L'ossessione di Webster., Concorso a Tema: Luglio 2020

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view post Posted on 31/7/2020, 17:06
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Triste, come chi ha perso il nome delle cose.

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Codice«Non sono pazzo, d-dovete credermi, almeno finché ho ancora un'anima su cui giurare. Presto o poi verrà a prendersela ed allora sarà troppo tardi».
Il primo giorno sul campo era il più duro. Quella era una verità assoluta che ti ripetevano fino alla nausea in accademia, specialmente se eri il più promettente del corso. Una triste sorte con cui l'agente Webster andava a braccetto da tempo. A volte i colleghi più anziani si burlavano di lui, rifilandogli qualche balla con fare paterno, come a volerlo imboccare a forza con una morale assai amara: avere i voti più alti della classe gli sarebbe servito a poco una volta ottenuto il distintivo. Per come stavano le cose potevano anche avere ragione. D'altro canto lui non era fisicamente in grado di mandar giù le loro boiate, men che meno di digerirle. Sapeva riconoscere la squisitezza della loro presunzione quando si ritrovava ad assaporarla. Nei mesi aveva smesso di dargli retta, archiviando il caso come una burla trascinata troppo a lungo. Poi gli era stata assegnata la sua prima indagine e si era ritrovato protagonista di uno scontro frontale con la realtà. Nessuna prassi da seguire o simulazione svolta avrebbe potuto guidarlo in un mondo governato dalla follia umana. Deglutì sonoramente, irritato come pelle scottata da un ferro rovente.
«Ah sì? E com'era questo tizio? Alto, basso; giovane, vecchio; l'ha visto in faccia? Le ha detto qualcosa?». Kenneth, conosciuto dall'intero dipartimento come il Mamma, era il partner ideale per guidare Webster in una Londra tanto imprevedibile. Si portava vent'anni di esperienza sulle spalle ricurve come niente fosse ed il fisico indebolito dall'età e da una dieta malsana certo non gli impediva di battere il ferro finché era caldo. Lui era un uomo avido di dettagli, avido in generale, la persona giusta per mettere insieme i pezzi di un puzzle ancora da rastrellare.
«Era come un'ombra sfuggita all'inferno, avvolta nel nero del suo mantello. I suoi cani presagi di morte… dovevate vederli. Prima sono arrivati loro, poi lui! Ho visto la fine, ma non l'ho vista in volto».
Tommy era agitato, non più e non meno del solito. Solo Dio sapeva cosa disturbasse tanto quel clochard, ma se anche un tale dono non era stato elargito ai due agenti, entrambi erano del parere che fosse tutto sommato sincero. Stava solo viaggiando troppo con la fantasia. Dovevano capire quale verità quel delirio celasse.
«Non una parola?». Kenneth manteneva i nervi saldi, Webster al contrario era visibilmente spazientito e la sua sola presenza strozzava il senzatetto con un cappio di irrequietudine.
«S… No. Era notte e la sua faccia era nascosta dal cappuccio. Pioveva a dirotto, sapete? Non vedevo granché… non ho osato alzare gli occhi. Si è fermato a lungo per osservarmi, poi se n'è andato come nulla fosse. Tornerà, io lo so».
Il più giovane dei due poliziotti spennellava svogliatamente il suo taccuino, stendendo quei pochi appunti indispensabili a far finta che gli importasse. Il più vecchio invece, per quanto fosse assurda quella storia, aveva cercato di dar credito all’uomo. Si poteva dire quello che si voleva su Tommy, ma non aveva mai dato problemi a nessuno, cittadini o turisti che transitassero per il parco dove spesso si rifugiava. Era una figura nota e, per quanto strana agli occhi di non lo conosceva - l’agente Webster era uno di questi - si era sempre dimostrata collaborativa con il dipartimento di polizia. Aveva cooperato a qualche indagine nel corso degli anni, quasi mai era stato fondamentale, ma la sua testimonianza aveva spesso aperto piste nuove da seguire, evitando a Kenneth ed ad altri il disturbo di brancolare nel buio. Meritava rispetto.
Il neodiplomato aveva provato a trascinare il partner lontano da quell'intrigo, mettendogli addosso una certa fretta. Si era lamentato dell’inutilità del loro intervento. Gettavano al vento tempo ed energie per informarsi su un tizio che, lasciando in disparte la fantasia, se ne stava andando a spasso con i propri cani. Nulla di illegale ad occhio. Per rispondergli, il collega gli aveva rifilato una ramanzina sull’importanza di dare a tutti la possibilità di essere ascoltati. Poi lo aveva richiamato all’ordine, appuntando quanto inopportuna fosse la sua arroganza, sbattendogli in faccia che non gli avrebbero certo assegnato un serial killer il suo primo giorno. Ciliegina su una torta scadente, lo aveva sfidato a far luce sulla questione. Se tanto era una sciocchezza, un diplomato brillante come lui non avrebbe dovuto avere problemi a risolvere il caso. Webster c’era cascato come un fico dal suo albero.

