inversum
Il principio è la fine. La fine è il principio.
La verità è che per ogni singolo tempo esiste una sola ed unica via, determinata e tracciata dal principio alla fine e rappresentante a sua volta un inizio
Sulla fronte di Wilfred il tempo aveva lasciato un'impronta. Oltre la vecchiaia, oltre le rughe trattenute distintamente sulla pelle, scorgerne il filamento di tutta una vita era un onore riservato ai pochi. Dall'espressione pacata allo stile raffinato del proprio completo, dal tono modulato della voce alle accurate pause che concedeva alle parole, ogni valore in quella figura manifestava storia. Segreti e misteri sfidavano gli stessi sentieri sull'incarnato tenue, svelando l'incantesimo di un volto che prometteva ancora meraviglia. Aleggiava intorno, come mistica aurea, la consapevolezza di aver preso parte ad un incontro speciale. Nelle iridi cerulee dell'altro sembrava così facile perdersi, navigare lontano, fin troppo lontano − terre inesplorate, terre di memoria. Ovunque, tra le mura d'antiquariato, c'era il passaggio di Wilfred. E se anche per molti non potesse esserne evidente fin dal principio, per gli abitanti tra confini di tela, di mobilia e di vernice lo era di certo. Erano loro, gli stessi ritratti, ad aver assistito al cambiamento negli anni. Dalle cornici d'oro e d'argento, dai quadretti di legno e di bronzo, gli uni e gli altri osservavano clienti, ospiti, presenze. Spesso commentavano, un po' come a dare manforte allo stesso negoziante. Wilfred, d'altro canto, ne era sempre molto lusingato − ogni effigie che custodiva alle pareti aveva una trama e in quella stessa trama lui vi scorgeva un disegno completo, l'assoluta origine. Quel giorno, tuttavia, i quadri tacevano. Astanti di un incontro che assurgeva a storia a sua volta. Anche loro, di tempera brillante, avevano carpito quella stessa sensazione inusuale fin dall'ingresso di Daddy Toobl. Era più di una visita, era
differente. Non aprivano bocca, Wilfred l'avrebbe fatto per loro. Soltanto un paralume francese soffiava scintille leggere, nella sua luce si udiva il canto soffuso di un bambino.
«Ti ringrazio.» Accennò alla teiera, lasciando che fosse l'altro a versare l'acqua bollente anche nella propria tazza. Si tinse di una spuma luminosa, al contatto con la ceramica: una goccia color dell'ambra, già sul fondo, sollevò in superficie il decoro del grano. Non appena Wilfred vi aggiunse un cucchiaino di zucchero, il tè si sciolse nella forma di una spiga.
«Si tratta di uno scrigno, esatto. Stimo che possa risalire ad almeno trenta anni fa, da qui la mia domanda.» C'era come una sfumatura di nostalgia, nella propria voce. Portò gli occhi sul volto di Daddy.
«Chi credi possa avertelo spedito? I sigilli di sangue ne vietano ogni apertura a chiunque non ne abbia diritto di eredità, si suppone sia qualcuno di famiglia.» Invitò a riflettere. Una pausa, prima di riprendere.
«Igor, lo scrigno.» Wilfred non aveva distolto lo sguardo dall'interlocutore, ma chi di dovuto aveva già accolto il richiamo. Ancor prima di esserne colto in dubbio, infatti, Daddy avrebbe potuto sentire dalle vicinanze lo scricchiolio di un legno in risveglio. Il suono si fece sempre più nitido, attirando origine dalla scrivania con la raffigurazione del corvo dagli occhi di zaffiro. Identica alla gemella al pianoterra, più contenuta però di grandezza, dalla stessa la creatura si animò per innata magia. Gli artigli si colorarono di bronzo, staccandosi nettamente dal legno; la coda, sinuosa, si contorse come spira demoniaca, mentre le pietre dei propri occhi brillavano ardentemente. L'attimo dopo la trasfigurazione si completò, così il rapace spiccò il volo. Si portò oltre la scrivania, oltre i ritratti, oltre l'armatura in ferro, proseguendo sulla scala a chiocciola verso l'ultimo piano seminascosto. L'aria, tutto intorno, si era fatta nel frattempo carica delle essenze delicate dei fiori primaverili; si riusciva quasi a distinguere il profumo dei boccioli di rosa: intenso, sempre più intenso, tanto da pizzicare il naso. Wilfred, però, non ne sembrava affatto corrucciato; la sua attenzione era tutta per il libro. Più le rose turbinavano, più Daddy perdeva contatto con il momento. Era dolce l'invito ad assopirsi.
