Skyfall, Quest di Background ~ Nieve Rigos

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view post Posted on 27/8/2020, 14:18
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Il Fato

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Skyfall


L'espressione di Julian non le piaceva. La stava giudicando in silenzio, senza osare proferir parola. Probabilmente stava riflettendo sul modo migliore per far ragionare la moglie, testarda come un mulo e feroce come una leonessa. Mentre la guardava, avvolta dalle volute di vapore del tè appena versato, egli si domandava che cosa ne fosse stato di Grimilde e che cosa avesse potuto spingerla ad un silenzio tanto lungo su una questione sì delicata. Restava fermo nella propria posizione, senza permettersi di dire nulla. Bastava il suo sguardo per instillarle il dubbio di aver fatto il passo più lungo della gamba. Non avvicinò a sé la tazza di vetro trasparente, né accennò a voler prendere lo zucchero che lei gli stava porgendo. Era uno sciopero in piena regola e il gioco del silenzio, che detestava con tutta l'anima, l'avrebbe ben presto stancata. Conosceva il suo punto debole e, poteva giurarci, l'avrebbe sfruttato per aiutarla a redimersi. Non era forse questo il compito di un compagno fedele e che l'amava?
«Oh, insomma! Vuoi piantarla? Ormai la pozione è versata, che ci posso fare?»
Pareva che per la donna la questione fosse bella e chiusa: ormai il danno era fatto, che senso aveva riaprire vecchie ferite e lasciare che la verità dilaniasse ciò che restava di un corpo già stanco? Scosse il capo con veemenza, negando ancora. Non aveva proprio senso.
«Grim, lo sai che non è così semplice.» il suo tono era spazientito, ma le voci provenienti dalla cucina erano attutite dalla porta chiusa, ad eccezione di uno spiraglio. Il buio dell'ingresso era tagliato diagonalmente da una lama di luce, quella della lampada sospesa sulla tavola da pranzo alla quale Grimilde e Julian erano seduti. Erano certi d'essere soli, altrimenti non avrebbero mai affrontato quella discussione. «Ci sono modi e modi per fare le cose, ma il tuo metodo non mi è piaciuto allora e non mi piace nemmeno oggi.»
«I suoi incubi sono ricominciati, per la miseria.» sbottò, allontanando di scatto la sedia dal tavolo. Il liquido ambrato oscillò pericolosamente tra gli argini di vetro, fuoriuscendo senza ritegno. Un po' come la rabbia della strega che, ora, si trovava sul banco degli imputati.
«Non è più una ragazzina, Grim, ormai è una donna. Che ti piaccia o no deve imparare a proteggersi da sola da ciò che di più brutto potrebbe sconvolgerla. Dille la verità.»
«Sai benissimo che l'ho fatto e sai anche com'è finita.» detta tra i denti, quasi come un ringhio, quella rivelazione pareva giustificare ogni suo atto. L'aveva fatto per lei, per Nieve. Per la bambina debole e denutrita che era stata e per la ragazza fragile che continuava ad essere. Le prime delusioni d'amore non erano state nulla in confronto a quanto era accaduto in seguito. Lei era sua madre, dopotutto. Certo, non l'aveva messa al mondo con tutto ciò che ne conseguiva... ma non era forse colei che ti cresceva ad essere la vera madre? Conosceva Nieve, sapeva quali fossero i suoi limiti. Julian non poteva capire. Non avrebbe mai potuto. «Grim, io ti amo, lo sai. Ma questa volta non posso appoggiarti. Non puoi rifarlo.» una sedia gratta il pavimento, passi veloci e un'ombra infrange la lama di luce. Julian è accanto a Grimilde, quasi in ginocchio. «Sii onesta e dille la verità. Se ci saranno dei cocci da raccogliere lo faremo insieme. Ma devi dirglielo. Tra non molto sarà troppo tardi.». Il silenzio di Grimilde lo ferisce. E' una donna testarda, che sa amare a modo suo, ma non è pronta a cedere. Mai.
Un sospiro, lungo un'eternità, e poi un'aggiunta, mentre si rimette in piedi. «Non sarò tuo complice se deciderai di tradire ancora Nieve. Hai ancora un'ora per decidere che tipo di persona vuoi essere.» Poi, l'ombra torna ad oscurare la luce e il silenzio piomba nella cucina. Non bastano le decorazioni natalizie a riscaldare il gelo improvviso di quel pomeriggio e non basta il tepore del tè, che Julian versa nello scarico del lavello vuoto. Volge le spalle alla porta e a Grimilde, lo sguardo fisso su una lettera del Ministero arrivata alcuni mesi prima. Se Grimilde voleva dirle la verità, doveva farlo prima che l'orologio a pendolo scoccasse le sei in punto.


Benvenuta alla prima parte della tua Quest di Background.
Tutto è come dev'essere: l'abitazione è quella in cui Nieve vive in pianta stabile nei mesi che non trascorre ad Hogwarts e le uniche persone presenti al momento sono Julian e Grimilde, che ignorano l'eventuale presenza di Nieve nella casa.

Come sempre, per qualsiasi dubbio o necessità mi trovi a tua disposizione tramite mp.
 
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view post Posted on 20/9/2020, 21:18
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entropia.

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Disclaimer: la presente Quest costituisce un passaggio fondamentale nella storia e nell’evoluzione di Nieve. Spiegherà, in particolare, per quale ragione non abbia fatto più ritorno a Hogwarts dopo il Ballo dello Schiaccianoci e per quale ragione abbia rassegnato le dimissioni da Prefetto.
Mi scuso anticipatamente se i miei tempi di risposta dovessero essere lenti, ma le tematiche alla base del presente scorcio di storia mi richiedono di (ri)trovare una forte connessione con Nieve, dopo mesi di latitanza sul forum, e di trovare il giusto compromesso con lei e con me stessa per scrivere ciò che va scritto.
Ringrazio chiunque leggerà.

This is the end.
Hold your breath and count to ten.
Lo scrocchio lieve della serratura d’ingresso accompagna il mio ritorno nell’appartamento di mattoni a vista. Rientro in casa che ho i geloni alle mani, la punta del naso arrossata e i bagliori delle luci natalizie ancora riflessi nell’iride degli occhi infantili. Istintivamente, per darmi ristoro, unisco le dita a mo’ di coppa, le conduco in prossimità della bocca e soffio. Un calore balsamico penetra negli interstizi tra le falangi infreddolite, dando loro sollievo. Così, espiro ancora e ancora e nascondo nello spazio tra le palme concave il nasino, mentre il tepore interno scivola sugli indumenti e si affretta a sfilarmi la coperta dicembrina di dosso come farebbe un maggiordomo col mantello del suo signore nell’androne di una dimora antica, abitata da una stirpe di alto lignaggio.
La verità è che non amo indossare i guanti e, lo so, penserete che sia l’ennesimo paradosso tra le decine che mi contraddistinguono. E, in effetti, è proprio così. Quand’ero piccina e non possedevo uno spicciolo, trascorrevo le ore con le mani e il volto appiattiti sulla superficie delle vetrine dei negozi. Attraverso la condensa creata dal mio respiro, scrutavo col viso trapunto di meraviglia le fantasie intrecciate con la lana, i pompon morbidi e i berretti variopinti, arsa dal desiderio di possederli anch’io. Adesso che potrei permettermeli tutti quanti, gli sfizi che mi sono stati negati da un’infanzia di privazioni, me ne discosto. Eccezion fatta per la sciarpa Grifondoro, simbolo della mia appartenenza ai valori di Godric e alla famiglia che ne vanta i vessilli, mi tengo alla larga da tutto ciò che potrebbe proteggermi dal freddo. Credo sia un modo di tenermi legata alla persona che sono stata, alla mia identità — l’unica cosa che mi sia mai veramente appartenuta.
Nella penombra dell’ingresso ingombro di pungitopo e lucciole sospese, ai piedi della scala che conduce al piano superiore, intravedo due punti luce inusuali e mi concedo un sorriso: gli occhi di Ania mi fissano in quel modo birichino che può significare una cosa e una soltanto. Dunque, mi chino sulle ginocchia e poggio le mani sulla moquette pulita; carponi, avanzo al rallentatore e la micia si acquatta. È la nostra maniera di giocare al gatto e al topo nella versione stravolta che tanto le piace — lei fa il roditore che fugge, io il felino che la caccia e rincorre — e sono già pronta a scattare nella sua direzione, sennonché uno stralcio di conversazione mi raggiunge e fissa la mia posizione nello spaziotempo come farebbe una macchina fotografica nell’assumersi la responsabilità di serbare un ricordo.
Il tenore delle ultime battute ha modificato la prospettiva del mio interesse. Se le tensioni iniziali tra Julian e Grimilde mi erano parse foriere di un bisticcio qualsiasi in divenire, adesso ho la certezza di essere la causa dell’alterco.
Gli incubi, i miei.
Le bugie, le loro.

Lentamente, trovo la solidità di un gradino e vi seggo. Sebbene io mi sia dimenticata di Ania nel tempo di un baleno, lei non ha scordato me; mi raggiunge e struscia insistentemente la fronte sul mio braccio, poi il corpo morbido e sinuoso. Vuole richiamare la mia attenzione e, di norma, l’avrebbe. Un dettaglio enigmatico, eppure, nell’eco grave della conversazione tra Grimilde e Julian ha spezzato la mia ultima inspirazione all’altezza del punto di giunzione tra le terze costole.
Sento qualcosa nell’aria. Percepisco la portata dell’avvenire farsi progressivamente penosa — come sempre, mi vien da commentare con un sarcasmo amaro — e il barlume gioioso delle lucine di natale che adornano Londra sbiadisce tra gli intarsi delle mie iridi fino a svanire, ingollato dal nero delle pupille.
Mi muovo con calma, protetta dal ritorno silenzioso che ha impedito loro di sospettare della mia presenza. Il Caso sa essere un direttore d’orchestra bizzarro, alle volte, con i suoi improvvisi colpi di testa e baton. Distante dall’ambiente che mi circonda — quasi che non mi appartenesse, o io non appartenessi a lui; come acqua e olio, siamo estranei l’uno all’altra e ci sfioriamo senza toccarci —, avanzo. La lama di luce che proviene dalla cucina scannerizza l’espressione imperscrutabile sul mio viso, esacerba la profondità del mio sguardo avido e l’autorità che ora emana dal mio figurino smilzo. Mi appartiene di diritto, la verità che mi è stata taciuta, qualunque essa sia. E ho intenzione di riappropriarmene senza sapere quanto incoscienti siano le mie mire, quali e quante conseguenze non ho idea di dover affrontare.

«Dirmi cosa.»