Così era iniziata l'odissea negli archivi del dipartimento, informatici e cartacei. Quello era il vero inferno, se proprio volete saperlo. I server della stazione dimostravano una lentezza di caricamento a dir poco seccante; di gente che se la prendeva con le apparecchiature elettroniche quel dipartimento era pieno. Pure Webster, che vantava una dimestichezza invidiabile con la tecnologia, si era lasciato prendere la mano, o per meglio dire la gamba. Con una ginocchiata ben assestata aveva imbarcato il case del suo computer, rischiando di danneggiare le componenti interne. Alla fine quelle si erano salvate, ma avere a che fare con un rottame chiassoso e traballante al minimo cenno di movimento gli era bastato ed avanzato per piantare la sua postazione, favorendo una caccia al fascicolo durata giorni. Al termine dell'impresa era riemerso dal deposito con la cartellina striminzita di un caso irrisolto. Una donna, pochi mesi prima, era stata morsa da un dogo nero come la pece proprio nella zona dell'avvistamento, ma il cane ed il padrone si erano defilati ed era stato impossibile riconoscerli e rintracciarli. Niente di utile.
Webster sfogava la sua frustrazione una tazza di caffé alla volta, andando avanti ed indietro per il dipartimento come un fantasma. Sguardo assente, traiettoria in linea retta. Scrivania, distributore; distributore, scrivania. C'era voluto un miracolo per far sì che tornasse nel mondo dei vivi ed in effetti una signora grassoccia era piovuta dal cielo come il suo angelo della salvezza. L'aveva distrattamente sentita lamentarsi alla scrivania di Gordon, un collega bonaccione, di un incontro molto ravvicinato con un tizio loschissimo ed i suoi cani famelici. Bingo. Senza nemmeno rendersene conto era sgusciato nella discussione, subentrando al posto dell'altro agente, ben lieto di sbolognargli quella vecchiaccia petulante. Lei era stata altrettanto felice di collaborare con Webster, un poliziotto giovane ed aitante che la coccolava dedicandole la sua completa attenzione. La donna stringeva nella mano una tazzina di caffé, offerta dal ragazzone per cui già stravedeva - e che ne aveva approfittato per scolarsi l'ennesimo giro in compagnia - mentre con l’altra reggeva il suo chihuahua tremolante.
«… e doveva vedere come ha spaventato la mia Marilù! Sa, è arrivato di soppiatto, come un'ombra, e si è fermato a lungo per osservarci da vicino. Lui e i suoi cani barbari e maledetti, neri come il carbone». Mrs. June, così si era presentata, con la sua voce stridula e altisonante gli aveva rivelato un dettaglio fondamentale, che gli permetteva di ricollegare la sua esperienza a quella di Tommy. Webster si era infiammato come una miccia pronta ad innescare un candelotto di dinamite.
«Signora mia, è l'uomo che stiamo cercando da giorni! Mi dica che è riuscita a vederlo in faccia o se quantomeno le ha detto qualcosa». Inutile aggiungere che, se così fosse stato, avrebbe significato una svolta incredibile per il caso. C'era una speranza e forse un potenziale identikit.
«Beh, non l'ho visto bene, aveva il cappuccio sulla testa. Mi sembrava un ragazzo più o meno giovane, ma non saprei dirle di più. È rimasto a fissarmi in silenzio e quando l'ho rimproverato ci ha aizzato i cani contro. Che corsa che ho fatto, coi tacchi per giunta! Uno mi ha quasi morso un polpaccio, ma per fortuna avevo lasciato la macchina lì vicino e sono riuscita ad entrarci in tempo». Margaret aveva scostato un po' la gonna per mostrargli la sua ferita di guerra. Un pizzicotto, praticamente. L'agente aveva dovuto inquadrarlo ed ingrandirlo con la fotocamera dello smartphone per rendersi conto della sua esistenza ed ancora gli rimaneva il dubbio che non fosse una grinza di pelle. Ad ogni modo gli bastava e avanzava perché si parlasse di aggressione, in modo tale da poter giustificare un impiego maggiore di risorse. «Non si preoccupi, le prometto che lo prenderemo. Grazie di aver trovato il coraggio per denunciarlo, ora le faccio qualche altra domanda, mettiamo tutto a verbale e posso riaccompagnarla a casa se vuole». Così fece.

