Beyond the Veil., Contest a Tema: Ottobre 2020

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view post Posted on 21/10/2020, 21:35
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Beyond the Veil.



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Scorreva estatica e senza sosta, una pioggia non troppo insolita sotto il cielo di Londra. Eppure il suo incedere perpetuo si faceva strada nella più umida delle giornate estive, amplificando gli odori delle pietre e del ferro, e ponendo a tacere, come unico sollievo, l’odore aspro e fastidioso dello smog cittadino.
Si incanalava sulle grondaie, goccia dopo goccia, sollevando i tetti del suo possente carico, per poi scivolare attraverso di esse fino al suolo. Qualcuna di queste grondaie aveva perduto parte della sua struttura, e l’acqua che la attraversava scoppiava come una cascata a ridosso dei vicoli, rintoccando sorda su cassonetti e bidoni. E talvolta sull’ombrello sfinito di un malcapitato passante.
Ogni rumore si faceva superfluo, catturato e superato in tono da quello scrosciare continuo e intenso, rotto a tratti solo dal riverbero di un tuono in lontananza.
Seduta sullo scalino di una vecchia costruzione se ne stava tranquilla una ragazza, gli abiti completamente fradici e i lunghi capelli castani appiccicati al viso, con l’aria noncurante di chi si stava godendo un delizioso spettacolo. Il piede sinistro dondolava appena oltre il parapetto che la teneva momentaneamente all’asciutto, lo stivaletto stringato per metà immerso nelle pozze d’acqua che si erano formate nel vicolo. Col naso all’insù osservava il grigio cumulo di nubi che opprimeva la città, crogiolandosi di quell’inusuale istante di tranquillità. Aveva un luogo da raggiungere e delle responsabilità cui soccombere, ma non importava. Quel chiassoso silenzio sembrava avere qualcosa di familiare, riaccendendo in lei ricordi sopiti e desideri che aveva smesso di preferire da tempo.
O forse era semplicemente il codardo tentativo di tenersi lontano dall’ennesimo bivio di svolta, ogni distrazione diveniva stimolo sensoriale. Il luogo da raggiungere dopotutto non era lontano, e di incantesimi per superare incolume la tempesta ne conosceva parecchi. Eppure se ne restava là, con quattro libbre d’acqua in più sul corpo e il chiaro intento di non muovere un solo passo. La pioggia, sua carceriera, le mostrava una seconda via e lei senza remore aveva deciso di seguirla.

- Papà! Papà! Suoni la pioggia? -
Aiden si era voltato con stupore, sollevando il naso dallo spartito che stava studiando ormai da diversi giorni. Appoggiata al lato opposto della scrivania c’era sua figlia, aggrappata a malapena sul bordo con le piccole manine, quasi il legno fosse il baratro di un precipizio dal quale stava cadendo. In punta di piedi raggiungeva a fatica il tavolo, ma ostinatamente richiedeva udienza e attenzione al suo impegnato padre. L’uomo aveva lasciato la piuma nel calamaio, poggiandosi con entrambe le braccia sulla scrivania, osservando con curiosità la bambina. In quegli occhi viola, specchio innegabile dei suoi, viveva un intero mondo di variabili che lui stesso molte volte faticava a decodificare. - Suono… -
- La pioggia! Come l’altro pomeriggio, tu suoni e la pioggia balla. Lei ti ascolta e a me piace vederla dai dai! - a rinforzare quella richiesta due colpetti di palmo sulla scrivania, chiaro segnale di quanto quel piccolo vulcano non accettasse rifiuti. Aiden allora si distaccò dallo scrivano arreso ma divertito, arrotolando lateralmente le pergamene di spartito sulle quali stava lavorando e alzandosi dalla seduta di cuoio, che aveva ormai preso la sua forma.
- Va bene, va bene...ma solo una melodia, dopo torni ad esercitarti con tuo fratello, intesi? -
In tutta risposta ricevette una vigorosa scrollata di testa, annuendo così ad un patto che, il padre sapeva, quella peste avrebbe rispettato solamente a metà. Si posizionò al pianoforte sul lato ovest della stanza, vicino ad una grande finestra che affacciava sul giardino esterno. Si percepiva poco l’ambiente fuori a causa della continua perturbazione atmosferica che affliggeva l’isola per gran parte dell’anno. Eppure a Jillian piaceva, allo stesso modo in cui piaceva alla sua defunta sorella, e accontentare sua figlia in quel piccolo gioco gli permetteva di poterla rivedere, anche se solo per un effimero ricordo. La vide prendere posto a fatica sulla poltrona, con i gomiti si poggiava sul bracciolo e tenendosi il viso ammirava il vetro umido, in attesa. Aiden sfiorò le prime tre note e la magia ebbe inizio.

Un poderoso starnuto la distolse da quel ricordo, riportando la sua attenzione alla realtà con prepotenza, quasi facendole sbattere la testa sul suo stesso ginocchio piegato. Per quanto temprata dai mille viaggi sostenuti e l’attitudine ad una vita più bestiale, era innegabile quanto quel suo volersi testare come spugna non stesse funzionando. La camicia che sua madre le aveva scelto appositamente per quel colloquio era diventata completamente trasparente e le fasce di merletto le graffiavano la pelle tanto s’erano fatte pesanti. Il pantalone ormai fuso con le sue gambe le rendeva difficile persino alzarsi. Un incantesimo avrebbe risolto ogni problema, un incanto per asciugarti e uno per non bagnarti proprio, c’era un incantesimo per ogni cosa. Così come i babbani inventavano cose per proteggersi e semplificarsi la vita, così facevano i maghi, perdendosi la bellezza cruda dell’esistenza e dei suoi meccanismi. Mya arricciò il naso capendo come quel pensiero, onorevole quanto bastava, cozzava col suo bisogno imminente di non ammalarsi. Sollevò il mento spostando lo sguardo all’indietro, ad osservare la vecchia porta su cui si era poggiata fino a quel momento. Assi ormai divelte ne contornavano la figura, avanzi logori di un nastro di sequestro vestivano il portone da un lato all’altro. Facendo forza sul braccio sinistro la ragazza si risollevò avvicinando il naso a ciò che restava di un avviso affisso al legno. I bordi ormai del tutto mangiati dal tempo e dalla pioggia, la carta inconsistente e le lettere sbiadite dall’usura. Tutto lasciava pensare ad un luogo inabitato da parecchio, una vecchia abitazione forse, in quel vicolo stretto e dimenticato. Decise che non poteva dar troppo fastidio alla polvere, se avesse deciso di trascorrervi dentro il resto del pomeriggio. Con un colpo di bacchetta fece scattare la serratura ormai arrugginita ed entrò.


