Sotto un cielo plumbeo carico di neve, l’espresso da Hogwarts allenta la presa sui freni e comincia a scorrere sui binari, dapprima con qualche singhiozzo e poi con più linearità, rilasciando la tensione accumulata durante il periodo di stasi forzata.
Sorrido con un sospiro e annego lo sguardo nel corridoio ancora ingombro di studenti. La maggior parte di essi ha già trovato uno scompartimento in cui trascorrere il viaggio; altri, col baule appresso, stanno elemosinando di cabina in cabina un posto per mettersi a sedere. Allora, tengo stretto a me l’auspicio di non dover intervenire per spiegare ai ragazzi che nessuno di noi può vantare un diritto di proprietà su quei pochi metri quadri destinati a far da nido per affrontare il tragitto; e per invitarli a far accomodare lo sventurato di turno rimasto senza alternativa che affidarsi all’autorità di un Prefetto.
Intanto che studio la situazione dal fondo della locomotiva, i miei occhi si posano su un duo interessante e non riesco a trattenere un sogghigno: una ragazza alta sta con la schiena poggiata al vetro di una delle finestre del corridoio e fronteggia col naso all’insù un giovane spaccone con la mano destra pigiata sulla tappezzeria alle spalle di lei, un sorriso smargiasso sul viso dalla mascella squadrata e il pollice della sinistra incastrato a un passante della cintura. Sembrano la locandina di un film per adolescenti, mi dico nel tempo che impiego a raggiungerli.
“Sentite, tutto molto bello e interessante, ma non è che potreste continuare nella vostra cabina?” dico loro, ironica, e ne attendo la reazione. Entrambi si voltano simultaneamente e, individuatami, prendono a guardarmi come inebetiti — il reo colto inaspettatamente sul luogo del delitto. Sono più grandi di me di circa un paio d’anni e mi superano in altezza di almeno altrettante spanne; e, tuttavia, non sono una studentessa come le altre. Nel castello, la mia imprevedibilità è nota almeno quanto lo è il modo che ho di gestire l’incarico di Prefetto: posso essere molto permissiva con chiunque se lo meriti — per aver violato infinite volte il regolamento, prima e dopo la nomina, non me la sento di essere l’ipocrita che sfrutta un titolo per rivalersi indiscriminatamente sugli altri —, ma altrettanto rigida e inflessibile con chi mi manchi di rispetto. Per questo, il mio nome è stato letteralmente spezzato in due metà per indicare l’uno o l’altro dei due possibili scenari:
“hai incontrato Nieve, oggi, o hai avuto la sfiga di beccarti la Rigos?”. La cosa riesce sempre a farmi ridere, per qualche ragione.
L’attenzione dei due si fissa brevemente sul mio volto monello e sugli occhi inintelligibili, dunque sulla spilla appuntata al mantello scuro che non ho ancora avuto occasione di levarmi di dosso. Si scambiano un rapido sguardo e ho il sospetto che siano indispettiti: prendere ordini da una studentessa del quarto anno quando si frequenta il sesto non deve andargli troppo a genio, ma tant’è. Il mondo è in mano a chi ha il potere e, in questo istante, io ne ho decisamente più di loro. Si allontanano, torvi, senza emettere un suono e si trincerano in due scompartimenti diversi.
Manca poco meno di un’altra metà di treno, m’incoraggio, e proseguo.
❄︎
Depongo il mantello sul divanetto con uno sbuffo divertito. L’atmosfera, nello scompartimento, è accogliente quanto basta a farsi terreno fertile per un piccolo battibecco, appiccato da un mio commento e rinfocolato dalla replica che ne è conseguita. A tutto concedere, le argomentazioni di Thalia potrebbero avere una certa validità, se solo l’intonazione nasale non la rendesse tanto buffa. Perfino l’epiteto venuto col Barnabus non riesce a titillare il mio fastidio. E come potrei di fronte a quel timbro da anatra e agli occhi lividi da panda?!
La verità è che mi preoccupa vederla in questo stato. È più di una settimana che lotta con l’influenza, un tempo equivalente a quello che ho speso per indirizzarla verso l’infermieria, invano. Per la mia esperienza personale di bambina denutrita, anche un malanno semplice può trasformarsi in qualcosa di più severo e, pur sapendo che di norma Thalia goda di ottima salute, non riesco a scacciare il timore interno che un’infanzia di stenti mi ha lasciato addosso. Così, mi chino inaspettatamente su di lei senza dire una parola e, piano, poggio le mie labbra sulla sua fronte in un tocco impalpabile, emulando la gestualità che adottano i nonni quando temono che possa essermi beccata qualcosa. La pelle di lei restituisce alla mia una freschezza che rinfranca lo spirito: non c’è febbre, per fortuna.
«Fa’ la gradassa quanto ti pare finché ne hai il tempo» le dico, insinuante, mettendomi a sedere di fronte a lei senza troppa grazia.
«Ho scritto alla nonna che non stai tanto bene e che ti ostini a non prendere nulla. Ha risposto che ci pensa lei, non appena scendiamo dal treno. E voglio proprio vederti opporle resistenza, ti giuro. Fremo!»È un colpo basso, da parte mia, sfoderare la Carta Lucrezia in questo piccolo scontro ad armi palesemente impari, ma non mi ha lasciato altra scelta. Se solo avesse acconsentito a ingollare un decotto per rimettersi un po’ in sesto o si fosse fatta visitare da chi di competenza, avremmo potuto trovare un accomodamento. Giunta allo stremo della sopportazione, mi sono vista costretta a prendere le misure che ho ritenuto adeguate per porre rimedio alla situazione. Che le piaccia o meno!
Il mio viso si adombra appena allorché il cambio di registro porta la conversazione su un terreno più frivolo o, almeno, presuntivamente tale. La verità è che il ballo non è andato nel modo in cui mi sarei aspettata. Per un po’, valuto la possibilità di tacere — come le ho taciuto la mia avversione per Amber o l’aver fatto sesso, la sera stessa dell’evento, con Rupert nel bagno dei Prefetti —, ma non me la sento. Più passa il tempo, più mi sento legata a lei e meno segreti voglio interporre tra noi due. Ne abbiamo passate troppe insieme per mentirci sulle inezie.
«È andato una merda» rispondo, secca, sospirando profondamente.
«Kurt era tutto preso dalla sua dolce metà e io sono finita a ballare con nientepopodimeno che Aiden Weiss. L’avresti mai detto?»