Next to be, Contest a Tema: Novembre 2020

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view post Posted on 30/11/2020, 20:47
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Così bussò alla porta verde
Un colpo secco, poi un altro. Le nocche della mano sinistra erano arrossate per il freddo, continuò infatti a maledirsi per non aver indossato un paio di guanti. Neanche la sciarpa al collo riusciva a concedergli un po' di calore, copriva invano fin sopra il naso e lasciava intravedere semplicemente gli occhi smeraldini. Mentre attendeva che l'ingresso si aprisse, catturò i dettagli più vicini: il colore era quello, l'edificio richiamava quello che gli era stato indicato. Certo, c'era sempre il rischio che avesse sbagliato numero civico e al solo pensiero sperava con tutto il suo cuore che non fosse così. Non avrebbe sopportato un solo minuto di più all'esterno, batteva un piede dopo l'altro sull'asfalto sotto di sé e percepiva il timore di poter congelarsi nell'immediato. Il viaggio non era durato troppo, tutto sommato. Da quando aveva preso dimestichezza con la Materializzazione Congiunta viveva ogni spostamento con più tranquillità e di gran lunga era una vera e propria comodità. Era stato leggermente più complicato per via del rettangolo di cartone che aveva con sé, lo stesso che stringeva gelosamente al petto. Un fiocco dorato scivolava dolcemente dall'alto, dando prova di essere un regalo. Lo scatto della serratura davanti gli strappò un sospiro di sollievo e dopo i primi, rapidi saluti di circostanza, finalmente accettò di buon grado di entrare in fretta. All'interno sorrise, l'atmosfera era fin da primo impatto accogliente e il clima gelido di quell'ultima settimana di Novembre si scioglieva come uno spiacevole ricordo. Non era mai stato prima lì, ma non una sola volta si sentì fuori posto - il disagio, l'imbarazzo, perfino ogni altro tipo di rimostranza, tutto si estingueva sul nascere quando era con loro. Si portò oltre, pochi passi verso la parete principale. Girando su di sé, ancora con il pacchetto di carta tra le mani, lasciò che gli altri parlassero prima di lui, che commentassero il percorso e che elogiassero l'appartamento. Mentre lui, Oliver Brior, attendeva. Quello era un momento che avrebbe ricordato per sempre, nella sua semplicità si cristallizzava nel tempo e già sfumava in un punto fisso. Il futuro otteneva in quel modo un orizzonte, diramava una e più trame imprevedibilmente. Era lì, non avrebbe voluto essere altrove. Era lì, era con loro, e tanto bastava per sentirsi a proprio agio. Le gote, accalorate, si tinsero di rosso; le mani, al sicuro, non tremarono più. Il cuore era dolce, in quella cornice che custodiva familiarità, tradizioni, origini. Una cornice che vibrava di aspettative, e che per lui aveva il privilegio di una costante. Guardava tutti loro, dal primo all'ultimo - mentre raggiungeva un tavolino e vi poggiava la scatola, mentre ne sfilava i bordi piegati, perfino mentre chiedeva gentilmente piattini e forchette. Guardava tutti loro, e ne era contento come non gli capitava da lungo andare.
«È bellissimo qui, sai. Ma non posso credere che tu abbia dipinto la porta di verde.» Il commento parve sfuggente, sulla sua bocca. A buon intenditore poche parole, si disse, e lei in effetti aveva già colto. Ritrovi come quelli rappresentavano per Oliver la parte migliore della vita. Un invito veloce, la promessa di rivedersi, uno strappo alla routine più scandita: tutti i suoi doveri al Castello di Hogwarts potevano attendere. Per una sera, si era ripromesso. Soltanto per una sera. Ormai non più infreddolito, poté trattenersi a sua volta con gli altri. Inserirsi nei vari discorsi non fu complicato, trovò in lui una partecipazione a tutto tondo. Nel frattempo, la scatola aperta aveva rivelato al suo interno una torta bella grande, sormontata da più ciuffi di panna montata e tante fragoline e mirtilli in superficie. Un coltello, incantato ad un colpo di bacchetta, già stava tagliando una fetta per ciascuno tra i presenti e di lì a breve ogni piattino poté riempirsi gustosamente, volteggiando fino a raggiungere gli ospiti. Non poté fare a meno di sorridere tra sé ad un commento e accettò con piacere l'invito a sedersi. «A proposito di novità, ricordate Elliott Laurence?»
Si sistemò meglio sul divanetto, la torta nel piattino già lo attirava. «Proprio lui, il fratello maggiore di Penny, ha concluso i M.A.G.O. l'anno scorso. Era quel Grifondoro che ha riempito l'Ufficio di Gazza con il sapone di uova...» Sorrise al ricordo. La punizione che gli aveva imbastito era stata memorabile. «Comunque, aveva fatto domanda al Ministero per trattare con i Draghi. Non ci crederete, ma ora ha ottenuto una borsa di studio per un progetto di ricerca in Nuova Zelanda. Sì, è vero, me l'ha detto Penny ieri sera, ero con lui quando è arrivata la lettera.» Non poteva ancora crederci, in effetti. Aveva dovuto leggere tre volte la pergamena che l'ex concasato aveva spedito al fratello, c'era una parte in cui salutava anche lui, qualcosa come "Ad Oliver, che non mi ha denunciato al Preside per aver portato un Knarl in dormitorio", e ne era stato felice (poi aveva bruciato la lettera, perché era una prova di qualcosa che non doveva conoscersi). La notizia gli aveva fatto piacere: le memorie che aveva con Elliott Laurence erano tutte preziose. «Era molto bravo con le creature magiche. Ah! Invece avete conosciuto tutti Thomas Spara-Salamandre.» Si portò una mano alla bocca, divertito.
