Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.
Tu-tumTu-tumTu-tumTu-tum.
Un suono come di risucchio e un dolore straziante sono tutto ciò che odo, quando torno nel mio corpo. E una nenia di bambina frantumata.
No, no, no, no, no, no, no.Non è possibile.
Non è vero.
Non è mai accaduto.
Non sta accadendo adesso.
Non è possibile.
Non è vero.
Non è mai accaduto.
Non sta accadendo adesso.
Non è possibile.
Non è vero.
Non è mai accaduto.
Non sta accadendo adesso.
Non è possibile.
Non è vero.
Non è mai accaduto.
Non sta accadendo adesso.
No, no, no, no, no, no,
no.
Gli occhi sbarrati osservano il ventre vuoto del lavandino in ceramica — come l’ho raggiunto, non lo ricordo. Più in basso, le labbra schiuse rubano un’aria che non sazia i polmoni.
Tu-tumTu-tumTu-tumTu-tum.
Adesso lo sento, il mio corpo.
Sento, soprattutto, quello che vorrei fargli.
Stringo le dita contro i palmi e conficco le unghie nella carne.
Affondo, affondo, affondo. Più che posso, ancora, senza fermarmi.
Non è abbastanza.
Il rivolo di sangue che imbratta i miei polpastrelli e le mezzelune che solcano la carne ora viva non bastano a placare il mio bisogno di distruzione — di autodistruzione.
È troppo poco.
Alzo lo sguardo e lo punto sull’immagine che riflette il vetro della finestra.
Ecco, mi dico, questo potrebbe fare al caso mio.
Se lo rompessi con un pugno, potrei prendere una scheggia e usarla.
Per cosa?
Per ferirmi. Per farmi del male. Per darmi ciò che mi merito.
Potrei conficcarla nelle cosce a più riprese e guardare la pelle macchiarsi, il tessuto imbeversi, il pavimento sporcarsi.
Sì, sì, potrei.
Sposto l’attenzione su una delle ante della credenza.
Anche quella potrebbe andare bene.
Se ci sbattessi la testa ripetutamente, riuscirei a fracassarmi il cranio, a deturparmi il volto, a sfregiarmi per sempre la faccia di cazzo che mi ritrovo.
Sì, sì, potrei.
Gli… Gli in-incantesimi: ci sono anche gli incantesimi.
Incendio.
L’Incendio sarebbe utile per devastare.
Rimarrei seduta in silenzio a guardare il fuoco che divora la mia carne sporca, ad annusare il puzzo della pelle cedevole alle fiamme. Lo farei con meraviglia.
O ancora l’Exulcero, l’Ebublio, l’Antares.
Sì, sì, potrei.
“La signorina Morgenstern si è tolta la vita… È stata trasferita in Germania, presso la città natale e riposa nel piccolo cimitero di famiglia.”
Un conato mi sconquassa il petto, ma la mia bocca rimane secca, pulita.
È tutto fermo dentro il mio corpo e, allo stesso tempo, nulla cessa di muoversi.
L’immagine di Astaroth, imprigionata sotto la terra e mangiata dai vermi, ingenera un’altra reazione a scatto, che m’impone di piegarmi appena sul lavandino. I capelli pendono ai lati del mio volto, mentre do le spalle all’uomo e annaspo nell’incredulità.
La memoria muscolare si riattiva e percepisco un bruciore urticante al centro del petto e su fino alla gola, come se avessi urlato talmente forte da lesionare le corde vocali e quanto loro annesso. Un grido che rassomiglia allo strano squarcio di pensiero che mi ha invaso la mente, durante la conversazione con Grimilde.
Ruoto su me stessa con espressione invariata sul viso cereo.
Vorrei abbattermi contro il tavolo, staccarne un’asse e usarla per picchiarmi fino a rompermi le ossa.
Avrebbe dovuto continuare, il panettiere della mia infanzia, finché di me non fosse rimasta una sagoma immobile con gli occhi vuoti spalancati su una vita che non ho mai meritato.
O Dio, che cosa ho fatto?È mia la mano che l’ha sospinta verso quel gesto e sono mie le impronte sulla sua lapide in Germania.
Sono un mostro, peggiore di quelli della mia fantasia e della realtà che ho voluto dipingere, distorcendola a mio favore.
Ho odiato così intensamente Dorian Hades Midnight per averlo percepito come una minaccia al nostro rapporto e, invece… Invece, viene fuori che lui fosse l’eroe, mosso dal disperato tentativo di salvarla.
Salvarla
da me.
«Villa dei Gigli è mia» dico senza alcuna intonazione nella voce. Le mani, che ho inconsapevolmente nascosto nelle tasche posteriori del pantalone per proteggermi dal giudizio del signor Morgan, bruciano per un accenno di infezione.
«Loro…» continuo e rivolgo un’occhiata alla porta che ci separa dall’ingresso, da Julian e da Grimilde.
«Non hanno voce in capitolo su questa faccenda. Io sono maggiorenne e loro…» Un ghigno incolore è l’unico motivo che porta le mie labbra a ricongiungersi brevemente, allorché una verità non più amara risale la gola e si appropria della bocca.
«Loro non sono la mia famiglia. Io sono orfana. Lo sono sempre stata.»La lucidità che sfoggio è la sola arma che la mia mente conosca per respingere la realtà. Un velo di distanza è sopraggiunto a coprire l’immagine delle membra di Astaroth deturpate dalla putrefazione; a proteggermi dal bisogno autodistruttivo che ancora imperversa dentro di me e mi chiede di trafiggermi senza pietà.