Il sospettato si aggira in tarda sera nei pressi dei parchi cittadini. Porta con sé diversi cani dal manto nero. Veste un impermeabile scuro e nasconde il volto con il cappuccio. Se incontra qualcuno si ferma a lungo per osservarlo, poi decide se aizzargli contro le bestie. Non risulta sia armato, ma potenzialmente pericoloso. Due incontri ravvicinati confermati. Testimoni: Thomas Brown; Margaret June.

Con il benestare del suo diretto superiore, Webster si era attivato per raccogliere prove concrete, utili ad incriminarlo. Era partito dagli edifici intorno al parco dell’avvistamento, più precisamente quelli che disponevano di un circuito di telecamere di sorveglianza esterne. Non tutti i proprietari dei suddetti locali e negozi si erano dimostrati collaborativi, del resto non disponeva di un mandato per acquisire le riprese, ma alcuni si erano offerti liberamente di aiutare lui e l’agente Kenneth nell’indagine e gliene fu grato. Al termine della giornata era riuscito a racimolare abbastanza filmati da potersi ritenere soddisfatto. L’area inquadrata in quel complesso circuito non era la più ampia ed i punti ciechi non mancavano, ciò nonostante si promise di farsi bastare ciò che aveva. In fin dei conti il presunto delinquente era un essere umano, mica un fantasma. Il tragitto era quello e scomparso da un’inquadratura, prima o poi sarebbe rientrato in un’altra. Questo è ciò che la logica suggeriva.
Giornate spese a visionare quei filmati, con la scrivania occupata interamente da chiavette usb, cd e pure da un paio di vecchie cassette, avevano dato i frutti sperati. Il sospettato era stato ripreso per la prima volta alle 22:37 di giovedì, diretto verso il parco, uscendo e rientrando dagli scorci di regia. Vestiva il solito impermeabile nero, che scendeva largo sul suo corpo come un ampio mantello. Il cappuccio sulla testa impediva ai due agenti di riconoscerlo. Portava a spasso, tenendoli al guinzaglio, due cani di grossa taglia, due di taglia media e quello che, pixel permettendo, aveva tutta l'aria di essere un piccolo demonio in miniatura. Compresero subito che era l'uomo di cui andavano in cerca, non ci voleva un genio per arrivarci.
L'Ombra, nome in codice affibbiato a quella canaglia, si era fermata qualche istante davanti alla vetrina di un negozio e dopo un attimo di esitazione aveva alzato la testa, volgendola alla videocamera.
«Eccolo, ce l'abbiamo in pugno!». Webster era letteralmente saltato dalla sedia, strattonando il partner perché questo prestasse la massima attenzione. A Kenneth, ormai ossessionato dal collega, si era bloccato il fiato in gola. Sperava di concludere alla svelta quell'indagine e non sentirne parlare mai più, tanto erano piene le sue tasche sgualcite. Nulla di utile. Il farabutto si era interrotto poco prima di rivelare la sua identità ed era rimasto a immobile, come congelato sul posto. Pareva si fosse fermato ad osservare la telecamera, pur senza scoprirsi, neanche avesse saputo di essere controllato. La schiena del più giovane venne attraversata da un brivido di freddo, mentre impotente assisteva al saluto del malvivente, che aveva scosso la mano libera prima di ripartire. Quasi distrusse lo schermo con un pugno, la frustrazione era alle stelle. Come non bastasse, il sospettato entrato nel parco sembrava non esserne più uscito. L'avevano perso di vista.
«Questo imbecille ci prende per il culo». Ringhiando in preda all'ira, l'ultimo arrivato aveva stritolato un bicchiere di plastica nel palmo della destra, scottandosi con qualche rimasuglio di caffé bollente. D'istinto aveva scagliato il rifiuto nel bidone alla sua destra. «Dai, non prendertela, ormai gli siamo alle calcagna».