«Proprio lui, classe G.U.F.O. dell'anno scorso, alla fine ha lasciato Hogwarts ma è entrato al San Mungo. Dice che sta studiando per un esperimento con il fuoco di salamandra. Certo...» Sospirò brevemente. Quando tornò sugli altri, la sua espressione tradiva un bagliore nostalgico. «Certo che ne hanno fatta di strada. Chissà. Chissà noi cosa diventeremo, cosa faremo da grandi. Ci pensate mai, chissà quale strada faremo. Voi ad esempio cosa vorreste fare? Chissà se ci frequenteremo ancora» Ammiccò. Un primo boccone di torta, il gusto dolcissimo della panna si bagnò di una nota più amara dei frutti di bosco. C'era però un leggerissimo sapore più forte, che ricordava qualche spezia. «Ragazzi.»
Mandò giù l'altro boccone, abbassando poi il piattino. Gli occhi si mostrarono ad un tratto allarmati. Con un mezzo sorrisetto, concluse in un filo di voce.
«Temo di aver preso la torta sbagliata dall'inventario.» Non si premurò di dire quale torta fosse, sperò di aver commesso un errore e che gli altri non avessero iniziato a mangiare. Il primo capogiro lo colse di sfuggita. Era troppo tardi.

***

Aveva già assaggiato la Torta del Sognatore di Florian Fortebraccio, poteva riconoscerla. Gli era sempre piaciuta per la stravaganza che racchiudeva: al di là del gusto versatile, era la sua magia a renderla speciale. Quando era avanzata per una delle ultime feste in Sala Comune, come per altri tanti piatti anche la torta era finita dritta dritta nel ripostiglio. Era consapevole della durata limitata dell'Incanto Refrigerante e si era ripromesso infatti di consumarla con gli altri il prima possibile, però mai avrebbe lontanamente immaginato di farlo lì, quella sera. Non è stata mia intenzione, avrebbe voluto dire. Come un sussurro, la bocca si rese asciutta e mentre Oliver scivolava delicatamente sul morbido schienale del divano, l'ultimo intervento fu proprio per il piattino stretto tra le mani, poggiandolo di lato. La magia onirica sfumò tutto intorno, e come un'impercettibile patina illusoria velò gli occhi. Era come un dormiveglia che non aveva in sé nulla di timoroso. Umettò le labbra, sentendo di nuovo il gusto dei mirtilli, mentre un sorrisetto addolciva l'espressione. La frase conclusiva del discorso che stavano facendo tutti loro zampillò tra i pensieri e si rese così germoglio del sogno. Ci pensate mai, aveva iniziato. Cosa faremo da grandi. Aveva sempre avuto molta chiarezza per i suoi obiettivi futuri, non poteva negarlo. Ancor prima di chiedersi quale lavoro svolgere, sapeva in che modo avesse voluto raggiungerlo. L'ambizione collimava con il suo carattere in generale. Fin da bambino aveva studiato a lungo, aveva approfondito aspetti e tematiche con una costanza che aveva trascinato il prezzo di sacrifici: un'infanzia con pochi amici, anche se felice, e una dedizione che aveva infine portato i frutti maturi. Da quando aveva cominciato il suo percorso scolastico, aveva colto ogni opportunità: le ore di sonno si erano affievolite, le sue passioni avevano dovuto trovare un equilibrio più accurato, perfino il corpo ne aveva risentito. Non avrebbe cambiato nulla nel suo presente. Con una chiarezza di cui era grato, sapeva di voler essere tutto quello che fosse; e sapeva parimenti di voler essere altro, tanto altro ancora. Voleva di più, si ripeteva. Fin da quando aveva guadagnato il primo stipendio come commesso presso uno store musicale, voleva di più. Fin da quando aveva inviato una candidatura alla Gazzetta del Profeta come giornalista e curatore di una rubrica musicale, voleva di più. Fin da quando aveva ottenuto il ruolo di Prefetto, voleva di più. Non gli bastava, non gli bastava mai. Era come una sete che lo divorava, e soltanto nel tempo aveva compreso come - invece - altro non stesse facendo che dissetarlo. Aveva portato ogni parte di lui all'estremo, si era spinto sempre oltre. Ogni traguardo per lui otteneva la consapevolezza di una vittoria, e di merito. Continuava per la strada che aveva scelto, e nell'una e l'altra direzione sapeva ritrovarsi. Consacrava nel sacrificio ogni interesse, ogni privilegio. Cosa farai da grande, si chiese. Chi diventerai.