La mia voce si rifrange nel silenzio seguito all’ultimatum di Julian, di cui adesso posso osservare le spalle larghe, e non ha il suono di una domanda ma di un ordine. Trattengo le dita sul pomello dorato e cerco gli occhi di Grimilde. Avvolta nel mantello verde muschio trapunto di foglie e ghirigori delicati, ho il portamento di una monarca spietata, troppo giovane per ricoprire una posizione sì onerosa ma imperterrita e indomita, fatta di puro ghiaccio. Di neve.
Alle mie spalle il dolore, il tradimento e la mattìa reggono i lembi della cappa e mi fanno da strascico. Come ancelle obbedienti, stanno un passo indietro finché non avrò concesso loro di avanzare. Intanto, le immagini dei mesi trascorsi a rimettermi in sesto riemergono dagli abissi della mia memoria: le cure dei nonni, l’estate in Toscana con Thalia e i nostri abbracci — i miei più dei suoi — ad ogni angolo di Hogwarts, l’innamoramento per Kurt, le chiacchiere con Caleb al rientro dall’avventura a Godric’s Hollow, i consigli dati a Rose e le sue tenere reprimende per i miei eccessi, le battute sfacciate con Casey, i traguardi accademici raggiunti. Le osservo creparsi poco alla volta, ineluttabilmente, al mio cospetto. Andranno in frantumi e io con loro, non è così?
Inspiro e batto le ciglia, una volta soltanto.
Non è solo la verità che voglio,
Voglio tutto,
Voglio giustizia,
Ora che lo scettro del potere
Mi appartiene.

«Dirmi cosa.»

Feel the earth move and then
hear my heart burst again... at Skyfall.



E ringrazio anche Misky mia per essere sempre prona a tener testa alle mie richieste iper dettagliate e sempre più creative. Appena vieni a casina mia, te lo dico davanti a tutti così non fai storie, il gelato che abbiamo in sospeso lo offro io. Sempre se la macchina non ci tradisce di nuovo, claro.

Master, :<31: .

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Edited by ~ Nieve Rigos - 8/1/2021, 21:32
 
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view post Posted on 28/9/2020, 17:56
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Gli occhi di Grimilde percorrono la distanza che separa la schiena di Julian alla porta d’ingresso, due punti opposti della stanza, fino a che la figura di Nieve non si staglia con prepotenza sull'uscio e la lascia senza parole. Anche Julian si volta, senza che il timore di Grimilde possa divenire il suo. Lei ha sbagliato e ha la coscienza sporca. E lui? E’ davvero innocente fino a prova contraria? Non ha potere su Nieve, non ha voce in capitolo. Ci ha provato a far ragionare l’amore della sua vita, ma Grim è testarda ed è proprio quel lato del suo carattere che ha risvegliato i suoi sentimenti dormienti. Ora, però, riconosce nella donna amata una persona in realtà sconosciuta e desidera, poiché senza scorno Grimilde non ammetterà mai d’aver commesso un fallo, che Nieve si mostri furiosa di fronte al sopruso che le è stato rivolto. E’ giusto che si affrontino e in cuor suo vorrebbe che lo facessero da sole. Eppure, due fiere in lotta potrebbero distruggersi e questo si allontana nettamente dal suo più recondito desiderio di verità. Appoggia quindi le mani al bancone della cucina e lo stringe con le dita, le nocche bianche per la tensione. Osserva Nieve e la vede mutare senza che - per una volta - i suoi capelli cambino col suo umore. E’ arrabbiata, questo è certo, poiché detesta le bugie; eppure è calma, troppo per una situazione come quella. La mano si sposta allora sulla busta del Ministero della Magia e la trascina affinché Grimilde ne possa udire il frusciare di pergamena e Nieve ne possa scorgere l’esistenza. Julian agisce per conto del Fato e Grimilde non può opporsi. Nessuno può.
«Non usare quel tono con me.» dice allora Grimilde, serrando le labbra indispettita e gonfiando il petto. Julian scuote appena il capo incredulo: non è così che dovrebbero andare le cose. «Grimilde deve dirti qualcosa, siediti per favore.» la voce si schiude nel silenzio che segue alle parole della donna e vuole essere un balsamo contro la rabbia crescente di Nieve. Ricorda bene i suoi incubi, le urla e le grida disperate nel cuore della notte e i molteplici incantesimi per insonorizzare l’edificio: non c’era bisogno che i vicini partecipassero alle sue sofferenze e le condissero con l’acido pettegolezzo. «Per favore.» ripete, più dolcemente questa volta. La mano che le indica la seggiola stringe anche la lettera. Nieve potrebbe tentare d’afferrarla, conoscendola e se pensasse che possa riguardarla, ma Julian è pronto a retrocedere. Deve essere Grimilde a svelare le carte, come sempre.
«Julian.» lo sta velatamente minacciando di farlo dormire sul divano per quella notte e forse per quelle a seguire, ma lui non molla e lo sguardo penetrante si fonde col suo, prima che la voce possa sancire le condizioni di quella mediazione. «Le lancette corrono, Grim. Diglielo e basta.» «Non è una cosa che ti riguarda.» sembra volerlo ferire con quelle parole, immaginando che ad una simile affermazione egli non si opporrà. Ma si sbaglia. Nieve riguarda anche Julian. Per lui, in fondo, è una figlia come tutti gli altri nati dai lombi della sua carne. «Fingerò che tu non l’abbia detto. Ora siediti e comincia a parlare.» La lettera tra le sue mani ha il potere d’attirare l’attenzione di tutti i presenti, quasi come un talismano dall’oscuro potere: Grimilde vorrebbe bruciarla, Julian vorrebbe leggerla ad alta voce. E Nieve? Che cosa vuole questa povera anima afflitta? Grimilde siede con uno sbuffo, eppure tace. Forse non sa come cominciare e Julian questo lo sa bene. «Grimilde è l’unica madre che conosci, Nieve. Ciò che ti è accaduto prima d’incontrarla è storia passata, che forse non ci può ferire. Dico bene?» Le tende la mano libera, sperando che lei possa posare la propria nel suo palmo; quella connessione semplice sarebbe bastevole a fargli comprendere che il suo operato di negoziatore abbia un senso in tutta quella follia. «E proprio perché è come una madre per te, Grim a volte sbaglia. Se lo fa, però, è perché pensa di fare il tuo bene. Forse non lo capisci ora, ma in futuro spero la comprenderai e saprai perdonarla.» Anticipa ogni suo tentativo di opporsi a quella difesa, poiché sa bene quanto Nieve possa essere difficile alla quiete quando il suo corpicino esile è scosso dalla rabbia più cieca. «Se non potessi farlo, di perdonarla subito intendo, lo capirei e ti appoggerei.»
Grimilde, dal canto suo, tace ancora - forse si aspetta l’intervento provvidenziale di una divinità dapprima assente che possa trarla d’impiccio; fattostà che il silenzio piomba ancora tra loro e le spiegazioni tardano a mostrarsi. Il Fato osserva le sue pedine muoversi su un campo minato di buone intenzioni e spiacevoli inciampi: Nieve farebbe bene a insistere, poiché l'orologio corre e il tempo della verità è agli sgoccioli.

 
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view post Posted on 4/10/2020, 18:14
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«Cosa cazzo devi dirmi?»

La lingua modula il tono della mia risposta perché segua senza ritardo l’ammonizione di Grimilde e qualcosa, nell’inflessione venefica della provocazione cui l’ho appena sottoposta, rammenta l’attacco imperdonabile del serpente. La sua frustrazione di donna e di madre potrà essere insopportabile, ma la mia… Oh, la mia è una furia cieca che trascina con sé morte e distruzione! La sento montare voracemente negli abissi del mio ventre, mescersi all’oscurità che ho a stento domato dopo il tradimento di Astaroth e il delirio nel quale sono piombata e, infine, divenire creatura ibrida dal potenziale terrificante. Se il mio corpo appare fragile per via della magrezza e i colori dell’incarnato e dei capelli rimandano alla delicatezza delle nuvole, è il fragore inarrestabile della tempesta che si agita sotto la sua superficie e mi colma tutta.
L’eco sorda prodotta dal contatto dei miei pugni sulle assi del tavolo si è chetata in favore di un silenzio denso, che l’intervento di Julian spezza nel tentativo di ammansire le tensioni di cui vibra l’aria.
Grimilde ha trascorso la propria esistenza a contatto coi draghi, a studiarne il comportamento e a proteggerli; ha perso il grande amore della sua vita e il sogno di avere dei figli suoi per l’attacco di uno spietato esemplare e, ciononostante, continua ad averne rispetto, a provare l’irresistibile fascino che l’ha condotta a scegliere per sé stessa un percorso rischioso e solitario e che la indurrebbe a rifarlo ancora infinite volte. Io, tuttavia, rappresento per lei una novità con la quale non ha mai creduto di doversi confrontare. Senza che mi sia dato saperlo, posseggo la medesima indole infrenabile e il medesimo fuoco devastatore che non conosce posa né pietà. Sono il cucciolo che ha preso e allevato con immensa tenerezza fino a scordarsi, per ragioni di affetto, della natura ferina che è propria alla specie per nascita. Perfino adesso, accecata dalla convinzione di potermi domare con la sua autorità di genitore, imperterrita, insiste nell’errore.
Come un drago, però, io non ho padroni né mai ne avrò.
Quando sposto l’attenzione su Julian per seguire il filo del suo discorso, i miei occhi cercano inevitabilmente i contorni della pergamena del mistero. È lì che si trova tutto ciò cui anelo, perciò le mie dita si muovono tra i drappi interni del mantello e ne estraggono la bacchetta. Desidero quell’apparentemente inutile foglio incartapecorito con una brama che infiamma il sangue e lo spinge a scorrere rabbiosamente nell’alveo delle mie vene turbolente. Slego di malagrazia il nodo che mi assicura la cappa sulle spalle e la lancio con violenza sulla sedia offertami da Julian.

«Dammi quello stramaledettissimo foglio, Julian, o giuro su Dio che mando tutto all’aria» sibilo, minacciosa, e intendo mantenere l’orribile promessa che ho appena pronunciato.

Eppure, Julian è più testardo di così, devoto alla stessa causa di sempre: nel ruolo di pacificatore, spera di impedire che un dibattito si trasformi in un cataclisma di proporzioni merliniane. Nello stordimento caotico generato dalla miriade di emozioni delle quali sono in balìa, peraltro, non posso fare a meno di notare una differenza rispetto al passato. Se in altre occasioni egli ha sempre mantenuto una posizione di equidistanza tra le parti, stavolta il suo schieramento è netto e ribadisce il proposito espresso in segretezza alla moglie — prima che io facessi ingresso in cucina e li costringessi a rendermi partecipe della conversazione — adesso che la verità sta per venire a galla.
Julian vuole che io sappia.
È lei, Grimilde, che mi ha ingannata e si oppone a gettare la maschera.
Il tenore della sua premessa paterna mi rinfranca, inevitabilmente. Sentire di poter fare affidamento sull’appoggio di qualcuno, di fronte a una rivelazione che minaccia di devastare gli equilibri di un’intera famiglia, riesce a confortarmi. Non sarò da sola, mi dico, non di nuovo, non stavolta.
L’impronta di gravità assunta dalla sua arringa, tuttavia, asperge di una sottile condensa di gelo il magma bellicoso che preme per essere rilasciato; per fagocitare ogni cosa. Il contrasto mi stordisce e i segnali discordanti che riceve il mio corpo, invece di generare movimento, per un attimo provocano stasi. Ritta in piedi e rigida come uno stoccafisso, allaccio con vigore la presa attorno all’elsa della bacchetta. Lo faccio per appigliarmi all’unico punto fermo che sento essermi rimasto a contrasto con il Caos che si sta scatenando sottopelle e alle menzogne nelle quali sono stata avvolta. Ciononostante, il gesto appare all’esterno annunciatore di catastrofe: sembra suggerire che io sia pronta ad attaccare, a prendere ciò che mi spetta con le buone o con le cattive. Soprattutto con le cattive. E forse, in fondo, non è che così.
Mantengo gli occhi fissi in quelli dell’uomo che mi fronteggia e, mascherando la pena che mi provoca la prospettiva di parere ingenerosa al suo cospetto, allungo il braccio destro in direzione del suo sterno. L’estremità del tiglio argentato, alla luce della lampada sospesa sul tavolo della cucina, vibra e risplende con fare intimidatorio.