Le settimane si erano susseguite in quella che non rispecchiava propriamente la tranquillità tipica degli inverni londinesi. Le segnalazioni erano giunte una dietro l'altra e così, sia il Mamma che il suo pupillo, si erano ritrovati oberati da una mole ingestibile di lavoro. Tre aggressioni, sempre a donne anziane, che avevano lasciato sulla loro pelle una manciata di punti di sutura ciascuna. Senza contare numerosi incontri ravvicinati con l'Ombra, discontinua ed inafferrabile, ma sempre più attiva e tristemente nota per turbare la quiete dei parchi cittadini. Webster ormai non pensava ad altro, non parlava d’altro. Era tormentato. Come biasimarlo? Aveva giurato di consegnarla alla Giustizia, ma non poteva far altro che assistere inerme alle sue malefatte, in attesa di potergli mettere un paio di manette ai polsi. Continuava a ripetersi le poche cose che sapeva su di lui come una cantilena, un motivetto ricorrente, tanto fastidioso quanto preoccupante: era come un’ombra che si fermava a lungo per osservare le persone che incontrava, nessuno lo aveva mai visto chiaramente in faccia, ed in base ad alcuni criteri tutti suoi decideva se andarsene o se mandare all’assalto i propri cani. Dietro quel suo modo di fare contorto si celava uno schema preciso. Attaccava solo donne anziane, risparmiando tutti gli altri. Anche quando entravano in gioco le dinamiche della violenza fisica, i cani sembravano addestrati per non esagerare. Perché? Era come se volesse comunicare qualcosa, lanciare un messaggio, terrorizzare Londra. Cosa voleva raccontare di sé?
La polizia della capitale inglese era ormai ad un solo passo dall'istituire una task force apposta per il caso. Quella sera si sarebbe dovuto tenere un briefing tra i vari dipartimenti. Per di più quel farabutto non era l'unico a creare scompiglio di recente. Insomma, il caos generale stava stremando gli agenti.
«E allora signorino, com'è finita con quella bella farmacista?». Kenneth si era svaccato su una panchina del parco, godendosi la sua mezz'ora di pausa dal servizio, la prima in quelle settimane d'inferno, in cui non aveva smesso per un istante di lamentarsi che gli toccava sgobbare come uno schiavo proprio sotto Natale. Sorseggiava una bevanda gassata, spizzicando qualche boccone dal suo cono di frittura mista. Lo street food era sempre un’ottima scelta per recuperare le energie spese.
«Quale intendi? Quella della rapina con la pistola ad acqua o quell-». Webster non aveva fatto in tempo a concludere, bruscamente interrotto.
«Quella del super liquidator, dai! Mi avevi detto che ci stavi uscendo. Ti faceva gli occhi dolci, non mi è mica sfuggito… mi sembrava molto interessata».
Un sospiro sconsolato aveva preceduto quella che aveva tutta l'aria di una triste confessione.
«Eh, malino amico mio, si è stancata prima del terzo appuntamento. Peccato, ci speravo! È una ragazza in gamba, ma ho sbagliato io, non riuscivo a pensar altro che a quel cretino con l'impermeabile nero. Ero del tutto assente.». La voce rotta dal senso di colpa era subito saltata all'attenzione di Kenneth. Sapeva quanto l'altro ci tenesse al suo primissimo caso, ma era anche convinto che quell'ossessione, fiorita sin dal primo giorno come un'erbaccia infestante, stesse esasperando il suo partner. Era ovvio che non avrebbe mai mollato l'osso, visto che con una scusa poco credibile lo aveva trascinato al St. James Park, noncurante dell'importanza di quel momento di tregua. Il preferito dall'Ombra, almeno basandosi sulle statistiche degli avvistamenti. Webster si aspettava davvero che gli piombasse tra le braccia? Non aveva potuto fare a meno di chiederselo.
«È anche colpa mia. Ammetto di essere stato troppo duro con te, non pensavo che le cose si sarebbero evolute in questa maniera. Devi essere paziente, alcuni casi hanno bisogno di tempo per essere risolti. La cosa migliore che puoi fare è ascoltare i testimoni e raccogliere le prove, usare la testa per stanare i delinquenti. Quelli non stanno mai fermi, fidati di chi è dentro questa rogna da vent’anni. Prima o poi la nostra Ombra commetterà un passo falso e allora potrai arrestarla, ma insomma… stacca la spina quando puoi e non aspettarti che ti inciampi addos-». Un balzo. Uno scatto. Webster si era lanciato alla carica, piantando lì la sua tazza di caffé da asporto ancora intatta.
«Porca di quella… è lui! È mio!».
Ironia della sorte, la canaglia con l'impermeabile nero era entrata nel campo visivo degli agenti. Andava a spasso per il parco come nulla fosse, portando i suoi cani al guinzaglio. Il sole era calato presto, era pomeriggio e faceva già buio. Sotto quel cielo scuro avrebbe fatto paura a chiunque, ma non all'agente Webster, che non si lasciato intimorire dalla sua aria inquietante o dal branco di bestie che lo circondava. In effetti non aspettava altro. Il poliziotto lo aveva raggiunto a tempo di record, avvicinandosi a lui frontalmente. Aveva estratto la pistola d'ordinanza e l'aveva puntata bassa, pronto a mirare nel caso in cui avesse compiuto gesti avventati. L’uomo era invece rimasto a lungo immobile, lo osservava dall’oscurità del suo cappuccio. Un classico. Gli avrebbe aizzato contro le belve?
