in giro scalza, però, quindi non si mosse con fatica, né si curò di controllare i piedi di Jolene, perdendo quel dettaglio essendosi seduta di fronte a lei, dandole le spalle per permetterle di controllare non si fosse fatta troppo male.

Preso posto dove era seduta prima, abbandonò Claude dentro la tracolla consunta di pelle e la sfilò, poggiandola di fianco alle scarpe.
«Non penso sia niente di che, comunque.»
La caduta l'aveva portata a sbattere spalle e schiena e queste indicò a fatica con le mani.
Mugugnò alla sua domanda, annuendo energicamente col capo. «Lisette de Lapin era un animago, c'est vrai? Come il personaggio di Babbitty di Beda il Bardo scritto su di lei.» Era un bene che certi titoli fossero famosi internazionalmente fra i maghi, come la breve storia di "Baba Raba e il ceppo ghignante".
Jolene dalla sua prospettiva poté notare nel frattempo come i capelli di Ariel fossero stati tagliati alla ben e meglio, probabilmente il tentativo di un fai da te andato male: alcune ciocche erano state fatte scalare tagliandole di netto con una forbice e ora che stavano crescendo naturalmente, non tutte le estremità erano della stessa lunghezza. A lei però importava ben poco e la distrazione data dal parlare di Animagia era abbastanza da farla perdere in nuove speculazioni.
"Chissà se le starebbero simpatici gli animali francesi. Ma le rondini francesi parlano il rondinese o il francese? Chissà se in questa chiesa si potrebbe fare uno stagno come quello di casa. Ma una ninfea regge il peso di una rondine?"
Dopo qualche secondo un nuovo commento:
«Quindi sai ... trasfigurarti?» Fece fatica a pronunciare la parola in inglese con esattezza, vedendola incespicare sulla cadenza francese.
Sollevò di scatto le sopracciglia, sorpresa. Le gambe penzoloni ai lati del cornicione cominciarono a muoversi, accompagnate dai piedi nel fare rapidamente su e giù.
Un lampo di eccitazione fece capolino sullo sguardo, mentre il sorriso d'un tratto si era fatto ampio, mostrando una fila di denti bianchicci. Si voltò, ruotando leggermente il busto quanto le bastasse per inquadrare Jolene dalla sua posizione.
«Ma deve essere una cosa super difficile! Cioè, significa che sei super bravissima. Tipo ai livelli di un insegnante! Posso chiedere quanto tempo ti è servito per capire come fare? Lo insegnano in Inghilterra ad Hogwarts? Ma puoi volare a lungo? Com'è?»
L'unico motivo per il quale non stesse urlando per l'entusiasmo era per paura che un babbano di passaggio potesse sentirle. Quindi sibilava le parole più conflittuali fra i denti, finendo col protrarsi in dietro col busto per essere più vicina alla povera Jolene. Si teneva con le mani congiunte davanti a sé, schiacciate contro il marmo, così da evitare di perdere l'equilibrio e finirle addosso.
I piedi si muovevano ancora, entusiasti come la coda di un cane in festa.
E si era dimenticata le facesse male la schiena.
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[1] = la frase è opera di Unconsoled



Edited by petrichor. - 24/8/2020, 17:59
 
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Uno sbuffo di vento scostò il fogliame sopra alle loro teste, in un gentile fruscio che si accompagnò alla peculiare cadenza della francese: «Profumi di rose».
La prima reazione di Jolene fu di acquistare un certo colorito sulle guance. Quasi non se ne accorse: il suo sguardo, così come il resto delle sue percezioni, erano concentrati su Ariel, che si trovava talmente vicina da riempirli della sua presenza luminosa. La contornava una sorta di magnetismo impossibile da ignorare: vi contribuiva l'imprevedibilità dei suoi comportamenti, ma non si riduceva ad esso. Jolene non capiva esattamente perché si sentisse attirata a guardarla – i tratti che, pur discordanti nella loro mescolanza di dolce e marcato, davano forma ad un disegno compatto, pieno di vitalità –, ma pensava che avesse a che fare con l'attenzione che la bionda per prima le riservava. Non poteva esserci vero imbarazzo di fronte ad un atteggiamento così trasparente nella sua naturalezza. Le sembrava che Ariel non si fosse mai caricata delle innumerevoli censure che crescendo si impara ad apporre come recinti intorno al proprio comportamento. Così, poteva commentare come se niente fosse il suo profumo di rose e la sua somiglianza agli infusi del Madama, e Jolene poteva accettarlo come un dato di fatto che, per ragioni poco rilevanti, era necessario esprimere in quel particolare momento.