 
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view post Posted on 22/10/2020, 20:08
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Era un pomeriggio di metà estate, il cielo coperto e un vento freddo come a presagire una pioggia imminente, grosse nuvole nere avvolgevano Londra, che sembrava sospesa in quel grigiore pomeridiano, come tesa su un filo pronto a crollare e tergere d'acqua i tetti fitti della città. Alice si trovava in giro a fare le ultime compere prima di partire per la sua amata Eisenbach, dove avrebbe trascorso il resto delle sue vacanze estive. La sua figura stava diventando più alta e slanciata, perdendo lentamente le fattezze tipiche dell'infanzia e creando quelle forme più femminili e mature tipiche dell'età adolescenziale. Indossava una gonna a vita alta di un verde scuro, puntellato da fantasie di piccoli uccelli variopinti, tenuta su da un cinturino di pelle marrone, le arrivava fin sopra al ginocchio dandole una sensazione di protezione e freschezza. Non era abituata ad abiti troppo femminili, ma ogni tanto indossava dei vestiti e delle gonne un po' vintage, come piacevano a lei. La parte superiore era coperta una canotta bianca, al collo il solito ciondolo intagliato in legno a forma di volpe. Non aveva portato Tobi con sé, dato che i rumori della città lo distraevano troppo, per cui anche il fischietto richiama scoiattolo era rimasto in albergo. Quella era l'estate dei suoi tredici anni, molte cose erano cambiate e le sembrava così difficile stare dietro a tutti gli avvenimenti che avevano coinvolto la sua vita. Si sentiva più adulta di quanto realmente fosse, tanto che aveva avuto il permesso di andare a fare compere da sola nonostante il suo pessimo senso dell'orientamento in città. Nei boschi avrebbe saputo cavarsela ad occhi chiusi, ma quei luoghi affollati, imbottigliati dal traffico e scanditi dal vociare delle persone, la mandavano completamente fuori strada. Era goffa e spesso credulona, finiva per farsi imbrogliare dai venditori ambulanti più disparati ed ogni volta ritornava a casa con oggetti completamente inutili, pagati a caro prezzo. Quel pomeriggio aveva ovviamente dimenticato l'ombrello ma si era detta che no, non avrebbe piovuto e soprattutto che questa volta non avrebbe finito per comprare un'altro di quegli affari inutili, dall'affidabilità dubbia. Era appena uscita da un'edicola, con un nuovo quadernetto dove scrivere, poggiato sotto il braccio. Iniziarono a venir giù gocce fitte d'acqua, dal sapore dolce e fresco.
Alice adorava la pioggia estiva, ricordava di averla abbracciata spesso in una danza fatta di salti e urla, di piedi scalzi e vestiti fradici, di fango tra i capelli rossi che correva fin sopra le braccia magre.
Sorrise allegra, andandole incontro senza paura e prese a camminarci amabilmente, ondeggiando quasi ritmicamente all'interno delle gocce leggere, passi corti ed azzardati. Sarebbe probabilmente risultata strana agli occhi dei passanti, che tentavano piuttosto di accaparrarsi un posto sotto i cornicioni dei palazzi o le grosse insegne dei negozi, per ripararsi dal temporale imminente. Anche se per il momento solo un sottile velo di pioggia, cadenzato e delicato, sembrava venir giù. La melodia dell'Estate. La melodia di Casa, la melodia della Foresta. La sua melodia. Improvvisamente fu come se il profumo di terra e foglie le arrivasse al naso, così come il ronzare furioso degli insetti pronti a scorrazzare via. Il respiro delle foglie assetate, il ticchettio delle gocce impigliate nei tetti degli alberi, verdi di un brillore accecante sotto le nuvole scure, il panorama sembrava prender forma sotto i suoi occhi, colmi di verde. Alice li chiuse per qualche secondo ed assaporó quel suono ritmico, come se lo stesse accarezzando. Un rombo di tromba nel cielo, lasciapassare del temporale in arrivo, seguito da un flauto di vento traverso, furioso e pronto a scagliare la pioggia sui tronchi, grossi, ruvidi come vibranti tamburi, il suono costante delle gocce come di un metronomo esperto. Poi l'assolo di armonica, che nella sua testa dipingeva con il suo corpo ed il suo respiro. Alice saltellava e danzava, ridacchiando per la sua stessa stupidità, prendersi la pioggia non doveva essere molto saggio, ma era il suono di una melodia familiare a spingerla verso chissà quali posti. I passi rallentarono solo quando si ritrovò nelle prossimità di un vicolo, stretto e buio, lontano dal centro. Un vecchio edificio, sul quale il tempo era passato insensibile, sembrava dominare ora la scena. L'acqua iniziò a farsi più fitta ed Alice si voltò curiosa udendo solo ora una strana melodia provenire da quel posto. Diversa dalla sua, ma allo stesso modo invitante e suadente, sembrava che il qualche modo la stesse invitando ad entrare. Si doveva esser persa di nuovo perché non aveva idea di dove si trovasse, provò a guardarsi intorno, ma inutilmente. Gli edifici le sembravano sempre tutti uguali e in più non riconosceva nessuna di quelle strade. Si era persa all'interno del suo stesso sogno? O era vero quello che stava vedendo ed odendo con le sue orecchie? Gli occhi chiari scrutarono ancora una volta l'edificio cadente e le gambe maledette sembravano non volersi fermare, curiose. Dove stava andando? Scostò per un momento la massa di capelli rossiccia, ormai fradicia, dal viso e si avvicinò lentamente a quella che sembrava l'entrata del posto. Poggió le scarpe su scalino dopo l'altro, con il cuore batteva a mille per la tensione, mille emozioni in contrasto e tanta voglia di avventura. Era lì, pronta ad accoglierla se solo l'avesse colta. La Grifondoro indugió un attimo, provando a spiare all'interno dalle fessure delle finestre, sbarrate e consunte da un legno che sembrava staccarsi a pezzi. Poggió infine la mano sulla maniglia del portone, era aperto. Che fosse quello un altro segno? Senza guardarsi indietro superò l'uscio, richiudendo il portone alle spalle. La bacchetta, infilata nella tasca interna della gonna strepitava dall'essere utilizzata, Alice la prese tra le mani e la prima cosa che pronunció, a bassa voce, quasi sussurrando fu << Tergeo! >> e prese a riasciugarsi i vestiti e la chioma rossa, nessuno a parte quella melodia sembrava essere nelle vicinanze. L'ambiente interno era semi buio, riusciva ancora a vedere di fronte a sé grazie alla luce del giorno, ma l'odore di polvere era fortissimo. Cercò in tutti i modi di trattenere uno starnuto, mentre avanzava sulle assi scricchiolanti del pavimento. Arrivò di fronte ad un grosso chiosco che a lettere consunte e quasi staccate sembrava recitare un 'Biglietteria.' Al tempo doveva aver vissuto di uno splendore raro, con il bancone ampio e tirato a lucido, mentre ora sembrava solo una catapecchia tenuta in piedi per miracolo. Ora la musica sembrava farsi più intensa e la direzione da prendere non poteva essere che di fronte a sé, dove si estendeva quello che doveva esser stato un lungo corridoio alla fine del quale grosse scale trovavano posto. L'ingresso all'arena era vicino e i battiti di Alice sembravano triplicare. Era incredibilmente elettrizzata e un po' spaventata anche, ma dopotutto il coraggio nasceva dalla paura, giusto?
Qualche suono losco di topi pronti ad infilarsi in qualsiasi apertura la fece sobbalzare, mentre proseguiva su per le scale diroccata, fili chiari di luce penetravano tra le fessure del legno. Riusciva ora a distinguere la melodia molto più chiaramente, ma non aveva idea di cosa avrebbe trovato una volta posati gli occhi sulla sala.




Edited by Nontiscordardime - 23/10/2020, 19:42
 
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view post Posted on 23/10/2020, 19:59
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Il grande portone si aprì, in un sussulto di dolore malcelato, il ferro stridente sui cardini consumati diede il benvenuto all’inaspettato visitatore. Oltre l’uscio, un mattonato sconclusionato si andava disegnando sotto ai suoi piedi, segno evidente di un antico fasto che aveva lasciato spazio ad un’identità più sbozzata e povera. Le fughe fra i mattoni irregolari erano colmi di terra e pietrisco, e l’intera superficie era coperta da fogliame imputridito e fanghiglia secca. Il solco lasciato dal portone disegnò in quel sudiciume una curva sbiadita, trasportando dietro al battente un grande quantitativo di sporco e immondizia. Vi erano resti di giornali a terra, e scatolette in latta dai colori sbiaditi. Una lunga scala ammaccata si apriva sull’unica via disponibile, rendendole ancora difficile comprendere l’identità di quel luogo. Ad un primo studio appariva come l’ingresso di un condominio dismesso da tempo, per quanto i fregi ormai consumati delle pareti laterali lasciassero trasparire un certa anzianità strutturale. Bordi in stucco decorato disegnavano (laddove non erano saltati via) forme e riquadri che accompagnavano il visitatore verso l’interno. Mya strizzò via l’acqua dai polsini della camicia, alleggerendo il carico sul suo corpo, sistemò la tracolla sul fianco e risalì la lunga scala.

Il nuovo ambiente si aprì non appena superati i confini superiori della scala, rivelando un atrio importante e senza barriere per almeno una ventina di metri. Il pavimento era una palude di pozzanghere sparse di media grandezza, ravvivate continuamente dallo zampillare continuo di una cascata laterale. Sollevando lo sguardo Mya riuscì ad inquadrare un soffitto di ferro e vetro in parte sfaldato, dal quale entrava una discreta quantità d’acqua. In altre occasioni avrebbe provato l'istintivo desiderio di porre rimedio alla situazione, di tappare la falla per salvaguardare quell’ambiente da un possibile crollo. Ma intimamente provava attrazione e fascino verso quell’insieme di antico e decomposizione, dell’incombere incessante del tempo e della fine, in un flusso che scorreva come un fiume verso la propria foce. Quel luogo risuonava di una moltitudine di echi, persi fra le pareti e le fessure delle assi divelte, e sotto ogni fibra di marmo sbozzato. L’odore della pioggia si fondeva alla mistura di calce, e all’odore più acre del legno, dando vita e voce ad un luogo per molti silente. Non si preoccupò la ragazza di affondare con gli stivali nelle pozze, scegliendo di attraversare la palude nel suo punto più profondo, passeggiando su un immaginario ponte. Oltre l’atrio, sul muro di fondo si affacciava un gabbiotto dalle vetrate infrante e nascosto in parte da assi di legno inchiodate. Sulla parte alta si leggevano ancora alcune lettere sulla targa di ferro mangiata dalla ruggine. T. CK. S.
Una biglietteria.
La curiosità a quel punto aveva iniziato a prendere il posto della necessità, spostando i suoi passi verso l’ala destra del corridoio. Ma senza alcuna fretta nel movimento. Voleva osservare ogni angolo o soffitto, ogni listello di legno e porta scheggiata, annusare ogni odore e perdersi in quell’eco piacevole. Con le dita sfiorava le pareti, tastando sui polpastrelli la sensazione della carta consumata e dell’intonaco irregolare al di sotto. Qua e là spuntavano travetti in legno dai muri, come ossa rotte. Mya ne seguì il profilo, di ogni spigolo o sporgenza, raggiungendo infine il bordo pesante di un tendone consunto. Il velluto rosso spiccava anche in quella tenebra, imponendosi come unica punta di colore in quel grigiore perpetuo. Lo discostò col dorso della mano sinistra e ci si infilò attraverso, lasciando che si richiudesse dopo il suo passaggio.