«Fermo, polizia! Fatti guardare in faccia e metti le mani dove possiamo vederle». Folgorato da una scarica di adrenalina pura, era stato perentorio. Non avrebbe accettato compromessi.
L'Ombra aveva sollevato le mani, che ancora impugnavano le corde dei guinzagli, scosse dall'agitazione dimostrata dai suoi fedeli compagni. I cani avevano sentito le urla e si erano spaventati, alzando immediatamente il livello di allerta. Portandole lentamente al copricapo lo aveva abbassato, scoprendo una testa piena di capelli castani. Ad una prima occhiata pareva un ragazzo giovane, non ancora maggiorenne; non sembrava spaventato, come si poteva evincere dall’indolenza che permeava la sua espressione, quanto più perplesso. Sua mamma gli doveva aver tirato un ceffone bello forte da piccolo per paralizzarlo in quello stato.
«Weilà, John Wayne, metti via il ferro. Non vorrai mica sparare ad un civile». Voce piatta, calma glaciale. Webster era ormai certo fosse uno psicopatico, ma almeno non dava l’impressione di essere uno psicopatico armato. Ritrovata la ragione, l’agente aveva rinfoderato la pistola conscio di aver un tantinello esagerato - e di aver corso un bel rischio per la sua carriera nascente. Si era fidato, ma gli aveva fatto segno di badare agli animali ed il marmocchio era stato accomodante.
«Soldati, riposo». L’ordine impartito ai cagnoloni aveva ricevuto come risposta una discreta obbedienza. Solo uno si era rifiutato categoricamente di ascoltarlo. Il più piccolo aveva continuato ad abbaiare, ma non costituiva una vera e propria minaccia, quanto più una rottura di palle. I due soprassederono.
«Posso sapere cosa sta succedendo?». Una richiesta legittima, considerate le circostanze, almeno se si dava per buona la sua estraneità ai fatti. L'agente non si era tuttavia lasciato ingannare e aveva continuato a trattare il suo interlocutore come se la sua colpevolezza fosse già stata provata. Sapeva riconoscere un criminale quando ne vedeva uno.
«Sei sospettato di aver aizzato i cani contro delle persone anziane». Era stato poco chiaro, teneva nascosta l'aggravante della violenza fisica.
«I chow-chow o i terranova? O magari… il bassotto?» l’altro creò un pizzico di suspance, prima di infierire «il distintivo te l'hanno dato con l'Happy Meal?».
Webster a quel punto era diventato rosso di rabbia. Aveva appena incontrato quel ragazzino e già non ne poteva più della sua sfacciataggine. Su un dettaglio però aveva ragione, quei cani non sembravano particolarmente aggressivi.
Nel frattempo Kenneth li aveva raggiunti, affannato ma carico di buoni propositi. «Figliolo, se non hai niente da nascondere immagino non ti dispiacerà seguirci in centrale per rispondere a qualche domanda».
Codice
La sede operativa era in fermento e già si vociava che i due agenti avessero catturato l’Ombra. In fin dei conti un ragazzo, con i suoi cani neri al guinzaglio, era stato visto entrare nella struttura, venendo poi confinato in una delle aree ricreative per il personale. Ciò nonostante, i dipendenti più attenti avevano sollevato delle perplessità. Non aveva l’aria di essere un criminale temibile, né dovevano esserlo le bestiole che si era portato appresso. Non gli era stata riservata la sala interrogatori e, sebbene il sospettato fosse stato piazzato su un comodo divanetto di pelle, il clima che si respirava in quella stanza non era poi tanto diverso. Kenneth e Webster erano con lui, giocavano a fare il poliziotto buono ed il poliziotto cattivo rispettivamente, interrogandolo in via ufficiosa.