«È il mio locale preferito.» Aerea, la voce di Jolene spezzò il silenzio di pochi istanti. Curioso che Ariel la associasse proprio a quella realtà, tra le innumerevoli che le rose avrebbero potuto ricordarle. Jolene non ci aveva mai pensato, per quanto trovasse inebriante il profumo degli infusi ricercati in cui la piccola sala da tè era specializzata. Inspirò a fondo, cercando di indovinare le note fiorate della propria pelle e confrontarle con i ricordi che serbava del locale; tutto ciò che sentì, però, fu l'aroma permeante e fumoso dell'incenso. Fino a quel momento era passato in sordina, anche nei momenti in cui Ariel le era stata più vicina, relegato alle percezioni che non si era presa la briga di elaborare coscientemente. Emerso in superficie, divenne un nuovo tassello tramite cui definire la sua idea di Ariel, rivelandosi piuttosto azzeccato alla qualità inafferrabile che percepiva alla base del comportamento della donna. Era un profumo che associava al misticismo e al mistero, alla sensazione indefinibile che la pervadeva ogni volta che entrava in una chiesa Babbana. Cresciuta a stretto contatto con una parte della cultura dei senza poteri, Jolene sapeva che non tutti i Maghi avevano la medesima conoscenza del loro mondo. Forse Ariel non avrebbe avuto la minima idea di che cosa volesse dire con una frase come Tu profumi di cattedrale, e ad ogni modo si sentiva ridicola solo a pensare di dire qualcosa del genere. Se era vero che – sedute per terra a costruire discorsi apparentemente sconnessi e ad osservarsi a vicenda – sembravano due bambine, Jolene tuttavia non era pronta a lasciar andare del tutto la presa su ciò che normalmente veniva considerato ragionevole. Non disse altro sull'argomento, dunque, lasciando che le loro parole scivolassero su altro.
Fu bello assistere al momento in cui l'espressione della francese si accese per accogliere il loro nuovo accordo. Con quella promessa ad aleggiare tra di loro, Jolene scoprì che mantenerla era più semplice di quanto avrebbe pensato. Il dolore fisico pulsava sordo, sprigionandosi dal ginocchio in ondate che rischiavano di riportarle alla mente pensieri circolari, emozioni negative; ben più convincente, però, era la spinta liberatoria da parte di Ariel, con il suo chiacchiericcio entusiasta. Jolene non fece in tempo a notare le scarpe blu abbandonate sull'erba ma, se lo avesse fatto, avrebbe constatato come girare a piedi scalzi fosse proprio il tipo di piccola libertà che si sarebbe aspettata da Ariel.
Le due sedettero, quindi. Jolene sentì la pietra fredda del cornicione premerle contro la schiena per qualche secondo, prima che si scostasse per vedere più comodamente la schiena dell'altra.
«Non penso sia niente di che, comunque.»
Annuì, prima di rendersi conto che Ariel non poteva vederla. «No, non penso nemmeno io. Senti dolore se respiri a fondo?» Aveva assunto un tono calmo, privo di inflessioni accentuate. Notò con stupore il taglio irregolare dei capelli biondi, probabilmente era opera di Ariel stessa; poi abbassò lo sguardo, in cerca di ematomi che punteggiassero la pelle chiara.
Suo malgrado, sentì nascere un sorriso quando Beda il Bardo venne nominato. «Sì, sembrerebbe che Lisette fosse in grado di trasformarsi in un coniglio, proprio come Babbitty. Però su una cosa la fiaba si sbaglia: nella forma animale non è possibile parlare. Sarebbe molto utile, però niente da fare. Forse se sei un pappagallo, ma di certo non come rondine.»
