Così bussò alla porta verde
Un colpo secco, poi un altro. Le nocche della mano sinistra erano arrossate per il freddo, continuò infatti a maledirsi per non aver indossato un paio di guanti. Neanche la sciarpa al collo riusciva a concedergli un po' di calore, copriva invano fin sopra il naso e lasciava intravedere semplicemente gli occhi smeraldini. Mentre attendeva che l'ingresso si aprisse, catturò i dettagli più vicini: il colore era quello, l'edificio richiamava quello che gli era stato indicato. Certo, c'era sempre il rischio che avesse sbagliato numero civico e al solo pensiero sperava con tutto il suo cuore che non fosse così. Non avrebbe sopportato un solo minuto di più all'esterno, batteva un piede dopo l'altro sull'asfalto sotto di sé e percepiva il timore di poter congelarsi nell'immediato. Il viaggio non era durato troppo, tutto sommato. Da quando aveva preso dimestichezza con la Materializzazione Congiunta viveva ogni spostamento con più tranquillità e di gran lunga era una vera e propria comodità. Era stato leggermente più complicato per via del rettangolo di cartone che aveva con sé, lo stesso che stringeva gelosamente al petto. Un fiocco dorato scivolava dolcemente dall'alto, dando prova di essere un regalo. Lo scatto della serratura davanti gli strappò un sospiro di sollievo e dopo i primi, rapidi saluti di circostanza, finalmente accettò di buon grado di entrare in fretta. All'interno sorrise, l'atmosfera era fin da primo impatto accogliente e il clima gelido di quell'ultima settimana di Novembre si scioglieva come uno spiacevole ricordo. Non era mai stato prima lì, ma non una sola volta si sentì fuori posto - il disagio, l'imbarazzo, perfino ogni altro tipo di rimostranza, tutto si estingueva sul nascere quando era con loro. Si portò oltre, pochi passi verso la parete principale. Girando su di sé, ancora con il pacchetto di carta tra le mani, lasciò che gli altri parlassero prima di lui, che commentassero il percorso e che elogiassero l'appartamento. Mentre lui, Oliver Brior, attendeva. Quello era un momento che avrebbe ricordato per sempre, nella sua semplicità si cristallizzava nel tempo e già sfumava in un
punto fisso. Il futuro otteneva in quel modo un orizzonte, diramava una e più trame imprevedibilmente. Era lì, non avrebbe voluto essere altrove. Era lì, era con loro, e tanto bastava per sentirsi a proprio agio. Le gote, accalorate, si tinsero di rosso; le mani, al sicuro, non tremarono più. Il cuore era dolce, in quella cornice che custodiva familiarità, tradizioni, origini. Una cornice che vibrava di aspettative, e che per lui aveva il privilegio di una costante. Guardava tutti loro, dal primo all'ultimo - mentre raggiungeva un tavolino e vi poggiava la scatola, mentre ne sfilava i bordi piegati, perfino mentre chiedeva gentilmente piattini e forchette. Guardava tutti loro, e ne era contento come non gli capitava da lungo andare.
«È bellissimo qui, sai. Ma non posso credere che tu abbia dipinto la porta di verde.» Il commento parve sfuggente, sulla sua bocca. A buon intenditore poche parole, si disse, e lei in effetti aveva già colto. Ritrovi come quelli rappresentavano per Oliver la parte migliore della vita. Un invito veloce, la promessa di rivedersi, uno strappo alla routine più scandita: tutti i suoi doveri al Castello di Hogwarts potevano attendere. Per una sera, si era ripromesso. Soltanto per una sera. Ormai non più infreddolito, poté trattenersi a sua volta con gli altri. Inserirsi nei vari discorsi non fu complicato, trovò in lui una partecipazione a tutto tondo. Nel frattempo, la scatola aperta aveva rivelato al suo interno una torta bella grande, sormontata da più ciuffi di panna montata e tante fragoline e mirtilli in superficie. Un coltello, incantato ad un colpo di bacchetta, già stava tagliando una fetta per ciascuno tra i presenti e di lì a breve ogni piattino poté riempirsi gustosamente, volteggiando fino a raggiungere gli ospiti. Non poté fare a meno di sorridere tra sé ad un commento e accettò con piacere l'invito a sedersi.