Per diversi secondi giurò di non riuscire più a sentire il battito del suo stesso cuore. La visione che si era aperta davanti ai suoi occhi l’aveva lasciata completamente smarrita. Era nella pancia di un grande teatro abbandonato, composto da almeno tre ordini di palchi che incoronavano la platea. Con un colpo di bacchetta accese le luminarie che circondavano la sala, riuscendo a dare una forma più definita all’ambiente.
Il soffitto, per quanto vecchio aveva resistito alle intemperie, preservando in gran parte l’interno. Non aveva potuto nulla però contro il vandalismo del genere umano, che aveva staccato in più punti le sedute e macchiato vergognosamente le pareti con scritte e disegni di dubbio gusto. Un moto di rabbia le accendeva le viscere, ma una più quieta razionalità cercò di sedare quel sentimento sul nascere. Attraversò con calma la platea, ridiscendendo da una scaletta laterale ed evitando la corsia centrale, che era occupata per gran parte da un grosso lampadario di ferro e cristalli infranti che doveva essersi staccato diversi anni prima, travolgendo le poltrone. Ad un passo dal palcoscenico si fermò gettando uno sguardo opportuno alla sala, per sincerarsi che non vi fosse nessun inquilino da disturbare. Erano diversi anni che non metteva piede in un teatro, anche se quello aveva la decisa aria di essere prettamente un luogo babbano. Di stampo più moderno rispetto ai teatri elisabettiani calcati da Shakespeare, ma con il suo discreto fascino. Tuttavia molto diverso dai teatri della comunità magica nei quali suo padre si era spesse volte esibito.
Con un balzo silenzioso guadagnò il palco, inoltrandosi sotto diversi strati di veli bianchi polverosi che nascondevano la scena. Superato il proscenio non era rimasto molto, se non lunghi stangoni in legno che si erano staccati per metà dalla graticcia del soffitto, incrociandosi a metà strada come alberi maestri distrutti. Quello che restava di un antico fondale dipinto si ammucchiava a terra lasciando intravedere chiari morsi di ratto, o strappato dal becco di un uccello, per riempire un nido. Ai lati diversi contrappesi avevano ceduto, spaccando le assi della pedana e incastrandosi a metà in essi. Qui e là sacchette di sabbia a terra, un vecchio baule sulla sinistra aperto e vuoto, e un deciso ingombro al centro che calamitò l’attenzione di Mya. Nascosto per metà da un telo ingiallito, spuntava la coda di un pianoforte di color nocciola, ma decisi spruzzi di vernice bianca suggerivano che quello un tempo fosse stato il reale colore. Con un gesto deciso fece scivolare via il telo osservando quel che rimaneva del magnifico strumento. Una gamba era saltata via, lasciando che il piano inferiore andasse a poggiare direttamente sullo sgabello del musicista, incrinando anche quello sotto al suo peso. La ragazza non ebbe il coraggio di toccarlo in quelle condizioni, col vivo terrore di vederlo crollare definitivamente. Eppure se ne sentiva attratta, in una maniera sperimentale e nuova. Aveva sempre provato fascino verso tutto ciò che era vecchio e consumato, imperfetto e logoro, ma quel pianoforte la chiamava con un tono meno cordiale, quasi un rimprovero. Il vivo ricordo di tutto ciò che la musica aveva rappresentato per lei tornò a stridere fra i suoi sensi, come corde stimolate da abili dita, riportando alla mente oltre alle memorie anche un più profondo senso di colpa.
O di rimorso.
Sono ancora qui le parve di sentire, come un sussurro che le sfiorava la nuca, facendola rabbrividire. Non provò però l’istinto di voltarsi per cercare qualcosa che sapeva essere solo nella sua testa, o nella sua anima. Quello che fece invece fu aggirare il pianoforte, per raccogliere la gamba divelta e riposizionarla con cura laddove era mancato il suo sostegno. Il pianoforte ritrovò il suo equilibrio, e Mya si sentì più tranquilla nell’accarezzarlo. Con cura sollevò il coperchio, agganciando il supporto affinché restasse aperto. L’interno riversava in condizioni migliori, seppur qualche corda era allentata e diversi martelletti erano leggermente fuori asse. Ne sfiorò alcuni per cercare di sistemare il danno, e aggiustò come poté le corde, controllando al contempo i montanti. Erano anni che non faceva manutenzione al pianoforte della sua casa, e l’operazione le richiese più tempo di quel che ricordasse. Quando ebbe finito provò un senso di soddisfazione mentre sbatteva i palmi l’uno sull’altro per togliere la polvere in eccesso. Non sapeva perché stesse assecondando quel richiamo, come una marionetta priva di volontà, ripetendosi scioccamente che il motivo potesse essere la noia di un pomeriggio piovoso. Eppure quel richiamo continuava ad attrarla come un legame che il tempo non dissipava, nascosto fra le ombre e la polvere, in attesa. Era come quando a mancarle era stato il suo lato animagus, seppur in una forma meno soffocante. Ma allo stesso modo le rammentava un frammento di sè dimenticato in un cassetto, chiuso fra lettere mai spedite e inchiostri secchi.
Provò a seguire quel filo e questo la condusse allo sgabello polveroso, dinanzi ad una scomposta fila di tasti anneriti. Non aveva nemmeno idea se quel vecchio pezzo di legno e corde fosse ancora in grado di produrre un suono che non fosse sgradevole, ma vi prese posto docile, quasi cercasse in quella chiave di violino la serratura del misterioso cassetto. La mano sinistra adagiò la bacchetta sul leggio poi si avvicinò al piano, scendendo delicatamente su un Sol poco convinto. Gli fece ben presto compagnia un La, poi un Si bemolle discretamente stonato. A quel suono storto la tassorosso strinse involontariamente gli occhi, quasi questo potesse nasconderla ad un immaginario pubblico scontento, nascosto dietro il velo bianco che la divideva dalla platea. Si affacciò nuovamente oltre il coperchio cercando di sistemare il martelletto, per aiutare quella nota a ritrovare il suo reale suono. Sperando forse inconsciamente di ritrovare quell’equilibrio armonico anche dentro di sé.
Due, tre note, poi un nuovo accordo. Una nuova nota che saltava completamente il suo suono, altre due note corrette. La mano destra che saliva ai tasti per generare un suono più alto, contrapposto e al contempo concorde, anche se ancora non aveva il sentore di un canto armonioso. Erano tasti vuoti e senz’anima, come un esercizio di riscaldamento per le dita e nulla più. Dopo alcuni minuti la ragazza sbatté con frustrazione entrambe le mani sulla tastiera, producendo un eco squilibrato e lugubre, che rimbalzò su ogni parete vuota del teatro. Forse non era rimasto nulla in quel vecchio cassetto, e il rimorso che aveva continuato a nutrire era semplicemente un ricordo sbiadito e inconsistente. Come una clessidra incrinata che perdeva granelli poco a poco dopo ogni capovolta, ritrovandosi infine vuota senza sapere perché.

And the truth isn't what you want to see
In the dark it is easy to pretend
That the truth is what it ought to be



 
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view post Posted on 24/10/2020, 18:29
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Il rumore della pioggia scrosciante batteva costante sul tetto legnoso dell’edificio abbandonato. Alice aveva appena fatto in tempo a superare l’ampio cancello, con il suo scricchiolio languido e l’aspetto spettrale. Il tempo sembrava fermarsi in quel luogo, intrappolato nei granelli di polvere delle assi stanche, incollato come le lettere opache e mangiucchiate dai topi, intarsiate nel legno, un tempo lucido e brillante. Un passo dopo l’altro, lento, cadenzato dal suo stesso respiro che pareva essere rallentato, come in un sogno. Superata la biglietteria devastata dai segni del tempo, Alice si avviò in un corridoio lungo e stretto fino all’inizio di una scala che portava verso l’alto, verso un luogo ancora più remoto, dove la melodia sembrava provenire. Gocce d’acqua ticchettavano forti, facendosi spazio tra le aperture dei muri e del soffitto, rifugiandosi nel pavimento, dove ai lati dei muri un piccolo laghetto era andato a crearsi. Prima che i passi, leggeri e curiosi si avviassero per quella scalinata, la Grifondoro fu attirata da uno spruzzo di luce, posto alla sinistra della scalinata, verso quella successiva. Sgranò le iridi chiare, il cuore che ora riprendeva a vibrare sonoro. Lì, nata dal nulla, sembrava spuntare coraggiosa una pianta di rose. Rose selvatiche, che affamate divoravano il terreno e s’arrampicavano sulle pareti instabili. Rose che testarde erano riuscite a sbucare dal pavimento e a librarsi oltre le assi di legno e che ora si abbeveravano della pioggia copiosa. Era incredibile come la foresta la seguisse, ovunque lei andasse, la natura in qualche modo era parte di lei e nonostante il luogo inospitale, la trovava e le donava emozioni forti. I passi ora tremolanti, sembravano dirigersi verso quell’incredibile miracolo naturale, dove i segni del tempo non s’erano fermati, dove la vita ancora brillava forte e risplendeva. Il suo braccio, autonomamente si spinse verso lo stelo di una rosa quasi tagliata a metà dalla veemenza della pioggia, un canaletto formato da una tegola traversa aveva creato un canale d’acqua abbastanza forte, che aveva finito per distruggere il fiore più vicino ad esso. Troppa acqua poteva essere dannosa, poca era morte. C’era bisogno di un equilibrio specifico, come all’interno di una melodia dove le note si alternavano l’una dopo l’altra, all’interno di uno schema armonico e preciso, così allo stesso modo la natura prendeva vita ed avvolgeva tutto ciò che era stato abbandonato dall’uomo. Un fiore ferito, per metà afflosciato, strinse il suo cuore e di fatti lo staccò via da quella sofferenza che non era né vita, né morte. Portandolo con sé gli avrebbe regalato una nuova vita, un nuovo scopo. Avrebbe potuto poggiarlo da qualche parte e così il fiore avrebbe avuto il suo significato, il suo scopo: quello della memoria. Avrebbe avuto il compito di ricordare e di diventare ricordo. Avrebbe continuato ad esistere pur lontano dalla pianta che lo aveva rigettato e a vivere. Nel farlo però si punse e piccole gocce di sangue finirono per riversarsi sul candore dei petali, macchiandoli irrimediabilmente. Alice osservò la scena stupita, come se tutto stesse avvenendo secondo un preciso schema, come se le sue azioni fossero parte di uno sceneggiato, non le era mai successo prima di pungersi in maniera così sciocca, non riusciva quasi a crederci. La melodia però continuava e la Rossa voleva sapere, aveva bisogno di sapere, per cui ignorò il leggero fastidio che la puntura le stava causando. Tornò sui suoi passi, ripercorrendo il pezzo di corridoio scricchiolante e proseguendo verso le scale, dagli scalini spesso mancanti e dove i piedi incontravano il vuoto. Alice si teneva sulle pareti consunte, poggiando i palmi e tastando quella carta da parati in parte appiccicosa, in parte scivolosa a causa della pioggia. Sulla cima delle scale un grosso telo di velluto ne copriva l’apertura, il cuore ora sembrava bloccarsi e trattenere fiato, ne scostò una piccola parte, curiosa come non mai e quello che le si aprì innanzi fu uno spettacolo magnifico. Si trovava in un grosso ed abbandonato teatro, le scalinate ai suoi lati dovevano essere stati altri punti d’accesso, la platea una volta ordinatamente disposta ora mancava di alcuni posti, alcune file erano state occupati da pezzi crollati di tegole e detriti e quello che sembrava essere un grosso lampadario, ora in pezzi. Alice teneva stretta la rosa tra le mani, le luminarie che illuminavano quel posto erano accese, qualcuno doveva essere entrato, qualcuno stava suonando un vecchio pianoforte e a lei sembrava di star entrando dentro i sentimenti di qualcuno, dentro la loro anima. Era una melodia scomposta, ma tormentata, stridente, nonostante le sue note pungenti sembrava comunicare qualcosa. Si sentiva di star spiando segretamente quello che doveva essere un momento personale ed intimo, ma al tempo stesso, non poteva smettere di proseguire, lì per il corridoio principale, costeggiando il vecchio lampadario e notando solo ora i graffiti e i segni che l’uomo aveva malauguratamente fatto per rovinare quel luogo magnifico. Alice non era mai stata in un teatro magico, era abituata a quelli babbani, per cui quello era per lei un luogo piuttosto familiare, nonostante non fosse così esperta di teatri. Ci doveva essere stata un paio di volte, soprattutto lì in Inghilterra con sua nonna che era molto appassionata. Lei ora, come la pioggia, silenziosa ed al tempo stesso presente, non poteva smettere di scorrere, non poteva evitare di poggiarsi sulle pareti di quel luogo. Osservò il pianoforte devastato e qualcosa che muoveva i suoi tasti, da quella angolazione non riusciva ancora a vedere il resto, a causa di alcuni drappeggi bianchi che ne impedivano la vista, ma proseguiva lentamente arrivando solo dopo alla vista di un'ombra scura, che faceva da contrasto con le luminarie della sala. Alice sbattè le palpebre più di una volta, incredula. Non riusciva a capire se stesse sognando o meno. I suoi erano passi silenti, rubati.