Non si era soffermata molto a pensare a come Ariel avrebbe potuto rapportarsi alla scoperta del suo piccolo segreto – se così poteva essere chiamata un'abilità registrata al ministero. Le piaceva la sua curiosità, l'entusiasmo che emanava allegro dal dondolio delle gambe, dal sorriso aperto che le rivolse torcendosi per poterla guardare. Si ritrovò a ridere, alleggerita di qualsiasi peso potesse essere rimasto a gravarle sul petto. Non era una qualche ingenuità della francese a divertirla, tutt'altro: Ariel mostrava la stessa sete di conoscere che apparteneva anche a lei, ed era in grado di sfoggiarla con una vivacità che la metteva di buon umore. «Non sono ancora così brava, in realtà. A volte perdo il controllo, lo hai visto anche tu. La teoria è fondamentale, ma è solo una piccola parte.» Si zittì per qualche secondo, stupita lei stessa della semplicità con cui stava parlando: prima di allora, aveva raccontato le sue avventure solo ad Oscar e Virginia, e anche allora si era concentrata solamente sul sogno durante il quale aveva scoperto l'animale guida; ancora non c'erano state occasioni di approfondire il modo in cui stava vivendo l'Animagia. Poterne parlare a voce alta dava all'esperienza una concretezza nuova, ma non era così immediato trovare un modo intelligibile per descrivere ciò che, per una volta, aveva vissuto sulla propria pelle, senza l'ausilio mediatore delle parole. Eppure, le piaceva il suono della propria voce mentre si modellava con dolcezza intorno alla spiegazione.
«A Hogwarts ci danno delle dritte sulla trasfigurazione umana durante gli ultimi anni, ma niente di così avanzato. È stato più che altro ricerca personale, mi ci sono voluti mesi per capire come fare. È la cosa più bella che sia riuscita a raggiungere, da qualche anno a questa parte. Posso volare abbastanza a lungo, ma mi conviene non esagerare, se non voglio rischiare di cadere quando meno me lo aspetto. Però è così semplice perdere il conto del tempo, quando sei lì. È come...» Si interruppe, indecisa su come proseguire. Si lasciò andare all'indietro, appoggiandosi alla struttura della finestra, lasciando che lo sguardo si perdesse per alcuni secondi contro i ghirigori che le sovrastavano. «Come se tutto ti appartenesse e allo stesso tempo ti fosse così estraneo da non poterti mai toccare. Però in un modo bello, volare è la cosa più vicina alla felicità perfetta che mi possa immaginare.» Sorrise nell'abbassare gli occhi, con l'intento di incontrare ancora quelli della francese, che avrebbe potuto vedere la luce riflettersi nelle iridi verdi con una vivacità di fiamma. Jolene si era letteralmente illuminata.
Drizzò la schiena, e con gentilezza posò una mano sulla spalla di Ariel per invitarla a voltarsi del tutto dalla parte opposta. «Sai, è così che immagino che sia fare le foto: l'obiettivo crea la distanza, e allo stesso tempo ti permette di vedere le cose con una chiarezza sorprendente. Tutto diventa più bello, semplicemente perché lo stai guardando da un punto di vista privilegiato. Ti fa male se premo qui?» A quel punto, senza soluzione di continuità tra un discorso e l'altro, avrebbe premuto contro la parte alta della schiena, tra le scapole. Il suo tocco, normalmente leggero, avrebbe insistito maggiormente, così da testare la reazione di Ariel.
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Ariel A. Vinstav
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«È il mio locale preferito.»
Le sorrise, soddisfatta di quella piccola confessione.
"Me lo ricorderò."
Non le sfuggì il farsi più profondo del respiro di lei: se lo sentì addosso, come una brezza tiepida a pizzicarle la pelle; quest'ultima per un momento venne decorata da punti bianchi, là contro gli incavi del collo dove l'espirare di Jolene si era poggiato, facendola rabbrividire.
«Non possiamo sentire l'odore della nostra pelle.» Lo sussurrò con la voce che si era fatta piccola piccola, come se quello fosse un segreto, fatto solo per loro due.
«Ma è anche per conoscere queste cose di noi che è divertente esplorarsi con gli altri.» Divagava di nuovo, lasciando cadere gocce di sé lungo il percorso delle sue conversazioni. Era un commento per se stessa o per la sua interlocutrice? A volte era difficile mettere a fuoco certe cose nelle conversazioni con Ariel. A lavoro era un'altra storia, era più facile indossare le aspettative degli altri, i filtri di una società della quale aveva imparato gradualmente a spogliarsi, un indumento alla volta; davanti a Jolene, ora, invece, era spoglia di guanti per toccare, lenti dietro cui nascondere, inchiostro con cui toccare il prossimo.
Erano solo Jolene e Ariel, la rondine e la brezza che ne studiava i movimenti, la rosa e la chiesa.

Prese un profondo respiro da sopra il suo scranno di marmo. L'aria profumava dell'edera che decorava le pareti imbrunite di St. Dunstan's, delle rose canine che Madama Piediburro lasciava appassire fra le foglie di tè verde col cardamomo. «Non fa male, ma la pelle pizzica come quando da piccola cadevo dalla scopa di mio padre.» Lo disse come se Jolene fosse lì quando da piccola si fingeva pilota esperta e provava ad arrampicarsi sulla Oakshaft 79 con pessima scaltrezza e furtività.