Gli parve di imbattersi in un turbinio indistinto: di colori, di volti, di luoghi. Era come un viaggio a tutti gli effetti, ma durò pochissimo prima di acquistare compostezza. L'appartamento in cui si trovava brillò opaco, infine lasciò concretezza ad un luogo nuovo, seppur semplice: assi di legno si congiungevano a formare una piattaforma, presto si mostrò come un palco. Una cupola imponente avvolgeva quello che dava l'impressione di essere un teatro, mentre tende di broccato rosso si aprivano immediatamente. Sfilava via il sipario, a rivelare così una platea gremita - file e file di persone, di maghi e streghe di ogni età, tutti dagli abiti coloratissimi, molto vivaci. C'erano gruppi con sciarpe, cartelloni e magliette con il suo nome; c'erano poster sospesi per magia, ingigantiti com'erano, e tutti mostravano il suo volto. C'erano voci, voci continue. Così tante voci da mutare in tempesta, l'acustica del teatro inglobava e lasciava scivolare l'una e l'altra in gridi indistinti, velocissimi, zampillanti. Oliver, Oliver, Oliver. Gridavano tutti, lo chiamavano tutti. Oliver, Oliver, Oliver. Un'eco lontana e vicina insieme, un richiamo che attendeva soltanto lui. Con il sipario aperto, scattò sul palcoscenico in una piroetta; vestiva un completo raffinato, di pura seta nera: si apriva in voluttuose giravolte in basso, come una veste regale, un vero mantello. Copriva le caviglie e le scarpe, e mentre la folla impazziva, lui si ritrovò per magia a sospendersi in alto, sempre più in alto. A metà, come divinità olimpica, apparve nelle sue mani un microfono. Intonò le prime note, l'armonia di un canto che gli ricordava quello delle Sirene. E forse era così, forse cantava in Maridese. Parole d'amore bagnavano la bocca, e ragazze e ragazzi - indistintamente - contraccambiavano quel suo stesso, profondo sentimento. Era lì, sul palco del Teatro Magico per eccellenza. Alle sue spalle, una statua brillante a forma di rapace, ingigantita all'istante, spalancò le sue ali e parve per un attimo che Oliver mutasse in creatura dei cieli. Il Fwooper d'Oro, il premio più ambito nel panorama musicale magico, era dietro di sé. Era suo, l'aveva vinto. E quella era la serata di premiazione.

Il sogno si spezzò, la musica si affievolì fino ad acquietarsi. Una sensazione di benessere riscaldava il suo animo, eppure... eppure non gli bastava. Voleva di più, diceva. Voleva di più, voleva sempre di più. Una frenesia più pacata infranse la sua percezione, e l'illusione virò verso una mobilia in cedro, antichissima, come uno scrittoio. Vestiva di tutto punto, vestiva di stile. Un completo sull'azzurro gessato, una cravatta dolcemente annodata al collo. La bacchetta si spostava nella sua mano ad attirare una copia di giornale dopo l'altra, così le pergamene si dispiegavano e si sistemavano in colonne bene accurate. L'odore della carta e dell'inchiostro aleggiava ovunque, lavagne sospese per magia da un angolo all'altro di una stanza in vetrata si riempivano di parole, e parole, e parole. Bagliori fulminei, il gessetto che scriveva in perfetta autonomia, mentre gruppi di giornalisti leggevano, si consultavano tra loro, e recuperavano così piume, copie di notiziario e boccette d'inchiostro. Alcuni sparivano su di sé, altri restavano - tutti indaffarati, tutti di corsa. Lui, invece, attendeva. Era in piedi accanto ad una fontana in marmo adamantino, dalla stessa scorreva un rivolo scuro come la pece, di nero brillante. Molti arrivavano lì, intingevano le punte delle piume, e correvano via. Tutti avevano qualcosa da scrivere, e tutti scrivevano di lui. Sorrideva, il trionfo tra gli occhi. Le copertine recavano il suo nome, Oliver Brior, a chiare, nitide lettere. In maiuscolo, aveva chiesto.
«Sig. Direttore, una foto per il Settimanale delle Streghe, la prego.»
Sorrideva, sorrideva ancora. Affabile, elegante, magistrale nella posa. Quello era il suo posto, l'aveva sempre saputo. Vice-Redattore in giovane età, e ora Direttore del Profeta. La luce della macchinetta fotografica del report parve una folgore, e lui brillava. Brillava di stima, di orgoglio, di felicità.

Un altro scatto, un'altra foto. Come fosfene, una miriade di scintille offuscò la visuale d'insieme. Quando batté le palpebre una, due, tre volte, già si accorse di essere altrove. Di fronte c'era una porta verde, la stessa porta verde dell'appartamento cui era arrivato quella sera. Sentiva il distacco dal sogno e il ritorno allo stato di realtà ormai sempre più vicino, sempre più forte. Tuttavia... non era finita, si disse. Non poteva essere finita. Il suo cuore batteva forte, ne voleva altro. Voleva di più, si disse. Voleva di più. Dalla sua vita, dal suo futuro, da qualsiasi cosa fosse per lui all'orizzonte. Non basta, ripeteva. No, no, no. Non basta. Impazziva, delirava nell'ambizione più estrema. Ma la sua strada era una strada che si tingeva di etica, di bene, di promesse che aveva fatto e di altre promesse che avrebbe dovuto mantenere. Per sé, per gli altri, per tutti. Si allontanò dalla porta verde e scivolò via in confini inesplorati; all'istante sotto di lui si concretizzò un pavimento in mattonelle, la calce formò pareti e presto si ritrovò in un corridoio stretto. Camminava a passo spedito, ogni percezione era tanto reale da sembrare un'autentica visione. Nell'incedere calzante stringeva un lembo di una veste porpora, lunga fino a coprire le scarpe di vernice scura. Andava veloce, eppure non aveva fretta: sentiva di poter trattenersi, sapeva altresì di essere atteso. Non avrebbero cominciato senza di lui, non avrebbero potuto. Quando un giovane mago gli si accostò di scatto, catturò nel riflesso delle sue lenti rotonde lo stemma del suo abito: una W, una lettera che somigliava ad un profilo runico, in ricami argentei. Non profferì parola, si limitò ad un cenno del capo: i lineamenti del suo volto erano grevi, più segnati dall'età. Come una ragnatela, le rughe avevano lasciato solchi che avevano raggiunto perfino le palpebre, perfino gli occhi. Sentiva il peso di una stanchezza che il corpo non reggeva più, ma non si fermò neanche una volta. Il respiro era regolare, non tremava. Il cuore era stretto, ferreo, consolidava un'autorevolezza che percepiva matura. Quando si spalancò il varco di fronte, entrò senza titubanza. Era lì, alla fine era arrivato per davvero. La voce del sottosegretario ministeriale, così familiare, si sollevò da un punto lontano. «Silenzio in aula, entra la Corte.»
