“ Let there be light SCHEDA PG ✕ 20 y.o. ✕ Outfit Jolene White
something happened there,
the smell of the grass or maybe the airNon era sempre semplice seguire i ragionamenti di Ariel, vista l'agilità con cui si muovevano tra sfumature di significato anche parecchio sottili. Lungi dallo stancarsi, Jolene li ascoltava con attenzione costante, felice di aver trovato qualcuno che non solo fosse pronto a dischiudere il proprio pensiero con simile prontezza, ma che, nel farlo, dicesse cose interessanti. C'era, in Jolene, una curiosità che la portava a tendere verso il diverso tanto quanto verso il simile, se non addirittura di più. Allenata a guardare il mondo come di tra le righe di un romanzo, era innamorata tanto delle storie quanto dei caratteri unici, e Ariel, possedendo il secondo, sembrava promettere anche le prime.
Il silenzio di Jolene in seguito alla riflessione dell'altra, dunque, non era da intendersi come distrazione; al contrario, quando la rossa si impegnava a pensare o sentire a fondo, talvolta perdeva la presa sulla realtà circostante. Successe così che il suo sguardo sfumò nel verde del giardino, e lì rimase a vagare, mentre la testa che annuiva leggermente costituiva la sua unica risposta tangibile. Non riteneva di avere, per il momento, parole che valesse veramente la pena di condividere, e il silenzio le sembrava un coronamento ben più solenne di una qualunque formula vuota. D'altronde sceglieva di tacere più spesso della maggior parte della gente e questo, lo sapeva, la faceva apparire un po' strana.
L'atto di scambiarsi gli indirizzi donava al loro incontro una piacevole sensazione di principio – così sentiva Jolene, mentre si ripeteva mentalmente Lilac Penty, Burrow Street Sb, Bilbury. Quando qualche mese addietro aveva conosciuto Ariel, non avevano avuto il modo e il tempo di pensare realmente a vedersi ancora. Il ricordo di lei era quindi sfumato tra i tanti di quell'occasione tanto assurda, l'impressione che le aveva fatto intrinsecamente legata al contesto. Una partita di Quidditch era rumorosa, confusionaria, piena di emozioni pronte ad investire gli spettatori e sballottarli tra urla di giubilo, di rancore, arpe volanti. Adesso che le accompagnava solo l'occasionale fruscio del vento tra i rami, Jolene sentiva di entrare realmente in contatto con l'altra: quel pomeriggio era dedicato a lei, il St Dunstain lo sfondo perfetto ad accogliere sensazioni ed impressioni che non dipendessero unicamente dall'ambiente. Si sentiva rilassata e allegra, come era evidente dalla voce quando, scherzosamente, disse: «Assolutamente, me lo devi scrivere. Ti devo ancora quella torta dalla partita, no?».
Poco dopo si aprì in un'autentica risata. «Il vento. Ti si addice!» Fece qualche altro passo. «Il vento e la rondine si incontrano in una chiesa abbandonata, e allora... Non so davvero raccontare le barzellette. Ma suona bene.» Si strinse nelle spalle, rivolgendole un piccolo sorriso. Muoversi tra la dolce bellezza del giardino la riempiva di buonumore, come era evidente anche dal suo passo, energico a dispetto del ginocchio ammaccato, che in effetti gli toglieva parte della sua solita leggerezza. Jolene, però, non avrebbe potuto curarsene di meno.
«Allora sono dei datori di lavoro ottusi, sentenziò in seguito, come se stesse dicendo un'ovvietà su cui non valeva la pena impensierirsi.
Le ci volle qualche secondo di più per rispondere alla domanda successiva – Perché fare l'infermiera?. Non che fosse la prima volta che glielo chiedevano, era abituata a quell'interrogativo fin da quando aveva deciso di intraprendere il tirocinio in ospedale; tuttavia sentiva che le sue motivazioni cambiavano leggermente di volta in volta, man mano che il tempo e l'esperienza permettevano la sua maturazione, professionale e non. Infine, disse: «Perché in questo momento è il modo migliore in cui riesco ad esprimere quello che voglio essere. Mi piace il lavoro, mi piace l'ambiente, la sensazione di essere utile a chi ne ha bisogno. Io sento e curo, diciamo così. E quello che sento quando ho aiutato qualcuno a guarire è straordinario». Erano quelle le parole giuste, in quel momento. Le aveva pronunciate con semplicità, perché era così che viveva il proprio lavoro – beh, quasi sempre, ma in quel pomeriggio di sole perfino le ombre erano verdi come le foglie.