«A proposito di novità, ricordate Elliott Laurence?»Si sistemò meglio sul divanetto, la torta nel piattino già lo attirava.
«Proprio lui, il fratello maggiore di Penny, ha concluso i M.A.G.O. l'anno scorso. Era quel Grifondoro che ha riempito l'Ufficio di Gazza con il sapone di uova...» Sorrise al ricordo. La punizione che gli aveva imbastito era stata memorabile.
«Comunque, aveva fatto domanda al Ministero per trattare con i Draghi. Non ci crederete, ma ora ha ottenuto una borsa di studio per un progetto di ricerca in Nuova Zelanda. Sì, è vero, me l'ha detto Penny ieri sera, ero con lui quando è arrivata la lettera.» Non poteva ancora crederci, in effetti. Aveva dovuto leggere tre volte la pergamena che l'ex concasato aveva spedito al fratello, c'era una parte in cui salutava anche lui, qualcosa come "Ad Oliver, che non mi ha denunciato al Preside per aver portato un Knarl in dormitorio", e ne era stato felice (poi aveva bruciato la lettera, perché era una prova di qualcosa che non doveva conoscersi). La notizia gli aveva fatto piacere: le memorie che aveva con Elliott Laurence erano tutte preziose.
«Era molto bravo con le creature magiche. Ah! Invece avete conosciuto tutti Thomas Spara-Salamandre.» Si portò una mano alla bocca, divertito.
«Proprio lui, classe G.U.F.O. dell'anno scorso, alla fine ha lasciato Hogwarts ma è entrato al San Mungo. Dice che sta studiando per un esperimento con il fuoco di salamandra. Certo...» Sospirò brevemente. Quando tornò sugli altri, la sua espressione tradiva un bagliore nostalgico.
«Certo che ne hanno fatta di strada. Chissà. Chissà noi cosa diventeremo, cosa faremo da grandi. Ci pensate mai, chissà quale strada faremo. Voi ad esempio cosa vorreste fare? Chissà se ci frequenteremo ancora» Ammiccò. Un primo boccone di torta, il gusto dolcissimo della panna si bagnò di una nota più amara dei frutti di bosco. C'era però un leggerissimo sapore più forte, che ricordava qualche spezia.
«Ragazzi.»Mandò giù l'altro boccone, abbassando poi il piattino. Gli occhi si mostrarono ad un tratto allarmati. Con un mezzo sorrisetto, concluse in un filo di voce.
«Temo di aver preso la torta sbagliata dall'inventario.» Non si premurò di dire
quale torta fosse, sperò di aver commesso un errore e che gli altri non avessero iniziato a mangiare. Il primo capogiro lo colse di sfuggita. Era troppo tardi.
***
Aveva già assaggiato la Torta del Sognatore di Florian Fortebraccio, poteva riconoscerla. Gli era sempre piaciuta per la stravaganza che racchiudeva: al di là del gusto versatile, era la sua magia a renderla speciale. Quando era avanzata per una delle ultime feste in Sala Comune, come per altri tanti piatti anche la torta era finita dritta dritta nel ripostiglio. Era consapevole della durata limitata dell'Incanto Refrigerante e si era ripromesso infatti di consumarla con gli altri il prima possibile, però mai avrebbe lontanamente immaginato di farlo lì, quella sera. Non è stata mia intenzione, avrebbe voluto dire. Come un sussurro, la bocca si rese asciutta e mentre Oliver scivolava delicatamente sul morbido schienale del divano, l'ultimo intervento fu proprio per il piattino stretto tra le mani, poggiandolo di lato. La magia onirica sfumò tutto intorno, e come un'impercettibile patina illusoria velò gli occhi. Era come un dormiveglia che non aveva in sé nulla di timoroso. Umettò le labbra, sentendo di nuovo il gusto dei mirtilli, mentre un sorrisetto addolciva l'espressione. La frase conclusiva del discorso che stavano facendo tutti loro zampillò tra i pensieri e si rese così germoglio del sogno.
Ci pensate mai, aveva iniziato.