In sleep he sang to me, in dreams he came
That voice which calls to me and speaks my name
And do I dream again? For now I find
The Phantom of the Opera is there
Inside my mind


Nel momento in cui si avvicinò, delle note scomposte, furiose quasi, si fecero spazio nel teatro, sottolineando un certo tipo di frustrazione. Alice si trovava a poca distanza e sussultò, quasi inciampando nei suoi stessi passi, si coprì la bocca come a voler soffocare quel sussulto vibrante, morto nella sua gola ma abbastanza da essere avvertito da chi si trovava in quel luogo. Indietreggiò velocemente urtando un sedile dove probabilmente avevano fatto sosta dei piccioni passeggeri, che si librarono in aria producendo più confusione di quanto Alice volesse attirare, la sua posizione era ormai scoperta, chiara e lei si sentiva quasi denudata, come se si trovasse di fronte al pubblico su un palcoscenico e non sapesse cosa fare o dire. Si sentiva in colpa, come se avesse fatto qualcosa di male, come se avesse ascoltato una conversazione di troppo. Sul suo viso un’espressione sorpresa e in parte spaventata. Le sembrava di aver visto un fantasma, non sapeva se quell'ombra fosse reale o meno, quella che stava a pochi passi da lei, era davvero reale o la sua immaginazione la stava tradendo ancora una volta? Tutto intorno a lei, sembrava far parte di un sogno, un sogno buio e polveroso. Qualcosa le urlava di scappare ma la curiosità le impediva di muovere un passo. Voleva sapere cosa ci fosse oltre a quel velo.
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view post Posted on 26/10/2020, 21:32
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yzW23oq
Il suono s’era arrestato, d’improvviso, come una cicala che interrompeva il suo frinire, lasciandosi morire nella notte più silenziosa. Eppure nessun corteggiamento era nell’aria, nessuno scopo aveva quel richiamo sonoro, quelle note rigide e bramose che avevano vibrato fra le mura impietose del vecchio teatro. Vuote d’ogni senso se non quello capriccioso di capire, di ritrovare un qualcosa di perduto fra le pieghe del tempo.


- Ho notato che non sfiori il piano da diversi mesi - le disse il padre con pacata tranquillità, mentre la osservava immersa fra le pergamene di una ordinaria lezione sul dittamo, decisa a non alzare lo sguardo verso di lui, e quella affermazione. La piuma scivolava sulla carta ingiallita, appuntando riferimenti e note a margine, mentre il padre produceva il medesimo rumore, ma sulla carta di uno spartito. In risposta solo un basso mugugno di assenso, a sottolineare la concentrazione che al momento era riservata a ben altro.
Non aveva mai intravisto per la figlia una carriera nella musica, così come era stato per lui, lei fin troppo restia al condividere le proprie emozioni col prossimo. Eppure il pianoforte, aveva notato, aveva su di lei l’effetto di un contrappeso che manteneva in perfetto equilibrio il macrocosmo che le esplodeva dentro. Non era mai stata una bambina capace di vivere con semplicità le sue emozioni, di somatizzarle, il più delle volte erano state queste a guidarla con istintualità verso scelte pericolose. La musica era stata per lei un canale nel quale far confluire il dolore nella sua pura incomprensibilità e attraverso un abbraccio di note misteriose esso veniva sublimato in una serena bellezza. Jillian aveva sempre avuto questo dono, fin dalla più estrema fanciullezza, catturava tutto il male dentro al suo cuore e lo restituiva al mondo nella forma di un fiore. Coglieva la profonda oscurità e non la negava, non aveva timore di guardarvi dentro, e questo era agli occhi preoccupati del padre, sia un bene che un male. E in quella distanza che aveva preso dalla musica, egli temeva potesse nascondersi una forma di cedimento, un piatto della bilancia che perduto il suo baricentro iniziava a pendere pericolosamente verso il basso.
Eppure nel suo viso concentrato non trovava rughe di rammarico o astio, solo un apatico e scarso interesse, come molti altri studenti di tredici anni. Decise di non chiederle altro, ma spostandosi dalla scrivania al piano, allietò quel silenzio sulle note di un Preludio.