«Non lo ripeterò una seconda volta: dammela.»

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Edited by ~ Nieve Rigos - 8/1/2021, 21:32
 
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view post Posted on 11/10/2020, 13:19
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La situazione assume una piega via via sempre più pericolosa, dai risvolti imprevedibili. Grimilde conosce il contenuto della lettera del Ministero: sebbene non fosse destinata a lei, la tutrice di Nieve l'ha letta e riletta così tante volte nell'ultimo mese da ricordare a memoria ogni parola e ciascuna virgola. Il nucleo di quel messaggio porta con sé la distruzione di tutto ciò che in quegli anni è riuscita a costruire con tanto sacrificio, dopo aver posto le basi di compromessi non sempre accettabili per le parti coinvolte. Mentre il suo sguardo ignora Nieve, solo per un attimo, senza smettere di ascoltarla, non può fare a meno di fissare la busta tra le mani di Julian, col terrore che la figlia possa riuscire a strappargliela e leggerne il contenuto. Se ci riuscisse, riflette, la sua reazione sarebbe tremenda e le conseguenze inenarrabili. Ricorda bene come si è sentita dopo aver rivelato a Nieve una verità crudele; non aveva dimenticato le urla strazianti della sua bambina - come le piaceva chiamarla senza che lei lo sapesse - quando, finalmente, la sua mente era riuscita ad elaborarla. Una madre desidera il meglio per i propri figli: si vorrebbe vederli crescere spensierati, senza alcun peso sulle spalle esili, e Grimilde conosce bene i macigni che appesantiscono il cuore dell'adolescente che ora minaccia il suo padre putativo. La rabbia che anima le sue membra è feroce, cieca e inarrestabile: lasciarla proseguire sarebbe come condannare Julian a morte. Ed è in quel momento che lui, Julian, ritrae le mani - flettendo le dita in un gesto di chiaro dispiacere per la mancata stretta di Nieve - e con esse la busta. Vorrebbe renderla a Grimilde, far sì che sia lei a dare spiegazioni e a fornire le prove di quanto afferma. Eppure, sa bene che la donna che ama non è in grado di scindere - proprio come Nieve in quell'istante - che cosa sia giusto e che cosa non lo sia. E' addolorato, vorrebbe che le cose fossero diverse e maledice il giorno in cui quella donna ha conosciuto e stregato Nieve. Se non fosse mai esistita, forse, la loro vita sarebbe stata diversa. Quella di Nieve lo sarebbe stata senz'altro. All'ennesima minaccia di Nieve, Julian scuote il capo in diniego. Non teme quella ragazza fragile, nascosta dal velo d'ira che l'ammanta. Nieve resterà sempre la ragazzina che ha conquistato il suo cuore al pari dei suoi figli di sangue. Eppure, se Julian è pronto a non cedere alle insidie poste dalla figliastra, Grim non è altrettanto salda nelle proprie decisioni. Una bacchetta puntata al petto dell'uomo che ama per cagion sua è sufficiente a farle finalmente volgere lo sguardo sull'orfana divenuta il centro focale della sua esistenza. Se fino a pochi mesi prima il suo volto era scarno ed emaciato, tanto da parer denutrita, qualcosa nel mondo di Nieve aveva riassestato le cose. Che fosse l'amicizia ben più sana con una ragazza sua coetanea, o che finalmente la sua personalità si fosse assestata su un piano meno umorale e più razionale, Nieve aveva ripreso ad essere se stessa, o almeno una versione di sé più vicina a ciò che Grimilde avrebbe desiderato vedere di lei. E' bella Nieve, di quella bellezza naturale e senza fronzoli: la sua pelle candida, ora incendiata dalla rabbia che le infiamma le gote altrimenti pallide, e quei capelli simili a fili di argento. Incredibile come la sua rabbia non abbia intaccato la sua parte metamorfa. Ogni ricciolo richiama la sua incapacità a sottostare alle regole e quello sguardo fiero, acceso di determinazione, le fa rimpiangere che Nieve non sia davvero figlia sua. Eppure, vivendo a stretto contatto come hanno fatto in quegli anni, la sua trovatella ha preso qualcosa anche da lei. Qualcosa che esula dalla genetica tanto perfetta che ne plasma la figura. Più la guarda, più Grimilde si rende conto d'averla resa simile a se stessa e che la vita prima di incontrarla ha forgiato un carattere imprevedibile, forse addirittura violento, che nessuno dei presenti ha mai sperimentato davvero. Una madre vorrebbe il meglio per i suoi figli, ma questo - a volte - non coincide coi loro desideri. Grimilde non è d'accordo nel rivelare quanto è scritto nella lettera, ma deve prendere tempo per se stessa e per Julian. Lui non dirà una parola, questo lo sa bene.
«E' una lettera del Ministero della Magia.» la voce di Grimilde interrompe quel silenzio pesante e fende l'aria come una scure. Si aspetta che Nieve si volga verso di lei e sia attratta da quelle parole come una falena alla luce di una lanterna nella notte. L'indice punta la lettera custodita da Julian. «Quella lettera non porta con sé nulla di buono.» e lo dice come se volesse chiudere lì la conversazione, come se tanto dovesse bastare a Nieve per mettersi il cuore in pace. Julian scuote ancora il capo, incredulo questa volta. Non può e non vuole credere che Grimilde stia prendendo tempo, ancora. «Grim...» «Taci.» lo fulmina con gli occhi, accesi della stessa determinazione di Nieve e riporta in fretta lo sguardo su di lei. Spesso e volentieri si è trovata a pensare al fatto che Nieve sia come uno dei suoi draghi, quelli che ha amato studiare e le hanno portato via ogni cosa: il contatto visivo, in talune circostanze, era essenziale a stabilire un contatto; distolta l'attenzione per un secondo, si sarebbe potuta perdere ogni cosa. Entrambe le mani, a palmo aperto, si rivolgono a Nieve, parallele alla superficie del tavolo. Si abbassano gradualmente, mano a mano che Grimilde prosegue con la sua nenia. «Abbassa la bacchetta e Julian ti darà la lettera. Ma prima che tu la apra, voglio dirti che qualsiasi cosa leggerai e qualunque cosa tu faccia dopo... è già successa. E io vi ho posto rimedio.» Sì. Le urla di Nieve nella notte, i suoi incubi, la sensazione che la memoria le scivolasse via come acqua tra le dita... erano merito di Grimilde e delle sue premure. Non c'era altro modo. Lo strazio di Nieve era diventato il suo.


 
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view post Posted on 19/10/2020, 20:27
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Hold your breath and count to ten.
Julian Dallas è un idiota. La considerazione trapassa il mio cervello da parte a parte, impietosamente, senza che mi colga il dubbio di poterla attenuare. Non significa che io abbia dimenticato le molte, altre, eccellenti qualità che lo rendono un uomo meraviglioso. Implica soltanto che, tra i suoi difetti, io riesca a cogliere con esattezza chirurgica la sua stoltezza e che lo stia facendo proprio qui, nella cucina del nostro appartamento, nel pieno delle mie facoltà mentali.
A condurmi in questa direzione sono le sue azioni. Si muove, pensa e parla come se possedesse lo scettro della giustizia, ma la verità è che non sa nulla. Se è convinto che io possa risparmiarlo da un attacco, ad esempio, è un maledetto imbecille. Ciò che regge tra le mani — quel foglio di Damocle che pende sulle nostre teste con la promessa di recidere — mi appartiene di diritto e tanto basta a fornirmi perfino le giustificazioni di cui non avrei bisogno.
Ho trascorso l’infanzia nell’indigenza, nell’ombra dell’abbandono e del rifiuto fino ad esserne in qualche modo plasmata: la mia anima, dopo tanti anni, ancora si affama all’idea della tenerezza e la prende un appetito tanto grande da rasentare la follia giacché non importa che il suo nutrimento sia tossico o meno, purché giunga e plachi gli spasimi del mio ventre spirituale; e il cuore spasima dinanzi alla prospettiva di venire scartato e gettato come una caramella insoddisfacente rispetto alla quale si preferisca un gustoso cioccolatino ripieno. Sebbene gli stenti non mi abbiano resa avida, è pressoché inutile precisare quanto poco ami che i miei averi mi vengano sottratti arbitrariamente. Ed è questo che sta accadendo adesso e Julian ne è l’artefice.
Un’ondata di ferocia m’invade e schiuma, trasformandosi in amarezza sulle papille gustative. Sento distintamente la magia friggere sottopelle, pulsare per venire fuori dai miei pori, cercare nel tiglio argentato il canale per rilasciare la tensione — la versione brutale di un orgasmo. E sto per farlo. Sì, sto per attaccarlo, Cristo e tutti i Tuoi Santi, come ho già attaccato Aiden nella periferia di Hogsmeade e come avrei attaccato il Midnight se la campanella di fine lezione non mi avesse frenata del farlo un giorno di neppure troppo tempo addietro. Desidero colpirlo per punirlo della sua protervia e della sua condiscendenza, le stesse con cui crede di essere titolato a gestire l’andazzo della conversazione; le stesse con le quali è stupidamente sicuro di poter determinare cosa, come e quando mi sia dovuto.
Oh, Julian, te la spacco quella cazzo di faccia!
L’intervento di Grimilde lo salva da uno schianto brutale contro i mobili della cucina. Ho le spalle tese per l’anticipazione del movimento, l’espressione dura e le intenzioni bestiali. Ogni sfumatura nella mia posa suggerisce devasto e lei deve averlo capito. Per questo, ha ritenuto di servirgli un assist non richiesto e risparmiargli le conseguenze del mio agire. Mi domando se, in fondo, gli anni spesi a contatto coi draghi non le abbiano insegnato a comprendere quando una fiera sia troppo inselvatichita per illudersi di ammansirla. Non è un quesito che mi pongo con dolcezza, scaldata dal tepore di sentirmi capita a una profondità che pochi possono vantare. È un interrogativo che si porta appresso un rancore antico che ha Grimilde per destinataria e che non ho mai voluto accettare, men che meno esplorare.