Voltatasi sul posto, gambe che oscillavano ancora avanti ed indietro con la verve che ci si aspetta da un bimbo entusiasta, si vide presa in contropiede dalla risata dell'animagus.
"Dovevo tenere Claude fuori dalla borsa"
Si ritrovò a pensare con rammarico, mentre lo sguardo si perdeva in un'analisi frettolosa delle labbra arrossate di Jolene, del contrarsi della gola nell'accogliere una risata leggera e spontanea.
Avrebbe potuto giurare di aver nuovamente superato il limite con la sua invadenza, come suo solito, invece lei era ancora lì, pronta a seguire il ritmo sconclusionato della sua mente, fatta di istinti ed emozioni flessibili.
Per chi doveva sempre tenere in conto come le persone sarebbero stato prevenute nei suoi confronti ancor prima di parlare, Jolene White si stava rivelando essere una ventata d'aria fresca per quel pomeriggio di tarda estate.
«Far coesistere l'istinto di voler essere liberi e quello dell'oppressione che siamo abituati a sentire per seguire delle regole è abbastanza difficile, farlo concentrandosi a mantenere delle piume deve essere un super lavorone, Jolene.» Eccolo, l'ennesimo salto fra un punto di vista e l'altro. Aveva toccato temi e concetti astratti di un certo spessore, crudi se si voleva considerare come in pochi si sarebbero sentiti di voler parlare spensieratamente di concetti così intimi, poi era finita con l'addolcire tutto con un complimento infiocchettato e la cadenza francese, come se non ci fosse nulla su cui riflettere su quanto detto da lei. «Lessi qualcosa in merito in Accademia, ma è la prima volta che incontro qualcuno che è riuscito a completare una trasfigurazione di animagia. Questo ti rende straordinaria, non Sfarfallò le ciglia chiare, mentre il sorriso sul volto si fece più ampio, dolce. «Non posso immaginare come ci si senta a volare col proprio corpo, ma deve essere meraviglioso e tu puoi garantirlo per me.» Sembrava quasi voler spronare l’altra a percepire l’importanza del suo gesto fra sorrisi e complimenti.

Seguì la pressione della mano altrui contro la spalla, ruotando sul posto. Nell'ascoltarla nemmeno si rese conto di essere tornata a osservarla da vicino, una volta ruotato il busto verso il fianco opposto.
«Dopo cinque anni di fotografia ci si aspetta dica che sì, la distanza rende tutto più chiaro e quindi più bello.» Una nota stonata si inserì nell'armonia di parole e movimenti: i polpastrelli avrebbero trovato nervi contratti, muscoli a contatto contro i polpastrelli e la resistenza contro la loro pressione delle zone intorpidite e accavallate.
«Ngh.» Mugolò un lamento fra le labbra, soffocandolo contro un sospiro fremente e pesante. Sollevò lo sguardo, cercando quello altrui: sì, aveva fatto male.
«Vedo nella fotografia una possibilità. Quella di vedere altro, notare cose diverse di chi ha vissuto l’esperienza dal vivo.» Umettò le labbra, mentre istintivamente avrebbe contratto le spalle, cercando di tendere i muscoli della schiena proprio contro le dita altrui; qualcosa le dava fastidio al tatto.
«E' una storia nella pellicola, è una testimonianza senza testo: le parole le mettono chi vede, è un gioco di interpretazione senza regole.>
Poi si voltò, lamentando a mezza voce un «E' peggio di quando dormo con la gamba sulla testata del letto, ma simile.» .