Un rumore colse il suo orecchio, facendola sentire improvvisamente in allerta. Lo scricchiolio di una seduta di ferro che si inclinava e un frullare d’ali spezzarono il silenzio creatosi, mentre una giovane figura prendeva posto sul palcoscenico inatteso di quell’operetta. La tassorosso si alzò delicatamente dalla seduta, raccogliendo la bacchetta dal leggio e spostandosi appena dietro il pianoforte. Non aveva idea di chi vi fosse oltre i pesanti drappi bianchi che dividevano palco e platea, ma ben sapeva di essere un ospite in fallo. Si trovava senza alcun diritto in un luogo privato, dismesso ma comunque senza libero accesso. Potevano essere i proprietari, o dei semplici opportunisti che come lei avevano visto in quelle vecchie mura un riparo. Non poteva saperlo con certezza, per cui sollevando la bacchetta verso sé stessa castò un incantesimo che l’avrebbe occultata alla vista di qualsiasi babbano. Non voleva avere a che fare col Ministero e i suoi formalismi, odiava passare fra quei corridoi più tempo di quel che doveva, per cui preferì la discrezione.
Mosse qualche passo lateralmente, spostandosi sul lato opposto a dove avvertiva un leggero calpestio di suole a terra. Chiunque fosse stato doveva essere giunto, allertato o richiamato dalla sua musica, poiché i suoi passi non facevano che avvicinarsi al vecchio pianoforte. Si maledì per essere stata tanto avventata e sciocca da non aver valutato possibili intrusioni, fin troppo rapita da quel nostalgico ricordo sonoro.
Raggiunta l’estremità sinistra del palcoscenico si sporse appena oltre i lembi di tessuto consumato, non riuscendo tuttavia a nascondere completamente la presenza del suo corpo materiale. Un leggero fruscio smosse ciò che restava del vecchio drappeggio, lasciando che parte del suo busto vi passasse attraverso. E ciò che vide in parte la tranquillizzò, e in parte ne mosse la curiosità.
Nel centro della platea, a pochi passi dalle scale che conducevano al proscenio, c’era una ragazzina. Una nuvola di capelli rossi le sormontava la testa come un generoso cappello dalla larga falda, mentre un incarnato chiaro accoglieva il più ingenuo dei visi. Spruzzate di lentiggini su un naso delicato, occhi verdi grandi ed espressivi che osservavano l’intero ambiente, a tratti quasi scusandosi con gli oggetti che maldestramente colpiva. In quel fuscello di essere umano Mya rivide il bocciolo di una speranza, un animo curioso ma al contempo rispettoso, un binomio assai raro in quei tempi frettolosi e sconsiderati. La tassorosso la seguì con lo sguardo, restando in disparte per capire quali che fossero le intenzioni della piccola forestiera. Ne approfittò per studiare meglio la figuretta, che notò essere vestita con abiti modesti ma puliti e discreti. Non era una viandante, né una senzatetto in cerca di un riparo, questo era più che certo. Eppure si muoveva da sola senza alcuna compagnia, con una certa tranquillità. A destare però la curiosità della ragazza fu l’accorgersi che i capelli della ragazza non grondavano una sola goccia d’acqua, né i tessuti sembravano appesantiti dalla pioggia che sentiva ancora battere sui tetti e le poche finestre ancora intatte. Poteva davvero abitare in un simile posto? Non poteva dirlo con certezza ma il dubbio che ella fosse una strega prese possesso di ogni suo conseguente ragionamento. Non poteva ancora accorgersi della sua presenza, certo, considerata la differenza d’età e l’abilità magica che per certo le divideva. Continuò a seguirla con lo sguardo, senza avvicinarla, aspettando forse il momento in cui ella colmata la sua curiosità, non avesse ripreso la via del ritorno, lasciandola tornare alla solitudine bramata.
Ma passo dopo passo quella realtà non si palesava, la ragazzina sembrava intenzionata a trovare l’origine di quel richiamo, e ben presto avrebbe raggiunto il pianoforte, notando i solchi nella polvere che lei aveva creato sedendosi sullo sgabello. E forse anche le pedate a terra, che a più riprese però si confondevano con quelle lasciate da chi le aveva precedute entrambe.
Non voleva essere trovata e per non farlo avrebbe dovuto direzionare altrove la sua attenzione, indossando una di quelle maschere che tanto a lungo s’era sfilata dal viso. Per gioco o per necessità, si ritrovò quasi stuzzicata da quella nuova possibilità. Quella di non essere sè stessa, l’opportunità di sganciarsi da ogni pretesa di normalità e da ogni fallace errore, indossare un abito nuovo senza macchia, libera dal giudizio della conoscenza.
Scivolò questa volta oltre la tenda bianca con tutto il corpo, ancora celata dietro il potere del seocculto, lasciando che quel limbo consunto le dividesse ancora una volta, in una coreografia di passi che le portava sempre distanti, come esseri di due mondi differenti, incapaci di vedersi. Ma in grado di percepirsi in qualche misterioso modo.
- Hai smarrito la via del ritorno? - chiese con voce profonda, affatto ostile per quanto asciutta e composta. Non c’era tentennamento nel suo tono, bensì un riverbero generato dalla cassa acustica naturale che era l’ampia pancia del teatro. Le fece strano udirne il leggero eco, quasi non si riconoscesse davvero in quel timbro vocale.
Chi stava diventando ancora non l’aveva compreso.




 
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view post Posted on 27/10/2020, 15:13
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Le sembrava davvero di essere intrappolata in un sogno, un luogo dove lo spazio e il tempo erano relativi e dove il suo stesso essere non coincideva con la sua persona. Non era più se stessa ma era qualcun altro. Si sa bene quanto nei sogni ci si comporti spesso diversamente da come lo si farebbe da svegli, si è più spavaldi? O più cauti? Nel caso di Alice, sempre pronta all'avventura e mai impaurita era quasi l'opposto. La curiosità era al solito lì presente, parte radicata e imprescindibile, ma un senso di prudenza mai sentito prima le permetteva di addentrarsi in quel luogo con rigido stupore e rispettoso fare, come se si trovasse in un luogo sacro. Consacrato dalla musica e dal tempo, intrappolato in essa. Il suo cuore batteva forte e il suo viso splendeva di un'innocenza che spesso era solita nascondere, così come i suoi sentimenti, che non riusciva mai ad esprimere liberamente. Ora tutto era come un corridoio vuoto, un canale libero all'interno del quale scorreva tutto, lei insieme alle sue emozioni. E non poteva trattenersi da indossare quelle vesti, non riusciva a non farsi guidare da essi e ad approcciarsi quindi con occhi completamente diversi. Il cuore di Alice era aperto, palpitante, servito su un piatto d'argento. Debole ma anche incredibilmente splendente, una parte di sé a cui spesso faceva da scudo il grosso muro della spavalderia, della quale si serviva costantemente per mascherare se stessa. Ma questa era una nuova realtà e mentre i suoi passi minuti proseguivano nella pancia del teatro, i dettagli che notava con lo sguardo si facevano sempre più vividi. Orme. Orme di polvere lasciate sul terreno, impresse nella coltre di acari che ricopriva come un manto l'intero edificio. Ci doveva per forza essere qualcuno lì dentro, non poteva trattarsi di un fantasma. Continuava a muoversi con lentezza e prudenza, tenendo ancora stretta la rosa tra le mani. Voleva donarla al compositore di quella melodia ed in qualche modo ringraziarlo. Era innocente da parte sua, ma dopotutto stava sognando, giusto? Nessuno l'avrebbe beccata. Sarebbe stato un segreto, rimasto tra quelle mura intrappolato, per sempre. Quando la musica si fermò e lei stessa urtó contro i vecchi sgabelli, rivelando la sua presenza in maniera piuttosto eclatante, Alice fu scossa da un brivido. Era come se avvertisse una presenza, ma non riuscisse in nessun modo a vederla. Gli occhi vispi e chiari si diressero verso il palcoscenico, per metà coperto da un grosso telo bianco, i passi della ragazza si arrestarono che per pochi secondi, ella si irrigidì quasi come pietrificata. C'era un bisogno inspiegabile di arrivare a capo di quella situazione e un'ansia di fondo, una paura di esser beccata e di trovarsi in una situazione spiacevole. Erano sentimenti che solitamente Alice non dichiarava mai così candidamente di avere, anzi spesso presa dall'incoscienza non ne sentiva nemmeno la presenza, ma ora erano una parte costante dei suoi pensieri. Era davvero spaventata, c'era qualcosa di strano in quella faccenda. Nonostante ciò fece un lungo respiro, facendo un passo in avanti, così da poter vedere meglio e spiare attraverso il telo bianco. E così senza saperlo si muoveva a ritmo di quella creatura o quello spirito, nascosto ai suoi occhi, ma lontano di pochi centimetri, senza che tuttavia potesse vederlo.
Quando una voce potente e ferma parlò, sobbalzó letteralmente sul posto e come gesto automatico sfilò la bacchetta dalla tasca per tenerla rigidamente nella destra. Non riusciva a capire da dove arrivasse quel suono, era come brancolante nel buio nonostante le luci accese. Si morse il labbro inferiore prima di esitare con un quasi sussurrato << C-Chi sei? >> una voce candida e timida, che non sembrava nemmeno appartenerle.

Father once spoke of an angel
I used to dream he'd appear
Now as I sing I can sense him
And I know he's here


Più che un chi fosse era in dubbio su un cosa fosse, ma questo rimase solo nei suoi pensieri. Che fosse lo spirito di quel teatro, un fantasma? Ma di solito i fantasmi avevano una forma fisica.
Ancora un altro respiro profondo mentre la rosa le cadeva dalle mani per lo spavento preso, I passi che si susseguivano l'uno all'altro. << Mostrati! >> esclamò, per niente felice di star dialogando con un essere invisibile o sapientemente nascosto.


Angel! I hear you!
Speak, I listen
Stay by my side, guide me!


Alice aveva poco prima udito una voce e un conseguente salto al cuore nell'udirla, era inquietante avvertirla senza un corpo che ne sostenesse la presenza. Un corpo qualsiasi, fatto di carne, di aria o di che si voglia sostanza avrebbe sicuramente aiutato a farla rilassare, ma dopotutto non sono forse i più coraggiosi ad avere maggiore paura? La sua voce giovane e cristallina si sparse per quel luogo impolverito, riempiendolo di vibrazioni frizzantine. Il fantasma aveva parlato. Alice tese l'orecchio, lo sguardo ora più serio e attento a individuare da dove provenisse il suono. La mano destra tuttavia stringeva ancora la bacchetta, la sua arma contro quel mistero. Sarebbe potuto essere uno di quei misteri che portano i protagonisti dei libri a scoprire cose grandiose o d'altro canto, una tragedia da peggior film horror. Alice tuttavia aveva una curiosità decisamente superiore alla media e solo una volta venuta a capo di quella faccenda avrebbe messo piede fuori da lì. Gli occhi chiari puntarono uno spazio indefinito del palcoscenico, ma non riuscirono a scorgere niente. I passi che prima sembravano essersi riempiti di piombo avevano ora raccolto una fluidità inaspettata e macinavano assi di legno nella direzione del manto logoro. Cosa sarebbe successo se si fosse avvicinata anche solo un po'? E se avesse osato irrompere in quello spazio sacro? Non arrivò che tuttavia di fronte ad esso, esitando ancora come immobilizzata, la bacchetta l’aveva riposta nella tasca della gonna e con quella stessa mano ora vuota, sembrava quasi voler sfiorare quel telo, senza tuttavia toccarlo. Non poteva di certo immaginare che qualcuno si trovasse nella sua stessa esatta posizione, ma dall’altra parte. La voce che sembrava esserle morta in gola, aveva ritrovato spirito e la sua essenza, il suo carattere provava ora a fuoriuscire lentamente. Pensò che tuttavia quel fantasma doveva essere proprio sfacciato a nascondersi mentre lei era in bella vista, quindi la sfrontatezza tornò di nuovo padrona. Uno sbuffo di risata accennato, un sorrisetto sghembo le comparve sul volto, le sembrò illuminarsi il volto e quei contorni ancora fanciulleschi piegati da uno spirito ribelle << Ah >> esordì con una smorfia segnata e puntata nella direzione del palco << Facile parlare per qualcuno o qualcosa che se ne sta nascosto, mentre la mia presenza gli è più che chiara agli occhi, mh? >> era sempre stata una tipa che non le mandava a dire e in fondo quella era la sua più vera essenza. Si era liberata dalla stretta della paura e dell'irrazionale e stava lentamente tornando Alice, quel fuoco che le bruciava dentro la consumava ed alimentava al tempo stesso, dandole modo di rimanere in equilibrio, a volte uno dei due lati aveva la meglio e in quei casi c'erano sempre dei problemi. Proprio mentre stava pensando di aggiungere altro le iridi chiare puntarono il pianoforte. La musica, quella melodia che l'aveva attirata fin lì inspiegabilmente, quella musica le era tornata nella testa. La sinistra stringeva ancora la rosa tra le mani e la Grifondoro parve meccanicamente allungarla verso il palco con l'intenzione di volerla appoggiare lì sopra, si chinò quindi e lasciò la rosa accanto al velo, nella parte strappata, come a volerlo donare << Quella melodia. Eri tu a suonarla? >> si morse il labbro lievemente imbarazzata per le sue parole successive << Potresti suonarla ancora? >> concluse con tono lieve e quasi sussurrato, come di chi sta pensando ad alta voce. Non sapeva davvero cosa stesse facendo e soprattutto perché, ma l'idea di poter riascoltare quella melodia la stuzzicava moltissimo.