«È una lettera mia» la correggo, stizzita, per rispondere alle prime battute che fuoriescono dalle sue labbra traditrici. Le mie, d’altro canto, si stringono infastidite nel cogliere l’intervento di Julian. Che testa di Troll, penso e nemmeno mi accorgo di non avergli mai usato una tale ingenerosità. Ora più che mai, somiglio alla versione dello specchio che tanto mi ha sconvolta al Ballo delle Ceneri. La mia bacchetta rimane risolutamente puntata in direzione del marito della donna che mi ha stravolto la vita già una volta e che si appresta a farlo di nuovo. «Non abbasso un…» “… bel niente” sono sul punto di continuare, ma l’arringa di Grimilde assume una piega inattesa, differente, e la mia attenzione si catalizza su quell’ultima frase enigmatica che sembra dire tutto senza spiegare un accidente.

Traggo un’inspirazione e trattengo il respiro; la mia mascella si contrae e lo stomaco si torce. Sono stanca, stanca di tutti questi preamboli, dei tentativi di prendere tempo, dei giri di parole destinati a creare soltanto altri, innumerevoli dubbi. Un tremolio sottile sfugge alla protezione della cute e raggiunge la superficie del mio corpo. Un istante più tardi, ho sbattuto entrambi i pugni sulle assi del tavolo con una virulenza che ne fa vacillare la struttura tutta. Lo spasmo di dolore, generato dal contatto secco col legno duro, è inconsistente rispetto alla massa viscosa che si agita dentro di me fino a rendermi la versione più pericolosa che si sia mai vista di Nieve Rigos.
Doveva accadere prima o poi, del resto. Non era plausibile che le emozioni covate negli ultimi anni svanissero in un pacifico puff e mi lasciassero in pace, dimentiche di me. Non ho fatto altro che nascondere la polvere sotto uno spesso tappeto persiano nell’illusione che fosse bastevole a cancellare il passato. Ma nessuno può smettere di essere chi è veramente, non quando le cicatrici sono più vaste e profonde della pelle rimasta illesa.

«Ora basta». Il mio sussurro è gravido di un’ira che, a tratti, io stessa percepisco come estranea. Mi sconquassa in ogni più piccola porzione dell’io, ossa e sangue, anima e spirito. Ho il capo chino sul punto libero tra i confini dei miei pugni e i capelli che mi coprono i lineamenti in una cascata di argento vivo; le spalle lievemente curve e la bacchetta che punta verso il soffitto. «Ora basta» ripeto, frattanto che mi raddrizzo con una lentezza che non promette nulla di buono e che non rassomiglia affatto alla calma. I miei occhi gelidi feriscono quelli di Grimilde con un sentimento dai contorni oscuri, profondamente foschi. «Basta coi giochetti del cazzo, basta con questo teatrino, basta con le bugie». L’ultima frase viene fuori sotto forma di un urlo roco trattenuto a stento. Uno zampillo rossastro sembra promanare dalla mia bacchetta o, forse, è solo il fuoco che mi riempie gli occhi a filtrare la mia visione delle cose. «Voglio quel foglio, adesso, e voi due dovete stare zitti. Zitti. Non voglio sentire una sola parola venire fuori dalle vostre bocche di merda». Il mio linguaggio è terribile e il mio atteggiamento inqualificabile. Una parte di me non riesce a non pensare che, forse per la prima volta dopo poco meno di dieci anni, Grimilde sia di nuovo di fronte all’orfana selvaggia d’Islanda che non ha avuto cuore di lasciarsi alle spalle, ma che forse avrebbe dovuto abbandonare al suo destino. «O me la dai, o rimpiangerai finché campi di non avermi fatta morire a Borgarbyggð».

La minaccia rimbomba, crudele, tra le pareti della cucina.
Tra le pareti del nostro rapporto morente.

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view post Posted on 25/10/2020, 10:28
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Se da un lato i loro sguardi sono incatenati dalla paura e dalla determinazione, dall'altro gli occhi di Grimilde scandagliano le profondità abissali di quelli di Nieve con un inspiegabile e insensato moto d'orgoglio. Per Giove, quanto vorrebbe che Nieve fosse davvero figlia sua! Riconosce in lei il fuoco distruttore, lo stesso che ha forgiato la sua esistenza fatta di stenti. Le sue parole la feriscono come lame taglienti, ma non una lacrima solca le guance della donna, rigide nella posa compassata e fiera che le è propria. Julian non permetterebbe mai che Nieve le faccia del male, pertanto è certa che nonostante le divergenze sull'argomento corrente, il marito la salverebbe dall'ira della figliastra. Tace, Grimilde, e lo fa con la compostezza che le appartiene da sempre, complice quel carattere che nemmeno la paura riesce a scalfire davvero. Fintantoché la bacchetta di Nieve è puntata contro il suo petto, Grim non teme nulla. Ha corso troppi rischi e giocato numerosi azzardi per lasciarsi intimidire da un adolescente arrabbiata. Tuttavia, non si stupirebbe se quella ragazza - che lei ha cresciuto nonostante le condizioni e le opinioni di chi credeva fosse una follia - alla fine fosse capace di atti inimmaginabili. La sofferenza segna l'uomo in modi indescrivibili e spesso incomprensibili, lasciando un margine di imprevedibilità fin troppo pericoloso. Tace, dunque, e lo fa non tanto in risposta alla richiesta della bambina che ha raccolto tra le ceneri di un passato troppo crudele; lo fa perché sa fin troppo bene che qualsiasi cosa lei dica, Nieve non l'accetterà. La sua rabbia, quella di madre, è rivolta a quella donna che ha portato scompiglio nella vita della sua bambina, che l'ha introdotta in un mondo lontano dalla sua innocenza.
«Dagliela, Julian.» concede alla fine, la voce roca di chi vorrebbe tacere ancora, ma non ne ha più la forza. «Forse dandogliela riuscirai a capire perché ho agito come ho fatto.»
Lo sguardo si volge altrove, non a Nieve. E' come se lei non ci fosse adesso, per assurdo, perché quella discussione doveva restare tra lei e il marito. Ora che Nieve è a un passo dalla verità, Grimilde sente la soddisfazione crescere in lei, come se la legittimazione nella sua figura di madre putativa possa essere sufficiente a giustificare le scelte che li hanno condotti tutti a quel preciso momento. Julian rimane in silenzio, ma non nega alla figliastra l'onore di leggere quelle parole che tanta pena hanno dato loro nei mesi trascorsi lontano da lei. Le stesse parole che già una volta hanno ferito mortalmente Nieve senza che lei potesse saperlo davvero. Le mani salde accompagnano la busta sul tavolo, finché questa non sfiora le dita di Nieve. Un contatto che brucia, ma che insieme purifica. Qualunque sia il segreto, la verità è proprio lì. A portata di mano. «Hai fatto la cosa giusta.» sussurra Julian alla moglie e questa, beffarda, straluna gli occhi «Aspetta a dirlo.» e si alza, senza chiedere il permesso del loro giovane sequestratore. Ora che ha la lettera, Grimilde dubita che Nieve possa curarsi di lei. Si avvicina così alla credenza e ne trae un bicchiere che riempie subito d'acqua. Non è per Julian e tantomeno per Nieve. Sa benissimo che se glielo offrisse, lei lo scaglierebbe contro la parete in un gesto di rabbia. «Hai già letto una volta quella lettera.» le dice a quel punto, volgendole le spalle e puntellandosi sul bancone coi palmi. Il capo chino, infossato tra le spalle, è pronto a proteggersi dalla reazione di Nieve. La ode, mentre estrae la lettera del Ministero dalla busta, e conta i secondi che la separano dalla lettura alla realizzazione del significato del contenuto. Vorrebbe che lei leggesse, che conoscesse la storia attraverso le sterili parole di un esecutore del Ministero della Magia. Eppure, non può farlo. Non può aspettare e desidera che Julian sia presente, corpo e mente, al momento in cui la verità dilanierà il cuore della sua dolce figlioletta. La voce che dà l'annuncio è quella di una madre che strappi il cerotto per evitare inutili sofferenze, per velocizzare un processo di guarigione che ancora non può essersi compiuto. Ogni sforzo fatto, ogni sacrificio... nulla è servito a risparmiare a Nieve il dolore che sta per provare e lei, Grimilde, non può fare assolutamente nulla per impedirlo. Inspira a fondo, dopo aver bevuto un sorso d'acqua, e esplode con una verità, simile ad un proiettile, che si conficchi nelle carni morbide e le dilani senza pietà.

«Astaroth Morgenstern è morta.»


 
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view post Posted on 21/12/2020, 17:38
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La concessione di Grimilde mi disgusta, almeno quanto la subalternità di Julian — un Ippogrifo ammaestrato, ecco cos’è; un uomo inutile e senza spina dorsale, inconsistente come un mollusco.
Penso queste parole con una cattiveria inedita, mentre allungo le dita e afferro lestamente la lettera perché non mi venga più negato di leggerla. La creatura deforme che, nella mia testa, biascica crudeltà su crudeltà ha il suono della mia stessa voce, ma possiede un atteggiamento che non mi è mai appartenuto. Ha fame — una fame mostruosa e insaziabile, dannata — e avanza nel mio io con la pretesa di occupare tutto lo spazio.
Non riesco a vedermi, ma, intanto che strappo la carta dell’involucro e dispiego la missiva, ho come l’impressione che i miei movimenti siano meno umani. Un Licantropo: è questa l’associazione che segue. Non riesco nemmeno a figurarmi quale dolore si accompagni alla trasformazione di un Lupo Mannaro, eppure è così che mi sento in questo preciso istante. Mi muovo a scatti, respiro affannosamente e mi consuma da dentro un’esigenza viscerale che non conosce padrone o affetti. Mi abbatterei anche sulla mia migliore amica, se l’avessi davanti adesso e osasse sfidarmi come hanno fatto Julian e Grimilde.
Non ho tempo, invero e per loro fortuna.
Devo leggere, devo sapere.

Le parole vergate sul foglio sono fredde, altisonanti e formali, intrise di un tecnicismo che mi confonde. Allora, scorro velocemente il testo per capire se si faccia più chiaro nelle battute seguenti, poi torno indietro, leggo di nuovo e mi ritrovo immancabilmente confusa.
Intuisco che l’oggetto del contendere abbia a che vedere con Villa dei Gigli, che Astaroth abbia fatto qualcosa a riguardo e io ne sia coinvolta. E, tuttavia, mi sfugge il senso complessivo della lettera che ha indotto Julian e Grimilde a ingannarmi, prima, e a muoversi con grande cautela, poi. Non ci trovo nulla di preoccupante, pericoloso o oltraggioso… O, forse, mi sbaglio? Cos’è che non riesco a scorgere nell’evidenza di questo maledetto testo?
Mentre proseguo nell’opera di traduzione e interpretazione, non mi accorgo che le rughe sulla mia fronte si sono distese per lasciare spazio a un sorriso istupidito e, insieme, inespressivo. Qualunque cosa vogliano dire tutti quei paroloni, ciò che importa è che Astaroth mi abbia finalmente scritto.
Torno con la mente alle lettere che le ho inviato senza ricevere mai risposta e, al cospetto di questo incomprensibile foglio, trovo pace. Riesco solo a pensare che mi abbia perdonata, che ci sia stato un impedimento a frapporsi fra di noi, che con ogni probabilità esso sia venuto finalmente meno e che Roth voglia incontrarmi a Villa dei Gigli.