Cosa faremo da grandi. Aveva sempre avuto molta chiarezza per i suoi obiettivi futuri, non poteva negarlo. Ancor prima di chiedersi quale lavoro svolgere, sapeva in che modo avesse voluto raggiungerlo. L'ambizione collimava con il suo carattere in generale. Fin da bambino aveva studiato a lungo, aveva approfondito aspetti e tematiche con una costanza che aveva trascinato il prezzo di sacrifici: un'infanzia con pochi amici, anche se felice, e una dedizione che aveva infine portato i frutti maturi. Da quando aveva cominciato il suo percorso scolastico, aveva colto ogni opportunità: le ore di sonno si erano affievolite, le sue passioni avevano dovuto trovare un equilibrio più accurato, perfino il corpo ne aveva risentito. Non avrebbe cambiato nulla nel suo presente. Con una chiarezza di cui era grato, sapeva di voler essere tutto quello che fosse; e sapeva parimenti di voler essere altro, tanto altro ancora. Voleva di più, si ripeteva. Fin da quando aveva guadagnato il primo stipendio come commesso presso uno store musicale, voleva di più. Fin da quando aveva inviato una candidatura alla Gazzetta del Profeta come giornalista e curatore di una rubrica musicale, voleva di più. Fin da quando aveva ottenuto il ruolo di Prefetto, voleva di più. Non gli bastava, non gli bastava mai. Era come una sete che lo divorava, e soltanto nel tempo aveva compreso come - invece - altro non stesse facendo che
dissetarlo. Aveva portato ogni parte di lui all'estremo, si era spinto sempre oltre. Ogni traguardo per lui otteneva la consapevolezza di una vittoria, e di merito. Continuava per la strada che aveva scelto, e nell'una e l'altra direzione sapeva ritrovarsi. Consacrava nel sacrificio ogni interesse, ogni privilegio. Cosa farai da grande, si chiese.
Chi diventerai.
Gli parve di imbattersi in un turbinio indistinto: di colori, di volti, di luoghi. Era come un viaggio a tutti gli effetti, ma durò pochissimo prima di acquistare compostezza. L'appartamento in cui si trovava brillò opaco, infine lasciò concretezza ad un luogo nuovo, seppur semplice: assi di legno si congiungevano a formare una piattaforma, presto si mostrò come un palco. Una cupola imponente avvolgeva quello che dava l'impressione di essere un teatro, mentre tende di broccato rosso si aprivano immediatamente. Sfilava via il sipario, a rivelare così una platea gremita - file e file di persone, di maghi e streghe di ogni età, tutti dagli abiti coloratissimi, molto vivaci. C'erano gruppi con sciarpe, cartelloni e magliette con il
suo nome; c'erano poster sospesi per magia, ingigantiti com'erano, e tutti mostravano il
suo volto. C'erano voci, voci continue. Così tante voci da mutare in tempesta, l'acustica del teatro inglobava e lasciava scivolare l'una e l'altra in gridi indistinti, velocissimi, zampillanti. Oliver, Oliver, Oliver. Gridavano tutti, lo chiamavano tutti. Oliver, Oliver, Oliver. Un'eco lontana e vicina insieme, un richiamo che attendeva soltanto lui. Con il sipario aperto, scattò sul palcoscenico in una piroetta; vestiva un completo raffinato, di pura seta nera: si apriva in voluttuose giravolte in basso, come una veste regale, un vero mantello. Copriva le caviglie e le scarpe, e mentre la folla impazziva, lui si ritrovò per magia a sospendersi in alto, sempre più in alto. A metà, come divinità olimpica, apparve nelle sue mani un microfono. Intonò le prime note, l'armonia di un canto che gli ricordava quello delle Sirene. E forse era così, forse cantava in Maridese. Parole d'amore bagnavano la bocca, e ragazze e ragazzi - indistintamente - contraccambiavano quel suo stesso, profondo sentimento. Era lì, sul palco del Teatro Magico per eccellenza. Alle sue spalle, una statua brillante a forma di rapace, ingigantita all'istante, spalancò le sue ali e parve per un attimo che Oliver mutasse in creatura dei cieli. Il Fwooper d'Oro, il premio più ambito nel panorama musicale magico, era dietro di sé. Era suo, l'aveva vinto. E quella era la serata di premiazione.