«Ora che siamo tutti comodi vorrei capire perché mi avete trascinato qui». Il giovanotto non dava segno di essere turbato. Tra i due agenti, nessuno aveva scambiato quel comportamento per una prova della sua innocenza, in fin dei conti anche chi non aveva niente da nascondere si preoccupava di incorrere in qualche guaio quando aveva a che fare con le forze dell'ordine. Quello era il tipico modo di fare di chi sapeva di avere le chiappe coperte, come i vari “intoccabili” con cui Kenneth aveva avuto a che fare negli anni. Per Webster era un’esperienza del tutto nuova, ma non gli era sfuggito quel dettaglio. Doveva solo ragionarci su, capire cosa lo facesse sentire protetto dalle conseguenze delle sue azioni. Probabilmente, ipotizzò, la sua famiglia era abbastanza influente da poterlo estrarre lucido e profumato dalla montagna di merda sotto la quale stava per essere sepolto.
«Breendbergh, giusto?». Il più giovane dei due agenti gli porse una domanda a cui aveva già risposto lungo il tragitto, ne seguì una battutina ironica. «Holmes, dico bene?». Quel povero imbecille non faceva ridere nessuno. Lo presero per un sì.
«Dove ti trovavi due giovedì fa, verso le 22:30 di sera?». Cercavano di far combaciare alcuni tasselli.
«Il martedì ed il giovedì sera faccio il dog sitter. Sta per uscire una console nuova, potentissima, non so se avete sentito i rumors. Secondo me la spareranno ad una cifra improponibile, meglio mettere da parte qualche sterlina. È illegale?». Spiegò secco.
«Quindi quei cani non sono tuoi?». Kenneth voleva fare chiarezza ed eventualmente reperire le generalità dei padroni. Breendbergh gli fornì le informazioni che voleva.
«Il bassotto è mio. Gli altri quattro sono di amici di famiglia, fratelli. Uno ha i chow-chow e l'altra i terranova». Chiarì, sollevando appena il cagnolino che teneva in braccio ed indicando gli altri, seduti o sdraiati a terra. Tranquilli, anche se spaesati. Scrisse i nomi dei proprietari sul quadernetto che gli avevano gentilmente allungato. «Non avranno problemi a confermare».
«Quello con l'impermeabile sei tu, vero?». Webster girò il tablet verso il ragazzetto, mostrandogli le riprese di quella notte. Lui annuì. Indossava lo stesso K-way ed era in compagnia degli stessi cani, inoltre si era fermato davanti alla vetrina di un negozio di videogames. «E dove ti trovavi il venerdì precedente?».
Camillo - nome tremendo, provarono pena per lui - esitò per la prima volta da quando la tiritera aveva avuto inizio. Quello era un chiaro segnale, aveva qualcosa da nascondere. Le prime insegne di panico si accesero come luci al neon sulla sua faccia da allocco, si dovette trattenere per non sgranare gli occhi, ma lo sforzo fu cristallino. «E io che cazzo ne so? Se vi chiedessi io dove eravate quel venerdì sera, sapreste rispondermi?». Era sulla difensiva, stava iniziando a crollare.
«Attento al linguaggio ragazzino». La predica di Webster non era tardata ad arrivare. «Altrimenti che fai? Mi metti una multa?». Ironico come stesse risparmiando per comprarsi la playstation, ma non gli importasse di quella sanzione. Probabilmente sarebbero stati mamma e papà ad occuparsene. Insopportabile.
«Prenditi il tuo tempo per pensarci, magari ti torna in mente». Kenneth era intervenuto per stemperare una tensione sempre crescente, ma il suo modo di fare così rilassato e gioviale non aveva fatto altro che irritare il sospettato.
«Guardate che ho capito il vostro gioco». Alla fine scoprì le carte. «Illuminaci».
«Non avete niente su di me, se non quel filmato, altrimenti lo avreste già tirato fuori. Sembra quasi che stiate cercando di incastrarmi. Avete forse fretta di chiudere il… caso?». Il tono interrogativo celava una seconda accusa, oltre quella ben più grave che non si era fatto problemi a muovere. Suggeriva stessero cazzeggiando. Se davvero era innocente come voleva dargliela a bere, era plausibile non avesse colto la gravità della situazione, considerando che molti dettagli non gli erano stati rivelati. In caso contrario, entrambi gli agenti ammiravano la sua capacità di celare le proprie colpe come sporcizia sotto al tappeto. Molti suoi coetanei avrebbero già confessato.
«È una faccenda seria, signor Breendbergh. È durata anche troppo. Qualcuno si sta letteralmente attaccando delle persone con i propri cani e le evidenze suggeriscono che quella persona sia tu. La tua unica strategia di difesa si basa sul fatto che i tuoi non sembrino cani aggressivi, ma non hai ancora fornito un alibi che ti scagioni». Webster cercò un appiglio per incalzare il sospettato, che ricambiava la sua linea offensiva riservandogli un'espressione contrariata. Il sorrisetto beffardo, modulato dalla delusione, gridava quanto fosse infastidito dal modo in cui stavano conducendo l'indagine. Né all'uno, né all'altro importava un fico secco della sua opinione. Andavano a caccia di prove, una serie di fatti ed elementi inequivocabili in grado di escluderlo dall'inchiesta o confermare la loro teoria. Sembrava non averlo ancora capito.