I have brought you
To the scene of sweet music's throne
To this kingdom where all must pay homage to music
Music

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view post Posted on 28/10/2020, 18:20
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Un passo silenzioso dietro l’altro la accompagnavano lungo il confine del muro di cotone logoro, pur non producendo alcun suono a contatto con il pavimento legnoso del palco. Quella misteriosa catena che portava sempre legata alla cintola nascondeva la sua presenza più di quanto già non facesse il suo passo lento e controllato.
La voce leggera della ragazzina tintinnò come un campanellino nell’aria, donando a quel vecchio teatro un nuovo protagonista, in completo contrasto con la figura più austera e guardinga della tassorosso. Con tutta l’innocenza della sua tenera età le chiese chi fosse, tradendo in quell’ingenuità un discreto principio di paura. Consapevole di non aver scelto l’approccio migliore, cosa che aveva sempre contraddistinto la sua capacità di relazionarsi, cercò di spostare leggermente il tiro per evitare un possibile attacco di panico, seguito da una spiacevole caccia alla strega. O al fantasma, come nel suo caso.
Si chiese che tipo di fantasma avrebbe voluto diventare, e quel ragionarci deciso e razionale viaggiava in perfetto equilibrio tra il divertente e il preoccupante. Decretò essere troppo insofferente per rischiare di diventare un fantasma petulante o fastidioso, e perfino troppo poco elegante perchè la società di spiriti le accordasse anche un solo benvenuto ai banchetti e incontri oltrevita. Sarebbe per certo diventata uno spirito libero e solitario, se mai avesse permesso al suo animo di contrarre debito o rammarico con la vita stessa, lasciando che la incatenasse sul piano dell’esistenza per l’eternità.
Quel pensiero la attraversò come un brivido lungo la schiena, che scacciò con una scrollata di spalle e collo, tornando padrona di sé stessa, e della maschera che aveva deciso di indossare per l’occasione.
- Essere e mostrare, una sì ingenua scelta verbale - riprese il filo del discorso, seguendo le domande che la voce cristallina le aveva rivolto un solo attimo prima. Il tono sempre aumentato in vigore dall’eco della grande sala, ma vinto da una nota stonata, come di una quasi impercettibile delusione. Il fantasma del teatro si stava rammaricando della curiosità, quasi banale e superficiale del suo giovane ospite.
La tassorosso si morse appena il labbro inferiore, tenendo vigile il senso dell’udito per captare gli spostamenti della piccola avventuriera oltre il velo, e assicurarsi così che le distanze fra loro restassero invariate, e perfettamente bilanciate.
- La forma è un’apparenza ingannevole, potrei lasciarti vedere un riflesso gentile, rassicurante e non avresti modo alcuno di capire quanto vicina o lontana possa essere la realtà - una criptica ma sottile verità, sulla quale Mya aveva fondato gran parte della sua esistenza.
L’inganno che aveva assaggiato fin dalla più tenera età, quella sua stessa apparenza che ne aveva condizionato ogni singolo rapporto umano e l’aveva portata a interrogarsi più e più volte su cosa la rendesse ciò che era davvero. Aberrante, inusuale, maledetta. Parole il cui eco aveva smesso di sentire da tempo, che però mantenevano viva in lei la consapevolezza di quanto nessun essere umano fosse capace di non lasciarsi condizionare dall’apparenza. Non ne erano geneticamente capaci, aveva dedotto. Così quella stessa apparenza poteva venir impiegata per qualsiasi fine, ad esempio instillare fiducia, così come aveva sottilmente proposto alla ragazzina. Ingannevole disonestà.
- Oh, ma io non mi nascondo affatto - rispose con il solito tono spento nella voce, sinceramente colpita dalla caparbietà dimostrata da quella piccola preda che con tenacia teneva la testa alta anche di fronte al pericolo più sconosciuto. L’irreale, o l’incomprensibile. - Io non ti conosco, e vederti non mi racconterà di te nulla più di ciò che vuoi che il mondo scorga. Così come l’opposto. Ciò che sono non può avvantaggiarti, né deve confonderti. L’essenziale è invisibile agli occhi. Se tu lasciassi che fosse solo la mia voce a lasciarsi conoscere, saresti libera dall’inganno degli uomini. - suggerì, quasi machiavellicamente, alla giovane ragazza. Un modo elegante, e discretamente poetico, per svicolare dalla possibilità di incontrarsi davvero, lasciando così la tassorosso nel più completo anonimato. Un’anima senza corpo che viaggiava tra gli architravi del teatro e nulla più, una viaggiatrice senza meta che era lì solamente di passaggio, pronta ad attraversare una tenda e svanire verso la nuova destinazione. Il palco il crocevia di due esistenze, che con tutta probabilità non si sarebbero più incontrate. Eppur condividevano quell’esatto momento, che poteva diventare importante per entrambe.
- È stata la musica a condurti qui? - chiese ora con maggiore curiosità di quanta non ne avesse dimostrata fino a quel momento. L’idea che quella melodia scomposta, che aveva suonato nel disperato tentativo di riallacciarsi ad un ricordo perduto (senza tuttavia trovarlo), avesse catturato nella sua trama un’anima sconosciuta, esterna, estranea. Ingenuamente nacque in lei il sospetto che la chiave del cassetto sigillato che tanto cercava, potesse in verità non trovarsi affatto sui tasti del pianoforte.

Poi una richiesta arrivò, inaspettata come un fiore che sboccia nella rigidità di uno sterile inverno. Suonare ancora, suonare per qualcuno, suonare per lasciarsi ascoltare. Come poteva chiederle una cosa tanto intima con una tale semplicità? Mya si sentì povera di parole per alcuni istanti, la sua presenza palesata semplicemente dal fruscio che faceva la tenda sfiorata dalle sue dita. Non aveva mai suonato per nessun altro al di fuori della sua famiglia, e più per sè stessa che per altri. Non c’era eventualità di realizzare un tale desiderio, eppure quella piccola parte di sè che aveva iniziato a scalciare sotto la pioggia ora la strattonava nuovamente verso il pianoforte.
- Potrei… - rispose, questa volta più cauta, tradendo in parte la sicurezza che aveva sfoggiato fino a quel momento - ...ma la musica non potrà definirmi, solo cristallizzare questo esatto momento nella memoria di entrambi. Per questo ti lascerò un compito, se vorrai comporre questo dialogo -
Spostò delicatamente la bacchetta di salice in direzione della platea, castando un incantesimo di recupero su una delle sedute meno consumate. Gli strappi si chiusero come ferite rimarginate dal tempo, l’imbottitura si rigonfiò all’interno del tessuto a costine e il colore di sporco e consunto si accese di un vivissimo rosso ciliegia.
- Ti ho riservato un posto speciale in prima fila, se vorrai lasciarmi il palco io suonerò per te...il prezzo che dovrai pagarmi sarà un racconto, privo di particolari personali. Chiudi gli occhi e parlami di un luogo della tua memoria, dovrai solo descrivere ciò che vedi, senti e percepisci con i tuoi sensi. Io lo ascolterò. -
Io ti ascolterò.