Si fermò vicino alle sequoie che Ariel intendeva fotografare. Distrattamente, fece dondolare la scarpa. «No, a Hogwarts. Lì è come tornare a casa.» Tacque, e ora che non era più impegnata ad ascoltare se stessa poteva osservare. Il giardino era bello, e Ariel, pallida contro il suo sfondo di verde, era bella anche lei. Era anche piuttosto buffa, tesa in punta di piedi e intenta a canticchiare mentre, del tutto assorta, scattava qualche nuova foto. Jolene scelse di non disturbarla fino a quando non le sembrò che avesse finito, e allora le fece la sua richiesta. In un primo momento, desiderò rimangiarsi le parole: con la sua espressività cristallina, Ariel era una caricatura della sorpresa, come se Jolene avesse osato troppo. Quello non era solo un hobby, ormai lo aveva capito, la francese doveva mettere tutta se stessa nella sua arte: non era difficile, allora, immaginare che la sua macchina fotografica costituisse una sorta di oggetto magico, sacro addirittura, e Jolene comprendeva il bisogno di mantenere privati simili artefatti. Si sentì leggermente imbarazzata, ma fortunatamente il fraintendimento non durò che pochi istanti, perché subito dopo il sorriso dell'altra le confermò tutt'altra storia.
Felice, Jolene abbassò il capo per lasciar passare la cinghia cui era attaccato Claude. Sentì allora il peso della macchina fotografica contro il collo, avrebbe giurato che fosse più leggera. Abbandonò momentaneamente la scarpa sul prato, così da poter prendere tra le mani la macchina fotografica: appoggiò le dita ai lati e sotto, attenta a non premere per sbaglio qualche bottone. «Certo, andiamo anche nei Giardini. Ma prima vorrei fare qualche scatto qui.» Si fece spiegare il meccanismo, trovando che fosse tutto sommato semplice e intuitivo. Quando si sentì in grado di fare realmente delle foto, a malapena riusciva a contenere il proprio entusiasmo.
«Ok, Ariel, puoi metterti qui per piacere? Qui, un po' più a destra. Aspetta...» Si sentiva a sua volta una bambina, mentre chiudeva la breve distanza che la separava dall'altra per poterla sfiorare. Le appoggiò una mano sulla spalla, guidandola con delicatezza perché i suoi capelli catturassero nel pieno la trama di pizzo delle foglie sovrastanti. Gli occhi di Jolene brillavano, carichi di luce e dell'aspettativa di immortalare Ariel e quello scorcio di giardino mentre si fondevano così dolcemente. La bionda non riusciva a vedersi: come lei stessa aveva detto, gli altri servivano anche per quello. In quel momento, Jolene era più che mai intenzionata a prestarle il suo sguardo: a lei piaceva quello che vedeva, così non avrebbe potuto che essere lo stesso per Ariel. Se solo Jolene avesse potuto prestarle anche le sue orecchie, era sicura che l'altra avrebbe smesso del tutto di chiedere scusa quando si lasciava trascinare dalla propria voce.
«Se riesci ad inclinare leggermente la testa... Perfetto, perfetto! Merlino, se non verrà una foto stupenda!» Si allontanò con una piroetta, salvo pentirsi ad una fitta del ginocchio. Soppresse una smorfia, concentrandosi invece sul trovare la giusta angolazione da cui catturare il gioco di luci e i colori nella loro versione più incantevole. Quello non era semplice come premere un bottone, ma infine riuscì a fare un paio di scatti di cui si riteneva piuttosto soddisfatta. Quando riemerse da dietro Claude, aveva stampato in viso un sorriso a trentadue denti.✕ schema role by psiche