Seguì altre vesti, tutte di porpora. Un colore, quello, che aveva imparato a non sottovalutare nel tempo. Un colore che aveva bramato con dedizione, con ambizione, con tutte le sue forze. Ora era lì, era suo. Quando superò la prima fila di sedie, prese infine posto al centro esatto. I lembi dell'abito scivolarono da un lato e l'altro, mentre si sistemava e apriva un fascicolo di pergamene, testimonianze, nomi. Il silenzio, in aula, era carico di tensione. Mentre lui, in alto, scrutava attentamente. Soppesò la figura nel grembo del Tribunale, il volto spogliato di bellezza, l'incarnato pallido. Aveva le braccia strette a catene di acciaio, e ad ogni tentativo di liberarsi potenti sortilegi serpeggiavano a stringerlo, a bloccarlo, in prigionia. La sua, di veste, era oscura: non c'era l'incanto della porpora e dell'argento.
«A voi la parola, Vostro Onore.» Non annuì, rimase così impassibile. Soppesava il caduto, al centro della sala intera, nel contatto dei loro sguardi si inaspriva il peso della sentenza. Batté il martelletto, un colpo secco. Il suono sfasciò il momento.
«Si disputa oggi la sentenza numero quattrocentoventisette, nei confronti dell'imputato...»
Non abbassò gli occhi sui fogli, non una volta. Conosceva il processo a memoria, l'aveva seguito fin dall'inizio. Era stato lui, la Giustizia era nelle sue mani. Alla fine, mentre i Magiavvocati si confrontavano e giungevano in contrasto, lui ascoltava. In silenzio, senza mai smettere di guardare l'imputato. All'epilogo effettivo, il martelletto tornò nelle sue mani e parve contenere in sé il potere di una vita, e della morte. Lo batté una volta, rapido, senza esitazione. Il prigioniero già protestava in movimenti scanditi, in imprecazioni irripetibili. E lui, Giudice del Wizengamot, parlò in un sussurro che ebbe il peso di un grido. «Dichiaro l'imputato colpevole di tutte le accuse, e lo condanno così alla reclusione a vita al Carcere di Azkaban.»

Lo sferragliare del ferro della sedia suonò ancora, e ancora. Quando aprì gli occhi non vestiva più abiti eleganti, abiti di classe, abiti di giudice. Era lui, semplicemente Oliver Brior. Credeva di essere ormai lontano dagli effetti della torta del sognatore, ma era in una stanza buia. Non c'era altro, era tutto assente ad eccezione di una porta. La stessa porta in legno, di colore verde. E gli parve una certezza, tra tutto, in ogni tempo. Voleva di più, si disse. Voleva di più. Avrebbe sempre, sempre voluto di più. Ma perché, perché avrebbe voluto di più, era lì. Nella porta verde, e in chi subito dietro sapeva attenderlo. Si vide adulto, i segni dell'età sul corpo allungato. Aveva un sottilissimo strato di barba, le mani sul volto recavano le prime rughe. Quando avanzò, tutti i suoi sogni, tutte le sue aspirazioni, tutte le sue ambizioni erano lì - ovunque si fosse girato, vedeva chi poteva essere e chi sarebbe stato. Ma c'era la porta, al centro assoluto. Una porta semplice, così semplice. Perché chi era, chi era in quel momento, dipendeva da quella stessa porta, e da chi continuava a credere in lui, da chi continuava ad essere lì per lui. Era una costante tra mille e più variabili. Non sapeva chi o cosa potesse diventare in futuro, neanche lui - Veggente - ne poteva essere così convinto. Ma più avanzava, da adulto, più sapeva che quella porta, quella stessa porta verde sarebbe sempre stata lì. Un ritrovo, un ritorno, un porto d'approdo. Avanzò, con sicurezza. Così bussò alla porta verde.
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Così bussò alla porta verde
Era un pomeriggio piuttosto uggioso, le temperature stavano rapidamente scendendo sotto lo zero e faceva davvero molto freddo all'esterno. Accompagnata da Oliver ed Emma, Alice aveva raggiunto la porta verde con una certa velocità, non vedeva l'ora di avvertire il calore interno della sala dove sarebbero entrati e iniziare a sciogliersi come un ghiacciolo ad Agosto. Aveva indossato l'uniforme invernale con calze di lana piuttosto doppie ed una gonna dal tessuto morbidoso. Nonostante ciò era rimasta sconvolta da quanto le temperature fossero diminuite tutte insieme, il passaggio dall'autunno all'inverno era avvenuto in un periodo così breve.
Quando finalmente giunsero nel salone, accolte dal sorriso allegro di Mary e dal profumo di torta, Alice si lasciò catturare da una delle poltrone della sala nelle quali sprofondare. Non ci volle molto per mettersi a suo agio, semplicemente si mise comoda e si unì alla scia di discorsi. Era bello passare del tempo insieme tra un sorso di tè un pezzo di torta e condividere le esperienze e le idee sul futuro, Alice era convinta di voler diventare un Auror a tutti i costi e quella visione sembrava per un momento aver preso il posto della realtà. Infatti le voci degli altri sembravano ora distorcersi ed allontanarsi, fino a dissolversi completamente.