 
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view post Posted on 29/10/2020, 17:14
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Nonostante la sua faccia tosta e il fatto che avesse giocato la solita carta della spavalderia, le parole del fantasma la colpirono e si chiese se effettivamente avesse bisogno di un corpo per poterlo identificare, dopotutto il vento stesso non ne aveva uno ed Alice ci aveva spesso chiacchierato, soprattutto quando andava nel bosco. L’idea di parlare con qualcuno di fisico però creava fiducia, le dava l’idea di non star parlando da sola o di non stare impazzendo. Ma questo discorso poteva davvero avere un senso all’interno del mondo magico? Dopotutto non era la prima volta che le succedeva qualcosa di inspiegabile. In qualche modo la sua ingenuità ed immaturità l’avevano portata a pensare all’urgenza di un corpo da individuare. Ma se il fantasma si fosse mostrato le sarebbe davvero cambiato qualcosa? L’immagine sarebbe potuta essere illusoria. Era quindi di un corpo o di un’illusione di cui aveva bisogno? << La tua voce… >> replicò in un sussurro a se stessa. Sarebbe riuscita a riconoscere quella voce in futuro? Cercò di imprimerla nella memoria in maniera da ricordarsela, magari avrebbe potuto fare qualche ricerca e trovare il fantasma che si vantava di non avere forma. Per quanto volesse negarlo l’idea di dare un volto a quel mistero continuava a ticchettare nella sua mente, era impossibile accontentarsi solo della voce. La musica, quella forse, le sarebbe bastata. Iniziò a passeggiare nei dintorni di quel lembo di stoffa bianco, lo sguardo chiaro puntato di fronte a sé, gli occhi tesi a scrutare il minimo movimento. Dovevano probabilmente aver perfino inquadrato il volto del fantasma ad un certo punto, senza rendersene conto. Lo avevano probabilmente guardato in viso, come si fa con una persona la cui presenza è palpabile, ma priva di ogni imbarazzo o regola sociale. Lo avevano probabilmente guardato a lungo, come non si è solito fare con le persone, perché prima o poi bisogna distogliere lo sguardo. Tutto questo Alice non avrebbe mai potuto saperlo dato che tutto quello che realmente vedeva in quel momento era un lembo di stoffa e il resto era solo un’idea nella sua mente cucita sulle note vocali a disposizione, era immaginazione. Il fantasma ora le poneva una domanda, quasi come se fosse una domanda retorica, Alice tuttavia fermò il suo vagare << Sì. La melodia che hai suonato poco fa, era davvero molto bella >> in qualche modo avverti l’esitazione del fantasma e questo le procurò qualche battito in più. Era come se avesse percepito dell’umanità, della fragilità che non era mai stata presente nei momenti precedenti. Quel momento le sembrava ora più vero di sempre. Per questo motivo probabilmente rimase piuttosto sorpresa dalla richiesta successiva, non aspettandosi per niente una richiesta così speciale. Esitò di conseguenza sul posto, ruotando lievemente il busto per osservare la poltrona prendere un respiro di nuova vita. I boccoli rossi fluirono con agilità sulla sua spalla mentre ella sgranava gli occhi, osservando con attenzione quell’incanto. Chiaramente doveva trovarsi a contatto con una creatura magica, i fantasmi non possedevano quel tipo di capacità, che si trattasse proprio di una strega? Si maledisse per non saperne di più e promise a se stessa di fare una ricerca sui fantasmi una volta tornata ad Hogwarts, così da potersi rendere conto delle loro caratteristiche, quel mistero si infittiva e di certo non avrebbe mollato la presa così facilmente. Passi sottili seguirono il dire del fantasma, mentre la ragazzina si avvicinava alla poltrona, la destra pronta a sfiorare la superficie perfettamente levigata, ancora incredula ci impiegò qualche minuto prima di dire << Molto bene allora >> sollevando lo sguardo chiaro sullo schienale. Finalmente si accomodò, ripiegando la gonna sui lati e portando le scarpe sul sedile quindi le ginocchia al petto. Le strinse a sé, poggiò il mento su di esse e si lasciò andare nei ricordi. Era tutto molto personale quello che si erano reciprocamente chieste, Alice non era solita condividere qualcosa di così intimo con nessuno, figuriamoci con un misterioso fantasma. L’idea di poter parlare liberamente ed essere ascoltata però le dava un brivido di entusiasmo diverso da tutti i tipi di emozioni provati precedentemente. Si sentiva in qualche modo vulnerabile, ma anche libera. Si schiarì la voce e socchiuse gli occhi, immaginò di essere nel posto che la rendeva più felice al mondo: la foresta.
Un sorriso leggero le si dipinse sul volto, mentre iniziava in un quasi sussurro << La luce del sole è debole, ma incredibilmente luminosa quando si cammina nei boschi. Viene filtrata attraverso le serrature delle foglie, gli incastri degli alberi. Quando si riflette sulla mia pelle mi sembra di diventar parte di essa, mi sembra di essere luce. >> si fermò per un lieve respiro, continuando ora con un tono di voce normale << Poco prima del tramonto la luce diventa arancione, fa brillare le foglie che sembrano colorarsi d’oro, il bosco di acquieta ma non rimane mai silente. Tocco le radici ruvide delle querce e respiro l’aria filtrata dall’erba, i miei piedi si bagnano del terreno umido sul quale cammino, mentre l’orecchio è assopito dal canto degli uccelli. Mi sembra di bere la vita. Ho così tanta energia che non so più dove metterla, un sovraccarico di linfa. Mi fermo solo per un momento e ascolto. Tutto intorno a me batte più forte del cuore che ho in petto. Il vento soffia leggero ed accompagna la melodia della foresta. Ed è come volare insieme alle ghiandaie, arrampicarsi veloce sui rami degli scoiattoli, sul legno come un picchio affaticarsi e come una foglia sul terreno decidere di cadere. >> Si fermò poi riaprendo gli occhi chiari lentamente, le sembrava di essere tornata ad Eisenbach per un momento, tanto che il cuore in petto le batteva forte dall’emozione di tutto ciò che aveva appena descritto. Non sapeva quanto fosse riuscita a trasmettere, non sapeva se dal suo racconto si riuscisse a visualizzare quel luogo così come lei lo aveva vissuto, ma era certa di avere fatto del suo meglio. Non sapeva nemmeno da dove aveva preso le parole, le erano semplicemente uscite dall’anima. Quell’incontro assolutamente casuale era diventato qualcosa di sconvolgente, qualcosa che non avrebbe mai potuto immaginare. Era diventato importante.
Le efelidi sul viso presero a contornarsi di rosso, perché si stava pian piano rendendo conto di quanto si fosse esposta e questo la rendeva in qualche modo debole e in imbarazzo << E’ il tuo turno ora >> concluse, cercando di non pensare più a quanto le bruciasse la faccia ma provando a concentrarsi ora su quella bellissima melodia che fin dall’inizio l’aveva attirata all'interno di quel luogo disperso. Che fosse stato un incontro del destino? Era forse sinonimo di due melodie che avevano incrociato per un breve istante il loro cammino.
Si sarebbero mai riascoltate? Si sarebbero mai riconosciute?

"E di te che saprò? Le tue apparenze
han detto quel che vuoi, quel che non sei
credi tu
che dietro a questa assurda
fuga di giorni
ci attenda
il passo delle vere parole?
O che immutati, forse
con un nuovo segreto a mantenere
ci sorprenda l’addio?"




 
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view post Posted on 31/10/2020, 15:18
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yzW23oq
Il destino di un uomo non scivola mai su sentieri di ghiaia, né su clivi erbosi baciati dal sole. Rassomiglia in ambiguo modo ad un percorso frastagliato, inerpicato fra rovi e grossi massi, dove ogni passo in fallo produce conseguenze inequivocabili. Eppur ogni calcata, ogni storta ed ogni scivolata producono una memoria indelebile.

La tassorosso non aveva scomodato il Destino in quel piovigginoso giorno, così restia fin dal suo principio ad ignorarne i soavi inviti. Aveva poi dato ascolto ai borbottii inquieti del cielo, e deciso di assecondare la sua furia restandone a parte. Ne aveva ignorato il potere con tale caparbietà, da essersi infine convinta di aver scelto una strada personale, un bivio consapevole da quella che poteva essere una decisa svolta nella sua vita. O che poteva rivelarsi, nel maggiore dei casi, un deludente atto. Eppure in quell’esatto momento, nascosta fra le sottili mura di cotone consunto, iniziava ad avvertire come la sensazione di non possedere affatto il controllo. Nonostante il gioco di maschere imbastito, la teatralità delle parole scelte e la perfetta esecuzione della sceneggiatura appena messa in atto, c’era qualcosa che vibrava nell’aria, qualcosa di intangibile ed inafferrabile. Come un terzo spettatore, che seduto sul palco più alto e lontano da ogni sguardo, le osservava in silenzio. Forse con giudizio, o forse con beffa.
Lontana dal capire se quel principio di paranoia derivasse da una ammonizione interiore, la tassorosso decise di focalizzare la sua attenzione sul presente. E sulla ragazzina che, spostandosi nuovamente verso la platea, si era riportata in una posizione più scoperta. Fu facile per Mya scivolare nuovamente nell’ombra, sfruttando i vari livelli che il tessuto ingiallito le offriva, come stretti corridoi in un labirinto. Qualche passo indietro, due più a sinistra, di lato oltre due veli ed eccola tornare là dove tutta quella messinscena aveva avuto origine. Il centro del palco, o in una forma meno terrena, il nodo in mano al Fato.
Si lasciò scivolare verso il pianoforte, prendendo infine posto sullo sgabello sbilenco. Nessuno spartito si apriva in pagine davanti ai suoi occhi, solo la penombra di un luogo dimenticato e la sua polvere. Ma non ne avrebbe avuto bisogno, perchè la sua musica sarebbe nata da un binomio, e da un racconto che le era ancora sconosciuto. Chiuse gli occhi e prese un profondo e lungo respiro, prima di avvicinare la mano destra alla tastiera e scendere delicatamente sulla prima nota. Ripetuta, con ritmo lieve, come un susseguirsi di piccoli passi su un pavimento di cristallo. Era il modo del Fantasma di comunicare alla sua ospite che era pronto, e che a modo suo aveva già iniziato a camminare nel buio della notte, aspettando il suo arrivo.