«Bene, immagino abbiate già consultato un esperto e che questo vi abbia gentilmente spiegato che è improbabile, se non impossibile, che queste razze siano capaci di attaccare qualcuno se non si sentono minacciate, dico bene?». Aveva indovinato. Kenneth aveva portato il filmato ad un perito e questo era stato in grado di riconoscerle. Gli aveva spiegato che era davvero difficile potessero mordere qualcuno, ma una volta tirati giù i nomi delle sottospecie Webster - in chiamata - aveva riattaccato, fiondandosi a caccia dei registri dei proprietari. Nessuno aveva dichiarato di possedere l'intero gruppetto di bestie e quelli che avevano adottato singolarmente un esemplare di questa o quell'altra razza erano troppi per essere catalogati. «Immagino anche che abbiate dei testimoni in grado di riconoscermi. Se non me, questi bei mascalzoni».
Webster - odiava che qualcuno gli spiegasse come fare il suo lavoro - annuì. Breendbergh si alzò di scatto e gli animali lo imitarono, fatta eccezione per il bassotto che già teneva in braccio. Lo posò a terra e impugnò saldamente i guinzagli.
«Allora vi conviene formalizzare le accuse alla svelta per scambiare quattro chiacchiere con il mio avvocato. I miei genitori nemmeno sanno che mi avete trascinato qui… non credo nemmeno sia legale farlo a loro insaputa». Il sospettato aveva cercato un appiglio per farli passare dalla parte del torto e ci era riuscito bene. Il più giovane dei due agenti aveva iniziato a sudare freddo, conscio di aver anche estratto l’arma di ordinanza poco prima; Kenneth tuttavia sembrava meno preoccupato, perché fiducioso dei meccanismi che avrebbero presto condotto al suo arresto. Dava tempo al tempo, mentre nulla sfuggiva al suo sguardo superficialmente cortese.
«Pensi che ti lasceremo andare a casa, sapendo che potresti di nuovo far del male a degli innocenti?». Giocandosi frettolosamente l’ultima carta rimasta nel mazzo, l’impaziente Webster provò a trattenere l’Ombra.
«Se la mia strategia di difesa si basa sul fatto che ho dei cani docili, per accusarmi vi basate sul fatto che li porto a spasso. Andiamo, potete fare di meglio! Detto tra noi, questa burla mi ha ciucciato almeno quaranta minuti tra una cosa e l’altra. Ora io tolgo il disturbo e se non ti va bene puoi sempre spararmi». Spavaldo e sprezzante della legge, Camillo sarebbe finito dietro le sbarre, Webster lo giurò a sé stesso. Kenneth rimase impassibile, limitandosi a guardarlo mentre usciva dalla porta. Conosceva la strada. «Arrivederci agenti!».
«Puoi scommetterci».

◉◉◉

- Quattro chiacchiere con il tuo avvocato… tu non hai un avvocato! - La voce rimproverò l’olandese con tono solenne. Quando arrivava il momento di inventarsi delle balle colossali, il Tassorosso era in grado di dare il meglio di sé. Nonostante la mole di tempo spesa a guardare serie tv Crime, nessuno dei due era sicuro che la cosa del legale durante gli interrogatori valesse anche per il Regno Unito. Ciò nondimeno, in un paese del primo mondo ci si aspettava un minimo di tutela da parte della legge, vigeva ancora il principio della presunzione d’innocenza. *Ma loro non lo sapevano. Ho fatto lo stronzo apposta per fregarli, magari avrebbero pensato che fossi più pratico in quelle faccende. Sicuramente del ragazzino. Quanti anni avrà avuto... 20?*.
Un passo dopo l’altro, Camillo si avviò verso casa. Lo avevano praticamente condotto dall’altra parte della città e doveva macinare un bel po’ di strada per arrivarci. Smaterializzarsi era fuori discussione: troppe telecamere, troppi testimoni. Tagliando per il parco si risparmiava un po’ di tempo e fatica, senza contare il fatto che qualcuno, in quel nutrito gruppetto, avrebbe sicuramente dovuto espletare i propri bisogni fisiologici lungo il tragitto.