«E ora ho una villa!»Rido. Rido, poco ma rido.
E lo faccio in quel modo freddo che appartiene alle persone in frantumi che non sanno di esserlo. Mi accomodo sulla sedia dirimpetto a quella occupata dal ministeriale, la stessa che qualche minuto prima ha sorretto Julian.
Ho tirato le maniche del maglioncino in modo tale che coprano i palmi. L’unico segno che testimonia quello che ho fatto è la sfumatura di rosso che imbratta le unghie con cui trattengo il tessuto; ma potrebbe essere anche il residuo di uno smalto duro alla rimozione, per quel che può saperne Aurelius Morgan. I sentieri bordeaux che il sangue ha tracciato, scendendo lungo la ceramica bianca del lavandino, del resto, non sono esposti al suo sguardo.
Ripongo la linea della mascella sul palmo della destra e, nell’avvertire il dolore dovuto al contatto con la pelle lesa, premo più forte per acuire la mia sofferenza — sono impietosa e crudele, scientemente.
«Ci crederebbe se le dicessi che, da bambina, ero così povera da non potermi permettere di comprare da mangiare?» racconto con tono divertito ed espressione estatica.
«E adesso ho… ho una fottutissima villa. Cielo, la vita è veramente una cazzo di barzelletta!» Allungo la mano sinistra in direzione dei documenti, della cui esistenza mi sono appena ricordata. Do una rapida scorsa ad un foglio, poi alla planimetria di Villa dei Gigli. E rifletto sul fatto che quel disegno non le renda affatto giustizia: non mostra la bellezza elegante e immutabile delle sue colonne; la raffinatezza decisa dei marmi; l’incanto delle distese di gigli che oscillano al vento e sorridono, impudici, al sole.
Quelle che sto osservando sono solo linee, come quelle di Aurelius solo parole.
«Che succede adesso?»Cosa volete che faccia?, vorrei chiedergli.
Che diventi la proprietaria di un immobile di cui non sono nemmeno vagamente degna?
Che mi atteggi a grande signora della dimora e mi ammanti del suo prestigio, nascondendo chi sono in verità?
Che prenda posto in una casa che ho ottenuto dichiarando il mio odio alla sua legittima proprietaria?
“Sei una bugiarda! Sei una traditrice! IO TI ODIO!”
Una vertigine mi induce ad abbassare per un attimo lo sguardo.
Fisso la superficie di legno del tavolo con un’urgenza irrefrenabile di abbattervi la fronte.
Desidero procurarmi dolore — dolore fisico.
Voglio sentire il
crack delle ossa creparsi e l’intontimento del trauma cranico ottundermi i sensi. Nessuno a proteggermi e a consolarmi, non da me stessa ora che ho appreso la verità su di me.
“Oh, piccola Nieve! Non è colpa tua. Tu sei una brava bambina, ricordalo sempre. Non c’è nulla che non vada in te. Sei meravigliosa così come sei. Sei speciale. Le persone che ti conoscono davvero finiscono sempre e solo per amarti.”Stronzate!
Ditelo ancora a questa Nieve, sulle cui mani scorre il sangue di un’innocente.
Se mi aveste lasciata morire, tutto questo non sarebbe mai accaduto.
Salvatori e anime pie del cazzo!
Nemmeno mia madre mi ha voluta. Mi ha lasciata sulla porta di una vecchina mezzo sciancata la notte stessa in cui mi ha partorita. Deve averlo capito da subito, con l’acume che hanno soltanto le madri, che genere di fardello fossi. E se n’è liberata prima che potessi nuocerle.
Brava, mamma!
Hai il mio plauso e la mia ammirazione.
Vorrei solo aver capito prima il senso della mia natura.
Mi sarei dovuta lasciare affogare nel lago della Foresta Proibita.
Mi sarei dovuta buttare giù dalla torre di astronomia.
Avrei dovuto lasciare che il freddo, la fame, la febbre mi prendessero
Avrei dovuto lasciare che il drago dei miei incubi mi masticasse e digerisse nel sonno e non svegliarmi mai più.
Avrei, avrei, avrei.
Potrei…
Il modo in cui fisso le venature del legno adesso — non più assorta e pensosa, con la mascella contratta dal bisogno di farmi a pezzi, ma confusa — implica che ho di nuovo trovato il presente. Solo con un ultimo sforzo disumano, la mia mente è riuscita a portarmi alla realtà prima che dessi seguito alla spinta che mi consuma da dentro.
«Che succede adesso?» ripeto, inconsapevole di aver già parlato, negli stessi identici termini.
«Cosa vi aspettate che faccia?»Una marionetta: è tutto ciò che posso essere al momento.
Se non fossero gli altri e muovere i fili che mi pendono sul capo, c’è un’unica direzione che
potrei vorrei intraprendere.
O Dio, che cosa ho fatto?
Non merito salvezza. Non merito te.
Devo lasciarti andare prima che sia troppo tardi.
È per il tuo bene, lo giuro.
Non tornerò mai più, ma ti ho amato.
Sinceramente, con ogni fibra del mio essere, anche nella confusione, ti ho amato. Ed è proprio per amore che ti libero dalla mia presenza — hai già sofferto abbastanza.
Non vegliarmi più.
Non perdonarmi più.
Non aspettarmi più.
Non tornerò da te.
È troppo tardi per me. Lo è sempre stato.
Qualcun altro mi attende.
Un tintinnio lieve.
Il cadavere della collana che ho sempre portato al collo — il crocefisso inerme, abbandonato, insieme agli ultimi residui della mia Fede.
Ciao, Lucifero!
Scusa il ritardo...