È Grimilde a tranciare di netto il filo in divenire delle mie aspettative con una frase terribile e… inverosimile, a dir poco. La sua eco mi raggiunge e gela il lavorio delle mie sinapsi, dunque induce le mie palpebre a spalancarsi e, da ultimo, a battere il ritmo rapido della confusione.
Dev’essere uscita fuori di senno: è questa la sola spiegazione che io riesca ad elaborare, non appena lo sconvolgimento allenta la presa per trasformarsi in altro. Se ho ricevuto un’epistola da parte di Astaroth in merito a quella che so essere la sua villa, com’è possibile che sia… morta? È così sciocco e palesemente privo di logica. Un morto non può scrivere lettere e ordinare che vengano spedite a destra e a manca, coinvolgendo addirittura un’autorità del calibro del Ministero della Magia. È troppo assurdo perfino per il nostro strambo mondo.
Allora perché, perché non riesco a guardare Grimilde?
I miei occhi rimangono cocciutamente puntati sulla carta.
Non me ne rendo conto giacché non posso vedermi, ma sono pietrificata. Il mio corpo, guardato dall’esterno, rammenta una statua di marmo, lavorata dalle sapienti mani di uno scultore dal gusto sopraffino — sembro viva e, a un tempo, non lo sono mai stata.
Forze contrastanti si muovono al mio interno, trasformandosi ora in calore ora nel gelo più penetrante che le mie ossa abbiano mai conosciuto. Ho le falangi fredde; e il volto e il petto in fiamme. Non mi sono mai sentita così spezzata in tutta la mia vita.

«Tu sei pazza» riesco a dire, infine, con un’espressione mostruosa sul viso cereo.
E sono certa di suonare risoluta, sarcastica addirittura come se il mio dispregio per lo scherzo di cattivo gusto di Grimilde dovesse trapelare da ogni singola sillaba da me pronunciata. Invero, i miei lineamenti trasudano una disperazione che mi rende spaventosa; e la mia voce suona roca e bassa, quasi che le mie corde vocali avessero dimenticato come svolgere il loro compito.
Il mio corpo ricorda, sa.
La mia mente, invece, rifiuta la verità.
«Tutto ciò che dici non ha senso e io non sono una stupida» continuo e l’affanno con cui pronuncio ogni parola, unito al nero delle mie pupille, mi fa somigliare a una belva sul punto di impazzire — senza coscienza, né scrupoli. «Ed è di Astaroth, che ha voluto scriverla e inviarla a me». Una risata infertile risale il percorso che conduce alla bocca e viene al mondo, stonata e disumana. «Stai sragionando!» Una pausa breve, dilatata dal suono del mio respiro asmatico. «Questa è mia, mia, mia, mia, mia, mia…» sussurro, serrando le dita attorno ai margini del foglio, che si accartoccia.

Alla fine, alzo lo sguardo e mi approprio forzosamente di quello di Grimilde con l’intenzione di impedirgli di staccarsi dal mio. Pretendo spiegazioni che non chiedo. Pretendo scuse senza aver compreso l’offesa. Pretendo il silenzio, il fragore, la genuflessione altrui, il controllo.
Voglio, voglio, voglio.
E, invece, non ho niente.

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view post Posted on 2/1/2021, 17:14
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Potesse risparmiarle il dolore che quella verità le sta dando, Grimilde lo farebbe. Le si stringe il cuore e la voce si spezza in un silenzio catartico, mentre Nieve le scaglia contro ingiurie e offese. Julian tace, inebetito dalla visione di una donna tornata bambina. La vede tremare, scuotere il capo e borbottare confusamente di una verità vestita da menzogna. Astaroth Morgenstern riesce a fare danni anche dopo essere svanita dalla faccia della terra. Per sempre, questa volta. Il fatto che Nieve non lo accetti è naturale, com'è naturale che lei non sappia di aver già percorso quella strada in bilico tra la sanità mentale e la pazzia. L'uomo si volge alla compagna, la scruta in silenzio cercando di cogliere un cenno su che cosa fare: prima di quella discussione i loro ruoli erano invertiti. Grimilde non lo considera affatto e se potesse gli direbbe di andaresene e che quello non è affar suo. E' lei che deve accollarsi il peso delle scelte compiute, di risollevare Nieve e rimettere in sesto quel mucchietto di ossa scosse. E' il suo compito. E' sempre stata la sua missione, anche se Nieve non lo comprende. Per quanto poco quella ragazzina ci creda, tutto in quella vita è per lei: una madre che non ha chiesto, un uomo che incarni la figura del padre e nonni amorevoli disposti a soprassedere sul passato del fagottino che Grimilde ha recuperato tra un ammasso di macerie. Il visino smunto di Nieve ancora attanaglia i pensieri della sua madre putativa, come l'incubo peggiore che si possa immaginare. Che ne sarebbe stato di Nieve se lei non l'avesse trovata? Non vuole chiederselo adesso, perché ora la domanda è un'altra: che ne sarà di lei dopo l'ennesimo colpo al cuore che la vita le ha voluto infliggere? Nieve sta sperimentando quella che potrebbe essere considerata un'epifania. Ricordi nebulosi si riaffacciano alla memoria, immagini confuse più simili a stralci di eventi senza un reale contesto a darne giustificazione. E' come se la Rigos vedesse a rallentatore gli spezzoni d'un film in bianco e nero, senza alcuna fonte di audio. Come se tutto fosse stato manomesso. Percepisce nettamente il dolore che la vista di quelle immagini le provoca, eppure non se lo può spiegare. Anche se volesse, non potrebbe. Non ancora.

«Vedi la sua firma in calce?» chiede gelida. Non c'è colore sulle guance di Grimilde, assorbito dal freddo che prova dentro e fuori di sé. Ci si aspetterebbe che una madre tenti la riconciliazione con la propria figlia - reale o presunta tale - e invece Grim non fa altro che dare indizi su come ciò che Nieve legge sia vero e dolorosamente reale. Astaroth è morta. Svanita. Ha esalato l'ultimo respiro e non tornerà mai più. Ora che ci ripensa, la prima volta in cui la lettera è giunta ad annunciar la triste notizia, è stato più difficile placare il suo dolore. Adesso, Nieve è soltanto incredula e fomentata dalla rabbia di essere stata ingannata. Non può fare a meno di chiedersi come reagirebbe sapendo che parte del grande raggiro è ancora in corso e la parte peggiore debba ancora esserle svelata. «Non è lei a scrivere. E' un certo Aurelius Morgan, un dipendente del Ministero che si occupa specificamente di questo.»
Sa benissimo che lei non le crede, ma dovrà farlo. Sarà costretta dall'uomo che ha appena fatto suonare il campanello. Julian si alza di scatto, senza curarsi della bacchetta di Nieve ancora minacciosa. E' quasi certo che la notizia sia troppo fresca per farle compiere un passo oltre il quale la ragazza possa pentirsi delle proprie azioni. Eppure, prima di superarla, Julian le rivolge uno sguardo dispiaciuto. Pare quasi chiederle il permesso di andare ad aprire la porta, come se quella non fosse anche casa sua. Si muove lentamente, quasi fosse di fronte ad una fiera indomabile e le scivola accanto senza sfiorarla in alcun modo. Quando riesce a superare la sua figura ancora incredula, Julian varca la soglia e richiude la porta alle spalle. Nieve può udire lo scatto della serratura dell'uscio principale, il vociare confuso di due uomini - Julian ed uno sconosciuto -, ma forse non se ne cura. Ora è sola con Grimilde e quei minuti sono preziosi come ossigeno dopo una lunga privazione d'aria pulita.

«Aurelius Morgan è qui. Puoi chiedere a lui se quello che sto dicendo è vero oppure no.»

Come è evidente siamo ad un primo nodo della quest: all'ingresso Aurelius Morgan - di cui Nieve può facilmente riconoscere la firma nella lettera a lei indirizzata - è trattenuto magistralmente da Julian, così che Grimilde possa dare un minuto a Nieve per ricomporsi. Tuttavia, Grimilde sceglie di non dire nulla e di lasciare a Nieve il compito di dare il ritmo a quanto seguirà.
Ultimo, ma non meno importante, l'accenno ai ricordi "sopiti". Sarò io a decretare il modo in cui le immagini si faranno più nitide e il tempo che questo processo impiegherà nel corso della quest; a te il compito, se lo vorrai, di descrivere ciò che Nieve riesce via via a ricordare. Tieni conto, tuttavia, delle limitazioni operate dalla mia descrizione circa il processo mentale in corso.

 
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Il dolore mi soverchia, d’un tratto, e non ne capisco la ragione. Giunge da un andito recondito di me e spadroneggia sulla mia carne, sulle mie ossa, sui miei sentimenti. Ha la mano ferma di un guaritore esperto, il tocco micidiale di un boia, le intenzioni fredde di un sicario.
È troppo, penso.
È troppo anche perché non riesco a spiegarmelo, a comprenderne la natura. Non so da dove arrivi, cosa l’abbia generato, per quale motivo stia emergendo adesso. Non mi fornisce spiegazioni, questo dolore, né si prende la briga di intrattenersi nelle presentazioni di rito. Ha fatto ingresso nella mia dimora, spalancandone il portone e immettendosi nell’androne principale; poi, si è guardato intorno e ha deciso di occupare il resto delle stanze. Di me, ignorata e immobile in prossimità dell’arco vuoto, non si è curato.
È troppo, mi ripeto. Devo andarmene.
Mi rifugio in un ricordo felice.

Mi trovo nella contea di Northumberland, al confine con la Scozia.
La brezza fresca del clima autoctono rinfresca la mia pelle scaldata dal sole impietoso. Getto il capo all’indietro e mi nascondo ancora un po’ tra i gigli che abbelliscono la villa. Dovrei stare più attenta, se desidero evitare una scottatura, ma questa settimana trascorsa insieme ad Astaroth mi induce a sentirmi e a comportarmi da persona libera.
Qui, tra i confini della sua proprietà, non sono mai stata un’orfana né una poveraccia. Sono la pupilla di un’illustre e bellissima giovane donna, figlia di altrettanto illustri famiglie. Sono interessante abbastanza da essermene meritata l’attenzione e financo l’affetto. E mi colma tutta questa sensazione di appartenenza. Mi colma a tal punto che è come se non avessi mai vissuto prima di incontrare la mia mentore.
La mia esistenza ruota attorno a lei.
Lei è la Terra e io il suo timido satellite.
L’adoro con ogni cellula del mio corpo, con ogni fibra immateriale del mio spirito, con ogni traccia di emozione che è capace di scuotermi le membra. Cuore, mente e anima sono allineate in questa forma di idolatria che troverei blasfema e irrispettosa nei confronti del mio Dio, se ad alimentarla non fosse l’amore — l’amore più puro che abbia mai provato in tutta la mia vita.
I capelli d’argento, come fiori, assecondano il ritmo delle folate di vento agostino.
Poi, un urlo squarcia la pace del momento e sconvolge la dolcezza tiepida che mi attornia. Proviene da me, l’urlo, e porta con sé una disperazione disarmonica. Non… Non ricordo di avere urlato quel giorno, a Villa dei Gigli, con Astaroth.
E, invero, non l’ho mai fatto.
Un frammento altro, tagliente come vetro, ha lesionato la trama della mia memoria e ha modificato i tratti della storia che ho realmente vissuto. La sta modificando proprio ora, impossessandosi della scena.
Grido. Grido così forte che sento le corde vocali stendersi e contrarsi fino a stirarsi. Un bruciore insopportabile, allora, si espande dalla gola giù fino al petto. Ho le vene in rilievo ai lati del collo, la pelle eburnea ora chiazzata di rosso: alcune striature scendono perpendicolarmente fino al seno e si estinguono là dove le mie unghie hanno smesso di arare la carne, portando via una parte di pelle.
Non capisco dove mi trovi.
Non so cosa, quando, come o perché.
È mio questo ricordo? E perché, se mi appartiene, mi appare estraneo come se avessi la certezza di non averlo mai vissuto?