Stava correndo, ad un certa velocità e la gamba destra le faceva parecchio male. Il dolore era così vivido da sembrarle reale.
Aveva l'affanno di chi non si era fermato nemmeno un secondo, ma una determinazione importante guidava ogni cellula del suo corpo. Doveva fare al più presto. Si faceva spazio ora, tra la fanghiglia melmosa di quella landa semi deserta, nella destra impugnava una bacchetta, la sua bacchetta, ancora sporca del suo stesso sangue. I suoi stessi sensi sembravano esser stati danneggiati, tanto che la testa le scoppiava terribilmente. Tanti incantesimi si formavano nella sua mente, alcuni di essi prendevano forma senza il bisogno di venir pronunciati ad alta voce, ma molti di essi non erano totalmente identificabili dalla mente della giovane Grifondoro. Alice sapeva semplicemente di doverli utilizzare in quel preciso momento. Figure oscure, lente ma inevitabili come la morte, si avvicinavano. Alice poteva quasi avvertirne il loro fiato distruttore sul collo e perfino la sua anima tremava al pensiero di anche un sol breve contatto con essi. Doveva spingersi oltre i suoi limiti, oltre le sue forze e guadagnare più terreno possibile. Aveva fretta, c'era qualcuno da salvare, da mettere in sicurezza e nemmeno la sua stessa vita aveva importanza in quel momento. Tutto ciò che contava era portare a termine la missione, riuscire e proteggere coloro che erano stati assegnati a lei; il costo più alto lo avrebbe pagato lei stessa e solo lei stessa, non avrebbe mai permesso ad una singola cosa di andar storta. Ma tutto questo non importava ora, non c'era spazio per pensieri tristi o negativi, la sopravvivenza era entrata in gioco ed Alice dopo aver raggiunto a stenti una piccola casetta sperduta sembrò finalmente fermarsi per riprendere fiato. L'aria aveva un sapore secco ed acre, come se si stesse preparando a qualcosa di terribile. Il grosso portone della casa era ancora limpido, questo significava che sebbene fosse poco, aveva ancora tempo. Tirò fuori dalla taschina interna della sua giacca un orologio << Stanno arrivando, ho ancora pochi minuti. >> si ripeté convinta. Era riuscita ad avere una buona intuizione, un'intuizione geniale che avrebbe potuto cambiare tutto, ma solo se fosse stata disposta a giocarselo quel tutto, una giratempo ferma al collo le assicurava in qualche modo un certo tipo di vantaggio. Il corpo vibrava, teso come una corda di violino e l'energia fluiva in scarabocchi confusi. La paura. Un sentimento che aveva caratterizzato la sua vita per così tanto tempo, una paura che aveva deciso di abbracciare sin dalla più tenera età, una paura che sembrava bloccare molti ma lei mai; a lei la paura la spronava a dare il meglio di sé. La paura era il suo promemoria sulla vita, era ciò che la spingeva a migliorarsi ogni giorno. Il modo in cui l'affrontava, la scelta di accoglierla e di andarvi incontro, le dava modo di sconfiggerla. La paura le permetteva di ambire ad una versione di se stessa migliore ogni giorno e per questo motivo aveva bisogno di provarla intensamente e a grosse boccate e solo dopo aver sconvolto tutto il suo sistema dall'interno avrebbe potuto pensare di combatterla. Le figure incappucciate erano ormai a pochi passi da Alice, la bacchetta come unica arma necessaria, il coraggio come scudo. Dietro di lei, nascosti in quel luogo remoto così da non venir trovati, c'erano un gruppo di giovani maghi da proteggere. Erano entrati purtroppo a contatto con una realtà crudele prima del previsto e il piano non aveva funzionato a dovere, qualcuno li aveva traditi e ora l'unica soluzione, anche se la più disperata non era che sperare in una buona dose di coraggio. Alice stessa non aveva da molto finito la scuola, ma aveva giurato di proteggere fino all'ultima creatura innocente della terra e così aveva finito per trascinarsi lì di fronte a quella setta d'odio, con dentro la sua avventatezza ed audacia. I suoi colleghi erano dispersi, spariti, scomparsi ma Alice non aveva tempo per il dolore, ora stava a lei e alle sue forze e conoscenze. Un raggio argenteo partì dalla bacchetta della ex-Grifondoro, di un candore accecante e di un'intensità sempre maggiore. Alice urlò, un urlo profondo ed aggressivo, un urlo che fa da muraglia e che sembra pronto a sconfiggere chiunque si trovi sulla sua strada. Un urlo che si sarebbe spento solo con il suo battito azzerato.

Un grosso portone stava di fronte ai suoi occhi, un'immagine in qualche modo familiare ed amica, un'immagine che conosceva bene e di cui si fidava. Ne sentiva quasi il calore. Era un qualcosa che le dava sicurezza, nutrendo la sua anima con sorrisi, parole ed emozioni. Alice stava di fronte ad essa, i lunghi capelli rossi sistemati in una treccia laterale, un sorriso dipinto sul viso. I vestiti le calzavano perfettamente, ma la sua figura si era slanciata ed ammorbidita, i tratti del viso avevano perso la fanciullezza dell'adolescenza e ora sembravano più definiti e meno paffuti.
In qualche modo non vedeva l'ora di superare la soglia, non sapeva bene perché ma qualcosa d'importante l'aspettava al di là di essa. Il braccio si tese in avanti e la mano stretta in un pugno, andò a poggiarsi con il dorso sulla superficie della porta, bussando.