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Edited by petrichor. - 1/10/2020, 11:38
 
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view post Posted on 21/10/2020, 13:12
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Jolene non conosceva l'odore della propria pelle; allo stesso modo, non conosceva l'aspetto ibrido che assumeva il suo corpo a metà di una trasformazione, né poteva vedere il gioco di luci e ombre che le fronde disegnavano in quel momento sui suoi capelli. È anche per conoscere queste cose di noi che è divertente esplorarsi con gli altri. La voce sognante di Ariel le riecheggiò tra i pensieri durante un breve momento di silenzio. Doveva inevitabilmente darle ragione; e mentre la ascoltava, trasportata ancora una volta nel presente, aggiunse tra sé e sé che insieme non si scoprivano solo i corpi, ma anche qualità impalpabili che una mentalità esterna poteva cogliere in una luce diversa da quella a cui si era abituati. Lei, ad esempio, non aveva mai considerato straordinarie le proprie capacità. Non era stato semplice padroneggiare l'Animagia, e sapeva che non erano molti quelli che arrivavano fino a lì; ma che fosse addirittura straordinario? No, Jolene non si credeva più dotata di altri, e tutto ciò che la distingueva dalla media era l'impegno che aveva deciso di profondere al fine di raggiungere un obiettivo. Sorrise alla donna, una stretta di spalle le scosse rapidamente la figura: «Mi rende solo particolarmente determinata in quel campo, immagino».Non stava ostentando finta modestia, né sminuendo i propri risultati; al contrario, Jolene era fiera di ciò che aveva raggiunto, e il fatto di aver dovuto lavorarci con costanza non faceva che aumentarne il valore. «E sì, è assolutamente meraviglioso. Credo che la cosa che più ci si avvicina sia volare sulla scopa, ma non è davvero lo stesso.» Lasciò scivolare quel paragone che – ne era certa dopo il commento di Ariel di poco innanzi – lei avrebbe compreso immediatamente.
Se volare con e senza scopa restavano due esperienze fondamentalmente diverse, si cadeva sempre allo stesso modo. Stava pensando a questo, mentre valutava le conseguenze dell'essere precipitata addosso alla francese. Le sue considerazioni si muovevano su binari distinti di argomenti completamente scollegati, ma Jolene non aveva difficoltà a seguire le due linee della conversazione: da un lato la concretezza dei dolori muscolari, dall'altra discorsi di riflessione astratta. Sentiva di potersi muovere con naturalezza nelle circostanze di quell'incontro fortuito, e così la novità che la persona di Ariel costituiva per lei si manifestava in aspetti positivi quali curiosità e sorpresa, tralasciando possibili imbarazzi che talvolta conosceva ancora, a dispetto di una personalità fondamentalmente aperta.
«Non sembra essere niente di grave, l'indolenzimento sparirà del tutto tra qualche ora. Vorrei poter fare qualcosa, ma non conosco incanti utili.» Si sentiva in debito, ma in fondo sarebbe potuta andare peggio. Rivolse all'altra uno sguardo in cui si leggeva una richiesta di scuse.
Nel mentre, sembrava davvero che il mondo intero si fosse dimenticato di quel giardino tra le rovine: Jolene non udiva altre voci se non le loro, e non c'era nessuno in vista. L'isolamento, sorprendentemente, rendeva il paesaggio ancora più accogliente, invitando a perdersi tra le sue meraviglie mute. All'improvviso, a dispetto dell'indolenzimento, Jolene sentì di volersi muovere. Sembrava un peccato rimanere ferme in un unico punto, per quanto incantevole, quando pareva che avessero a loro disposizione l'interezza di quel mondo fatato. «Ti va di fare una passeggiata?» Domandò a bruciapelo, le pupille che già si perdevano lungo il sentiero che avrebbero potuto percorrere. «Camminiamo piano, se senti male possiamo fermarci quando vuoi. Non vengo abbastanza spesso qui, ma è uno dei miei luoghi preferiti in assoluto.» Riportò lo sguardo su di lei, speranzosa. A ben pensarci, non sapeva nemmeno quanto Ariel frequentasse il posto, né se vi si era recata per qualche motivo in particolare. Per fare degli scatti, forse?
«Quindi non è il bello che ricerchi nelle foto, ma esperienze.» Dopo alcuni istanti di silenzio, la riflessione scivolò tra loro in un tono apparentemente casuale. Una parte della mente di Jolene aveva continuato a rimuginare su quanto le aveva detto l'altra, e infine lasciò cadere quel principio di riflessione, sperando che l'altra lo raccogliesse per spiegare meglio le proprie idee. Jolene non conosceva molti artisti, era affascinata dal modo in cui Ariel intendeva la propria attività. «Non credo di avertelo mai chiesto, ti occupi di questo? Sei una fotografa?»
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view post Posted on 2/11/2020, 19:37
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Ariel A. Vinstav
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Jolene poteva considerarsi una persona umile e sì sa, l'umiltà era esattamente ciò che in società si considerava fra i principi di "una brava persona", assieme a gentilezza, onestà e così via. Ariel però raramente si ritrovava col concordare con la massa e ancora con più difficoltà a comprendere i canoni medi di ciò che doveva definire un comportamento come "buono" o "cattivo". Si ritrovò così a guardarla, tenendo la testa inclinata verso sinistra e il busto torto perché gli occhi potessero trovare quelli della maga nonostante le loro posizioni. Era confusa.