Nella cucina di Grimilde e Julian, serro le palpebre con forza per scacciare la sensazione e liberarmi dalla strana trappola in cui sono piombata. Parole mi raggiungono e io le odo da lontano, quasi che una parete si fosse frapposta tra me e loro — sono le mie mani, la barriera. Le ho portate inconsapevolmente a coprire la conchiglia delle orecchie. Adesso, mosse da una volontà propria, risalgono fin sul capo e premono le nocche con forza sul cranio.
Andate via, brutti ricordi. Non siete nulla. Non siete veri. Andate via.
Nella destra stringo ancora la bacchetta e nella sinistra il foglio mezzo accartocciato. Apro gli occhi e Julian non è più dove l’ho lasciato. Qualsiasi cosa abbia detto Grimilde, è passata in secondo piano nel momento stesso in cui il carosello dei miei ricordi si è inceppato un istante prima di deragliare. Così, mi ritrovo doppiamente sperduta: tra le rimembranze, sulle quali non ho alcun controllo e che mi paiono estranee; e nel presente, ove la realtà si modifica alla stessa velocità di un fremito tra le ciglia.
Guardo la donna che penso mi abbia salvato da un destino crudele con una strana supplica negli occhi spalancati.
Che mi succede? Ho paura!
Sono di nuovo una bambina spaventata che ha bisogno della sua mamma.
Percepisco un sommesso vociare oltre la porta che è stata chiusa alle mie spalle.
Ma posso fidarmi di lei? Di colei che ha intessuto questo maligno inganno?
È l’istinto a prendere il sopravvento e a condurmi rapidamente verso il pomello della porta.
Non posso. Lei ha sempre odiato Astaroth. Farebbe qualsiasi cosa per tenerci lontane... Perfino orchestrare una pantomima per indurmi a credere che sia morta?
La serratura scatta, i cardini adempiono al loro compito e io mi getto nella semioscurità di un corridoio che, pochi minuti fa, avrei definito accogliente ma che, ora, mi appare come il teatro di un incubo in divenire. Non so cosa mi aspetti di trovare, né quale forma abbia la conferma che vado disperatamente cercando, ma so che la bramo.
“La signorina Morgenstern vi attende” immagino di sentirmi dire. O anche...
“Sono tornata. Vieni con me. Ti porto a casa” flauta la voce di Astaroth.
Sotto la linea corrugata della fronte, il cervello pulsa per l’affaticamento. Vuole sapere, vuole capire e io con lui.

Aiutaci, o Fato! — un’invocazione a due voci.
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Edited by ~ Nieve Rigos - 20/1/2021, 22:15
 
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Nel suo breve viaggio, Aurelius Morgan ha avuto modo di riflettere con attenzione e di operare su se stesso quel distacco necessario a portare a termine il proprio compito; comunicare le ultime volontà di un individuo non è semplice e non certamente scontato, specialmente quando si tratti di persone molto giovani come la ragazza che sta per incontrare la prima volta. I Babbani lo definirebbero un esecutore testamentario, un ruolo altisonante quasi, che lascia intendere un potere enorme racchiuso in mani mortali. In fondo, dando voce ai desideri d'un defunto non si fa altro che cambiare il destino di qualcuno e - alle volte - persino plasmando la percezione del mondo che continua a girare attorno al beneficiario. Nel loro mondo, quello dei maghi, il suo ruolo si cela, invece, tra le pieghe di una trama più complessa e meno pomposa: la sua scrivania colma di incartamenti è incastonata perfettamente in una stanzetta dell'Anagrafe Magica, là dove si celano i segreti delle famiglie più importanti e di quelle più comuni, con dettagli a volte interessanti sui loro possedimenti e le ultime volontà. Ha molto viaggiato, conosciuto famiglia più complicate di altre; ha assistito persino a congiure per appropriarsi indebitamente di ciò che la magia legata al lascito ha sancito per sempre. Mentre passeggia con il suo porta documenti sottobraccio, Aurelius si augura che la famiglia di Nieve Rigos sia diversa. Migliore, per certi versi.
Questa volta il suo lavoro non lo conduce lontano dalla Capitale, bensì nel suo cuore pulsante, fatto di viuzze e quartieri residenziali ben strutturati. Una famiglia di maghi attende di conoscere quale lascito sia stato loro destinato. Eppure, ora che ci pensa svoltando l'ultimo angolo, la famiglia presso cui si sta recando a passo svelto ha rifiutato almeno due volte un incontro formale: al terzo tentativo, quantomeno, Aurelius si aspetta di essere ricevuto. Risoluto, nella sua esperienza ventennale, risale i pochi gradini che lo separano dall'uscio e da Nieve Rigos. Non può sapere che, se solo avesse anticipato la propria marcia di trenta minuti, avrebbe incontrato proprio la ragazza che va cercando da così tanto tempo.
Le nocche picchiettano gentilmente sul legno e Aurelius le guarda arrossarsi nel freddo gelido di un inverno che si prospetta rigido. L'oscurità si è impadronita delle strade, i passanti si fanno via via meno frequenti e le luci tremule dei lampioni appaiono ai suoi occhi come spettri di una notte inclemente. Qualcosa, una specie di sensazione, lo avverte che non sarà facile, che quel lavoro sarà diverso da tutti gli altri.

Nessuno si presenta alla porta e dal suo misero orologio da taschino Aurelius sa di essere puntuale, come sempre. Questa volta, suona il campanello, che trilla nel corridoio vuoto e un miagolio, proveniente dall'interno, lo avverte che sì, in quella casa qualcuno è presente. Alla fine, la serratura scatta e Aurelius incontra lo sguardo di un uomo, gli occhi stanchi di un suo coetaneo a giudicare dall'aspetto. Messi a confronto, Julian e Aurelius si somigliano molto nell'abbigliamento, ma soprattutto nel consueto portamento: né tronfi né troppo rilassati, l'aria di chi sappia quale sia il proprio ruolo e sia pronto a ricoprirlo senza indugi.
«Salve, sono Aurelius Morgan. Cerco Nieve Rigos, è in casa?»
Julian non risponde, non sa che cosa dire e questo racconta al Ministeriale molto più di quanto non ci sia da sapere. Poi, come una furia di fuoco scatenata dall'Inferno, una figura di donna - solo più tardi l'uomo riconosce i dolci tratti della fanciulezza che ancora non abbandonano Nieve - compare nel vestibolo. E' visibilmente sconvolta, ma Aurelius non tace. Si allunga per cercare di vederla meglio, scorgendo sullo sfondo una terza figura, una donna - la presunta madre della ragazza - che osserva la scena con un cipiglio indecifrabile. Quella famiglia ha qualcosa di strano, qualcosa che Aurelius non ha visto spesso. La sua indole e il suo compito lo inducono a compiere la prima mossa. Si scosta dal volto un ciuffo di capelli corvini, mediamente lunghi e ondulati. Ha l'impressione che la ragazza sia ovunque, tranne in quel preciso luogo e momento. Vuole essere certo che sia lei, vuole essere sicuro che la notizia in arrivo non sia troppo grande per quelle spalle troppo minute e quell'espressione impaurita e sconvolta. L'uomo incrocia lo sguardo di Grimilde che, prontamente, fa cenno al Ministeriale di entrare. Julian lo invita a propria volta, in una formalità che a lui sembra inutile: sarà guerra e sarà dura. Inutile fingere che la cortesia sia di casa, giacchè una casa è costruita sull'amore e non sul rancore.

«Signorina Rigos?»
Nieve sarà allora costretta a metter da parte i propri pensieri, le frustrazioni e le congetture, la disperazione e il senso di oppressione al petto e alla mente. Aurelius Morgan comparirà finalmente nel suo campo visivo e ciò che l'attirerà non saranno i suoi occhi asettici di qualunque emozione, quantomeno imperscrutabili, e nemmeno il suo modo discreto di farsi strada nell'ingresso della loro abitazione. No, ciò che catturerà il suo sguardo sarà uno stupido dettaglio appuntato sulla cravatta a bande larghe, un oggettino brillante e piccino, un vezzo - forse - senza alcun significato. Un'ape in argento, non più grande di un'unghia, appuntata proprio lì dove chiunque avrebbe potuto vederla. Immediatamente, Nieve non si trova più a Londra, nella casa che ha abitato con leggerezza nel cuore; è lontana, in una dimora di famiglia che ha il profumo dei fiori di cui porta il nome. Villa dei Gigli è così come lei la ricorda, con i suoi fiori ben curati e circondati da nugoli di api alla ricerca di prelibato e prezioso polline. Ricorderà anche la voce di lei, di quella donna che le ha insegnato molto, darle un'informazione riguardo a quelle straordinarie e comunissime creature, sul loro significato e sulla sua opinione a riguardo. La sua voce è sempre la stessa, il suo tono mai troppo serio. Assurdo come singoli oggetti e sfuggenti istanti possano richiamare alla mente memoria sopite e quasi perdute.

Aurelius si trova di fronte a Nieve, adesso, e la esamina in silenzio senza aver il coraggio di distoglierla dalla sua muta analisi. E' una ragazzina sconvolta, che non ha idea del perché lui sia lì. O forse ce l'ha e il peso di quanto sta per accadere l'ha travolta ed ammutolita?