E dolcemente calarono le palpebre. Delicato, sugli effluvi del tè zuccherino, il viale dei ricordi prese forma in nuova scena. Mentre il Corvo assaliva ogni remota stregoneria, legno in carne, la lieve raffica delle sue ali trasportò gusti imprevedibili. Guidò altrove, cullando un sonno che sonno non era; la schiena all'antica poltrona, le mani al tepore della tazza in ceramica, l'ultimo sospiro di un animo in pace − Daddy Toobl s'acquietò involontariamente, le parole di Wilfred già come echi. Quando aprì gli occhi, In Perpetuum era scomparso: sarebbe stato chiaro, fin da subito, di essere da tutt'altra parte. Una stanzetta fiocamente illuminata da candele, una geometria di chiaroscuri lungo le pareti più strette. Il tetto, troppo basso per essere quello di una casa comune, dava l'impressione di trovarsi in una soffitta. Non c'erano finestre, non c'erano vetri: della mobilia del negozio d'antiquariato, a Londra, si scorgevano resti vanesi − simili, non identici. Un comodino in stile francese, d'ebano, sul quale sbocciava un groviglio di foglie dalle rifiniture in bronzo; uno specchio a mezzo busto, la cornice a sua volta in legno scuro, ai bordi della quale svettava il simulacro di un visetto d'angelo; un lampadario in ottone, ammantato di cera e lucerne, poggiato su quella che somigliava ad una trave scomposta: sulla stessa, di lato, sedeva un bambino. Le gambe penzoloni, avanti e indietro, a sollevare mulinelli di polvere e antichità − quella stanza era come abbandonata, spenta perfino nei suoi colori. Ma il bambino, tra la mobilia, attingeva alla vita. Vestiva un paio di pantaloncini corti, che mal nascondevano gambe un po' grassottelle; una maglietta a righe, azzurre e bianche, concludeva tutto. Era scalzo, infatti, i piedi già nerissimi fino alle dita; il volto, leggermente paffuto, svelava gote e bocca più rosee, e occhi color del cielo. Riconoscibili, e bellissimi, perfino alla flebile luce delle fiammelle. Stringeva le mani, l'una all'altra, come in preghiera. Ma sulla fronte era limpido il cruccio di una domanda che non riusciva più a trattenere.
«Mamma, tu ami Arthur?» Alla fine, sopraffatto, cacciò fuori quelle parole tutto d'un fiato. Anche dal fondo della stanza, lì dove Daddy era capitato, la scena catturava perfettamente tensione. Il bambino aveva bloccato le gambette, stringendosi alla scrivania come a carpirne sostegno. La donna alla quale si era rivolto guadagnava il fondo della stanzetta, vicinissima al punto in cui il Corvonero − intangibile − tutto osservava. Era in penombra, seduta su uno sgabello. Dava le spalle al bambino sulla scrivania, concentrata com'era verso il treppiedi che aveva di fronte: sullo stesso svettava una tela in parte già dipinta, lo scorcio di un vaso dai colori della terra e del tramonto. Era un'opera incompleta, l'odore della tempera fresca la circondava; nella mano sinistra, infatti, la donna stringeva un pennello, e con lo stesso tratteggiava filamenti d'ocra sulla propria realizzazione. Stava rifinendo un tratto difficile, quello di una corolla di petali di rose.
«Certo che sì, bimbo.» Bimbo. Così lo chiamava. Nel suo tono si palesava affetto, ma anche una nota... dispiaciuta. Si volse verso il piccolo, allontanandosi dal dipinto; ora che le candele ne illuminavano il profilo, la donna appariva incantevole. Era giovane, non tradiva segni del tempo; indossava una camicetta color panna che le cingeva il corpo fino alle caviglie, interamente in ricami di pizzo. A sua volta scalza come il bambino, al bagliore delle candele la sua pelle acquisiva una tinta diafana. I capelli biondi, lasciati sciolti lungo le spalle, attiravano i riflessi del fuoco tanto da brillare d'oro. Macchie di colore, di rosso, d'ocra e di nero, si notavano sulle dita, sui polsi e sulle mani, a riprova dell'attività da pittrice.
«E vorrà bene anche a me?» La bocca tremante, il bambino parlò ancora. E la donna, che ormai gli era accanto, sorrise mestamente. Lo strinse a sé, fortemente. Nel silenzio atipico della stanzetta, c'erano solo i loro respiri.
«Ti vuole già bene, bimbo. Altrimenti non lo sposerei.» Un bacio sulla testolina, i capelli ramati del bambino così simili a quelli della madre. Quando la donna uscì dalla porta, sciogliendo l'abbraccio, la scena rimase intatta. Qualsiasi parola avesse detto Daddy fino a quel momento, nessuno avrebbe potuto ascoltarlo. Era lì, v'era davvero. L'esperienza, dalla propria, cominciava a solidificare ipotesi. Perché, quando,
come − e poi...
«Ciao.» Un brivido, l'impossibile.
«E tu cosa ci fai qui?» Un contatto, un vero contatto.
Il bambino guardava Daddy Toobl.
| | che intuii per la prima volta | eppure sembrano più brevi del giorno | | |