Storse il naso e arricciò le labbra in una smorfia infantile che sembrava sostenere la mozione non direttamente espressa del "non capisco".
«Perché essere determinati nell'ottenere ciò che si vuole dovrebbe renderti meno straordinaria?» Il tono sognante permaneva lì, ma reso più sentito nella serietà che quel dilemma le lasciava. Stava ragionando di nuovo troppo e per un attimo non riuscì più a guardare seriamente Jolene, perdendosi nei suoi occhi solo per il piacere di pensare, più che di osservarla; un punto cieco su cui crogiolarsi, mentre la mente si affannava a ricreare scenari che cercassero di sostenere la causa di Jolene.
Dopo una ventina di secondi scuoteva di nuovo il capo. «Ho visto tante persone determinate o ostinate. Chi "riesce", però, non è spesso soddisfatto. Poter vivere un successo e mostrare fierezza di ciò che si è ottenuto è straordinario: significa che non sei come la maggioranza che ambisce ad avere di più e basta, per il piacere del successo fine a se stessi; tu ambisci a ciò che ti fa sentire qualcosa per il piacere di sentire davvero — perché non dovrebbe essere una cosa straordinaria?»
Ed eccola, quella coltre di pensieri e osservazioni che no, non avevano nulla a che vedere con l'umiltà di Jolene o quella di chiunque altro ad esser sinceri.
Ariel, però, si era già capito fosse fuori dagli schemi.
Dietro anche una frase innocente come un «Mi rende solo particolarmente determinata in quel campo, immagino» lei vedeva un errore, un bug nel sistema per dirla in termini babbani, perché non riusciva proprio a fermarsi alla prima sensazione e osservazione: doveva analizzare ogni sfumature di un concetto, assaporarne tramite empatia e immaginazione il sapore che una sensazione doveva lasciare a qualcuno; Jolene poteva volare, Jolene poteva essere fisicamente libera della terra con il movimento di una bacchetta — non era una sensazione relegabile alle parole, né alle sue preziose foto.
«Non è solo complesso a livello tecnico, è complesso anche a livello delle sensazioni: non hai saputo spiegarmi a parole cosa ci si prova ad essere una rondine e sappiamo entrambe non potrò capirlo sviluppando il rullino. Hai ottenuto l'abilità di sentire oltre le parole ed è una cosa per pochi: essere umili equivale a sminuire un evento straordinario che per te è a portata di bacchetta; e l'evento è causato da te, quindi...» Si interruppe. Improvvisamente si era resa conto di aver parlato per tutto quel tempo.
Abbassò lo sguardo adocchiando le labbra di Jolene e poi verso l'alto a cercarne ancora gli occhi, primo di voltarsi e tornare con il capo rivolto verso l'arco esposto della chiesa, cercando nei nodi dell'edera una distrazione.
Le guance si erano improvvisamente tinte di rosso, non riuscendo a trattenere un leggero imbarazzo: stava davvero esprimendo a voce un ragionamento dei suoi nel dettaglio?
Poteva già sentire dietro la nuca l'eco dei commenti divertiti dei suoi compagni d'Accademia, un "cretina" e "stramba" dietro l'altro.
Sospirò e scosse leggermente il capo. «Insomma. Era per dire che sei straordinaria, ecco. Scusa. Ho parlato un sacco di cose che non hai chiesto.»

Lasciò che Jolene le controllasse la schiena, sussultando solo quando le dita di lei toccavano le parti più sensibili — dove sicuramente sarebbe affiorato più di un livido di lì a breve.
«Non fa troppo male, non è così importante, davvero.» Non sminuiva la situazione: aveva ricevuto botte peggiori a furia di perdersi fra i boschi dall'infanzia e Beaxubatons le aveva insegnato abbastanza da averle lasciato piccole cicatrici permanenti per la sua incoscienza: fare da punto d'atterraggio per Jolene era un'azione a fin di bene da poco.
"Sapesse come mi sono rotta il mignolo..."
Non ebbe però modo di raccontarglielo, non quando la sua attenzione virò totalmente sulla possibilità di fare una passeggiata.
Gli occhi si fecero grandissimi, colmi di un entusiasmo che espresse sollevandosi di scatto, in barba alla fitta alla schiena che la portò a barcollare sul posto.
Ancora a piedi nudi, si affrettò a recuperare le scarpe e con una naturalezza quasi avvilente infilarle dentro la sua tracolla.