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view post Posted on 30/11/2020, 23:37
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Così bussò alla porta verde
Dopo la Materializzazione Congiunta effettuata da Oliver, Emma ed Alice si erano ritrovate con lui nel posto dove avrebbero trascorso insieme un po' di tempo: mangiando dei dolci e chiacchierando del più e del meno. Magari avrebbero discusso della Coppa delle Case, Emma ci stava pensando un sacco negli ultimi tempi e si stava impegnando molto per contribuire a quel desiderio di Vittoria della sua Casata, come sicuramente stavano facendo gli studenti delle altre Case. Quel giorno il freddo non lasciava scampo alla loro candida pelle. La giovane Grifondoro aveva messo i guanti per sua fortuna, cosa che invece non aveva fatto Oliver: le aveva dato l'impressione di essere infreddolito. Attendevano che la porta verde davanti a loro si aprisse e una volta dentro, Emma non poté fare a meno di ammirare l'arredamento elegante che la sua amica aveva adottato per il suo appartamento, non era amante delle tinte pastello, prediligeva colori più cupi, ma tutto sommato quell'appartamento era veramente delizioso. Bel posto. Si rivolse alla padrona di casa con un sorriso Complimenti! Senza chiedere il permesso si sedette sul divano e si strinse in un abbraccio solitario, non riusciva ancora a riscaldarsi. Quella sera non avrebbe pensato alle lezioni, ai compiti e a tutto il resto, si sarebbe goduta quella serata tra amici: ma quanto erano belli tutti insieme? Una bella torta faceva da ciliegina in quel bel quadretto. A me un pezzo più grande di quello di Alice, mi raccomando! Scherzò: la divertiva punzecchiare la sua amica e concasata, era una cosa che facevano reciprocamente. Un coltello incantato cominciò a dividere la torta in più fette sotto lo sguardo curioso delle due Grifondoro più giovani del gruppo. Elliott Laurence? Emma in un primo momento non trovò nulla di familiare in quel nome, ma quando Oliver disse che si trattava del fratello di Penny, loro concasato, la strega capì. Oh si, certo, Elliott. Beh, sono felice per lui! Era sinceramente contenta. Thomas Spara-Salamandre? Cavolo! Emma finalmente tirò un morso alla torta, era deliziosa, amava la panna. Cosa vorrei fare da grande? Beh...insomma... Cominciò a dire. Mando giù un altro boccone di quella buonissima torta Se ci penso, credo di non sapere ancora cosa vorrei fare da grande... ma sicuramente un obbiettivo che vorrei raggiungere con tutta me stessa è... è... Era concentrata sulla risposta da dare alla domanda di Oliver, ma qualcosa di strano e insolito le stava accadendo: piano piano la voce di Oliver cominciò a svanire, l'appartamento e il profumo di dolci. Ragazzi...? Mormorò. O almeno credeva di averlo fatto.

Improvvisamente la giovane Grifondoro non sentiva più sotto al sedere il divano comodo dell'appartamento della sua amica, ed era accovacciata su qualcosa di decisamente più scomodo. Ma che cavolo...? Mormorò stringendo le esili mani al manico della sua scopa. Com'è possibile che qualche secondo era seduto su un morbido e comodo divano, e dopo due secondi stava volando. Emma aveva le mani ben salde sul manico, la sinistra era davanti alla destra perché la prima era la sua mano dominante. Provò a guardarsi i vestiti scoprendo che indossava la divisa della squadra Grifondoro di Quidditch e davanti a lei un Boccino che cercava di volare il più lontano possibile da lei. Era strano, ma la giovane strega sapeva benissimo cosa doveva fare. Si chinò di più sul manico per prendere velocità, il cuore le batteva prepotente nel petto come un feroce leone che cerca di uscire dalla sua gabbia. Avrebbe preso quel Boccino, se lo sentiva. Un giocatore avversario provò a farle perdere quota, ma con la grazia di un'aquila, Emma riprese la rotta. Virò in molte direzione, prima a destra, poi a sinistra e da capo; quel Boccino ce la stava mettendo tutta, ma la Grifondoro ormai le era veramente vicina. Allungò la mano destra, cercando di mantenere il controllo della scopa con la sua mano dominante, le piccole dita erano a un centimetro da quella piccola pallina dorata e alata, e finalmente lo afferrò. Siiii! Urlò. Non era sua intenzione contenere la gioia, bramava di entrare nella squadra di Quidditch da quando ne cominciò a capire il senso, e in quel momento lei era stata proprio quella che aveva portato i suoi amati Grifondoro alla Vittoria. I maghi e le streghe in tribuna esultavano, alcuni fischiavano, altri sbattevano i piedi per la delusione. Dopo che tutti i giocatori avevano rimesso piede a terra, i suoi compagni di squadra la presero in braccio facendola saltare, urlavano il suo cognome. Green! Green Emma rideva e urlava a sua volta, ma cominciò a sentirsi di nuovo strana. Tutto intorno a lei cominciò a svanire, di nuovo.

Si ritrovò davanti ad un portone verde. In quel momento non era ancora del tutto chiaro, ma a poco a poco prese una forma più decisa. La strega non capiva ancora cosa fosse successo, ma quel portone le era familiare, sapeva di "casa"... sapeva di "famiglia". Allungò la mano verso di esso e ci batté delicatamente le nocche.