Una voce si accendeva nel silenzio sordo del teatro, rotto nella sua placidità solo dal ritmico tintinnio di un riservato Mi. Era la giovane ragazza dai capelli rossi, e dalle sue labbra fiorivano suoni come fiori notturni, la voce amplificata dall’alto soffitto della stanza e il tono più cupo, come se il suo diaframma soffrisse di una leggera costrizione. Nascoste le loro reciproche presenze, Mya si lasciò guidare da quel racconto rinforzando il suo tocco sui tasti del pianoforte.



Ben presto il tintinnio si fece passo, lento e tranquillo, mentre la sua mente abbandonava l’assolata piana per addentrarsi nella penombra del bosco. Un flusso di piccole e alte note rimbalzava sulle foglie più giovani come gocce di rugiada, scivolavano fra le venature verdi e poi si lasciavano cadere ancora più giù, rintoccando prima su di un sasso, poi sulla superficie di una piccola polla formatasi ai piedi dell’albero. Lungo il sentiero incontrava rami secchi, che cedevano ad una nuova melodia sotto il peso del suo piede nudo. Ne poteva percepire la ruvidezza sotto la pelle, e l’umidità del terreno le penetrava fra le dita. Parte del fogliame iniziava a vestirla come un padre premuroso, mentre i suoi passi la portavano giù lungo una stretta scala di radici. Un fascio di luce la raggiunse, cancellando per un momento il fulgido verde e vestendolo d’ambra. La mano destra saliva a proteggere gli occhi, permettendole di alzare lo sguardo verso la cupola di chiome frastagliate. Era buio in controluce, come un cielo intravisto dagli abissi, là dove la luce si muoveva come rivoli chiari sulla superficie densa e oscura. Quella visione la tormentava, allo stesso modo di quanto affascinava la sua mente, attraendola e soffocandola, come uno struggente amore faceva al cuore. Ad occhi alti avanzava verso il centro di quel turbine d’ombra e luce, raggiungendo il corpulento e contorto tronco di un gigantesco albero. La sua chioma enorme era la chioma di ogni albero del bosco, e i suoi grandi rami l’abbraccio che dava vita al resto dei suoi figli. La terra era il suo letto, l’umidità la sua linfa e la luce sua sposa. V’era pace in quella visione, eppure percepiva del turbamento, come se fosse osservata, trovata in fallo con un piede oltre una siepe non propria. Ancora e ancora, quella sensazione d’essere braccata non la abbandonava, neppure nella parte più sincera del suo inconscio. V’era un dolore nascosto fra le note, come una ghianda marcia che il tempo aveva assorbito fra gli anelli di corteccia del grande albero, come una bruttura da ignorare. Quella titubanza l’aveva allontanata dalla musica, e allontanato il cuore dalla ricerca della verità. Aveva chiuso gli occhi, come si fa quando la troppa luce ferisce le retine, ma la musica in fondo non necessitava della vista per essere percepita. Così come l’anima, o l’essenza. Mya vibrava in quel bosco, come la sua melodia faceva nella pancia del teatro dove fasci di polvere avevano iniziato ad alzarsi, sospinti da una brezza invisibile. Strisciavano alle spalle della ragazzina, fluendo tra le sedute senza il minimo suono, danzavano sulle note del piano.
Percepiva ogni cosa, dal rintocco di un picchio sul legno al ringhio sommesso di un lupo nel sottobosco, dal fruscio del vento fra le foglie, al rumore che facevano le tenaglie di una mantide quando spezzavano il corpo di una nuova preda. Non c’erano errori attorno a lei, solo la brutale e sincera bellezza della Natura. Voleva assaporarla nella sua interezza, capire quanto lontano potesse spingersi fuori da quella bolla di rifiuto che per troppi anni aveva abitato. Si arrampicava, ora su una radice, ora su un ramo. Il grande tronco le offriva nuove strade di continuo, e lei le imboccava senza pensare troppo alla scelta, voleva solo avanzare verso quel richiamo oscuro che percepiva, quell’ombra vuota che sentiva pulsare nel cuore dell’albero. Più in alto, dove il vento soffiava più forte, e spingeva il corpo sull’orlo del precipizio, dove i profumi del bosco sottostante si attenuavano e si percepiva solamente il freddo pungente di una brezza asettica. Eccola la paura incontrollabile dell’ignoto farsi nuovamente compagna, l’istinto primordiale di allontanarsi dal luogo che più spaventa, lo scrigno delle consapevolezze e delle risposte negate che si faceva più prossimo.
I flussi di polvere che aleggiavano nel teatro presero a farsi più presenti, e vigorosi, palesando la loro presenza alla piccola grifondoro, le scombinarono i capelli vaporosi e agitarono la sua gonna. Ma non con invadenza, mentre la loro meta iniziava a farsi più chiara anche agli occhi della giovinetta. Decisi e sinuosi come serpenti confluivano verso il palco, spingendo prima con soffi, poi con brezze, i lembi inferiori delle grandi vele bianche.
Il tessuto logoro si sollevò a più riprese, come sospinto da onde schiumose infrante sugli scogli, rivelando in un secondo momento la figura in profilo del fantasma. Seduta al pianoforte, ad occhi chiusi e travolta completamente dal flusso della musica che lei stessa aveva composto nella sua anima, avanzava verso la sua meta, il nodo o nocciolo della sua perdita. Quando superato l’ultimo ramo lo vide.
La musica si spense, e il velo ricadde a terra, nel silenzio più assoluto.



 
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view post Posted on 31/10/2020, 22:37
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Alice era assolutamente coinvolta dentro il suo stesso racconto. Sembrava star danzando nella foresta, riusciva a sentire il cuore battere forte ma allo stesso tempo avvertiva una certa calma e tranquillità che non sapeva spiegarsi. Riusciva ancora a respirare quell'aria pulita di casa, le sembrava di scorgere la figura del padre che l'aspettava in cima ai campi, pronto a farle una ramanzina per essere tornata quando era ormai troppo buio. La natura le stava parlando, le sussurrava segreti, mentre il vento giocava con i suoi capelli rossi, tenuti liberi e indomiti come il suo spirito.

A pochi giorni dal rientro a casa si era imbattuta in una situazione davvero magica e misteriosa di cui non sembrava averne colto il senso, come se improvvisamente ci si fosse ritrovata, senza nessun piano. Il destino spesso opera in maniera insolita e nonostante Alice sia convinta di esserne l'artefice stessa, in momenti come quello non le sembrava vero, era naturalmente conscia ma incredula. Le sue parole, il suo racconto fuoriuscì con una certa fluidità, come le onde del mare che cullano le stive delle navi, dondolandole fino a farle addormentare, come il borbottio delle foglie appena sveglie, che scorrazzano tra le chiome degli alberi. Nonostante dovesse essere spaventata, ora non riusciva a smettere di sentirsi elettrizzata ed incuriosita, era come un rompicapo dal quale non riusciva a staccarsi, voleva arrivare ad una soluzione ma senza che questa ne sancisse il finale. I propri passi venivano seguiti dal fantasma lentamente, la melodia promessa stava prendendo colore, forma e quelle note che prima le erano sembrate più timide ed incerte ora raggiungevano un certo tipo di consapevolezza, come se lui stesso le stesse solo ora veramente interiorizzando. Sembravano seguire le parole del suo racconto, come se lo stessero vivendo e lo accompagnavano illuminandolo di una luce ancora più intensa di quella del sole. Alice poteva avvertire l'anima di Mya sfiorarla arrivando quasi ad infiltrarsi nella propria, entrambe stavano spiando qualcosa di nascosto e di segreto che non erano solite condividere ed entrambe ne sembravano così assurdamente affascinate. Gli occhi chiari si aprirono improvvisamente quando ora con dolcezza dei piccoli granelli di polvere iniziarono ad alzarsi. Questi andarono poi più energicamente a scompigliarle i capelli e le pieghe della gonna, quasi sollevandola dalla sua posizione. Alice li osservò esterrefatta, gli occhi sgranati e un sorriso appena accennato si facevano spazio sul viso giovane e non riuscivano a fermarsi, seguivano quella scia che sembrava dirigersi altrove. Ora infatti il velo che separava le due non faceva che muoversi, così da dar modo alla ragazza di vedere al di là di esso. Un frammento, un'ombra in più, qualsiasi cosa I suoi occhi riuscissero ad inquadrare, produceva un nuovo e più potente battito per il suo cuore. Voleva sapere. Ne aveva bisogno.

Con passi incerti ed ancora emozionati, sulla scia di quella melodia che sembrava star raggiungendo il suo punto focale, Alice avanzò, tornando verso il palco. L'idea di poter rubare anche solo un secondo in più a quella splendida anima la faceva impazzire, si avvicinò tanto da poter scorgere una figura femminile appoggiata sul piano, un istante, una frazione che avrebbe dovuto imprimere per non dimenticare un secondo dopo e poi tutto a un tratto, il silenzio. Così come il sipario che cala alla fine di un'opera, così era rimasta senza nessun altro indizio né traccia di tutto ciò che aveva caratterizzato quegli istanti successivi. Il velo era crollato a terra e nonostante la corsa affrettata verso l'ultimo, il fiatone, i capelli ancora scompigliati sul viso, il pianoforte rimaneva ora vuoto, morto, come privato della linfa essenziale. I respiri si fecero più pesanti, bisognosi d'aria e di parole, solo dopo qualche istante le dita fini della Grifondoro ne sfiorarono i tasti consunti, mentre il petto sembrava non darle tregua, battendo ancora instancabile. Quel mistero le sarebbe rimasto dentro, forse per sempre.


 
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