Le avrebbe rimesse solo quando sarebbe stato inevitabile per camminare per le strade di Londra. «Io è la prima volta che vengo! Stavo cercando di perdermi per fare delle foto.» La frase sarebbe potuta benissimo apparire senza senso e chissà, forse una logica non l'aveva nemmeno per lei, tolta la sensazione di pancia che le riconfermava ancora come avesse fatto benissimo a venire fino a Londra quel giorno.
«Ti viene in mente qualche bel posto? Se mi dai il tuo indirizzo posso spedirti via Gufo qualcosa, oltre agli scatti di prima — se sono venuti bene.»
L'ultima nota si affrettò a farla sbrigativamente, perché per quanto volesse suonare filosofica nel descrivere il suo rapporto con la fotografia, era comunque capace di peccare di borioso perfezionismo con i suoi lavori, riuscendo a criticarli anche oltre il necessario per spronarsi al meglio.
«Cerco di sentire e capire sentendo, sì.» Nel dirlo le mani, ancora inserite nella tracolla, estrassero di nuovo Claude — la Camerà Lumière X239 — affrettandosi a far passare la cinghietta di cuoio oltre la testa per poter lasciar cadere contro il petto la macchina. Era un commento eccessivamente generico il suo: sentire e capire cosa nello specifico non sembrava importante specificarlo.
«Oh, sì. Anche.» La mano sinistra si ritrovò a grattare nervosamente la base della testa, tradendo un leggero imbarazzo e nervosismo. «Ho cominciato a fare foto durante gli anni della scuola e dopo il diploma ho insegnato ai più piccoli per un po'. Però per lavoro tendo a scrivere. Tecnicamente sarei un "fotogiornalista", ma non ho mai ottenuto un impiego fisso: sono troppo giovane, dicono.» Storse nuovamente il naso — era una cosa che faceva spesso quando era in disaccordo con qualcosa o un'osservazione anche propria le trasmetteva un brutto sentimento. «E' un'idiozia, lo so. Sto accumulando materiale proprio per impedire mi dicano di no alla Gazzetta del Profeta.» Fece spallucce e senza dire altro fece un cenno col capo a Jolene, così da spronarla a farle strada.
Il volto era ancora un po' rosso; non era proprio abituata a parlare di sé, alla faccia dei ventidue anni.
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view post Posted on 7/11/2020, 12:03
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L'improvviso cambio di rotta nei discorsi di Ariel colse di sorpresa Jolene, che non si sarebbe aspettata che una sua affermazione, apparentemente né più né meno rilevante di tutte le altre, scatenasse una reazione tanto sentita. Gli occhi muschiati scrutarono il volto della francese per il tempo della sua disquisizione, manifestando nel concreto l'attrazione che le sue parole esercitavano su di lei. Jolene non comprendeva del tutto Ariel. Vero era che la bionda si distanziava da ciò che era considerato la norma fin dal suo stesso aspetto, ma per l'altra non poteva essere sufficiente classificarla in fretta come strana. Ariel le piaceva, e così, più che mai, Jolene era intenzionata ad ascoltare; ma più ascoltava, più doveva fare i conti con una personalità che brillava di una luce diversa per ogni nuova sfaccettatura svelata. Passare dalla leggerezza aerea di una bambina a riflessioni inaspettatamente sentite sembrava un nonnulla per Ariel. Jolene pendeva dalle sue labbra, e allo stesso tempo era indecisa se ciò che sentiva le causava più mortificazione o più compiacimento. Capiva di essere oggetto di un rimprovero – non aveva mai imparato a vivere con serenità quella posizione –, ma il suo torto sembrava essere quello di non riconoscere appieno i propri meriti. Quasi a imitare il rossore salito alle guance dell'altra, Jolene si sentì avvampare in risposta ad entrambe le emozioni che, dentro di lei, spingevano in direzioni contrarie. Cominciò a riflettere su ciò che le veniva detto: si incitò a farlo davvero, senza limitarsi ad una superficie la cui visione poteva essere più rassicurante. Provò a chiedersi se l'atto di non considerare straordinario un proprio successo fosse realmente indice di abnegazione; se la gratitudine per ciò che di bello le era concesso non dovesse invece trasformarsi in fierezza per aver realizzato le proprie ambizioni. Quanto era raro, tra gli esseri umani, poter dire di essere arrivati dove si desiderava, anche solo per una tappa di tante?
«Scusa. Ho parlato un sacco di cose che non hai chiesto.»