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view post Posted on 30/11/2020, 23:40
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Warmth of the fire / healing desire
Oh river so clear while you’re near
Trying to find some peace of mind
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Seeing your smile / just like a child
Così bussò alla porta verde
«-E quindi l’ho guardato e gli ho detto “ok ora tocca a te pulire la cacca dei gufi!”»
Si trovavano tutti al di là della porta verde. Avevano preso posto nella stanza più ampia, tutti a proprio agio in un ambiente che era casa per tutti loro, non solo per alcuni. Mary era seduta sul pavimento, la schiena appoggiata ai piedi del divano; aveva una gamba piegata e la sua mano destra portava con ritmo la forchetta alla bocca. «Ma perché nessuno ride mai alle mie battute?» La sua lamentela si era persa al pari della sua prima battuta. Le piaceva quella leggerezza: insieme a coloro che non aveva difficoltà a considerare la sua famiglia, riusciva a ridere e a divertirsi senza problemi, senza imbarazzi. Era sé stessa al cento per cento, senza maschera alcuna. All’improvviso il nome di Elliott Laurence entrò prepotente nella conversazione. Seguì il racconto di Oliver e rise quando questo portò alla mente il ricordo dell’ufficio di Gazza. «Non si può dimenticare quel momento!» Aveva aggiunto frettolosamente, lasciando che il suo amico continuasse il racconto. «In Nuova Zelanda?» Nascondere l’incredulità era fin troppo difficile, così com’era difficile immaginare Elliott alle prese con i draghi. Ed era difficile immaginare anche Thomas. «Certo che ne hanno fatta di strada. Chissà. Chissà noi cosa diventeremo, cosa faremo da grandi. Ci pensate mai, chissà quale strada faremo. Voi ad esempio cosa vorreste fare? Chissà se ci frequenteremo ancora» Nonostante quelle parole uscirono con leggerezza dalla bocca di Oliver, fu colpita molto più di quanto si aspettasse. Il futuro. Ci pensava spesso, in realtà. Chi voleva essere? Da lì a dieci anni, chi sarebbe stata Mary Grenger? Il futuro era un’incognita in realtà, ma su di una cosa potevano concordare tutti. «Ovviamente ci frequenteremo ancora Olly, questa squadra non si cambia!» La torta raggiunse ancora una volta la sua bocca, il sapore e la dolcezza la inebriarono più del dovuto. E le sfuggirono le parole finali di Oliver come sfuggì la realtà che aveva intorno. E successe.
_

«Mary Jane Grenger.» Il suo nome risuonò nella sala Grande. La ragazza avanzava a grandi passi, decisa ma lenta. Voleva godersi appieno quel momento di gioia, di grandezza, di prestigio. A destra e a sinistra una sfilza di studenti che l’ammiravano, volevano essere lei e allo stesso tempo volevano poter stare con lei. Di fronte a sé, alla fine, avrebbe trovato tutti i docenti ad attenderla e il Preside Peverell al centro con un sorriso orgoglioso, con uno sguardo quasi paterno.
Arrivata dinanzi al Preside si prese un attimo per guardare alla sua destra: in un angolo della sala c’erano sua zia Hannah e al suo fianco la professoressa Bennett, ex capocasa grifondoro ed ex docente di incantesimi. Il sorriso di Mary emulò quello della donna in uno scambio equo di ammirazione e commozione. Ce l’aveva fatta. «È con mio grande onore ed estremo piacere annunciare che la signorina Grenger ha superato, con il massimo dei voti aggiungerei, i M.A.G.O., congratulazioni, sei l’orgoglio di Hogwarts!» Un applauso partì alla conclusione delle parole di Peverell e Mary si voltò verso la platea per goderselo. Era lei allora, la migliore del castello, la studentessa più brava, la più ammirata da studenti e dal corpo docenti. Era lei ch’era riuscita a raggiungere il traguardo più grande, ad una così giovane età poi. I suoi occhi velocemente raggiunsero il tavolo dei Grifondoro: i suoi compagni, la sua famiglia lì ad applaudirla come non mai. Ma quello, pensò la ragazza, era solo l’inizio.

