inversum
Il principio è la fine. La fine è il principio.
La verità è che per ogni singolo tempo esiste una sola ed unica via, determinata e tracciata dal principio alla fine e rappresentante a sua volta un inizio
Nell'incarnato diafano, gote dipinte di rosa e d'efelidi appena, l'incanto naturale dell'eterna giovinezza ammorbidiva il volto della pittrice.
Laura, quello il suo nome, un nome che si offriva poetico, nell'armonia di storie senza fine. Divenne facile, allora, esserne affascinati: dal modo in cui accomodava le mani al grembo, abbozzate nell'intreccio leggero lungo il libretto; dal modo in cui comandava ciocche sfuggenti, nell'onda gentile che relegava dietro l'orecchio; dal modo in cui l'abito estivo scivolava sulle ginocchia, tessendo uno spazio soltanto tra scarpette sottili. Era lei, Laura. Era lei, l'incontro di tutti gli sguardi − di Daddy, che infine collegava magistralmente quello che la mente continuava a svelare; perfino di Wilfred, giovane uomo, già pentito dell'offesa sciorinata dalla bocca. Nel diniego che cessava la conversazione − non è mio padre, aveva sibilato − perdeva l'impronta del bambino ch'era stato, e le meravigliose scene che lo stesso Daddy aveva avuto privilegio di scorgere, ora s'ammantavano in un'ultima, triste eclissi. Wilfred era cresciuto, e con lui il dolore. C'era un punto fisso, in quella frenesia di memoria: l'assenza, la solitudine, il tormento d'escludersi e d'essere escluso − la magia che aveva dovuto nascondere in fretta, più di ogni altro aspetto, suonava come un campanello d'allarme.
Perché.Nell'asfissiante raffica di domande, quella sapeva imporsi: l'uomo che Laura aveva sposato, Daddy l'aveva scoperto, non era il padre di Wilfred. Pur nell'affetto tangibile che Arthur manifestava, era evidente che non avesse il dono della stregoneria − il matrimonio era asettico, immortalato nel tempo.
«Mamma, aspetta... perdonami.» Avanzi di parole, perdute nella miserabile rivolta della mente. La carrozza si oppose come corpo vivente, scuotendosi lungo i pioli d'ottone, spezzandosi nelle travi di sostegno, finché l'estrema protesta lacerò il velluto dei cuscini. C'era stato un momento, forse, in cui Wilfred aveva offerto la strada dei ricordi all'intruso: forse per una prova, prima della consegna ultima di quanto spettasse al ragazzo, forse... forse per ragioni differenti. Aveva centellinato le informazioni che desiderava svelare, fin quando − con sorpresa − aveva compreso l'inevitabile: Daddy, in quel labirinto, sapeva
muoversi. L'abilità che condividevano, di conseguenza, non era più un segreto; avvinta all'imposizione di Daddy di restare, la rivelazione si risolse come uno scacco matto: la carrozza somigliò ad una gargantuesca figura, piegandosi, contorcendosi, riducendosi ad un cigolio che acquisì il vicino rimbombo di un motore, e di un colpo di fucile, e di un fischio lontano.
«Sostammo / davanti una casa» ...il gonfiore della terra, ribollendo famelico, si avvinghiò alle caviglie di Daddy, avvizzendo in radici più nere della notte. Per un attimo, un lungo attimo, tutto s'estinse: luce, voce, colore, profumo, tutto mutò in vuoto, come sterpaglia. La mente si spegneva, nel battito di palpebra che preludeva l'abbandono: e infine, in estensione, riformò una scena, forse più vivida di quanto non fosse mai stato. Come un viale in festa, si distese un sentiero di ghiaia colorata − pietre sottili, incastrate come pepite d'oro le une alle altre, e di tanto in tanto unite in linee rossastre; vi si adagiavano rametti, guizzi d'erba e d'agrimonia gialla, mescolandosi all'aroma d'agrumeto lontano, di limone e d'arancia, l'essenza dell'estate. Il sentiero sfavillò, ad ambo i lati, nella schiera di statue marmoree − spettatori perpetui, distanti rispettivamente di pochi metri. Avevano forme ridenti, quasi burlesche: corpetti versatili, in parte come giovinetti prestanti, in parte come bestie giocose; nell'estro scultoreo, infatti, si scorgevano il torso nudo e fitto di peluria, le braccia possenti, il volto gioioso − con orecchie sottili, il naso adunco, la bocca beffarda di chi partecipava all'estasi della vita; la parte inferiore, dal busto alle gambe, ricordava quella di un capro, a tratti di un cavallo: la pietra s'inaspriva in segmenti ferrei, realizzandosi in zoccoli e in corna sporgenti, e s'addolciva invece nelle vertigini di ciocche, ricci e capelli più simili a voluttuosa criniera. Chi stringeva un'armonica, chi un oboe, chi semplicemente sostava − gli occhietti segretamente volti a padroneggiare l'arcano del loro mito.