Jolene sbatté le palpebre, una piccola ruga che già si andava formando tra le sopracciglia. Dopo averla trasportata tra le sue riflessioni, spronandola a vedere le cose dal suo punto di vista, Ariel si scusava? Sentì l'urgenza di fermarla: «Stai infrangendo l'accordo. Non hai di cosa chiedermi scusa, davvero. Mi piace ascoltarti». Un leggero imbarazzo le fece percepire quelle poche parole come monche, improvvisamente recise, anche se di fatto aveva dato voce a tutto ciò che intendeva dire. Il silenzio le riempì le orecchie come ovatta, ma si disse che non aveva motivo di vergognarsi: aveva parlato con sincerità, e qualcuno doveva pur dire ad Ariel che i suoi discorsi, lungi dall'annoiare, tradivano un lavorio logico e mentale che poteva essere stimolante per chiunque. Cercò di mitigare il rimbombo del silenzio con una risata: «Forse hai ragione, sai. Ma penso che tutti abbiano delle capacità o delle caratteristiche che possano essere considerate straordinarie, e allora la parola non perde un po' di significato?».
Si fece distrarre dall'ambiente circostante, e presto anche Ariel confermò la volontà di fare una passeggiata. Prima di alzarsi, Jolene si tolse velocemente l'unica scarpa superstite, che lasciò poi dondolare tenendola per i lacci come una stilosa borsetta.
«Methley Street, numero nove. A Kennington», rispose, mentre affiancava Ariel. Guardò da una parte e dall'altra del sentiero davanti a loro, chiedendosi in quale direzione andare, ma con la coda dell'occhio tornò su Ariel quando soggiunse: «Devi padroneggiare molto bene l'arte di perderti, se hai trovato questo posto. Penso che sia il più bello dei dintorni».
Ascoltò interessata il breve racconto delle peripezie lavorative dell'altra. Immaginò che Ariel scrivesse con lo stesso spirito con cui scattava le foto – con il desiderio, cioè, di unire empatia e logica in una comprensione ideale. Era questa, infatti, l'interpretazione di Jolene delle poche, enigmatiche parole di poco innanzi, sentire e capire sentendo. Le sembrava un buon spirito per un'aspirante giornalista, presagiva che dei suoi resoconti ci si sarebbe potuti fidare come di una ricostruzione della realtà tanto fedele quanto era possibile. Non faticava a figurarsela in quel ruolo, anche se, a ben pensarci, era curioso che qualcuno che aveva continuamente paura di dire qualcosa di troppo scegliesse di far stampare i propri scritti. Forse si sentiva più sicura con davanti una piuma e una pergamena, piuttosto che una persona in carne ed ossa; forse così riusciva ad esercitare un controllo soddisfacente su ciò che pensava di poter o non poter dire.
«Spero davvero che tu ci riesca!» Emerse così dalle proprie riflessioni, animandosi di reale solidarietà. «Quelli che lavorano da anni sembrano dimenticarsi ogni volta che anche loro sono stati agli inizi. Non ti dico quante volte ho sentito la solfa del sei troppo giovane, è ovvio che non comprendi come funzionano le cose qui, che questo, che quello...E tutto questo mentre facevo un tirocinio in ospedale, ma sembrava che fossi in difetto per il fatto di dover e voler imparare.» Trascinata da quei ricordi ancora in grado di accendere il suo sdegno, Jolene imboccò senza pensarci il sentiero alla loro destra. Il ginocchio dolorante le imponeva un passo piuttosto lento, ma d'altra parte era l'ideale per godersi il paesaggio. «Ora ho un impiego e non ha più importanza, comunque. Sono sicura che anche tu farai vedere di che cosa sei capace. Hai già un colloquio?»
Camminavano sulla stradina acciottolata, entrando e uscendo dall'ombra dei filari degli alberi che le fiancheggiavano. Sulla loro destra si ergeva la struttura della chiesa, con le pareti che, punteggiate di muschio qua e là, sembravano giocare a fondersi con la natura circostante. Quando Jolene si voltò a guardare Ariel, la luce che passava da una delle alte finestre le colpiva il profilo e disegnava delicate trame di chiari e scuri sulle sue guance, sui capelli, sulle sue braccia nude. Il passo di Jolene, allora, ebbe un tentennamento. Attraversata dal baluginio di un'unica idea, si ritrovò a chiedere: «Ariel, mi insegneresti ad usare Claude? Se ti va, ovviamente, se non è un problema...» Gesticolò vagamente con le mani, uno strano modo per dire se non ti disturba che gli estranei scattino foto con la tua macchina.
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