Edited by MasterHogwarts - 27/2/2021, 17:35
 
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Le note della serenata accompagnano la brezza serale come cavalieri tutti diversi in attesa di un momento con la stessa dama, la più bella.
Astaroth siede sullo sgabello e muove le dita affusolate dolcemente sui tasti bianchi e neri. È il centro gravitazionale del piccolo cosmo in cui ha preso posto. Io, dal canto mio, la scruto verecondamente, come se temessi di sporcare il ritratto che la sua bellezza basta a dipingere. Ciononostante, in maniera inconscia, un attimo dopo finisco in prossimità del pianoforte, vicino a lei, cui appartengo.
Poggio le mani sulla superficie dello strumento: è fresco e prezioso. Astaroth ha un rapporto conflittuale con la musica per il retaggio che costantemente le ricorda esserle stato lasciato — il simbolo di una vita per la quale nutre nostalgia e rancore insieme.
«Ci stai pensando troppo» mi coglie impreparata la sua voce, costandomi un sobbalzo.
«Mh?» ribatto, d’istinto, alla ricerca di un chiarimento.
«Ci stai pensando troppo» ripete lei con le palpebre richiuse e il respiro regolare. «Devi solo lasciare che succeda» aggiunge infine.
Chino lo sguardo sul punto in cui sostano le mie dita e mi mordo nervosamente il labbro inferiore, come farebbe una bambina colta di primo mattino con la boccuccia impiastricciata del dolce per il pranzo della domenica. Ha capito lei e ho capito anch’io.
Che Astaroth sappia leggermi tanto bene non mi stupisce più, oramai. Ho imparato che i suoi occhi malinconici posseggono il prezioso dono di scandagliare la mia anima, arrivando a scovarmi perfino nei nascondigli di cui mi sono servita per tutta la vita e dei quali spesso mi dimentico.
Mi rattrista, però, la prospettiva di averla in qualche modo delusa. Forse, si sarebbe aspettata una pupilla meno insicura, meno avvezza agli errori, meno imperfetta di me.
Io so bene di non appartenere al suo mondo: la ricchezza in cui vive e nella quale si muove con naturale eleganza mi mette in soggezione; le sue maniere composte, ma mai affettate, non mi riesce di emularle; il suo fascino e l’agio con cui lo porta mi sono preclusi. Per quanto mi stia impegnando, sembro la caricatura grottesca di un’aristocratica, una parvenu arricchita che si vesta di damasco, ma che stia al mondo con la semplicità sregolata del proletariato che le è familiare.
«Tu sei un fiore» continua proprio nel momento in cui sono in procinto di proferire le mie scuse. Noto che l’ombra malandrina di un sorriso le incurva le labbra. «Devi solo lasciare che qualcuno colga il tuo nettare».
Spalanco occhi e bocca, e avvampo. Sono abituata ai suoi modi sfacciati per tutte le volte che ha tentato di istruirmi, ma nel presente ogni cosa mi pare amplificarsi. Forse, perché l’immagine è particolarmente esplicativa e riesco a immaginarmi il modo in cui potrebbe declinarsi stasera, se solo trovassi il coraggio di lasciarmi andare con uno dei due gentiluomini ospiti di Astaroth.
Entrambi ci osservano con un bicchiere di liquido ambrato tra le mani, all’altro capo della stanza. Non vogliono privarsi della malia di osservarci, così, senza altro scopo che abbeverarsi della poesia che trasmette il quadretto — due figure femminili, abbigliate di seta leggera sulle carni turgide.
«Dico sul serio» prosegue, scoccandomi un’occhiata divertita e concedendosi l’accenno di una risata. «Le api sono creature molto solerti e devote. Per alcune culture, rappresentano il simbolo della rinascita». Seguire la sua spiegazione mi dà il tempo di ricompormi o, almeno, di avanzare il tentativo. Prendo grandi sorsate d’aria attraverso le labbra accostate ed espiro fino a svuotare i polmoni. La speranza è che il rossore si attenui e il cuore cessi il suo galoppo. «Per me, sono un esempio da tenere bene a mente perché incarnano il modo migliore di vivere: abbandonarsi ai vizi senza dubbi o ritrosie, rimanendo sempre operosi nel farlo. L’amore, del resto, non si improvvisa. È un’arte. Possono farlo tutti, ma in pochi sono in grado di padroneggiarlo per farne qualcosa di più». Un passaggio complicato la induce a tacere per qualche istante. Poi, riprende. «Il nettare rimane nettare, se non si sa trasformarlo in miele».

Il suono della sua voce è così nitido, nella mia mente, che ho l’impressione di avere appena ascoltato Astaroth impartirmi l’ennesima delle sue lezioni sulla seduzione. Così, quando torno a focalizzare il ninnolo a forma d’ape sulla cravatta dell’uomo, mi ritrovo frastornata. Dove sono il pianoforte, la mia mentore, il mio imbarazzo e il tocco lieve della stoffa sui miei timidi seni?
Alzo gli occhi su di lui con una difficoltà che mi costa una fitta alle tempie. Il mio cervello è in preda alle fiamme, confuso e stremato dal tentativo di rimanere nel presente. Di minuto in minuto, la linea di confine tra ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà prende ad assottigliarsi. E io vago, errabonda, da un tempo all’altro senza comprendere quale sia il mio posto.
Della domanda che il ministeriale mi ha fatto, non è rimasta alcuna traccia in me. È probabile che io non l’abbia sentita, o che sia scivolata via come acqua sulle pareti del mio io informe.
«Questa…» gracchio, ma la mia voce è più lieve di un sussurro. Se le parole che ho intenzione di pronunciare non fossero più volte risuonate, reboanti, nel mio cranio prima che mi convincessi a dire qualcosa, faticherei a decifrarmi anch’io. «Questa…» azzardo di nuovo, dopo essermi schiarita la voce. Alzo un poco il braccio che impugna la lettera della discordia. «Cos’è?» domando e una sensazione di sollievo mi pervade, andando a cozzare con la disperazione che percepisco crescermi dentro.
La razionalità sta lavorando instancabilmente per impedirmi di registrare la notizia che Julian e Grimilde hanno tentato di comunicarmi. Pertanto, sono portata a scrutare lo sconosciuto che mi sta di fronte con un guizzo di speranza negli occhi grandi. Essi si accendono, pur liquidi, di un luccichio che serve solo a sottolineare la profondità della sofferenza che il mio corpo sta già sperimentando. Dunque, mi illudo.
Se c’è qualcuno che può portarmi da lei, mi convinco senza una particolare ragione a sostegno della mia tesi, quel qualcuno è proprio lui. E io ho tutta l’intenzione di sfruttare l’occasione in barba a chi mi vorrebbe qui, avvolta tra terribili bugie, piuttosto che felice tra le braccia di un’altra.

Sento di essere prossima alla meta, ma non so bene quale essa sia. La speranza vuole farmi credere che corrisponderà ai miei desideri, che si realizzeranno tali e quali a come li ha partoriti il mio cuore. Resiste, tuttavia, una nota di incertezza di fondo, che cosparge le mie membra di tensione e mi suggerisce di correre verso la porta, uscire e non tornare mai più indietro.
Potrei perdermi, forse ritrovarmi. E potrei rimanere per sempre protetta dalla realtà, quale che essa sia, crogiolandomi nell’impressione di avere scelto e di non aver consentito ad altri di farlo per me. Se solo non la volessi, questa maledetta verità, con tutta me stessa...
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Durante i primi anni di quel mestiere complesso, Aurelius si era convinto di potersi abituare prima o poi al groppo in gola che precede una comunicazione dolorosa. L’annuncio della morte di qualcuno è tragica per chi la riceva, ma non si rende meno impattante per colui che la porta con sé; il peso della Morte non è facile da sostenere per nessuno, nemmeno se i legami col defunto sono meramente burocratici. Anche adesso, dopo vent’anni dal suo primo lavoro in quel campo, Aurelius fatica a trovare le giuste parole per esprimere quanto deve senza trascendere nell'emotività o nell'eccessiva formalità.
La ragazza, che pare più giovane dei diciassette anni che l’Anagrafe le attribuisce, è visibilmente sconvolta. Non una reazione eccessiva, naturalmente, ma il suo esatto contrario: il che, per Aurelius, è anche peggio dello scenario più rumoroso ed eclatante che gli sia mai capitato di vivere. Rivolge un cenno a Grimilde, di cui ignora nome e ruolo famigliare, e fa lo stesso nei confronti di Julian. Non risponde a Nieve, anzi, sembra ignorarla con il più pacato dei sorrisi di circostanza. Non sa che questo, probabilmente, potrebbe causare nella giovane uno sconvolgimento ancor maggiore.
«Signori, vi spiace lasciarci soli?»
«Non credo sia...»
«Signora, insisto. Nieve Rigos è una strega adulta per il Ministero, pertanto avrei bisogno di fare quattro chiacchiere con lei in un luogo appartato, senza influenze esterne. La situazione è delicata, sono certo che entrambi comprendiate.»
Solo adesso Aurelius si rivolge a Nieve e le indica la cucina, alle spalle della madre adottiva. Grimilde storce il naso, non ne può fare a meno: la rete delle sue bugie ed omissioni verrà a galla e lei non potrà farci assolutamente nulla. Julian pare dirle esattamente questo con lo sguardo che le riserva, il cui peso la colpisce in pieno. Gliel’aveva detto o no che avrebbe dovuto vuotare il sacco prima che il Ministeriale arrivasse?
«Venga signorina Rigos, le spiegherò tutto non appena saremo soli. D’accordo?»
Era un uomo dannatamente gentile, forse troppo considerate le circostanze, ma pareva essere l’unico in quella casa a volerle dare le risposte di cui aveva bisogno. Non aveva ragione di mentire e i suoi gesti, oltre alle parole, le avrebbero dovuto suggerire un sufficiente distacco emotivo dalla faccenda che si apprestavano a trattare da non dare adito a macchinazioni partorite dalla mente di quella che, per la legge, era sua madre.
Così, dunque, l’uomo avrebbe preceduto Nieve, guardandosi attorno incuriosito non appena ebbe varcato la soglia della cucina. Era un ambiente non eccessivamente grande, come ce n’erano molti nelle abitazioni di Londra della media borghesia. Il mobilio aveva uno stile rustico, famigliare e accogliente, che stonava con quanto Aurelius aveva intuito del clima domestico. Pareva essere arrivato nel bel mezzo di una tempesta tropicale, di cui Nieve era il punto d’origine. Difficile dire se sarebbe sopravvissuto lui stesso a quella maretta. Chiusa la porta dietro alla ragazza, estrae la bacchetta - un legno corto, scuro e con il legno macchiato, forse d’acqua - e la punta contro l’uscio. «Muffliato.» sussurra, dopodiché si rivolge con un gran sorriso a Nieve e annuisce deciso «Quella è una lettera del Ministero, Nieve. Ti annuncia il mio arrivo, poiché è mio dovere informarti che la signorina Astaroth Morgenstern è… è venuta a mancare. L’anno scorso, per la precisione.»
Era come strappare un cerotto ad un bambino: lo si poteva avvertire di un pizzicore e un fastidio che sarebbero spariti immediatamente, ma la verità era che la pelle arrossata e la memoria dello strappo sarebbero restate immutate nella mente nei giorni a venire, come il più sciocco dei traumi.
«Sono desolato. Mi spiace molto.»
Eppure, la morte d'una persona amata può essere devastante: gli è capitato in numerose occasioni di assistere ad un silenzio disarmante; altre volte, la disperazione si è tradotta in pianti che non è riuscito ad evitare. Si chiede che cosa sarà di Nieve Rigos mentre le comunica la dipartita di una persona amata - senza sapere bene fino a che punto ciò possa invalidare la psiche di una ragazza tanto giovane - e sa per certo che le due non siano imparentate in alcun modo. Così, dopo aver rivelato senza fronzoli la verità, Aurelius si accomoda per conto proprio sulla sedia più vicina e attende, paziente, che la reazione giunga.
Perché pur essendo esperto, per Aurelius non esiste un caso da manuale e qualcosa gli dice che nemmeno ora avrà il piacere di sperimentarne uno. Tace e respira lentamente, contando mentalmente i secondi che trascorrono dalle sue ultime parole a quelle successive che, lo sa bene, Nieve dovrà pronunciare. Al momento, però, c'è spazio soltanto per lo sconcerto.