I passi si susseguivano l’uno dietro l’altro, lungo un sentiero di dubbi e preoccupazioni. Sebbene il suo corpo stesse marciando a ritmo sostenuto, era evidente che con la testa fosse altrove; le mille domande che si poneva avevano iniziato ad accavallarsi come barricate insormontabili. Cosa avevano davvero su di lui, oltre a quel filmato? Sarebbe riuscito a cavarsela senza sollevare un polverone? Esisteva davvero un modo perché ciò accadesse alla svelta, prima del suo ritorno al Castello? E così, tra un quesito e l’altro, le strade gelide si erano presto disfatte alle sue spalle, mentre la pista su cui passeggiava aveva iniziato a scucirsi tra le forme morbide dell’erba, degli alberi e dei cespugli curati che caratterizzavano il parchetto. Mentre il chiacchiericcio degli ultimi rimasti si tramutava nello starnazzare delle oche che abitavano il laghetto - e la civiltà si allontanava a passo d’uomo, lasciando spazio alla quiete solitaria che quell’area più nascosta offriva -, l’attenzione del Tassino venne catturata da una figura familiare. Un uomo, così pareva, con un K-way nero come la notte ormai calata sulla capitale, il volto nascosto dal cappuccio e due molossi al guinzaglio. Si era fermato sul posto per osservare Breendbergh, immerso nel silenzio più assoluto ed in quella che pareva un’interminabile attesa. Era inquietante, ma non venne degnato di una reazione scomposta. Camillo si fermò a sua volta sul posto e lo osservò a lungo, chiedendosi per quale ragione si comportasse in modo così strano, cosa l'avesse spinto a fissarlo con una tale intensità. Non si agitò e non si mosse, nessuno dei due lo fece. I cani d’altro canto avevano iniziato a dimostrare i primi segni di nervosismo.
- Non vorrei fare il Capitan Ovvio, ma ho il vago presentimento che sia il tizio che stanno cercando - La Voce ruppe la tensione tutto d’un tratto.
*Sei esattamente come quegli sbirrelli e perdipiù sei pure razzista*. - Cosa? - *Vedi un tale tutto scuro e allora è automaticamente un criminale*. Camillo obiettò. Faceva del suo meglio per non avere pregiudizi, ma di recente la sua coscienza aveva iniziato ad avere degli atteggiamenti poco inclusivi. Quel suo modo di fare gli andava di traverso.
- Piantala con queste menate e pensaci bene: quel giovedì di cui ti hanno domandato gli agenti tu eri ad Hogwarts. Nessuno può averti segnalato alle autorità. Guarda caso ora sbuca dal parchetto incriminato questo qui, che per come è conciato sembri proprio tu. L’unica differenza la fa la compagnia. - Armandosi di una buona dose di pazienza, il grillo parlante aveva tentato come poteva di far luce sulla questione. Far ragionare Camillo alcune volte era una battaglia persa, ma nella sua visione generale delle cose la speranza era l’ultima a morire. Ci fu il silenzio, poi una sentenza.
*Ad ogni modo non è affar mio, non ho sbatti di indagare e non sono tenuto a farlo. Per come si sta evolvendo la faccenda posso stare tranquillo. I suoi cani non assomigliano minimamente ai miei. Qualcuno sarà in grado di riconoscerli e scagionarmi, se non un testimone ci penserà il Ministero*. Chiuse il dibattito e lanciò un ultimo sguardo indagatore al suo alter ego, giusto per sicurezza. Aveva un’aria tutt’altro che affabile. Quest’ultimo si schiodò dalla sua posizione, un po’ perché stanco di osservare un ragazzo immobile e noncurante, un po’ perché di norma a Londra il tempo aveva un valore estremamente alto e la gente ne diventava sempre più avida. Nessuno ne aveva così tanto da gettare al vento. La distanza che li separava divenne via via più corta. I cani, ormai vicini gli uni con gli altri, fecero la reciproca conoscenza e lo stesso avvenne per i padroni, prima che ognuno si avviasse per la propria strada. Un batuffolo di luce calda svolazzò dal lampione più prossimo per posarsi sul viso dello sconosciuto: era un uomo di mezz’età, capelli scuri, naso schiacciato, sopracciglia rade ed occhi a mandorla. Era asiatico. Nessuno sano di mente lo avrebbe mai scambiato per un giovanotto britannico, poteva mettersi l’anima in pace.
«Fermi tutti, polizia!». Un grido squarciò il silenzio, scaricando nell’aria la tensione accumulata durante il pedinamento. Era Webster, incapace di mollare l’osso, sbucato di fresco dalla curva una decina di metri più indietro.
*Ecco che ricomincia!*.

 
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