«Professoressa Grenger?» Una voce la raggiunse. Mary era seduta alla scrivania del suo ufficio. La targhetta sulla porta d’ingresso – sempre aperta – recitava “M.J. Grenger – docente di Incantesimi”. «Kira, entra, dimmi tutto.» Accolse con calore lo studente del primo anno. Era un piccolo corvonero che, in quanto tale, sentiva la pressione della sua casata ma anche la necessità di eccellere per volere personale. Mary sapeva di essere la sua professoressa preferita. Lo era di molti, in realtà: era una docente brillante, portata per il lavoro, abile nello spiegare gli argomenti e dolce abbastanza da ascoltare i bisogni di tutti. «Ho difficoltà con un incantesimo. Può aiutarmi?» Il ragazzo aveva varcato la soglia ed era in piedi al centro della stanza. Non c’era traccia di timidezza nella sua persona, sapeva di non doverlo essere in presenza di Mary. La docente si alzò e lo raggiunse posandogli per un secondo la mano sulla spalla, poi ascoltò con attenzione la sua richiesta. Aveva problemi con l’incanto di riparazione. «Sai, anche io avevo delle difficoltà alla tua età. No, non sbuffare, sono seria Kira. Vieni, mostrami come lo esegui.» Prese il vaso dorato dalla sua scrivania e lo gettò per terra con convinzione. Questo, nel toccare il pavimento, si sbriciolò quasi in mille pezzi. «Ma professoressa, quello è il suo vaso preferito!» Il voltò del giovane corvonero mutò rapidamente, ed ora i suoi occhi e il suo corpo sembravano pietrificati dalla paura. Mary si inginocchiò per raggiungere l’altezza del piccolo e lo guardò diritto negli occhi prima di parlare. «Kira, secondo te avrei rotto il mio vaso preferito se non fossi estremamente convinta delle tue capacità? Dai, fammi vedere.» Le sue parole non sembrarono da subito rincuorare il giovane, ma questo ci provò comunque. Ma l’incantesimo non funzionò e gli occhi del corvonero si riempirono istantaneamente di lacrime. «Kira, ehi guardami. Devi credere nelle cose che fai. Parlo in generale, nella vita: fai le cose con convinzione. Ve lo dico sempre in classe e questa cosa vale anche e soprattutto per gli incantesimi. Tu lo vuoi riparare questo vaso, no? Riparalo allora. Riprova.» Aveva fatto due passi indietro per dare sufficiente spazio al ragazzo. Quest’ultimo aveva preso un respiro prima di alzare nuovamente la bacchetta. «Ricordati l’accento, come abbiamo detto ieri.» La voce del ragazzo fuoriuscì con una convinzione tutta nuova e il vaso istantaneamente riprese la sua forma originale. L’urletto di gioia di Kira risultò quasi imbarazzante, ma nessuno dei due disse nulla a riguardo. Mary fece l’occhiolino al ragazzo e si abbassò per recuperare il vaso da terra. «Tieni, prendilo. Questo è per ricordarti che puoi fare tutto, se lo vuoi davvero.» Nell’uscire dall’ufficio saltellante e con un vaso in più, Kira non smetteva di urlare che “la professoressa Grenger è la migliore della scuola!”

«Preside…» Aveva varcato la soglia della stanza dei docenti. Ne aveva creata una per dare la possibilità ai suoi colleghi di godersi in compagnia gli attimi in cui non era insegnanti ma persone. Aveva ricevuto l’approvazione di tutti. «Julia, prima di essere Preside sono tua amica. Lo sai.» Essere Preside aveva sempre significato, nella sua ottica, essere distaccati. Avere il peso delle responsabilità del castello sulle spalle. Lei poi, la preside più giovane nella storia di Hogwarts, avrebbe dovuto sentire ancor di più quella pressione. Ma così non era: Mary era Preside ma allo stesso tempo era ammirata, rispettata e soprattutto amata da tutti i suoi colleghi per le sue doti umane. Nessuno di loro la controbatteva e non per paura, ma perché nessuno pensava sbagliasse mai. La Preside perfetta, per tutti. «Volevo dirti Pre-Mary, che tutti noi abbiamo apprezzato molto la cena dell’altra sera. Sai, il Preside che c’era prim-»
«Grazie Julia.» Aveva fermato la donna prima che questa potesse finire la frase. «Ognuno gestisce la sua scuola come ritiene giusto. Io do molto valore alla comunità, lo sapete bene.» Il suo sorriso raggiunse presto quello di tutti gli altri docenti che sembravano concordare. «Ero passata giusto per salutarvi. Stasera ho una cena importante, non posso mancare!» Si era dunque allontanata dal castello e si era smaterializzata per raggiungere il suo appartamento, a Londra. «Sono a casa, amore!» La sua voce risuonò all’interno delle mura e quando Mary raggiunse la cucina notò il bigliettino sul tavolo. Lo prese con la mano sinistra, quella che portava il peso e la gioia della fede nuziale, e lo lesse. Recitava una piccola poesia d’amore di Jacques Prévert e si concludeva con una nota: “non dormire al tuo fianco stasera mi distrugge. Ma c’è domani, e il giorno dopo e il giorno dopo. Ti amo Mary, torno presto.” Nel leggere quelle poche righe il suo cuore si riempì di una gioia che non pensava avesse mai potuto provare. Sin da piccola scriveva sul suo diario dell’amore, di come sarebbe stato provarlo, di ambire ad avere il partner perfetto ed essere allo stesso tempo la moglie perfetta. E c’era riuscita. Non solo in quello ma in tutto: la moglie perfetta, l’amore perfetto, la Preside perfetta e sì, anche l’amica perfetta. Qualcuno aveva bussato alla porta. Un senso di gioia, difficile da spiegare in tutta onestà, riempì il suo cuore. Si avvicinò alla porta della sua casa, quella porta verde che nel corso degli anni era rimasta immutata. La stessa porta verde del suo primo appartamento, quando ancora lavorava da Madama Piediburro e la sua preoccupazione più grande era riuscire a finire in tempo l’esame di Storia. Quella porta che per lei riuniva passato, presente e futuro. E nell’aprirla, nel vedere chi c’era dall’altro lato, tutto il suo volto si illuminò di una felicità incondizionata. Oliver, Emma ed Alice erano lì, dinanzi a lei, adulti ed altrettanto felici. I suoi occhi si riempirono di lacrime e abbassò un attimo la testa per nasconderlo. «Entrate ragazzi, entrate. Gli altri arriveranno presto!» I suoi occhi raggiunsero quelli di Oliver e, memore di una scena già accaduta, aggiunse: «La porta è ancora verde Olly, credici eccome!»
Mary, alla pari degli altri tre, aveva due ambizioni. La prima era quella di eccellere nella sua vita personale e professionale, essere la miglior versione di sé stessa. La seconda era poter condividere con loro, la sua famiglia di sempre, la vita. Anche a distanza di anni, la sua gioia più grande era poterli avere ancora accanto. Tutti legati da quella porta verde, tutti legati da un amore incondizionato. La loro ambizione, infine, era di essere Grifondoro per sempre.
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