Satiretti, circa una decina, che cantavano a voce unanime, e silenziosa, il benvenuto. Daddy poté scorgere, infine, la coppia perduta: Wilfred, Laura, valigette strette alle mani, e il cocchiere poco dietro trascinandosi bagagli più pesanti. Mentre avanzavano, la memoria tinteggiava richiami pastello, pavoneggiandosi nell'incantesimo del luogo. Oltre il viale di statue, la natura si offriva come un prodigio: alberi d'ulivo così alti, accostati a viti, querce e all'aranceto promesso; il canto grazioso di tortore, passerotti e allodole in volo, e quello più insistente di cicale tra i rami; il respiro caldo di una stagione nuova, il bagliore di raggi di sole in un cielo diamante, d'azzurro splendido. Il sentiero conduceva ad una conchiglia in pietra, una struttura simile ad una cupola aperta sull'infinito e circondata da colonne in tufo: appariva come vestigia quasi antica, un ritrovo che accoglieva con pochi, semplici gradini davanti, e altri sempreverdi in cornice. Al centro s'innalzava una concordanza architettonica che attirava nell'immediato: si trattava di una fontana impreziosita da figure scultoree d'avvenenza travolgente; tutto intorno ai bordi di marmo s'arrampicavano altri satiretti, gli zoccoli stretti alla superficie come a non scivolare via; in alto, gorgoglianti d'acqua iridescente, tre figure si accostavano garbatamente come in un triangolo. Sulla destra c'era la statua di una fanciulla, spensierata nell'abito regale intessuto di tralicci e rampicanti, e tristemente velata nello sguardo lontano: era lei, Persefone, che temeva il regno d'averno, colta dall'impazienza fin nelle pieghe marmoree, sulle quali zampillavano gocce brillanti; sulla sinistra, ben più appagato, c'era un ragazzotto abbondante, le guance piene come il risolino di letizia a stento trattenuto: coperto unicamente da una cinta d'uva e foglie di vite, il dio Bacco ammiccava dolcemente, l'acqua in cascata dai grappoli in una mano e dalla coppa di vino nell'altra; e infine, al centro e già in avanti sporgente, sostava in piedi una donna gioconda e raffinata: nella nudità del seno in parte scoperto, vestita di tunica in pietra bianca, era più alta e limpida dei figuranti, con una corona di spighe sul capo e le mani di doni occupate − un mazzolino di grano nella destra, una fiaccola invece nella sinistra. Cerere, dea materna, giungeva in legame ultimo. Oltre la fontana, si sparpagliava il giardino in festa: come un richiamo, si sentì l'abbaiare di un cane, cui seguì una voce affettuosa.
«Wilfred, Wilfred!» Bastò volgersi sulla destra per individuare l'ultimo tratto di viale verso una villa, sullo sfondo; alberi d'arancio, macchie di colore, sfumavano intorno: proprio da uno di quelli, quasi nascosto da rami e frutti, qualcuno ripeteva il nome di Wilfred a tutta voce. C'era una giovinetta, in bilico sulla scala in legno che guidava all'albero di arance; stringeva un cesto traboccante d'agrumi raccolti e subito volse indietro come vinta dall'emozione. Sullo sfondo s'estendeva una villa in fermento, poco nitida nel ricordo.
«Wilfred!» La giovinetta, alla fine, si apprestò alla discesa: com'era prevedibile nella foga del momento, il cesto le sfuggì di mano, impigliandosi ad un ramo più spesso, e perse così l'equilibrio. Le arance, moltissime, piovvero dall'alto, una colpendo la povera testolina del cagnolino di sotto.
«No, Giulia!» Suonò meraviglioso, quel nome, sulla bocca di Wilfred − nel modo in cui cadenzava la
-g, addolcendolo in un accento nuovo; improvvisamente, spaventato, la bacchetta già serrata tracciò scatti d'aria; evocò una rete spessa, sospesa in volo, a frenare così l'inevitabile caduta della ragazza − per tutta risposta, Giulia rideva.
Quando scattò in piedi, sistemandosi appena la veste marrone, si affrettò verso Wilfred con le braccia aperte. Una farfalla, un'altra, un'altra ancora, apparvero in magia dal desiderio di Wilfred, e crebbero in un turbinio dal profumo d'arancia e di campo di grano, tutte volteggianti nella corsa di Giulia. Subito, annerite dalla rabbia pulsante di chi si era stancato, cambiarono rotta − infinite nel numero, soffiarono nel vento caldo fino a cercare lui, soltanto
lui.
La mente, infine, tornava all'assalto. Ben prima che potesse trovare rifugio, Daddy fu investito dalle farfalle, e il ricordo cominciò a stracciarsi, e lui a graffiarsi, a perdersi, a sanguinare. Aveva saputo difendersi, fino ad allora.
Sapeva anche attaccare? | il cornicione – nel terreno | Il tetto era appena visibile | che sembrava un gonfiore della terra | | |