Pur essendo un momento emotivamente pesante, Aurelius prende il comando della situazione e c'è bisogno di collaborazione da parte di Nieve. Il Ministeriale non si presenta come una minaccia, ma come fonte di risposte che Nieve non potrà ricevere da nessun altro. Considera questi aspetti nel proseguimento della vicenda.
 
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È colpa mia.
È colpa mia.
È colpa mia.
Che cosa ho fatto?

Tengo le mani abbandonate sul bancone della cucina e guardo il barattolo con le foglie di tè, ma non ne vedo il contenuto. Assorta, vago lontano e torno indietro correndo. E crepito, timidamente, come le fiammelle nella lanterna alle mie spalle, sospesa sul tavolo e unica fonte di illuminazione di questo microcosmo pronto a morire.
Ho seguito lo sconosciuto con un ninnolo a forma d’ape appuntato sulla cravatta senza muovere alcuna obiezione, docile come non credo di essere mai stata. Ho lasciato che mi proteggesse a suo modo, mettendo a tacere le rimostranze di chi mi ha tradito. Ho lasciato che mi guidasse.
Nel tempo impiegato a ritornare in cucina e a isolarci, ho riflettuto sull’immagine che abbiamo inconsapevolmente dipinto: il funzionario ministeriale, che non ricordo chiamarsi Aurelius, è il volontario di buon cuore sopraggiunto a strappare il piccolo cane dalle mani violente dei suoi carcerieri.
Sono libera, adesso?
Il dolore andrà via e verrà, finalmente, sostituito dall’amore?
Non è possibile, purtroppo. Non nella mia storia.
Per me, non sono previsti lieti fini.
Non sono nata per averne né per donarne.
E tutto ciò che tocco, incontro, sfioro finisce inevitabilmente per rimanere intossicato. Come un cancro, attacco l’organismo e distruggo tutto ciò che di vitale mi riesce di individuare per seminare ombra e non lasciare altro che desolazione.
Sono una malattia.

Che cosa ho fatto?
Che cosa ho fatto?
Che cosa ho fatto?


Ho la mascella serrata — i denti premono violentemente gli uni contro gli altri, dandomi un’illusione di forza — e il cuore che tamburella furiosamente sulle costole. Non c’è altro che riesca a sentire del mio corpo all’infuori del suo assordante martellare.
Ho perso la sensibilità alle dita. Potrei rompermi le falangi e spezzarmi le unghie fino a vedere la carne viva esposta al mondo; e non sobbalzerei, non mugolerei, non rimpiangerei questa deformità.
Un pesante torpore insiste a spegnere ogni mia percezione fisica ed emotiva, quasi che la scena in corso non mi riguardasse.

Che cosa ho fatto?
Che cosa ho fatto?
Che cosa ho fatto?


Le parole dello sconosciuto mi hanno attraversato da parte a parte, così ho chiuso gli occhi. Non è stato l’annuncio della morte di Astaroth a toccarmi, ma il suo sincero dispiacere e il modo in cui ha lasciato che trapelasse dal silenzio che è seguito.

Le mie ciglia tremano e la superficie del mio corpo fa altrettanto, perché d’improvviso sento e vedo tante, tantissime cose: un sapore conosciuto sulla lingua, l’impressione di essere stata espropriata di una parte della mia vita, ricordi che non possono appartenermi.
Le immagini somigliano alla fantasia distorta di ciò che sarebbe potuto essere, non di ciò che è stato, e i suoi frammenti si mescolano, confondendomi. Disegnano episodi fuori fuoco ma tangibili, che prendono forma a un passo dalle mie dita.

Un dolore ignoto, come di magia diventata materia, mi percorre le membra fredde e ho l’impressione che — intorno a me, sopra di me e sotto di me — il mondo sia in trasformazione, dalle fiamme della lanterna ai vetri delle finestre alle fondamenta della casa.

Schiudo le palpebre, distacco i polpastrelli lividi dal bancone e mi volto.
I miei occhi cercano quelli dell’unica persona presente nella stanza e sono vuoti. La pupilla grande e nera, che ha ridotto il verde dell’iride a una linea quasi invisibile, sembra capace di inghiottire chiunque osi specchiarvisi.
E tengo le braccia sospese all’altezza dei fianchi, come se dovessi esibirmi in una piroetta; come quella volta che ho quasi lasciato la vita nel battesimo accogliente di una morte liquida.

Sono una statua di marmo, fissata per sempre nel tempo non dalle mani di uno scultore, ma dalle parole di Aurelius Morgan.

«Come?»

È colpa mia.
È colpa mia.
È colpa mia.
Che cosa ho fatto?
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view post Posted on 13/3/2021, 14:49
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Come spiegare ad un’adolescente l’intricato intreccio di pensieri, sensazioni e bisogni che mettono all’angolo la più caparbia ed ostinata delle menti? Come raccontare il succedersi degli eventi quando ogni strada appare come un vicolo cieco e ogni problema senza soluzione? Qual è il modo più giusto di rivelare che, quale via d’uscita serena, Astaroth Morgenstern abbia scelto la morte? Aurelius non crede esista un modo semplice, di facile comprensione o abbastanza accettabile per esprimere tutto questo. La famiglia in questione si è avveduta di non far trapelare troppe informazioni, giusto quelle necessarie a portare avanti la faccenda nei termini sterili della burocrazia; il dolore, se vi era stato, era stato mantenuto riservato, dietro le cortine di apparenza di cui una famiglia di quel calibro poteva e doveva servirsi per non apparire debole. Aurelius non avrebbe nemmeno dovuto conoscere i dettagli della circostanza funesta: non è funzionale al suo mestiere, alle sue ricerche, al suo compito ultimo di dichiarare la legittima proprietà di beni materiali e immateriali. Tuttavia, l’indagine ha portato a galla pochi essenziali dettagli, che forse non spetta a lui rivelare. Eppure, mentre osserva la figura di Nieve mentre accetta il peso della notizia, ma non la metabolizza ancora, Aurelius sceglie di riservarle onestà; è evidente che chiunque fosse preposto a dar voce a quella perdita tanto cara non abbia fatto il suo dovere.
«La signorina Morgenstern...» la voce trema, mentre Nieve si volta «Si è tolta la vita.» conclude, ma non osa distogliere lo sguardo da lei. Per assurdo che sia, Aurelius è pronto ad alzarsi, agile come una gazzella, e sostenere il peso che quella notizia porta con sé. Sarebbe pronto a tendere le braccia, un gesto ben oltre la propria professione, per avvolgere e proteggere una ragazza che di adulto non ha nemmeno l’espressione degli occhi spauriti. Il corpo esile si presta ad assorbire le parole, che la sconquasseranno non appena il suono di quelle si sarà esaurito e il significato comincerà a raggiungere la profondità della sua psiche. Il gesto finale di Astaroth Morgenstern va oltre ogni comprensione umana e non può che gettare dubbi sulla relazione di questa donna nei confronti di coloro che l’hanno profondamente amata. Come si possa accettare una decisione simile Aurelius non se lo spiega. E’ allora che l’esecutore e portatore di notizie funeste apre la sua cartellina di pelle, liscia e color prugna; lo scatto della piccola chiusura a molle è l’unico suono a permeare la cucina dai mobili rustici e così lontani dallo stile della capitale. Ne trae tre plichi identici, tenuti insieme da fermagli in metallo. Ne allunga uno verso Nieve e tiene per sé gli altri due.
«La signorina Morgenstern è stata trasferita in Germania, presso la città natale e riposa nel piccolo cimitero di famiglia.» non riesce a non riferire informazioni che non competono al suo ruolo, poiché percepisce nettamente l’esigenza di Nieve di conoscere, di avere risposte che - altrimenti - nessuno vorrebbe darle.
«Ma non è per dirle questo che sono venuto fin qui.»
S’irrigidisce, dismettendo i panni dell’uomo sensibile e indossando quelli ufficiali, con gli onori e gli oneri che gli sono propri. E’ giunta l’ora di compiere ciò per cui ha fatto molta strada prima di quel giorno e soprattutto dopo. Se Nieve accetterà quanto avrà da dirle, lei e Aurelius dovranno esaminare nel dettaglio quanto è stato fino ad allora preservato.
«Il gesto della signorina Morgenstern è incomprensibile ai miei occhi e, come le ho già detto, mi dolgo molto per la sua perdita. Però, signorina Rigos, devo essere molto chiaro con lei: Astaroth Morgenstern si trovava nel pieno delle proprie facoltà mentali nel momento in cui ha scelto lei, Nieve, come sua erede universale. Nulla di quanto Astaroth abbia posseduto è tornato alla famiglia Morgenstern.»
Troppe notizie e troppo clamore? Ebbene, Aurelius non ha finito.
«Dopo aver verificato che i beni appartenenti al lascito della signorina Morgenstern non fossero oggetto del Decreto per la Giustificabile Confisca da parte del Ministero e avendo appurato che la famiglia della defunta non si opponga in alcun modo alle volontà della figlia, le annuncio ufficialmente che lei, Nieve Rigos, è proprietaria di Villa dei Gigli, comprensiva di quanto si trova al suo interno ed entro i confini della proprietà. Naturalmente sarà necessario vagliare insieme le opzioni a sua disposizione e i dettagli del lascito, ma credo che prima vorrà discuterne con la sua… famiglia.»
Le dita di Aurelius sfogliano senza indugio il plico destinato a Nieve, fino a che l’immagine di Villa dei Gigli e una sua planimetria non compaiono nel campo visivo della ragazza. E’ molto da assimilare, forse troppo, ma quasi per uno scherzo del Fato, Aurelius non ha terminato le sue comunicazioni.
«Ci sono alcuni dettagli che vorrei discutere con lei immediatamente, signorina Rigos, tuttavia mi rendo conto che sia tutto molto difficile per lei. Se ritiene opportuno pormi qualche domanda sarò lieto di risponderle.»


Molto bene, Nieve, siamo giunti al primo snodo della trama.
Aurelius Morgan si fa portavoce del Ministero e della famiglia Morgenstern nel consegnarti quanto Astaroth abbia previsto dopo la sua morte. Il passaggio è denso di dettagli ed è opportuno gestire ogni singola informazione dandole il giusto peso. La burocrazia sarà espletata in altra sede, come da accordi; ciò che conta è l'accettazione o la rinuncia del lascito stesso, di cui puoi avere visione nel fascicolo che Aurelius ti ha ceduto. La copia del documento resterà in tuo possesso anche nelle prossime fasi. Tuttavia, ti chiedo di giocare i prossimi turni (e le prossime fasi) con estrema cautela. Come anticipavo, l'argomento è delicato e richiede precisione.

 
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