Il sogno si spezzò, la musica si affievolì fino ad acquietarsi. Una sensazione di benessere riscaldava il suo animo, eppure... eppure non gli bastava. Voleva di più, diceva. Voleva di più, voleva sempre di più. Una frenesia più pacata infranse la sua percezione, e l'illusione virò verso una mobilia in cedro, antichissima, come uno scrittoio. Vestiva di tutto punto, vestiva di stile. Un completo sull'azzurro gessato, una cravatta dolcemente annodata al collo. La bacchetta si spostava nella sua mano ad attirare una copia di giornale dopo l'altra, così le pergamene si dispiegavano e si sistemavano in colonne bene accurate. L'odore della carta e dell'inchiostro aleggiava ovunque, lavagne sospese per magia da un angolo all'altro di una stanza in vetrata si riempivano di parole, e parole, e parole. Bagliori fulminei, il gessetto che scriveva in perfetta autonomia, mentre gruppi di giornalisti leggevano, si consultavano tra loro, e recuperavano così piume, copie di notiziario e boccette d'inchiostro. Alcuni sparivano su di sé, altri restavano - tutti indaffarati, tutti di corsa. Lui, invece, attendeva. Era in piedi accanto ad una fontana in marmo adamantino, dalla stessa scorreva un rivolo scuro come la pece, di nero brillante. Molti arrivavano lì, intingevano le punte delle piume, e correvano via. Tutti avevano qualcosa da scrivere, e tutti scrivevano di lui. Sorrideva, il trionfo tra gli occhi. Le copertine recavano il suo nome, Oliver Brior, a chiare, nitide lettere. In maiuscolo, aveva chiesto.
«Sig. Direttore, una foto per il Settimanale delle Streghe, la prego.»Sorrideva, sorrideva ancora. Affabile, elegante, magistrale nella posa. Quello era il suo posto, l'aveva sempre saputo. Vice-Redattore in giovane età, e ora Direttore del Profeta. La luce della macchinetta fotografica del report parve una folgore, e lui brillava. Brillava di stima, di orgoglio, di felicità.
Un altro scatto, un'altra foto. Come fosfene, una miriade di scintille offuscò la visuale d'insieme. Quando batté le palpebre una, due, tre volte, già si accorse di essere altrove. Di fronte c'era una porta verde, la stessa porta verde dell'appartamento cui era arrivato quella sera. Sentiva il distacco dal sogno e il ritorno allo stato di realtà ormai sempre più vicino, sempre più forte. Tuttavia... non era finita, si disse. Non poteva essere finita. Il suo cuore batteva forte, ne voleva altro. Voleva di più, si disse. Voleva di più. Dalla sua vita, dal suo futuro, da qualsiasi cosa fosse per lui all'orizzonte. Non basta, ripeteva. No, no, no. Non basta. Impazziva, delirava nell'ambizione più estrema. Ma la sua strada era una strada che si tingeva di etica, di bene, di promesse che aveva fatto e di altre promesse che avrebbe dovuto mantenere. Per sé, per gli altri, per tutti. Si allontanò dalla porta verde e scivolò via in confini inesplorati; all'istante sotto di lui si concretizzò un pavimento in mattonelle, la calce formò pareti e presto si ritrovò in un corridoio stretto. Camminava a passo spedito, ogni percezione era tanto reale da sembrare un'autentica visione. Nell'incedere calzante stringeva un lembo di una veste porpora, lunga fino a coprire le scarpe di vernice scura. Andava veloce, eppure non aveva fretta: sentiva di poter trattenersi, sapeva altresì di essere atteso. Non avrebbero cominciato senza di lui, non avrebbero potuto. Quando un giovane mago gli si accostò di scatto, catturò nel riflesso delle sue lenti rotonde lo stemma del suo abito: una W, una lettera che somigliava ad un profilo runico, in ricami argentei. Non profferì parola, si limitò ad un cenno del capo: i lineamenti del suo volto erano grevi, più segnati dall'età. Come una ragnatela, le rughe avevano lasciato solchi che avevano raggiunto perfino le palpebre, perfino gli occhi. Sentiva il peso di una stanchezza che il corpo non reggeva più, ma non si fermò neanche una volta. Il respiro era regolare, non tremava. Il cuore era stretto, ferreo, consolidava un'autorevolezza che percepiva matura. Quando si spalancò il varco di fronte, entrò senza titubanza. Era lì, alla fine era arrivato per davvero. La voce del sottosegretario ministeriale, così familiare, si sollevò da un punto lontano.
«Silenzio in aula, entra la Corte.»Seguì altre vesti, tutte di porpora. Un colore, quello, che aveva imparato a non sottovalutare nel tempo. Un colore che aveva bramato con dedizione, con ambizione, con tutte le sue forze. Ora era lì, era suo. Quando superò la prima fila di sedie, prese infine posto al centro esatto. I lembi dell'abito scivolarono da un lato e l'altro, mentre si sistemava e apriva un fascicolo di pergamene, testimonianze, nomi. Il silenzio, in aula, era carico di tensione. Mentre lui, in alto, scrutava attentamente. Soppesò la figura nel grembo del Tribunale, il volto spogliato di bellezza, l'incarnato pallido. Aveva le braccia strette a catene di acciaio, e ad ogni tentativo di liberarsi potenti sortilegi serpeggiavano a stringerlo, a bloccarlo, in prigionia. La sua, di veste, era oscura: non c'era l'incanto della porpora e dell'argento.
«A voi la parola, Vostro Onore.» Non annuì, rimase così impassibile. Soppesava il caduto, al centro della sala intera, nel contatto dei loro sguardi si inaspriva il peso della sentenza. Batté il martelletto, un colpo secco. Il suono sfasciò il momento.
«Si disputa oggi la sentenza numero quattrocentoventisette, nei confronti dell'imputato...»Non abbassò gli occhi sui fogli, non una volta. Conosceva il processo a memoria, l'aveva seguito fin dall'inizio. Era stato lui, la Giustizia era nelle sue mani. Alla fine, mentre i Magiavvocati si confrontavano e giungevano in contrasto, lui ascoltava. In silenzio, senza mai smettere di guardare l'imputato. All'epilogo effettivo, il martelletto tornò nelle sue mani e parve contenere in sé il potere di una vita, e della morte. Lo batté una volta, rapido, senza esitazione. Il prigioniero già protestava in movimenti scanditi, in imprecazioni irripetibili. E lui, Giudice del Wizengamot, parlò in un sussurro che ebbe il peso di un grido.
«Dichiaro l'imputato colpevole di tutte le accuse, e lo condanno così alla reclusione a vita al Carcere di Azkaban.»Lo sferragliare del ferro della sedia suonò ancora, e ancora. Quando aprì gli occhi non vestiva più abiti eleganti, abiti di classe, abiti di giudice. Era lui, semplicemente Oliver Brior. Credeva di essere ormai lontano dagli effetti della torta del sognatore, ma era in una stanza buia. Non c'era altro, era tutto assente ad eccezione di una porta. La stessa porta in legno, di colore verde. E gli parve una certezza, tra tutto, in ogni tempo. Voleva di più, si disse. Voleva di più. Avrebbe sempre,
sempre voluto di più. Ma perché, perché avrebbe voluto di più, era lì. Nella porta verde, e in chi subito dietro sapeva attenderlo. Si vide adulto, i segni dell'età sul corpo allungato. Aveva un sottilissimo strato di barba, le mani sul volto recavano le prime rughe. Quando avanzò, tutti i suoi sogni, tutte le sue aspirazioni, tutte le sue ambizioni erano lì - ovunque si fosse girato, vedeva chi poteva essere e chi sarebbe stato. Ma c'era la porta, al centro assoluto. Una porta semplice, così semplice. Perché chi era, chi era in quel momento, dipendeva da quella stessa porta, e da chi continuava a credere in lui, da chi continuava ad essere lì per lui. Era una costante tra mille e più variabili. Non sapeva chi o cosa potesse diventare in futuro, neanche lui - Veggente - ne poteva essere così convinto. Ma più avanzava, da adulto, più sapeva che quella porta, quella stessa porta verde sarebbe sempre stata lì. Un ritrovo, un ritorno, un porto d'approdo. Avanzò, con sicurezza. Così bussò alla porta verde.